Sino al confine/Parte IV/Capitolo II

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Capitolo II

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II.


La zia Itria stava nel suo cortiletto umido e caldo, e faceva un «solitario» con le carte sucide e odoranti di vino, quando vide entrare e avanzarsi Gavina, elegante, vestita di bianco, ben pettinata e con le sottane sollevate sulle scarpe chiare. Il cortiletto fosco, dall’alto muro umido coperto d’erbe e di gramigne, parve illuminarsi. La vecchia si scosse, ma Gavina le mise le mani sugli omeri e la costrinse a star ferma sulla sua larga scranna dal fondo di legno, mentre con un cenno del capo salutava il nano, il cui visetto malizioso appariva nel vano della porta. Egli si avanzò fino a metà dell’andito ingombro di sacchi colmi: ma l’indice della zia Itria, gonfio come un salsicciotto, si mosse minaccioso, e l’ometto spari.

— Malanno che li colga, non mi lasciano un momento in paco! Siediti, bellina. Non ti macchierai il vestito, spero; ti sei messa troppo [p. 272 modifica]in lusso per venire da me. Ora mi racconterai tutte le storie di Roma.

— Che devo raccontarvi, zia Itria! La nostra vita è tranquilla. Conosciamo poca gente; non ci accade nulla di straordinario!

— E allora è inutile vivere là! — disse la vecchia, raccogliendo le carte sul tavolo. — Ma è possibile che tu non abbia nulla davvero da raccontarmi? Qui è permesso di parlare con libertà. Su, racconta!

— Come siete curiosa! Ebbene, vi racconterò qualche cosa; ma ad un patto; che anche voi mi narriate tutto ciò che è accaduto qui, da diciotto mesi a questa parte.

— Quelle son storie belline davvero! Ah, ah! te ne voglio raccontare una sola. Tuo zio il canonico, mio fratello, questa Quaresima passata ha voluto far dei sermoni a porte chiuse, per uomini soli. Credeva che tutti cadessero ginocchioni, pentiti, vergognosi dei propri vizi. Invece sai che cosa è accaduto? Lo hanno fischiato, e hanno riso. Se tu senti il reduce a ripetere quei sermoni, ti assicuro, muori dal ridere.

— Preferisco non sentirlo, — disse Gavina, agitando il suo piccolo ventaglio per scacciare le mosche. — E poi, che altro mi raccontate? A quanti «figli di Sant’Antonio»1 avete servito da madrina? [p. 273 modifica]

— Malanno che li colga, chi li conta più? Tutti i momenti ne nasce uno! Son più rari i figli legittimi, oramai!

Gavina sospirò, esageratamente, e si coprì il viso col ventaglio:

— Il Signore non ne manda più, di questi!

La vecchia, ricordandosi come sua nipote da ragazza era stata bigotta, la guardava e non sapeva se parlasse sul serio o se scherzasse.

— Io ho quasi intenzione di prendermi un figlio di Sant’Antonio, di allevarlo e adottarlo, — proseguì Gavina. — Non ridete di me, vero? Che fa al mondo una donna senza figliuoli? Non tutte come voi, abbiamo il coraggio di vivere per far del bene ai disgraziati. E allora? Allora diventiamo disgraziati anche noi!

— Mi pare che tu davvero non lo sii!

— Chi sa, zia Itria! Io mi annoio. Anche lo star bene tante volte è una disgrazia. Io non ho che fare! Come passare il tempo? Questa è la questione. Tante volte ho pensato a voi, ho detto a me stessa: la zia Itria, che non ha figli, ha risolto la questione: è diventata la madre di tanti orfani, di tanti infelici.

— Malanno che li colga, e dove sono questi miei figli? Chi sono?

— Ma.... tutti i vostri amici, tutti quelli che vengono da voi per chiedervi consiglio, come potrebbero andare da una madre.

Col viso gonfio reclinato sul petto, i [p. 274 modifica]piccoli occhi sollevati, la zia Itria fissava Gavina con uno sguardo malizioso e ridente; ma di tanto in tanto abbassava le corte palpebre rossiccio e allora il suo viso prendeva un’espressione dura.

— Tu sei venuta per burlarti di me! — disse infine. — Ta, ra, ta, ta! Raccontami le storielle di Roma.

Gavina protestò. Il suo accento era sincero, quasi commosso, ma la vecchia diffidava di lei, e d’altronde era così convinta di non far nulla di straordinario aiutando e frequentando i poveri e i malvagi che le pareva un sarcasmo sentirsene lodata. Ella non aveva alcuno scopo; non sperava di redimere i delinquenti, nè di sollevare più che momentaneamente i poveri; li aiutava e li avvicinava come fossero dei malati, e non pensava ad altro. Ma sentendosi dire da Gavina che tutto questo era bello, confortante, si offendeva più che quando sua cognata e suo fratello il canonico dicevano che ella si circondava di mascalzoni perchè li temeva o prendeva gusto a stare in loro compagnia.

— Ta, ra, ta, ta! Parliamo d’altro. Questo figlio, dunque, tu vorresti prenderlo dove lo trovi. Faresti come le donne povere che quando han voglia di fichi d’India se li vanno a prendere dai possedimenti altrui. Bada a non pungerti, però! «Fizos, fastizos»2. [p. 275 modifica]

Gavina scuoteva il piccolo ventaglio, e di tanto in tanto guardava verso la porta, nel cui vano luminoso appariva il visetto del nano. La vecchia proseguì:

— Anche tuo fratello, qualche tempo fa, voleva adottare una bambina. Si vede che amate aver delle seccature! La sai, la storia di Luca?

