Sopra le vie del nuovo impero/Il mostro a due teste ed i valori morali

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Il mostro a due teste ed i valori morali

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Il mostro a due teste ed i valori morali
Meditazione sull’Acropoli

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EPILOGO.


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Il mostro a due teste
ed i valori morali.



Ho da varii mesi dinanzi agli occhi un dittico della guerra che espongo ai miei lettori. Ciò che sta dipinto sopra la tavola, a destra, è questo. Una sera dello scorso Novembre mi trovavo nell’oasi di Tripoli. Erano i giorni più brutti di quel brutto periodo della guerra, eravamo nel fitto dell’oasi verso Sciara Sciat. C’era fuoco da più parti, alcune compagnie dei nostri essendosi spinte fuori delle trincee. Era un orrore, perchè in quell’arruffio dell’oasi i nostri, inesperti de’ luoghi, avevano occupato in piccoli corpi un arruffio di linee, e la morte veniva senza che si sapesse se da mano nemica, o amica. Non era davvero l’epica guerra, era la guerra brutta in cui si moriva a freddo. Era sul tramonto, ma nell’oasi già imbruniva. Io mi portavo di linea in linea, [p. 218 modifica]finchè giunsi in un campo più fondo, più chiuso, più cupo degli altri. Nel mezzo c’era una palma. A piè del tronco c’era una corona di morti. Erano nostri. Pel campo stavano sparsi altri morti. Una fila di soldati stava sotto il ciglione dinanzi e guardava i suoi morti. Sul campo passava di momento in momento il rombo del cannone. Era il nostro cannone che batteva più in là sugli arabi per sloggiarli e distruggere le loro case da cui tiravano. Finalmente, quando parve che si potesse fare, si ordinò ai soldati di saltare il ciglione e di andare a raccogliere i morti dal campo. Fu fatto. I morti furon portati fra noi, deposti a terra. Era già quasi notte in quel fondo. All’ultima luce mi chinai su loro, cercai i loro lineamenti con amore fraterno. Su tutti quei volti, su tutti quei corpi già rigidi stava l’impronta della nascita: erano di campagna, la maggior parte certo figliuoli di contadini. Ebbene, penso a loro tutte le volte che voglio rappresentarmi soldati italiani morti per la Tripolitania senza saper perchè. Questa è la tavola a destra del dittico.

La tavola a sinistra è poi la seguente. Io partii da Tripoli in Dicembre e tornatovi nel Marzo trovai che la guerra vi s’era arrestata per tutti, tranne per certa masnadetta di tripolini per i quali invece assai lautamente [p. 219 modifica]profittava. Ma anzitutto i lettori debbono sapere che quei bravi tripolini due volte eran fuggiti dall’Ottobre al Marzo. La prima volta, avanti che s’accostassero le nostre navi, molto avanti, quando appena una nostra occupazione parve loro sul serio possibile, sebbene l’avessero tanto invocata allungando le braccia dalla riva verso l’Italia; sebbene ci avessero detto tante volte: — Che fate? Perchè non venite? — molto avanti di vedere il fumo delle nostre navi eran fuggiti per paura delle cannonate. Poi, una volta sbarcati gli italiani, passati il 23 e il 26 Ottobre, eran tornati quatti quatti dicendosi in cuor loro: — Ora possiamo stare tranquilli in mezzo ai nostri liberatori. — Ma ahimè, era scoppiato il colera, e quelli una seconda volta via per la seconda paura! A farla breve, anche il colera fu domato, quei bravi tripolini tornarono, eran facoltosi, pratici d’affari, dissero su una grossa fornitura di guerra, per certi cammelli che s’eran comprati allo scopo di far l’avanzata che poi non fu fatta, ebbero la fornitura e s’impinguarono. Credo che a pochi italiani la guerra abbia profittato tanto quanto a quella masnadetta tripolina due volte fuggita. E questa è la seconda tavola del dittico. Il quale si potrebbe intitolare: i due aspetti della guerra. Chi ne muore e chi ne fa suo pro. [p. 220 modifica]I soldati dettero tutto, la vita, e non ebbero nulla, nemmeno la sodisfazione di sapere perchè morivano. Quei tali tripolini ebbero più che poterono, denaro, e dettero meno che poterono fuggendo.

— Bravo!

Sento la voce di qualcuno, e sapete chi è, lettori?

