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Scritti sulla storia della astronomia antica - Volume II/XII. - Rubra Canicula. Considerazioni sulla mutazione di colore che si dice avvenuta in Sirio/III. - Rubra Canicula: Orazio e Seneca

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III. - Rubra Canicula: Orazio e Seneca

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III. RUBRA CANICULA: ORAZIO E SENECA.

Orazio nelle Satire (lib. II. Sat. 5. verso 39) parlando dei calori estivi, ha l’espressione:

.... seu rubra canicula findit
Infantes statuas;

[p. 195 modifica]nella quale si è voluto vedere una indicazione del color rosso di Sirio. Si potrebbe tuttavia metterla nella medesima classe che le analoghe designazioni di rutilus, rubens usate dai poeti Aratei e da altri, come s’è veduto poc’anzi, ove ad appoggiarla non venisse una indicazione assai più precisa di Seneca il filosofo. Il quale nell’opera delle Questioni Naturali (Libro I, c. 1), parlando dei diversi colori che può prendere la luce dei corpi, dice: Nec mirum est, si terræ omnis generis et varia evaporatio est; quam in cælo quoque non unus appareat color rerum, sed acrior sit caniculae rubor, Martis remissior, Iovis nullus, in luecem puram nitore perducto. In queste parole le quali sembrano derivare da un’osservazione attenta, la luce della Canicola è comparata con quelle di Marte e di Giove in modo da render difficile il ricusarsi a credere, che al tempo di Seneca la Canicola fosse d’un rosso intenso; il verso d’Orazio più sopra citato sembra aggiungere alle medesime non piccolo peso. Prima di decidere, sarà tuttavia bene discutere una questione pregiudiziale: è egli certo, che la Canicula qui menzionata sia veramente Sirio? A tale domanda, che forse farà inarcar le ciglia a più d’un lettore, la risposta non è così chiara, nè così semplice come da tutti generalmente si crede.

I. Giulio Igino nel suo Poeticon Astronomicon, trattato destinato alla mitologia delle costellazioni1, narra la pietosa storia d’Icario (o Icaro, da non confondersi coll’altro Icaro, notissimo figlio di Dedalo) ateniese, ucciso per errore da certi pastori, e della sua figlia Erigone che per dolore s’appiccò volontariamente, e della loro cagna Mera (Μαίρα); aggiunge poi, che tutti da Giove furon cangiati in asterismi; ... itaque complures Icarum Bootem, Erigonem Virginem nominaverunt... canem autem sua appellatione et specie caniculam dixerunt; quae a Graecis, quod ante majorem Canem oritur, Procyon appellatur.

La leggenda d’Erigone era popolare presso gli Ateniesi, ed aveva dato origine ad alcune pratiche religiose destinate a commemorarla: ciò che suppone una certa antichità d’origine. Soltanto tardi però essa fu consacrata in cielo al modo indicato da Igino. Arato infatti, parlando di Boote non fa menziono d’Icario, e la Vergine zodiacale considera come la rappresentazione non di Erigone ma di Astrea, Dea della giustizia, [p. 196 modifica]associata ad alcun asterismo; se ne sbriga con un solo verso, dicendo che brilla sotto i Gemelli2. Io sono tentato di credere, che l’apoteosi di Erigone sia dovuta ad Eratostene, con Procione poi è da lui considerato come una stella isolata, non temporaneo di Arato; il quale nel suo poema intitolato Hermes diffusamente trattò delle favole attinenti alle costellazioni; ed in altro poemetto speciale intitolato appunto Erigone trattò la leggenda di cui ci stiamo occupando3. Comunque sia di questo, è certo che già sulla sfera celeste d’Ipparco Procione rappresentava non soltanto la stella ancora da noi così chiamata, ma anche la piccola costellazione, cui essa appartiene4. Così pure sulle sfere celesti dei Romani ai tempi d’Augusto la cagnetta d’Erigone stava disegnata sotto la figura d’un piccolo cane, o piuttosto d’una piccola cagna, comprendente Procione con alcune stelle vicine; indi il nome di Canicula dato così alla stella, come all’asterismo. Il sesso non essendo discernibile sulla figura, molti cominciarono ad appellarla semplicemte il Cane minore (Canis minor), per distinguerla dal Cane ordinario (Canis major), analogamente a quanto fu fatto per le due Orse. La confusione del sesso fu agevolata da ciò che in latino la parola Canis può significare ugualmente cane e cagna. Varrone (Rerum Rusticarum II, c. 1) mostra di non ignorare, esser due i cani celesti, e non uno. Vitruvio nell’Architettura, libro IX, c. 7, descrivendo la sfera costellata, dice: major item (Canis) sequitur minorem. Igino, già citato, scrive a proposito della costellazione del Cane minore5: Hic in lacteo circulo defixus, pedibus aequinoctialem circulum tangit, spectat ad occasum... omnino est stellarum III. La denominazione di Cane minore è rimasta nell’Astrognosia e dura anche al presente. Il nome di Canicula poi appare etimologicamente giustificato coll’applicarlo alla cagnetta d’Erigone, cioè a Procione; [p. 197 modifica]mentre dalla sua applicazione a Sirio non riceve alcuna plausibile spiegazione.