— La so, la so!

— Che ne pensi?

— Ma che volete che ne pensi? Io sarei contenta se Luca sposasse Michela.

— Tu parli sul serio? Mi pare che tu sii diventata una burlona!

— Non sarei vostra nipote, altrimenti! Adesso rispondete sul serio anche voi: se Luca e Michela si sposassero che male ci sarebbe?

— Nessuno.

— E dunque?... — Gavina fece un gesto, come per dire: perchè io non devo pensare come voi? Poi domandò: — com’è la bambina? Mi han detto che è brutta.

— Immagino chi te lo ha detto! La vecchia strega. Zippulè, vieni! (Zippuledda, il nano, fu d’un balzo nel cortiletto). Dimmi una cosa. Com’è la bambina di Michela? È bella o brutta?

Egli guardò un momento Gavina, come per indovinare quale risposta le avrebbe fatto piacere.

— È così così. È bella, è brutta, secondo come la si guarda. [p. 276 modifica]

— Malanno che ti colga, che cosa dici, scimunito? È bella o brutta?

Egli allora propose:

— Portiamola qui, per giudicarla meglio.

— La vuoi vedere, Gavina?

Gavina arrossì, agitò vivacemente il ventaglio e rispose!

— Ma sì! Portala pure. — E mentre il nano s’avviava, aggiunse: — però non dire a Michela che io sono qui.

Pochi momenti dopo egli ritornò. La bimba rideva e gli si dibatteva fra le braccia, agitando le gambette brune e dritte e i piedini sporchi, e ripiegando all’indietro la testina dai capelli rossicci arruffati. Suo malgrado Gavina si sentiva battere il cuore.

Il nano depose la bimba accanto alla zia Itria e le sollevò il visetto un po’ scarno, pallido e delicato. Ella stringeva la punta rosea della lingua fra le labbra, e i suoi occhi lunghi e verdognoli avevano un’espressione birichina e lieta.

— È bella, — disse Gavina. — Rassomiglia a sua madre.

Ma immediatamente, vedendosi osservata da una sconosciuta, la bimba si fece cupa in viso, e i suoi occhi diventarono foschi come quelli del morto.

— Vuoi venire da me? — disse Gavina tendendole il ventaglio.

Sebbene così vivamente tentata, la bambina [p. 277 modifica]s’irrigidì, si ritrasse, fece un piccolo tentativo di fuga, e cadde a gambe per aria. Il cortiletto risuonò delle sue grida e dei suoi singhiozzi disperati, e benchè il nano battesse col piede il suolo per castigarlo, ella non si calmò.

— Dio.... Dio! che male si è fatta! Poverina, che male.... che paura.... — balbettò Gavina.

— Ma è niente! E tu vuoi aver dei figli? Se ti spaventi così ogni volta che cascano!... — disse la zia Itria raccogliendo sul suo pancione elastico la bimba piangente, alla quale cominciò a parlare con voce infantile. — Ma che c’è, ma che c’è? Che hanno fatto a questa piccolina? Tutti le fanno del male, tutti, tutti! Ma la nonna ora prende un bastone grosso, e bastona tutti. Ecco, ecco! Ora sta’ zitta, però! Guardami un po’: più su, più su! Guarda un po’ la signora, su: ti darà il ventaglio. Non lo vuoi? Ti darà un pezzetto di zucchero. Quello, sì, ti conforterà.

Il nano, che conosceva a menadito la casa, andò a cercare la zuccheriera, ma per quanto Gavina si aggirasse intorno alla sedia della zia Itria, porgendo il ventaglio e avvicinando lo zucchero alla bocca della bimba, questa, pur cessando di piangere, non si rallegrò più. Non rise neppure quando il nano la baciò sulla gola per farle il solletico, ma emise uno strillo acuto e squillante come il suono d’un campanello; infine ai decise a prendere lo zucchero, e [p. 278 modifica]mentre Gavina parlava con la vecchia e pareva non curarsi più di lei, tese la manina e afferrò il ventaglio con un gesto rapace.

Zippuledda la guardava e rideva come un bimbo: quando si trattò d’andarsene la bambina si aggrappò alla vecchia e bisognò che il nano le promettesse di condurla «dallo zio Luca» perchè ella non piangesse più.

— Dà un bacio alla signora! su! Ti darà una bella cosa — egli le disse, avvicinandosi a Gavina.

La bimba curvò la testa. Allora Gavina le baciò i capelli che esalavano un odore come di erba secca; e quel profumo le ricordò la vigna, le macchie della brughiera arrugginite dall’autunno, il daino addomesticato e il canto del piccolo pastore....


*


Come in un giorno lontano, una mattina il canonico Sulis, mentre ritornava dalla cattedrale si fermò davanti alla finestra e chiamò Gavina por annunziarle la visita dei canonici Felix e Bellìa.

— Veramente.... veramente.... saresti dovuta, andar tu, da loro.

— Perchè? Una signora non deve far visite per la prima!

Rosso di collera il canonico sporse il [p. 279 modifica]braccio attraverso l’inferriata, con l’intenzione di afferrarle i capelli: ma ella si ritrasse a tempo mentre egli gridava:

— Ma di’! ma di’! Questa superbia? Dove l’hai appresa? Dove?