È un uomo il quale da un anno strilla e aizza la gente contro la guerra, e ora mi grida bravo, perchè crede che io gli dia ragione, ma ha torto. A quest’uomo nel cui cerebro d’ogni parte del mondo vennero a scolare tutti gli ideali umanitarii sopra l’odio di classe come un olio su tizzoni ardenti; a quest’uomo (l’ho nominato, è il demagogo socialista), a quest’uomo ho fornito l’esempio tipico del suo argomento principe contro la guerra, ma l’ho fatto per distruggerglielo, quell’argomento, tra le mani e così lasciarlo a mani vuote.

In verità non si può accusare la guerra di Tripoli del parassitismo di quella tal masnadetta tripolina, come non si può accusare la pace di nessun parassitismo, perchè questa non è una proprietà né della pace, né della guerra, ma è una condizione universale della natura umana; e se qualcuno volesse portare altri esempii per provare lo sviluppo che la guerra dà a detta condizione, [p. 221 modifica]io che n’ho portato uno, altri ne porterei per provare lo sviluppo che a detta condizione dà la pace.

Piuttosto, lettori miei, un’altra è la verità terribile, anzi orribile. E una verità che tutti voi conosceste, e non ve ne accorgeste. Una verità che aveste dinanzi agli occhi, continuamente, da per tutto, e non la vedeste. Una verità che respiraste con l’aria, che diventò sangue del vostro sangue, carne della vostra carne, e non la sentiste più. E questa orribile verità è che tutti voi celebraste, che tutti noi in realtà celebrammo ciò che in apparenza ci scandalizzava: celebrammo il modo d’agire di quella masnadetta di Tripoli che s’impinguò sulla guerra, e che io portai per esempio. In altre parole, lettori miei, il parassitismo, sotto specie di commercialismo, era diventato il solo ideale della nostra società civile.

Intendiamoci subito: siccome non amo dire sciocchezze, così non condanno il commercio, e ripeto anzi quello che tutti affermano, che, cioè, non è possibile concepire una civiltà che non sia commerciale, non è possibile concepire una civiltà che non sia industriale, Tanto varrebbe quanto invidiare il benessere al focolare domestico. E noi vogliamo il benessere per gli individui, per le classi, per la città, per la nazione. [p. 222 modifica]Volendo la nazione potente, grande, gloriosa, sarebbe assurdo che non la volessimo anche prospera, sapendo che la prosperità è per le nazioni il periodo di preparazione al periodo della loro potenza, grandezza, gloria. Così è nella storia; e così nella natura umana, e non c’è individuo, non c’è popolo che alla sua prosperità non tenda d’istinto, e quindi, anche volendo, sarebbe vano contrastare. Noi vogliamo al contrario che sia prospero il popolo dei lavoratori, quanto può volerlo un socialista di buona volontà. Noi vogliamo che sia prospero tutto il popolo italiano, se non altro perchè sia il più possibile valido operaio della nazione per la grandezza della nazione. E perciò noi fra tutti gli argomenti che si portavano per spingere alia conquista di Tripoli, sostenemmo principalmente gli economici: espansione economica, emigrazione, dare al mezzogiorno d’Italia il suo hinterland nell’Affrica settentrionale. Oggi l’Italia è una nazione del mondo moderno e non può appartarsi dal mondo moderno. Condizione delle nazioni moderne è di essere prospere, e perciò l’Italia non può non essere prospera. Come dunque condanneremmo noi lo sviluppo dei commerci e delle industrie? Come condanneremmo queste condizioni delle società moderne? Vogliamo anzi che i commerci e le [p. 223 modifica]industrie abbiano il massimo sviluppo moderno. Vogliamo che la civiltà sia commerciale, che sia industriale. Ciò era addirittura superfluo premettere.