2. L’autorità più importante sa tale argomento è per noi quella di Plinio il Vecchio, il quale in diversi luoghi del libro XVIII della Storia Naturale esprime la sua opinione molto chiaramente. Nel capitolo 28 si hanno le seguenti indicazioni ... Ab solstitio ad fidiculae occasum VI Kalendas Iulias Caesari Orion exoritur: zona autem ejus IV Nonas Assyriae, Aegypto vero Procyon matutino aestuosus, quod sidus apud Romanos non habet nomen, nisi Caniculam hanc volumus intellegi, hoc est, minorem canem, ut in astris pingitur, ad aestum magnopere pertinens sicut mox docebimus. Da questo passo si conferma che per Plinio la Canicola era la costellazione del Cane minore, il qual nome egli pure si risolve a dare a Procione, forse per non chiamarlo Antecanis come aveva fatto Cicerone6. Secondo Plinio, Procyon aestuosus ha sull’estate un’influenza non minore che quella di Sirio. Alcune linee dopo: ... XVI Kal. Aug. Assyriae Procyon exoritur, dein post triduum fere ubique confessum inter omnes sidus ingens quod Canis ortum vocamus, Sole partem primam leonis ingresso: e qui si distingue fra il levare del Cane (o di Sirio) e quello di Procione con intervallo di 3 giorni: onde falsamente alcuno ha argomentato7 che Plinio abbia confuso questi due astri. Poco dopo: ... In hoc temporis intervallo res summa vitium agitur decretorio uvis sidere illo, quod Caniculam appellavimus, unde carbunculare dicuntur, ut quodam uredinis carbone exustae: da che si vede quali effetti dall’influsso di Procione i Romani temessero per la coltura delle viti.