— Dal Galateo! Lo ha scritto un monsignore, sapete! Lo avete mai letto?

Egli sbuffò, pestò i piedi, se ne andò; ma fatti pochi passi tornò indietro, e disse con voce bassa e minacciosa:

— Se non fosse per un riguardo verso tua madre, consiglierei loro di non venire; e bada come parli in presenza loro! Essi conoscono già la tua empietà, la tua sfacciataggine, e.... non tutti sono indulgenti come lo sono io!

— Perchè vengono, allora? — ella gridò; e una fiamma di collera le brillò negli occhi.

Da lungo tempo aveva perdonato: tuttavia il pensiero di ritrovarsi alla presenza del suo ex-confessore le destava un senso d’ira e d’angoscia. Parole di odio e di rimprovero le salivano alle labbra, mentre si vestiva accuratamente per ricevere i due canonici, che dopo il suo ritorno non aveva ancora riveduti. Se li figurava invecchiati, anche loro assaliti dai fantasma del rimorso. Il canonico Felix avrebbe pronunziato sottovoce, tremando, il nome del povero morto: il canonico Bellìa avrebbe più del solito abbassato le palpebre livide. Ella intanto si guardava nello specchio, compiacendosi di apparirti ben diversa dalla [p. 280 modifica]scarna penitente che il canonico Bellìa aveva tante volte atterrito.

Quando però scese e dall’uscio aperto della saletta intravide le tre figure nere, provò un senso di freddo; e senza che ella se ne accorgesse il suo viso riprese la sua antica espressione dura e severa. Entrò e non osò guardare in viso il suo ex-confessore. Egli a sua volta parve non accorgersi di lei; mentre il canonico Felix, al contrario, si alzava o la esaminava a lungo, facendo gesti di meraviglia e di ammirazione.

— Ma se io la vedevo per la strada non la riconoscevo! Una matrona, una vera matrona!

Si rimise a sedere, raccogliendosi la sottana fra le gambe, e il suo volto di santo riprese la solita espressione mite e soave.

Gavina andò a sedersi nell’angolo del sofà, accanto a sua madre.

— E Francesco? — le domandò seccamente il canonico Sulis.

— Non c’è: è andato alla vigna.

— Ma non sapeva che dovevano venire delle visite?

— Non lo sapeva, E andato via con Luca, stamattina presto....

Egli sbuffava e si guardava attorno, rosso di collera, pronto a scattare se Gavina si permetteva di alzare la voce.

Anche il canonico Bellìa si guardava attorno, alla, sfuggita. Tutto era mutato, in quel [p. 281 modifica]sepolcro di viventi; l’aria stessa, profumata da un mazzo di fiori deposto sulla «console» pareva rinnovata dal soffio di una vita nuova. I libri si erano come svegliati e raddrizzati, entro la loro nicchia di vetro. E la Venere a cui Gavina aveva tolto il mantello azzurro, sorgeva nella sua primitiva nudità, pura e candida sul marmo bianco come sopra una cima nevosa.

Una sorda irritazione agitava il canonico Sulis: Gavina se ne accorgeva e si ritraeva nell’angolo del sofà, quasi paurosa che egli, come un tempo, le tirasse i capelli. Il canonico Felix si rivolse placidamente a lei, domandandole:

— Fuori Porta Pia ci sono fabbricati nuovi, adesso?

— C’è tutta una nuova città. E un’altra ne sorge ancora più in là, verso Sant’Agnese.

— Fino a Sant’Agnese! — egli disse con meraviglia. Poi parve ricordarsi. — Sì, sì, ho sentito.... Ho letto.... Bene! bene! lo sono stato a Roma nel 1869!

Riferendosi a quel tempo, e come se Gavina fosse la prima persona reduce da Roma che egli vedesse dopo quel suo viaggio, cominciò a domandarle notizie di cose che aveva veduto allora.

— È tutto sparito! — ella disse con ironia. Ma egli non diede segno di rimpianto; anzi constatò placidamente: [p. 282 modifica]

— Eh, sì, le città si trasformano, il mondo cambia.

— In male! — gridò il canonico Sulis.

— Oh, no, in bene, invece! — disse Gavina: ma subito si pentì, perchè suo zio diventava pavonazzo. Il canonico Bellìa sollevò le palpebre, ma lo riabbassò tosto.

— In male, vi ripeto, — gridò rabbiosamente il canonico Sulis. — Provatevi un po’ a contraddirmi. Dov’è il bene? Voi aprite un giornale ed è come se spalancaste le porto d’una galera. Non trovate che storie di furti, di omicidi, di adulteri, di porcherie. Il mondo sta diventando un porcile. Sì, vi ripeto, un porcile, un porcile.

Il canonico Felix osservò con placida ironia:

— La questione è che un tempo non si trovavano giornali.

Ma l’altro, infuriato, proseguì:

— Nè giornali, nè ferrovie, nè cinematografi! e le dico che si stava meglio. Si stava meglio; lo dico e lo ripeto!

Per calmarlo Gavina disse che aveva veduto la passione di Nostro Signore rappresentata in un cinematografo. Egli parve soffocare, si alzò, andò su e giù per la saletta, tornò accanto al sofà, ed ella, sentendosi sul viso la pancia ansante di lui, si portò lo mani alla testa, supplicando infantilmente:

— Non toccate i miei capelli.... no.... no....