Ma aggiungerò di più. Si può anche ammettere che i commercianti abbiano il solo ideale del commercio, gli industriali il solo ideale dell’industria: i commercianti A, B, C, del solo loro rispettivo commercio A, B, C; gli industriali A, B, C, della sola loro rispettiva industria A, B, C. E forse è bene così. Che così essi possono fare il massimo utile loro e delle loro famiglie, è superfluo dimostrare; ma forse, agendo come semplici macchine di produzione, fanno anche il massimo utile della nazione. Perchè è probabile che il miglior modo di fare una data cosa sia di fare la data cosa senza pensare ad altro; il miglior modo di produrre ricchezza e la maggior ricchezza sia di produrla senza pensare ad altro. Siccome, come dissi ed era superfluo, la nazione ha bisogno che le si produca ricchezza, il miglior produttore di ricchezza è il miglior servitore della nazione. E per conseguenza il commerciante A senza altro ideale che lo sviluppo del suo commercio A, l’industriale B senza altro ideale che lo sviluppo della sua industria B, in quanto per questo sono ottimi produttori di ricchezza, possono diventare ottimi servitori [p. 224 modifica]della nazione senza saperlo. Sono ciechi esecutori d’un dovere nazionale. Ciechi egoisti, ma robusti organismi, e la storia insegna che le nazioni se ne irrobustiscono. Chi produce, dà.

Aggiungerò ancora. Quella stessa masnadetta di Tripoli di cui raccontai in principio le geste; se nel dittico da me esposto, avvicinata a bella posta ai soldati morti nell'oasi, fa una certa nausea, considerata in sè può essere anche perdonabile. Essa pensò semplicemente agli affari suoi. Mi ricordo che una volta, pur combattendo il socialismo, sostenni che esso faceva bene a fare quello che faceva, a essere, cioè, avvocato della causa dei lavoratori come sono gli avvocati di tutte le cause: la causa avanti, e il resto in malora. Posto tra la nazione e la lotta di classe, il socialismo faceva bene a sopprimere la nazione e a volere soltanto che a prezzo di tutto la classe vincesse la sua lotta. Era così un partito tutto d’un pezzo e soltanto così essendo, poteva avere forza: forza per la classe, ed è superfluo dimostrarlo, ma altresì per la nazione contro la quale combatteva, nè dimostrarlo è difficile; perchè se n’era da un lato una debolezza, in quanto la combatteva e mirava a sopprimerla e in quanto suscitava e fomentava la divisione e l’odio tra le classi, n’era [p. 225 modifica]da un altro lato, come dissi, forza, in quanto combattendola la costringeva a combattere, e costringeva a combattere le classi, e una ne temprava, la sua, e le temprava tutte. Non è difficile dimostrare che la borghesia uscì migliorata dalla lotta di classe; e potremmo citare più d’un’industria che n’uscì più energica, più d’una regione che n’uscì più laboriosa; e in quanto alla stessa nazione, avrebbe molta attrattiva enumerare i varii elementi nuovi, uomini e cose, che portarono alla conquista di Tripoli, a questa brigantesca avventura nazionalista, e vedere, come si potrebbe vedere, in che modo non pochi di essi furono la naturale e salutare reazione, economica e morale, di ragionamento e d’istinto, contro il socialismo internazionalmente pio, nazionalmente empio, e nemico delle avventure quanto i pedanti tra gli uomini e le ostriche tra gli animali. Nulla è del tutto cattivo, come nulla è del tutto buono. E il socialismo fu per lo meno buono per la reazione, diciamo pure per il disgusto, che finalmente suscitò. Fu buono non tanto in sè quanto per il suo metodo, la lotta la quale, non meno del parassitismo, è condizione universale di vita. Tornando adunque a noi la conclusione è questa: ciascuno al compito suo, il socialismo alla lotta di classe, i commercianti e gli [p. 226 modifica]industriali alle industrie ed ai commerci, senza occuparsi d’altro che potrebbe essere un deviamento, o d’attività, o di coscienza, e quindi una debilitazione. Il male non è qui.

Il male non è qui. L’orribile male è quello che già denunziai, o lettori: il materialismo economico era diventato il solo ideale della nostra società civile. Esposi il dittico della guerra, esporrò la sola tavola della pace col mostro a due teste, Proletariato e Plutocrazia. Questi due avversarii, Plutocrazia e Proletariato, sono il mostro a due teste, distruttore della civiltà moderna. Sono il mostro a due teste che tutti i valori morali aveva divorati.