Nel capitolo 29 dello stesso libro XVIII è esposta una singolare teoria degl’influssi dell’Aquila e della Canicola (Procione) sulla vegetazione. Plinio incomincia col descrivere il corso della Via Lattea, segnandone le intersezioni coll’equatore celeste nell’Aquila e nella Canicola, dov’erano e sono effettivamente ...Est praeterea in cælo qui vocatur lacteus circulus, etiam visu facilis. Hujus defluvio, velut ex ubere aliquo, sata cuncta lactexcunt duorum siderum observatione, Aquilae in [p. 198 modifica]septentrionali parte, et in austrina Caniculae, cujus mentionem suo loco fecimus. Ipse circulus fertur per Sagittarium atque Geminos, bis aequinoctialem circulum secans, commissuras eorum obtinente hinc Aquila, illinc Canicula. Ideo effectum utriusque ad omnes frugiferas pertinent terras, quoniam in his tantum locis Solis Terraeque centra congruunt. Igitur horum siderum diebus si purus atque mitis aër genitalem illum lacteumque succum transmisit in terras, laeta adolescunt sata. Si Luna, qua dictum est ratione roscidum frigus adspersit, admixta amaritudo, ut in lacte, puerperium necat... E dopo parlato degli influssi dell’Aquila, entra a discorrere di quelli attribuiti alla Canicola fra i quali il più importante è quello concernente la ruggine (robigo) delle biade. Rudis fuit priscorum vita atque sine litteris; non minus tamen ingeniosam fuisse in illis observationem adparebit, quam nunc esse rationem. Tria namque tempora fructibus metuebant, propter quod instituerunt ferias diesque festos, Robigalia, Floralia, Vinalia. Robigalia Numa constituit anno regni sui XI, quæ nunc aguntur a. d. VII Kal. Maias, quoniam tunc fere segetes robigo occupat. Hoc tempus Varro determinat Sole Tauri partem decimam obtinente, sicut tunc ferebat ratio. Sed vera causa est quod post dies undeviginti ab aequinoctio verno per id quadriduum varia gentium observatione in IV Kal. Maias Canis occidit, sidus et per se vehemens, et cui praeoccidere caniculam necesse sit. Itaque iidem Floralia IV Kalendas easdem instituerunt urbis anno DXVI ex oraculis Sibyllae, ut omnia bene deflorescerent. Hunc diem Varro determinat Sole Tauri partem XIVam obtinente. Ergo si in hoc quadriduum inciderit plenilunium, fruges et omnia quae florebunt laedi necesse erit.

Come si vede, per Plinio la Canicula è sempre dappertutto distinta dal Cane; essa è identica alla costellazione del Cane minore, e il suo nome è applicato a Procione, stella principale di quell’asterismo8. I suoi effetti sulla natura non sono [p. 199 modifica]minori di quelli attribuiti al Cane. Già i passi addotti qui sopra ne porgono un saggio: altri diversi se ne potrebbero recar in proposito, fra i quali scelgo uno solo (lib. II, c. 40): Caniculae exortu accendi Solis vapores quis ignorat, cuius sideris effectus amplissimi in terra sentiuntur? fervent maria exoriente eo, fluctuant in cellis vina, moventur stagna etc.

Quantunque in molti luoghi della sua grand’opera Plinio si mostri bene informato degli effetti analoghi del Cane o di Sirio sopra i più disparati fenomeni della natura, egli non sembra aver il più leggero sospetto che l’uno o l’altro potesse da altri al suo tempo esser considerato come l’equivalente della Canicula. Il Cane maggiore ed il minore, Sirio e la Canicula sono per lui ambedue apportatori di grande calore, di siccità, e sopratutto di calamità diverse.

3. Di questo medesimo parere sembra sia stato anche Cicerone, il quale di Procione dice nella sua versione di Arato9:

....Procyon qui se se fervidus infert
Ante Canem....

applicando così a Procione la medesima denominazione di fervidus, data poco più sotto al Cane10:

Fervidus ille Canis toto cum corpore cedit.

Il testo d’Arato nulla ha per Procione, che corrisponda a fervidus: perciò sembra plausibile credere, che per Cicerone l’uno e l’altro Cane avessero influenze di natura analoga sull’accrescimento dei calori estivi: essi apparivano infatti al mattino a pochi giorni d’intervallo. Ma quello che per Cicerone è solamente probabile, è certissimo per Orazio, il quale nell’ode 29a del libro III scrive sul ritornar della state:

.... Iam Procyon furit,
Et stella vesani Leonis,
Sole dies referente siccos.

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Abbiam dunque qualche diritto di considerare non solo Plinio, ma anche Cicerone ed Orazio fra quei complures, che secondo Igino identificavano la Canicola con Procione. Questi complures poi dovevano esser tanti da non lasciare a Plinio il minimo sospetto, che potesse esistere, circa il significato della parola Canicula, un’opinione diversa dalla sua. Se un tal sospetto avesse sol potuto balenargli alla mente, non avrebbe parlato dell’identità di Procione e della Canicola in termini così semplicemente affermativi, com’egli ha fatto.