Egli si mise a ridere, e la sua furia svanì. [p. 283 modifica]

Più tardi, affacciata alla finestra, mentre aspettava il ritorno di Francesco, Gavina ripensava alla visita dei canonici e sentiva la sua ira svanire come era svanita quella di suo zio.

Il nome del morto non era stato pronunziato, come se i duo canonici se ne fossero completamente scordati. Egli era passato attraverso la loro vita come l’ombra di una nuvola sopra l’erba di un prato. I ricordi del canonico Felix, così placidi e varii, non si fermavano su cose tristi: e pareva che davanti al canonico Bellìa l’ombra fosse passata mentre egli teneva le palpebre abbassate!

Ma quel che più meravigliava Gavina era il sentirsi anche lei sempre più lontana dai suoi ricordi.

A un tratto però, nel silenzio del crepuscolo verdognolo, un rumore come di pioggia scrosciante risuonò in fondo alla strada: un gruppo d’uomini a cavallo s’avanzò, si fermò un minuto davanti al cancello delle aquile, poi si allontanò, sparì. Erano i cacciatori che tornavano dalla prima caccia grossa. Davanti al cancello rimase, chiara nella penombra, solo la figura di Elia sul suo stallone bianco.

Gavina guardava e provava una lieve emozione: un’eco di ricordi lontani risuonava entro di lei come il trotto dei cavalli nella strada solitaria, e quell’uomo che aveva vissuto e goduto, che passava ancora sotto le finestre [p. 284 modifica]di lei dritto sul suo cavallo ardente come un cacciatore di piaceri, le destava ancora un senso di ammirazione e di rancore. Ma se un tempo lo odiava perchè egli si divertiva, ora lo invidiava per la stessa ragione.

Nei giorni seguenti Francesco andò al suo paese, e la signora Zoseppa si recò alla vigna. Luca andava e veniva, ma per lo più stava tutta la giornata fuori e ritornava solo verso sera, evitando la compagnia di Gavina. Per alcuni giorni ella riprese l’antica vita, e sedeva accanto alla finestra o si aggirava per le vasto camere vuote, inondate dalla luce già melanconica dell’autunno incipiente.

Nel pomeriggio stava lunghe ore alla finestra della sua camera. L’orto, come vivificato dal vento di sud-ovest, fremeva e sussurrava: il mandorlo scintillava al sole come un albero di cristallo, mentre l’elce, curvandosi tutto da un lato, pareva una gran fiamma d’argento. Sulle falde più lontane delle montagne si vedevano nuvole di fumo d’un grigio rossastro, che parevano esalate dalle montagne stesse. Erano brughiere incendiate dai contadini, e il soffio caldo e profumato di questi fuochi arrivava col vento a aveva un odore d’incenso. Più in alto, sul candore dello montagne calcaree, si stendevano grandi ombre turchine, e sulla linea del Gennargentu si posavano, come sopra un altare, nuvolette simili a candelabri e a coppe d’oro. Tutto il paesaggio aveva [p. 285 modifica]alcunchè di sacro. Il silenzio del pomeriggio veniva interrotto solo dal fruscio degli alberi e dal rumore monotono e meccanico dei tagliapietre che lavoravano al di là dell’orto. Poi il sole cadeva e tutto il paesaggio diventava d’un rosso violetto; il vento taceva, la luna sorgeva come una fiamma solitaria fra due roccie della montagna. Poi lunghe file di stelle, archi di pianeti piccoli come lumi lontani, tremolavano sul cielo d’un azzurro verdastro. Si scorgeva l’incendio lontano delle brughiere, e pareva che le fiamme scaturissero dalle roccie, e la loro luce rossastra arrivava alle creste calcaree che si tingevano d’un rosa cupo, simili a enormi brage fra la nebbia.

Dalla sua finestra Gavina scorgeva particolari che prima le erano sfuggiti; vedeva, dietro le casette del vicinato dei poveri, sullo sfondo azzurro dei monti lontani, una roccia sporgente sulla valle, e un albero fantastico, aggrappato alla roccia come un sognatore chino ad ascoltare le voci del paesaggio notturno. Udiva il mormorio lontano del torrente, e sullo sfondo monotono di questa nota eguale il picchio del tagliapietre che lavorava ancora al chiaror di luna le sembrava il lamento del granito percosso.

Allora provava un sentimento di pietà per le cose stesse: le pareva che le roccie spaccate dovessero soffrire come soffrono gli uomini percossi dal dolore; e che l’elce fosse [p. 286 modifica]melanconico perchè invecchiava; e che gli alberi tremassero perchè si avvicinava l’autunno. Le cose e le persone, che al suo ritorno le erano apparse umili e meschine, si ingrandivano ai suoi occhi, come cose e persone vedute in una strada dritta, dapprima lontane, poi sempre più vicine. E ogni cosa le ripeteva le medesime parole: «la vita è breve, s’invecchia, si soffre, si muore».

Allora uno sgomento infinito l’assaliva ed ella involgeva sè stessa nella pietà che sentiva per le cose intorno. Le pareva di non amar la vita, ma aveva paura d’invecchiare e di morire.

Una sera, mentre scendeva alla fontana con la serva, passando davanti al portone di Michela vide Luca nell’interno dell’androne, seduto a fianco del contadino; e sebbene Paska la tirasse per la veste, si fermò e disse a voce alta:

— Come state, zio Bustià? Mi riconoscete?