In parole più semplici, s’era costituito un buon senso che s’ispirava solo al materialismo economico, ed era il buon senso generale d’ogni ordine di persone, di tutte le classi, di tutte le professioni e condizioni: vale a dire, chi non aveva il solo ideale del materialismo economico, andava contro il buon senso, e se era un uomo di cultura, se scriveva, se esprimeva concetti che uscissero dal materialismo economico, o peggio, tentassero di superarlo, per questo solo fatto si tacciava di letterato, intendendosi per letterato un uomo altrettanto pieno di chiacchiere, quanto vuoto di serietà. Tutti i valori umani dovevano passare sotto le [p. 227 modifica]forche caudine del materialismo economico. E ciascuno di noi può avere conosciuto persone le quali per il loro ufficio, perchè insegnanti, per esempio, avrebbero dovuto avere più sviluppata la coscienza dei valori morali; eppure, anch’esse, quando scrivevano, scrivevano tutto riportando al materialismo economico e chiamavano letterato chiunque facesse altrimenti. La poveretta Italia aspirava all’ideale germanico di rapida espansione industriale e commerciale; e se c’era un sovrano che più degli altri sembrasse degno, nei discorsi della gente, di tutta la gente seria, ripeto, sembrasse degno di essere sovrano, era l’imperatore tedesco, perchè, si diceva, s’era fatto primo commesso viaggiatore delle fabbriche tedesche. Esatto o non esatto, poco importa; l’importante è che pareva il sovrano ideale, perchè serviva il solo ideale delle teste quadre: il materialismo economico. È superfluo esemplificare ancora. Certamente i commessi viaggiatori erano i portatori di tutti i nostri ideali nelle loro valigette di cuoio. Il mostro a due teste, il mostro delle due tirannidi, la tirannide del Proletariato e la tirannide della Plutocrazia internazionale, ebbe soggetta tutta la politica delle nazioni; fu soggetta la politica interna alla tirannide del Proletariato, fu soggetta la politica estera alla tirannide della [p. 228 modifica]Plutocrazia internazionale. Mentre all’interno gli stati erano stretti fra gli istituti socialisti di spogliazione sociale, all’estero erano costretti a seguire il movimento del capitale internazionale che s’investiva in imprese di sfruttamento internazionale. Noi, per esempio, saggiammo, mercè la nostra guerra, gli interessi turchi del capitale europeo che ci si rivoltarono contro come tante vipere pestate; saggiammo anche l’ostilità dell’Europa e ci accorgemmo che tale ostilità proveniva non tanto da ragioni nazionali di ciascuna potenza, perchè, cioè, noi diminuissimo d’un territorio la futura spartizione dell’impero turco: quanto da ragioni plutocratiche, perchè, cioè, ogni potenza doveva dar man forte agli interessi turchi de’ suoi capitalisti, eretti contro di noi. E in casa noi avevamo nemici i socialisti. Concludendo, politica socialista dentro, politica plutocratica fuori. E abbiamo una repubblica mostruosa che è campione del genere socialista-plutocratico: la Repubblica Francese. Così era, nè v’era altra luce, non per la politica, e oso aggiungere neppur per le anime. E questo era il male orribile. Nella vita privata era giudicato un modello di uomo, di cittadino, di padre di famiglia la macchina umana a guadagno continuo e a continuo accumulamento. S’alza, esce, va ai [p. 229 modifica]suoi affari, allo studio, allo scrittoio, non si occupa se non d’affari, non vede se non gente d’affari, non considera il succedersi delle ore se non come un inseguirsi d'affari. E accumula, accumula, accumula. Passano gli anni, gli affari si sono accresciuti spaventosamente, i guadagni anche. Chi ha più occhi per vedere che c’è anche qualcos’altro nel mondo, che c’è