4. Tuttavia è indubitabile, che presso molti scrittori latini la parola Canicula rappresenta il Gran Cane, o la sua maggior stella, Sirio. È questo il caso, per esempio, di Manilio, di Columella, di Censorino11; a non parlare di quelli che come Palladio ammettevano addirittura due Canicole, rappresentate dai due Cani maggiore e minore12. Furon poi altri non pochi, che nominavano la Canicola per averla udita nominare da altri come astro di grande e pernicioso influsso, senza saper bene a quale stella del cielo veramente corrispondesse: e fra questi io temo s’abbian da mettere quasi tutti i poeti latini, se debbo credere a certi indizi. Quindi una grande confusione in tutta questa materia, la quale ora non è più possibile dilucidare intieramente.

Il genere femminile del nome Canicula indica abbastanza chiaramente, che cominciò ad essere usato quando a Roma fu conosciuta, nella sua forma genuina ed originaria, la pietosa leggenda d’Icario, d’Erigone e della loro cagnetta Mera, non che la relazione di tal leggenda colle costellazioni. Il diminutivo mostra bene che allora doveva Canicula esser sinonimo non già del Cane maggiore, ma del piccolo Cane, o di Procione. E come tale essa fu introdotta nelle feste religiose dei Romani. Nella solennità dei Robigalia, che si celebrava il 25 aprile per [p. 201 modifica]salvare le messi dalla ruggine13, si sacrificava alla Dea Robigine (secondo altri al Dio Robigo) fra le altre cose una cagnetta rossa. Ciò testificasi da varie autorità, e primieramente da Ateio Capitone, scrittore contemporaneo di Augusto. Secondo le citazioni riferite da Festo14, Rutilae canes, idest non procul a rubro colore immolantur, ut ait Ateius Capito, canario sacrificio pro frugibus depracandæ sævitiae causa sideris Caniculae.... Catularia porta Romae dicta est, quia non longe ab ea ad placandum Caniculae sidus frugibus inimicum rufae canes immolabantur, ut fruges flavescentes ad maturitatem perducerentur. Eccoci dunque arrivati proprio alla rubra Canicula di Orazio, il cui colore era certamente desunto dal colore della robigo. Il rito astronomico diventò popolare, e propagò l’idea che la stella dovesse esser rossa come l’animale che ne era l’immagine15.

Ovidio sulla fine del quarto libro dei Fasti descrive la cerimonia cui accenna Capitone, della quale narra come testimonio oculare. Dice, che tornando a Roma da Nomento incontrò per via la processione dei Robigalia, diretta al bosco sacro della Dea Robigine. Compiuto che fu il sacrifizio di vino, d’incenso, delle interiora d’una pecora e di una cagna (Canis obscæna), Ovidio interroga il Flamine incaricato della cerimonia, domandandogli perchè il sacrificio così insolito di una cagna? Al che il Flamine risponde (vv. 939-942):

Est Canis, Icarium dicunt, quo sidere moto
     Tosta sitit Tellus, praecipiturque seges.
Pro Cane sidereo, canis hic imponitur aris,
     Et quare pereat nil nisi nomen habet.

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Qui la rappresentazione simbolica della cagnetta rossa è indicata tanto chiaramente quanto si può desiderare.

Tali eran dunque le cose in origine. Ma siccome era da aspettarsi, fra due costellazioni rappresentanti il medesimo animale e dotate di simili influssi non tardò a nascer confusione presso le persone poco perite del cielo e delle minuzie rituali. Per esse un solo Cane finì per dominare i mesi estivi col suo ardore, e questo non poteva esser altro che il vecchio Cane d’Omero e dei poeti greci. Ad una delle più grandiose costellazioni del cielo di cui Arato aveva detto:

Ἡ δὲ Κυνὸς μεγάλοιο κατ´ οὐρὴν ἕλκεται Ἀργώ

e alla stella più brillante del cielo, fu contro ogni convenienza applicato il nome diminutivo di Canicula: l’asterismo, dove tutti fin allora con Omero avevano riconosciuto il custode del gigante Orione, fu surrogato dalla cagnetta d’Erigone, mutata d’or innanzi in cane maschio. Igino scrive parlando del Cane maggiore16 ...alii autem Icari canem esse dixerunt... E così s’intende come Columella per cui la Canicula era una cosa sola con Sirio, potesse scrivere nel suo poemetto De cultu hortorum17, (vv. 400-401):

.... Cum Canis Erigones flagraus Ilyperionis aestu
Arboreos aperit fetus....

pur alludendo al Cane maggiore e non al minore. Quindi consegue, che dalle allusioni, frequenti nei poeti latini, concernenti la favola d’Icario e d’Erigone non è permesso di decidere se per Cane Icario o Cane d’Erigone essi hanno inteso di designare il Cane maggiore od il minore. È probabile del resto, che alla maggior parte di quei poeti tale questione non importasse punto. L’influsso estifero del Cane d’Erigone o del Cane d’Icario era una frase fatta che l’uno poteva pigliar dall’altro senza più, insieme a tant’altre immagini dall’arsenale poetico di quei tempi.

La confusione pare sia giunta al punto da modificare l’antico rito dei Robigalia. Ai tempi di Ateio Capitone e di Ovidio [p. 203 modifica]era uso che il sacrifizio si facesse sopra una cagna e non sopra un cane maschio. In conseguenza della confusione suddetta si perdette la purezza della tradizione e con essa quella del rito; già ai tempi di Vespasiano, se non prima, nelle Robigalia fu permesso di sacrificare un cane maschio, invece della cagnetta prima usata. Così almeno credo di dover intendere quanto scrive Columella nel suo poemetto già citato De cultu hortorum, (vv. 338-343):

Ipsa nova artes varia experientia rerum
Et labor ostendit miseris, usunque magister
Tradidit agricolis, ventos sedare furentes
Et tempestatem Thuscis avertere sacris.
Hinc mala Rubigo, virides ne torreat herbas
Sanguine lactenis catuli placatur et exitis.

Il qual passo riceve un’indiretta conferma dall’attestazione di Plinio contemporaneo di Columella circa l’uso dei piccoli cani nei sacrifizi: Mares catuli placandis numinibus hostiarum vice tenentur; ergo non solum hostorum pestes sed etiam numinum iras catulis evitamus.

5. Or basti di questi riti canicolari e ritorniamo ai testi di Orazio e di Seneca addotti in principio, come argomenti circa il color rosso di Sirio. Per quanto concerne Orazio, i versi già citati dell’ode 29a del libro III:

....Jam Procyon furit
Et stella vesani Leonis,
Sole dies referente siccos.

mostrano che egli era persuaso dell’influsso estifero di Procione cioè della stella rappresentante in cielo la cagna Mera di Erigone e in terra la cagna rossa dei Robigalia. Adunque nella sua rubra canicula che per effetto del calore findit infantes statuas, plausibilmente si potrebbe ravvisare la stella Procione. Per quanto sappiamo, questa non era rossa ai tempi d’Orazio, come non lo è adesso. Ciò non impedì il Poeta di applicare ad essa il color rosso della cagna Robigale, che simbolicamente la rappresentava. L’uomo che scrisse:

....pictoribus atque poetis
Quidlibet audendi semper fuit aequa potestas.

[p. 204 modifica]non ha dovuto trovarsi imbarazzato per così poco. È dunque a credere, che il passo citato d’Orazio non si riferisca neppure a Sirio: dato però e non concesso, che nella sua Canicula si dovesse ravvisar Sirio, nulla si sarebbe guadagnato per il color rosso di questo, anche astraendo dal significato molto vago che le parole ruber, rutilus etc. sogliono avere nei poeti latini secondo quanto abbiamo mostrato più sopra.