L’uomo si alzò e le porse la mano, dopo aversela pulita sulle brache di tela. Egli non era invecchiato: calmo e solenne, col cranio lucido, la barba tenuta con cura, sembrava, non un vecchio toccato dalla sventura e dal disonore, ma un patriarca soddisfatto di sè e fiero dei suoi discendenti.

— Se ti riconosco! — disse con la sua voce grave e ironico. Tu, piuttosto.... scusami se ti do ancora del tu, ma ti ho veduta [p. 287 modifica]nascere.... tu piuttosto non dovresti riconoscerci! Ebbene.... oh, dimmi una cosa: come si sta a Roma?

— Chi sta bene, sta bene, e chi sta male, sta male....

Il contadino battè le mani, e i suoi occhi verdastri, limpidi come perle, brillarono alla luna.

— Io penso giustamente così, Gavinè! Gli uomini hanno fatto le città con la speranza di starci meglio che in campagna. Ma se Dio dice: «quest’uomo deve, per mie speciali ragioni, essere disgraziato» ebbene, Gavinedda, sai cosa ti dico? quell’uomo sarà disgraziato anche se vivrà in un palazzo d’oro. Parlo bene?

— Voi parlate come un predicatore!

Il contadino, felice per questo complimento, proseguì:

— Io stavo giusto a discutere col nostro Luca. Gli dicevo che all’uomo resta un solo mezzo per essere felice. Contentarsi. Ha poco? Deve contentarsi di poco. Ha molto? Lo stesso! Perchè noi osserviamo che più l’uomo ha, meno è contento. Forse, forse — aggiunse, toccandosi il naso con l’indice destro — forse l’uomo che ha poco si contenta più di colui che ha molto. Ma tu stai lì, fuori? Vieni dentro; Michela sta su, perchè la bimba è indisposta, ma una sedia posso bene offrirtela io....

Gavina fu tentata di accettare l’invito: ma Paska l’urtò, ed ella si ritrasse dalla soglia del portone. [p. 288 modifica]

— Ora è tardi: verrò uno di questi giorni.... — disse quasi timidamente. — Che cos’ha la bimba?

— Oh, piccoli disturbi. Mangia troppo.

— Farò venire Francesco, appena torna — ella disse allontanandosi.

Paska le aveva preso il braccio e la tirava quasi con violenza, ed ella seguiva, pensierosa e distratta; ma ad un tratto si accorse che la vecchia fremeva, guidandola, e le si ribellò.

— Ma di’, Paska, che hai? Perchè corri? Che hai?

Erano arrivate allo stradale e la luna saliva davanti a loro sopra le roccie a picco sulla valle. Paska era livida in viso e Gavina ne ebbe compassione: le riprese il braccio e le disse:

— Scusami, rabbiosa! Non sapevo di farti dispiacere.

— Io non passerò più con te davanti a «quella casa!» Ricordati che tu stessa, un tempo, non volevi passarci.

— Va bene: non ci passeremo più!

Ma Paska s’irritò per questa condiscendenza troppo immediata.

— No, non scherzare! Non parlare così leggermente. Tu fra giorni te ne vai; a te non importa nulla di quelli che restano! Ebbene, lascia almeno le cose come stanno e non mettere il piede sopra il cane che dorme!

— Dove sarebbe questo cane? [p. 289 modifica]

— In «quella casa!»

— Non capisco! — disse Gavina. — Dimmi tutto, Pà! La mia cameriera, a Roma, mi dice tutto.

Paska era gelosa di questa fantastica cameriera, e un po’ per rabbia, un po’ per non essere a meno di quell’altra, volle parlare.

— Ricordati una cosa. Io ho sempre diffidato di Michela. Ricordati quante questioni abbiamo avuto, lungo questa medesima strada! Tu la volevi per amica: va bene! Ma lei sai cosa fece? Finì col considerarsi come una tua eguale. E quando tu l’hai disprezzata ha cominciato ad odiarti, appunto perchè ha sentito la distanza che vi separava. Poi ella attirò Luca: era una conquista facile! Ella ha detto fra sè: «ah, tu mi disprezzi? Ed io farò parte della tua famiglia!» Ed ella ci riuscirà, Gavina, vedrai che ci riuscirà! Luca ha un verme che gli rode il cervello: è lei. Prima che tu ritornassi, egli era già rassegnato, deciso a non dar a tua madre tanto dolore. Ma dopo il tuo ritorno, Michela è riuscita a stuzzicarlo di nuovo. Gli ha fatto credere che tu sei venuta apposta per inasprire tua madre contro di lui. Gli ha fatto credere che tu vuoi convincer tua madre a diseredarlo. Gli ha fatto credere che tu passi davanti alla sua casa per beffarti di lei e insultarla. E questo è niente, sentimi.... ora la bimba è malata... ebbene....

Paska s’interruppe. Gavina l’ascoltava, [p. 290 modifica]senza dare troppa importanza al suo discorso. Il paesaggio, quella notte, era tanto bello, coperto dal velo argenteo della luce lunare! E sul cielo azzurro apparivano solo le costellazioni maggiori, nitide come ella non ricordava di averle mai vedute.