la luce del cielo? Chi ha più orecchi per sentire che nella lingua parlata dagli uomini c’è anche qualche altra parola oltre quelle che significano affari e denari? Qualcosa giunge ormai fin sopra gli occhi ed è l’accumulamento. La macchina va vertiginosamente verso la sua morte. È sepolta nell’accumulamento. Così era nella vita privata e nella pubblica, nella vita nazionale e nell’internazionale, nella stessa cultura quanto nelle industrie e nei commerci. Ultimamente Francesco Coppola in un suo articolo della Tribuna trascriveva da un manuale scolastico, adottato come testo nelle pubbliche scuole del regno, il seguente brano in cui il concetto eterno di quella sovrana creazione di tante età, di tante vicende, di tanti sforzi di così infinito numero di viventi, di tanti valori di ogni sorta che si chiama patria, veniva trasformato nel concetto contemporaneo della macchinetta produttrice della solita pubblica [p. 230 modifica]utilità, un facsimile della dispensa gratuita del pane cotidiano. «Come i figli amano la loro madre, i cittadini amano la patria. Ma la madre ricambia i figli dell’amore loro tutelandoli, facendo per essi tutto quanto le permettono le sue forze, sacrificandosi magari per loro. Possiamo dire ora che altrettante cure premurose abbia la patria per tutti i suoi figli indistintamente? Purtroppo, no. Per molti, per moltissimi la patria è matrigna. Non a tutti offre i mezzi di sussistenza, non a tutti l’istruzione, non a tutti il benessere morale ed economico. Ci sono nella patria, purtroppo, i figli prediletti ed i figli dimenticati. È doloroso!» E continuando il medesimo scrittore trascriveva anche quest’altro brano del medesimo manuale scolastico in cui le valutazioni del buon senso contemporaneo, pel tramite della solidarietà umana e del pacifismo, venivano applicate a tutto il corpus delle nazioni riunite fra loro in una sorta d’immensa cooperativa per il bene economico d’ogni singolo cittadino: «Ma non soltanto è bella la solidarietà umana: è ancora utile. Fino ai nostri tempi la società umana fu più o meno travagliata dalle guerre tra popoli e popoli; il sangue venne sparso a torrenti, si consumarono ricchezze incalcolabili. Anche al giorno d’oggi la sola [p. 231 modifica]Europa spende annualmente migliaia di milioni di lire per tenere in armi centinaia di migliaia di soldati. Perchè? Perchè ciascun popolo teme di essere aggredito dagli altri. Ora considerate quanto benessere deriverebbe all’Europa se tutti quei milioni potessero invece venire spesi in cose utili per i cittadini. Quale vantaggio se ne ricaverebbe! E non solo. Ma quale vantaggio ancor maggiore si avrebbe, se tutti quegli uomini, invece di esercitarsi nelle armi, potessero darsi ad un lavoro proficuo, quale quello dell’agricoltura, dell’industria!... Voi osserverete forse: ma se nasce poi una questione fra popolo e popolo, come è possibile evitare la guerra? Ecco che allora la solidarietà si spezza, e l’odio e la guerra scoppiano furiosamente. Non per nulla è vero tutto ciò. O che forse, quando nasce una questione fra persone ben educate, per sostenere le proprie ragioni si ricorre al coltello o alla rivoltella? Non è vero che in tal caso si suole portare la questione davanti a un tribunale? Ebbene, così pure dovrà essere fra popolo e popolo: e una specie di tribunale, detto perciò internazionale, è sorto.... Oh! venga presto il giorno in cui la guerra non sia più che un triste ricordo di passate barbarie....» Lo stesso concetto in cui si teneva il lavoro, [p. 232 modifica]che è pure santo, che è per lo meno necessario, aveva esagerato il valore del produrre e dell’accumulare. E questo era indubbiamente, lettori miei, l’orribile male.