6. Seneca nel libro IV, c. 2 delle Questioni Naturali seguendo l’esempio di tanti altri scrittori, mette in correlazione il principio della cresciuta del Nilo col levare eliaco della Canicola: At Nilus ante ortum Caniculae augetur. Non si può dubitare ragionevolmente che qui si tratti di Sirio e non di Procione, quantunque il levare eliaco di queste due stelle sotto il parallelo di Siene accadesse allora proprio nel medesimo giorno. Il celebre passo (Quaest Nat. I, c. 1), quum acrior sit Caniculae rubor, Martis remissior, Iovis nullus... si dovrà pertanto applicare a Sirio più probabilmente che a Procione. Dato che esso rappresenti il risultato di una propria e vera osservazione, non ne verrebbe però ancora la conseguenza, che fosse realmente Sirio più rosso di Marte ai tempi di Seneca.

Infatti, se l’autore di tale osservazione constasse esser stato una persona perita delle osservazioni celesti, essa costituirebbe un documento decisivo. Trattantosi però di un uomo degno si di rispetto per molti titoli, ma della cui familiarità coll’aspetto del cielo è lecito dubitare, non sarà rigore soverchio il differire un giudizio definitivo; il quale dovrà coordinarsi con quello che sarà per risultare dall’esame complessivo di tutte le testimonianze. Negli antichi scrittori infatti non sono infrequenti allusioni a fenomeni astronomici così espresse, da costringere il lettore ad ammettere qualche abbaglio grave18. [p. 205 modifica]Qui però non è neppur necessario ricorrere all’ipotesi, che Seneca abbia errato nell’identificazione degli astri da lui nominati: la osservazione da lui citata ha potuto esser esatta, e Sirio tuttavia bianchissimo. Supponiamo infatti, che una persona pratica del cielo abbia fatto vedere gli astri a Seneca in un momento, in cui Marte e Giove essendo alti nell’emisfero, Sirio fosse basso ed immerso nei vapori dell’orizzonte. In conseguenza del noto fatto dell’assorbimento atmosferico, in virtù del quale il Sole e la Luna e le maggiori stelle appaiono rosse al levare ed al tramonto, Sirio poteva benissimo in quell’istante apparire più rosso di Marte e di Giove; ed indurre così Seneca ad una conclusione, alla quale non sarebbe mai giunto un osservatore avvezzo a considerare Sirio in tutte le posizioni che può prendere, e quindi anche presso la culminazione19.