La voce piagnucolosa di Paska pareva venir di lontano, da un piccolo mondo di menzogne. Gavina sapeva bene qual’era l’origine dell’odio di Michela: e le chiacchiere della serva non potevano diminuire la sua pietà e il suo rimorso; ma la vecchia intuiva, con istinto geloso, questi sentimenti che per lei erano un segno di debolezza, di degenerazione, e riprese, più acerba!

— Tu non mi ascolti? Ebbene, ella dice che la bimba è malata perchè tu.... tu le hai dato il veleno!

Gavina la guardò.

— Io? Vaneggi?

— Hai avuto mai occasione di veder la bambina? Dimmi la verità: è vero che tu l’hai fatta portare dal nano presso tua zia Itria?

— Io, l’ho fatta portare? Io ero là: il nano venne con la bambina.

— È vero che le hai dato dello zucchero?

— Chi si ricorda? Ah, sì, mi ricordo: la zia Itria le diede lo zucchero.

— No! sei stata tu! — disse Paska, con accento ironico d’accusa. — E lo zucchero aveva il veleno! [p. 291 modifica]

— Ma se il nano lo prese dalla zuccheriera della zia Itria! Ma che pazzie son queste, poi? Ma chi è che le dice?

— Lei!

— Ma lo ha detto a te? No? Allora a chi?

— Puoi figurartelo.

— A Luca? Già! Anche lui, una volta, mi accusò di volerlo uccidere! Come sono sciocchi! Tutti sciocchi! — disse Gavina con dispetto. Poi ridiventò pensierosa. — E la mamma.... lo sa?

— Lo sa.

— Ah, lo sapeva e non mi diceva nulla! Perchè?

— Eh, tu devi ripartire! Che t’importa dei nostri pettegolezzi?

— Ah, io devo ripartire? — ella ripetè, come ricordandosi. — Vuol dire che voi tutti credete che fra me e voi non ci sia più nulla di comune? che non m’importi nulla di voi? Vuol dire questo? Su, parla, portavoce!

Ella scuoteva Paska, sulla cui testa la brocca oscillava come una bilancia.

— Eh, tu sei giovane! — disse Paska con semplicità, ammettendo ma scusando la triste supposizione di Gavina: — tu vivi in una grande città. Che devi pensare a noi ed ai nostri pettegolezzi? No! Che ne direbbe Francesco?

— Egli ha il cuore molto più ben fatto del vostro — disse Gavina, irritandosi. — Egli sa che una figlia pensa continuamente a sua [p. 292 modifica]madre, anche se questa non le vuol più bene! Ma perchè discutere con te? Tu sei una vecchia pettegola e null’altro! Va!

La lasciò e s’accostò al paracarri, guardando giù nella valle. Per alcun tempo camminarono così, lontane l’una dall’altra, ma ad un tratto Gavina si volse e vide che Paska si asciugava gli occhi col grembiale.

— Ora piangi! — le disse, riavvicinandosele. — Prima dici le stupidaggini, poi lagrimi! E dimmi una cosa. Magari, tu e mia madre, — non parlo di quello scemo, — avete creduto.... Ma noi Mi vergogno persino a dirlo. Non parliamone più.

Tornò a scostarsi, ma Paska la seguì.

— Cosa abbiamo creduto? Nulla, abbiamo creduto! Ma tua madre.... ma io.... ebbene, bisogna che te lo dica: tu fai male ad andare da tua zia Itria. Non è una donna da frequentarsi quella....

— La zia Itria? Tu, nonostante i tuoi rosari, anzi appunto coi tuoi rosari.... tu non sei degna di legarle i lacci delle scarpe!

— Gavina! Tu parli così, tu? Ah! Ha ragione tuo zio!...

— Anche lui, adesso? Che può aver detto lui, se non una scempiaggine? Di’ subito che cosa ha detto! Dillo subito.

— Egli ha detto che chi non crede in Dio è capace di tutto.

— E sarei io che non credo in Dio? Egli lo [p. 293 modifica]ha detto per me, vero? Vero? E sarei io? Capace di tutto?... E voi tutti lo credete?

Si fermò e costrinse la vecchia a fermarsi: e toccava a lei, adesso, fremere di rabbia. Col viso accanto al viso di Paska, stringeva le magre braccia della serva con le sue mani nervose, e pareva volesse afferrarla e buttarla sul paracarri e farla precipitare nella valle, vendicandosi in tal modo di tutte le diffidenze, le calunnie, i dubbi mostruosi che la colpivano.

Un terrore infantile contrasse il viso della vecchia; Gavina comprese che era lei a destarle paura, e come un’ombra le calò intorno. Le parve di diventar cieca. Ricordò che sua madre e Paska l’avevano ritenuta capace di far del male a Luca. Ricordò la diffidenza e la freddezza con cui i suoi parenti l’avevano accolta. Ella tornava a loro trasformata, col cuore pietoso: essi la vedevano come l’avevano sempre conosciuta e temuta, fredda, crudele, «capace di tutto». Ogni sforzo era dunque inutile.

Lasciò Paska e non volle più ascoltare le sue chiacchiere. Le pareva indegno di lei; ma mentre la vecchia riempiva la brocca, ella guardava lo sfondo della valle, e i varchi che pareva s’aprissero fra montagna e montagna verso un paese lontano, e ricordava la sera in cui, per spezzare la catena d’odio che l’avvolgeva, s’era decisa a prender marito. Anche adesso desiderava andarsene, al più presto: aveva [p. 294 modifica]ragione Paska, ella non apparteneva più a quel mondo di miserie e d’odio, ove il passato le risorgeva davanti ad ogni passo come un nemico che tentasse di soffocarla.