Perchè una luce ci deve essere, un più ci deve essere. Ci debbono essere, ripeto, il commercio, l’industria, la plutocrazia, il socialismo, la prosperità degli individui, delle classi, delle città, delle nazioni; ci debbono essere il lavoro, gli affari, la produzione e l’accumulamento, e guai se non ci fossero! Ci deve essere innumerevole gente che altro non sia se non macchine di produzione e d’accumulamento. Deve essere l’ideale del materialismo economico. Deve essere la grande civiltà moderna, industriale e commerciale. Ma un più ci deve essere che superi, come appunto il combustibile è superato dalla fiamma e dalla luce. Una civiltà può essere grandemente industriale e commerciale, non può essere soltanto industriale e commerciale. La luce d’ogni civiltà, come d’ogni uomo, è lo spirito, e questo è il più. Ci deve essere qualcosa che porti in alto questo più, questa luce: i valori morali sopra i valori economici. Prima non c’era, ora sì.

La guerra bisogna che riapparisca perchè sia riconosciuta; perchè quando non c’è, essendo bollata dalla calunnia dei pacifisti e degli umanitarii, e ripetendo i commercianti [p. 233 modifica]che è un male, in quanto temono che sia un male per i loro traffici; quando non c’è, sembra a tutti orribile. Ma allorché riapparisce, allorché una guerra scoppia, allora assistiamo allo spettacolo a cui quest’anno abbiamo assistito noi italiani: il popolo si leva in esultanza, come uno a cui all’improvviso si sia rinnovata la vita. Che cosa davvero è accaduto? È accaduto che proprio una nuova corrente di vita ha attraversato il popolo; questo, d’istinto ha sentito la forza rinnovatrice che è nella guerra. Noi non possiamo sparlare della pace, come i pacifisti sparlano della guerra, e sappiamo che se fosse possibile concepire il mondo senza pace, dovremmo allora concepirlo senza società umana. La pace è la forza organante del mondo e conservativa. Ma, aggiungiamo noi, la guerra, sia nella sua forma interna di rivoluzione, sia nella sua forma di guerra internazionale, è la forza rinnovatrice. E tutte e due queste forze coagiscono in modo che fa profondamente ripensare al disegno d’una Provvidenza. Il mondo continua, perchè si rinnuova. La specie umana continua, perchè si rinnuova, e l’individuo continua, perchè si rinnuova. Tutto ciò insomma che vive, continua a vivere perchè si rinnuova. Vale a dire, tutto ciò che vive, tende a morire, a corrompersi, e si [p. 234 modifica]riprende per una forza che lo rinnuova. Così è degli organismi fisici, così è degli organismi sociali.

La guerra, nella sua forma di guerra, di rivoluzione, di spogliazione della proprietà privata, è la forza che rinnuova gli organismi sociali che attraverso il periodo organante e il periodo conservativo della pace tendono a morire e a corrompersi, e quindi sempre più usurpano i territorii che occupano. Li usurpano, perchè la relazione fra un popolo e il suo territorio deve essere etica dinanzi alla specie, deve essere una relazione di produzione, la quale produzione è la suprema etica della specie. La guerra di conquista, la peggiore secondo gli sciocchi, rinnuova i territorii in quanto ne caccia i popoli che secondo l’etica della specie li usurpano, e vi stabilisce i popoli produttori. Così la nostra guerra rinnuova la Tripolitania. Così la Francia non avrebbe continuato, se la rivoluzione, avvento di barbari interni, non l’avesse rinnovata distruggendo una classe, portandone al potere un’altra. Talchè è manifesto che la guerra che per gli sciocchi è quel mostro distruttore che tutti sanno, perchè distrugge gli individui; è manifesto che la guerra è al contrario, nel disegno d’un ordine superiore, un mezzo di conservazione. La pace, forza organante e [p. 235 modifica]conservativa, e la guerra, forza rinnovatrice, coagiscono, ripeto, a conservare e continuare ciò che deve essere conservato e continuato. L’una opera nel modo che dall’altra è fatto necessario. E tutte e due compongono il ritmo ferreo della pace e della guerra che fa il verso della vita. Meglio si vede nella formazione degli imperi che sono prodotto della guerra e della pace. La Tripolitania tendeva a morire, la nostra guerra la rinnuova. Ma con la guerra di conquista noi tendiamo alla pace, perchè questo è il ritmo; tendiamo, cioè, a organare e conservare ciò che abbiamo conquistato. Ma già nell’organare c’è bisogno di minore sforzo che nel guerreggiare, e nel conservare di minore ancora. E le forze, quando possono, tendono a risparmiarsi, si rallentano e rallentandosi si debilitano; tendono insomma anch’esse a morire; ed ecco di nuovo la necessità della guerra. Il nostro impero sarà conquistato, organato, conservato, e così tenderà a morire, e allora converrà che altri ci cacci, come furono cacciati i nostri padri romani. Ma lo spirito di ciò che fecero i nostri padri, e di ciò che fecero i greci, dura, tramandato in noi. Così qualcosa è chiesto a noi che non sappiamo; non sappiamo ancora, ma è chiesto a gran voce da umanità non nate. [p. 236 modifica]