Note

  1. Hygini, Astronomica ex codicibus a se primium collatis recensuit Bernhardus Bunte. Lipsiae, 1875, pp. 35-36.
  2. Arati Phaenomena, v. 450.
  3. Tanto dell’Hermes che dell’Erigone sono restati pochi frammenti, raccolti e pubblicati da G. Benhardy nel suo libro Eratosthenica, Berlino, 1822, pp. 110-167.
  4. Hipparchi in Arati et Eudoxi Phaenomena Lib. III, p. 241 nell’edizione di Petavio (Uranologion, ed. Paris, 1630). Anche Gemino conosce la costellazione di Procione.
  5. Astronomica, ed. Bunte, p. 96. Non cito i Catasterismi comunemente attribuiti ad Eratostene, essendo provato di essi, che sono una compilazione relativamente recente, fatta principalmente su di Igino.
  6. Antecanis, Graio Procyon qui nomine fertur. Aratea, ed. Buhle, vol. II, p. 18.
  7. Salmash, Pliniaunæ Exercitationes in Solinum, pp. 303-309 nell’edizione di Utrecht, 1689.
  8. Vi è tuttavia un passo (Hist. Nat. II, 47), che sembra contraddire a tutti gli altri: Omnium quidem redire easdem vices quadriennio exacto Eudoxus putat, non ventorum modo, verum et reliquarum tempestatum magna ex parte. Et est principium lustri ejus semper intercalario anno, caniculæ orlu. Generalmente si crede, che il principio dell’anno eudossiano fosse segnato, come per gli Egiziani, dal levare di Sirio (Boegkh, Ueber die vierjährigen Sonnenkreise der Alten, p. 50). Pertanto Plinio avrebbe designato qui, col nome di Canicola, Sirio e non Procione. La cosa si può spiegare senza troppa difficoltà, ammettendo che Plinio abbia scritto la notizia da un autore latino uso a riguardare Sirio e Canicola come sinonimi (quale fu Columella per esempio), senza verificare il significato preciso attribuito da quello al vocabolo Canicula, che per lui, Plinio, senza dubbio anche questa volta significava Procione. Nè è questo l’unico abbaglio di tal natura in Plinio; e basti per ora avervi accennato.
  9. Buhle, Aratea, vol. II, p. 24.
  10. Ibidem, p. 27.
  11. Per Manilio si confronti la descrizione del Cane maggiore contenuta nel suo poema astrologico, libro I, vv. 403-418. Per Columella in libro XI, cap. 2 dove ...Idibus Iuliis Pricyon exaritur mane e poco più sotto Septimo die Kal. Augustas Canicula apparet, indicando così manifestamente che nella mente dell’autore (o della fonte da lui riferita) Procyon e Canicula son due astri diversi. Per Censorino vedi la sua opera De die natali (c. 18 e 21), ove si pone a principio dell’anno egiziano il levare della Canicola, che non può esser qui diversa da Sirio.
  12. De Re Rustica, libro VIII, c. 6 ...Scillam sub ortu canicularum lectam... e libro XI, c. 12 ...Si (cerasus) æsta canicularum fatigatur...
  13. Vedi su ciò i passi più sopra riferiti di Plinio, secondo il quale tal solennità sarebbe stata instituita già da Numa.
  14. Sexti Pompeii Festi, De verborum significatione sotto le rubriche Catularia porta e Rutilæ canes.
  15. Lasciamo per parte nostra indeciso, se il sacrificio canario a cui allude Ateio Capitone sia la stessa cosa che l’augurium canarium prescritto nei Libri Pontificali. Plinio H. N. XVIII, 3: .. Equidem ipsa etiam verba priscae significationis admiror: ita enim est in commentariis Pontificum: Augurio canario agendo dies constituantur priusquam frumenta ruginis exeant et antequam in vaginas perveniant. — Pare che l’augurium non avesse giorno fisso, mentre il sacrificium l’aveva; quindi si potrebbe concludere che non fosse la stessa cosa. Ma si potrebbe anche ammettere che l’ordinanza pontificale qui riferita abbia avuto appunto per risultato di fissare il sacrificium al 25 di aprile, data dei Robigalia al tempo di Plinio. Vedi qui sopra p. 198 (aggiunto il 6 aprile 1899).
  16. Libro II, c. 35, p. 74 dell’ed. di Bunte.
  17. Forma il libro X dell’opera di Columella, De Re Rustica.
  18. Un tal caso per esempio sembra esser accaduto ad Euripide, quando affermò (Ifigenia in Aulide versi 6-8) che Sirio è vicino alle Plejadi, mentre realmente erano e son distanti fra loro quasi 60 gradi, cioè un terzo di tutta l’ampiezza del cielo visibile; sembra esser accaduto a Plinio, quando affermò (Hist. Nat. XVIII, c. 29) che Procione precede il Cane nell’occaso eliaco, mentre ai suoi tempi lo seguiva di circa un mese; e sembra esser accaduto ad Ovidio, quando afferma (Fasti IV, v. 924) che il Cane ha il suo levare eliaco alla fine di aprile, mentre ai suoi tempi lo faceva dopo la metà di luglio. Una vera disperazione pei commentatori sono i versi 237-238 libro IV delle Georgiche, dove Virgilio finge che le Plejadi al tramonto fuggano inseguite da un Pesce celeste; il quale poi non è visibile sull’orizzonte in alcun canto. Infatti è agevole convincersi con un globo, che al tramonto delle Plejadi tanto i Pesci zodiacali, quanto il Pesce australe e (se si vuole chiamarla anche un Pesce) la Balena, sono tutti nascosti sotto l’orizzonte.
  19. Il fatto della colorazione rossa degli astri maggiori presso l’orizzonte non era totalmente ignoto agli antichi. Plinio (Hist. Nat., II, 18): Color Solis, quum oritur ardens: post radians.