Ma ripassando davanti alla casa di Michela credette di sentire il pianto lamentoso della bimba e la sua ira svanì. Rientrata a casa si ritirò nella sua camera e aspettò Luca, che quella notte tardava a rientrare. Finalmente lo sentì che apriva la porta e saliva le scale inciampando come un vecchio. «È ubbriaco» — ella pensò: eppure quel passo incerto e pesante le destò un senso d’infinita pietà. Prese il lume e uscì nel pianerottolo, e mentre Luca si fermava sul penultimo scalino e la guardava coi suoi grandi occhi sporgenti spaventati, gli disse con voce tranquilla:

— Devo parlarti. Apri.

Luca teneva sempre con sè la chiave della sua camera: aprì ed entrò, esitando, ed ella lo seguì e depose il lume sul tavolo ingombro di strani oggetti: libri di magìa e di pirotecnia, gomitoli di spago di tutti i colori, uccellini imbalsamati, piatti con liquidi misteriosi, piccole pelli di cinghialetti e di faine, forbici, coltelli, scatole di chiodi. Le finestre erano chiuse; un caldo soffocante e un odore d’alcool impuro rendevano irrespirabile l’aria guasta della camera, e come un velo di cenere copriva gli oggetti disparati che la ingombravano. Ai piedi del lettuccio coperto da un [p. 295 modifica]semplice lenzuolo di tela grossa, v’era un lambicco, più in là una piccola macchina per legare libri: del resto, tutto era in ordine, un ordine meticoloso che rivelava qualcosa di monomaniaco nella persona che abitava la camera.

Luca sedette sul lettuccio; Gavina aprì la finestra e disse:

— Qui si soffoca!

Da anni ella non entrava in quella camera che sembrava il laboratorio di un alchimista, e le parve di penetrarvi per la prima volta e di capire finalmente il carattere di Luca. Egli era nato per raggiungere qualche scopo; nessuno l’aveva guidato ed egli s’era perduto nel labirinto stesso delle sue idee, e la sua attività era diventata un’anormalità, le sue fantasie eran degenerate in sogni morbosi.

Appena ella ebbe aperta la finestra, egli si alzò con l’intenzione di richiuderla; ma subito si ritrasse e tornò a sedersi sul letto: pareva stanco, assonnato, ma i suoi occhi non abbandonavano un momento il rettangolo chiaro, punteggiato di stelle, sul cui sfondo si delineava la figurina di sua sorella. Anche lei lo guardava e la figura di lui, grassa e cascante, le ricordava quella di suo padre.

— Sentimi, Luca, io devo ripartire fra giorni e chissà quando ci rivedremo. Non l’anno venturo, nè l’altro, certamente. So che la mia presenza ti dà fastidio; ma appunto per questo, [p. 296 modifica]prima di andarmene voglio sapere che cosa hai con me. Domani mattina tu vai alla vigna, e.... può darsi che anche io parta più presto di quel che tu credi.... Parla dunque.

Luca non si commosse, solo parve cercar le parole per rispondere a tono, ma non seppe dir altro che questo:

— Io? non ho nulla con te!

— E allora dimmi che cosa posso fare per te, prima di partire. Pensaci.

Egli pensò: reclinò la testa, poi la sollevò e il suo viso espresse una meraviglia infantile.

— Ma io.... io non ho bisogno di nulla!

— Qualche cosa ti occorrerà. L’altra sera dicevi a Francesco che prima della nostra partenza dovevi chiedergli un favore. Cos’era?

— Non mi ricordo. Non so....

— Va bene: vedo che non vuoi nulla da me. Ora però ti voglio domandare un’altra cosa. Zio Bustianu diceva che la bambina di Michela sta poco bene. Che malattia ha?

— Non lo so.

— Tu non l’hai veduta?

— No.

— È impossibile che non l’abbi veduta! Sta a letto?

— Non lo so.

— Hanno chiamato il medico?

— Non lo so.

— Non sai niente, insomma. Perchè ci vai allora? [p. 297 modifica]

Egli non rispose; guardava fuor della finestra e il suo viso non esprimeva più nè meraviglia nè diffidenza: solo una grave stanchezza, un desiderio di dormire. Allora, per scuoterlo, ella disse:

— Ti voglio appunto parlare della bambina di Michela, e voglio domandarti un consiglio.

Per quanto il caso fosse straordinario, Luca non si turbò.

— Io vorrei adottare una bambina. Luca, credi tu che Michela possa darmi la sua?

— E chi lo sa?

— M’hanno detto che non le vuole troppo bene. Tu puoi sapere anche questo. Credi tu ch’io possa fare la proposta senza offendere Michela e suo padre?

— Io?... che cosa ne posso sapere io?...

Ella capì che era inutile proseguire su questo tono e si sentiva imbarazzata; le pareva che Luca potesse ridersi di lei!

— Tu non sai proprio nulla! — ripetè alquanto stizzita. — Non mi vuoi capire. Io voglio adottare la bambina di Michela per far piacere a te.

Allora egli si meravigliò di nuovo.

— A me!... Ma che m’importa?

— Ma allora non è vero che tu vuoi sposare Michela? Rispondi: è vero o no?