Anche quando è solo in potenza, la guerra agisce come forza rinnovatrice. Alcuni scrittori francesi hanno osservato qualcosa di simile rispetto all’idea della rivincita in Francia. Charles Maurras scrive: «La passione della Rivincita faceva in quei tempi nell’interno della nostra Francia una parte tutta sua: serviva di legame per l’unità francese. Questa cosa bella accadde, per un periodo breve e perciò tanto più prezioso, questa cosa bella: che un popolo fu governato da un’idea. La quale fu veramente una regina di Francia; ed alla sua reggenza si doveva la disciplina dei nostri soldati, si doveva il lavoro dei nostri ufficiali. Si doveva l’esistenza stessa del nostro esercito. E si deve ancora all’idea della Rivincita, se il partito repubblicano è andato un po’ più a rilento nell’eseguire le sue distruzioni, anche quelle che reputava più necessarie. Che carta ci aveva messo in mano il destino! Noi avremmo dovuto far di tutto per tenerla, e avremmo dovuto affidarne ad un ufficio pubblico la tutela. Stato, famiglia, individui, tutti avremmo dovuto gareggiare di attenzione e di vigilanza per conservare quell’idea che era forza». Sto in questi giorni leggendo un volume francese intitolato La crise française, nel quale si espongono appunto le condizioni di disorganamento politico, [p. 237 modifica]amministrativo, militare, morale, pubblico e privato in cui si trova la Francia. Ebbene, ogni poco nelle pagine dello scrittore francese fa la sua apparizione la Germania, come nazione antagonista che si trova in condizioni opposte a quelle in cui si trova la Francia. Ora lo scrittore semplicemente nota: — Le cose in Francia vanno così e così, mentre purtroppo in Germania vanno così e così — e la semplice nota è già, nel libro, un principio d’educazione nazionale per i lettori francesi; ora lo scrittore racconta come se le cose in Francia, nell’esercito, per esempio, non vanno anche peggio, si debba alla paura che si ha della Germania. In tal modo la guerra in potenza agisce in Francia, per quanto oggi può, come forza rinnovatrice, se non altro in quanto è una remora a un maggior disorganamento nazionale.

Essendo la guerra il massimo sforzo, esprime i massimi valori, i valori guerreschi, più energici e generosi di quelli che si possono chiamare i valori mercantili; e fra i valori guerreschi si ritrovano molti dei supremi valori morali. L’amor di patria, per esempio, che la guerra, se non crea, rinnuova, è un supremo valore morale.

La guerra è il massimo sforzo per l’uomo, se non altro perchè è lo sforzo di dare la [p. 238 modifica]vita; ed è fatto per cosa che da lui è lontana, per esempio, per la grandezza avvenire della nazione. Così soltanto, col massimo sforzo che ha per oggetto ciò che è lontano, l’uomo superando il suo avaro egoismo, riesce a dare il massimo rendimento. Egli, per così dire, si vuota tutto quanto di se medesimo per riempirne l’avvenire altrui.

Circa la morale di tanta efficacia pratica possiamo aggiungere questo. La guerra costringe l’uomo al massimo sacrifizio, morire, e per cosa che da lui è lontana: noi dicevamo la grandezza nazionale futura. In tale distanza tra il sacrifizio e l’oggetto nascono valori spirituali di sovrana bellezza che si convertono in valori morali sovrani i quali alla loro volta creano. Il soldato che muore per la patria, offre alle future generazioni del suo stesso sangue la sua propria vita convertita in seme di bene; e così dal momento in cui combatte e muore, sino a mille anni dopo, agisce praticamente; e al tempo stesso il suo sacrifizio attirando gli animi con la sua bellezza, si fa lungo tutto il millennio forza di esempio morale che crea l’imitazione.

Io voglio soltanto far considerare ai lettori il fatto delle cinque nostre torpediniere che nel Giugno scorso passarono i Dardanelli per andare a trovare l’armata turca e silurarla. Perchè i cinque comandanti e i [p. 239 modifica]cinque equipaggi andarono sì leggeri con quella loro divina spensieratezza a morire, saranno sì potenti a creare lontano, nè se avessero distrutte dieci armate turche, avrebbero fatto alla patria dono più bello e più fecondo di quello che le fecero col loro volere. Di generazione in generazione andranno attraverso i secoli e i millenni, come andarono in quella notte nel profondo stretto, silenziosi sotto il fragore di tanti cannoni, tenebrosi dentro tanti fasci di luce che li accecavano. Indarno toneranno i cannoni, indarno li accecheranno i fasci di luce; fatti del solo volere i sensi, andranno avanti; romperanno i cavi e andranno avanti. Andranno nella storia, come sono andate nella cronaca di questi giorni, quelle cinque torpediniere in riga, per quel mare, quella notte, e poi andranno nella poesia, e poi andranno nella leggenda, via via per un tempo in cui il nostro occhio non vede fine. La loro navigazione d’un’ora sarà senza fine. E senza fine creerà la virtù. Come l’aurora le opere dell’uomo, così la squadriglia di quella notte nell’avvenire della nostra patria creerà la virtù. Diranno a molti quei cinque: — Svegliati, fratello, che è l’ora! — E molti si sveglieranno eroi.

FINE.