— Non è vero.

— Ecco, tu dici una bugia! Non fai altro che dir bugie. Tu diffidi di me, ed io invece voglio [p. 298 modifica]aiutarti, perchè se tu vuoi bene a Michela, ed ella ti vuol bene, io non vedo la ragione per cui non dovreste sposarvi. Nostra madre non può capire certe cose, però! Essa non m’ha parlato mai di quest’affare, bada! Ho saputo ogni cosa da terze persone: ad ogni modo, sentimi, Luca, io adotterò la bambina, e questo sarà già un legame fra noi e Michela. Col tempo nostra madre si abituerà all’idea di averla per nuora. Hai capito?

— Io non penso ad ammogliarmi!

— Questo non è vero, poi! A Francesco hai detto il contrario, ma tu, ripeto, diffidi di me: mi consideri come una tua nemica. Perchè dovrei esserlo? Voglio dimostrarti, invece, che sono tua sorella. Certo, io avrei desiderato vederti migliore di quel che sei; ma, del resto, son convinta che noi non possiamo diventare quel che vogliamo diventare, ma quello che il destino vuole. Se tu non sei un grand’uomo la colpa non è tua. Io vorrei, se non altro, vederti tranquillo; sei sempre irritato, diffidente, pauroso: sei ancora come un bambino. Che accadrà di te, se nostra madre viene a mancare? Io non lo so! Diventerai come un bambino orfano, abbandonato da tutti; e da me non vorrai niente. E allora?

Egli non batteva ciglio e pareva non ascoltasse, o non capisse bene, ma all’improvviso disse:

— Tu vorresti ch’io pigliassi moglie per liberarti di me; ho bell’e capito! [p. 299 modifica]

Allora Gavina provò contro di lui quell’ira insensata che si prova talvolta contro i malati rabbiosi, ribelli ad ogni cura, e si mise a camminare attraverso la camera gridando:

— Luca! Ti fingi stupido, ma non lo sei! Quando vuoi capire, capisci benissimo. E, del resto, è inutile che tu finga: so tutto quello che tu pensi!

— E anch’io so quello che pensi tu!

— E allora parliamoci francamente. Domani posso andarmene e non sentir più parlare di voi e delle vostre miserie! Ma, prima di andarmene, tengo a farvi sapere che non sono quale voi mi credete. Hai capito? Hai capito? Ed a Michela dirai che io voglio bene alla sua bimba più che non gliene voglia lei stessa. Hai capito?

— Perchè non vai tu a dirglielo?

— E sicuro che ci andrò! Sicuro!

— Va! va! — egli disse con ironia.

— Sì che ci vado! Ho da dirle parecchie cose!

— Anche lei deve dirtene!

— Ah, sì? Meglio! Mi dirà chi le ha suggerita l’idea che io possa far del male a una bambina. Sei stato tu? No? E allora chi? Soltanto i pazzi possono dire certe cose!

— E se siamo pazzi lasciaci come tali! — egli disse alzandosi e andando a chiuder la finestra. E chiusa che l’ebbe parve più tranquillo, più attento: tornò a sedersi sul [p. 300 modifica]lettuccio e intrecciò lo mani appoggiandosele sul petto. — Per te, noi tutti siamo pazzi, — disse con calma. — E allora perchè vieni a molestarci? Forse noi ti molestiamo? Chi ti cerca?

— Come? Ma se non fate altro che calunniarmi! Voi dite che voglio farvi del male, mentre invece voglio farvi del bene! Sì, del bene, del bene: e ve lo farò, anche a vostro dispetto, anche per forza. Vedrai!

— Tu? Tu non potrai che far del male! Tu hai fatto del male e farai sempre del male! Eravamo un po’ tranquilli, ora: ed ecco, tu ritorni e pare che vengano tutti i diavoli! Se io ho da fare qualche cosa non domanderò parere a te! Farò quel che mi pare e piace! Se nostra madre ha da fare del bene non lo farà certo per tuo consiglio! Tu non le hai dato che dispiaceri.... Tu non hai fatto e non farai che del male.... A lei.... a tuo marito.... a tutti!

Gavina si fermò e si mise a ridere.

— Ma bravo! Ora ci voleva anche questa! Io ho dato dispiaceri a nostra madre! Ma quando?

— Domandalo a lei! Ella ti dirà chi l’ha fatta soffrire di più.... io, ubbriacone, io, maleducato, o tu con tutta la tua religione! Va, va a domandarglielo!

Egli sollevò una mano e le indicò l’uscio, ed ella capì che non c’era nulla da fare; poteva [p. 301 modifica]star lì tutta la notte, pronunziando parole di pace e d’amore, Luca l’avrebbe guardata sempre come una nemica. E sembrandole di esser ridicola ai suoi occhi stessi, uscì, senza dir altro, e andò a letto subito, ma non potè addormentarsi. Suo malgrado le parole di Luca e la sua triste profezia, sebbene dettate da un rancore insensato, la colpivano e l’umiliavano.

«Tu non puoi far che del male!» Un altro in una sera lontana le aveva detto le medesime parole, e la profezia si era avverata; ella non aveva fatto che del male. Provò un vago senso di superstizione, e le parve di essere come certe persone goffe, che non possono muoversi senza causare qualche danno intorno a loro.


Note

  1. Bastardi.
  2. Figli, fastidi.