Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro I/Capo II

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CAPO SECONDO.

Conquista delle Sicilie dall’infante Carlo Borbone.

XIX. Carlo nacque di Filippo V e di Elisabetta Farnese, l’anno 1716, nella reggia di Spagna fortunata e superba, in secolo di guerre e di conquiste. Primo nato ma di nozze seconde, non avea regno. L’altiera genitrice che mal pativa la minor fortuna de’ figli suoi, potente per ingegno sopra lo stato ed il re, ardita nelle sventure, pieghevole alla mala sorte, ottenne al suo infante per pronte guerre ed opportune paci la ducal corona di Toscana e di Parma. E nel 1733, a motivo o pretesto di dare un re alla Polonia, sollevate le speranze di lei, mosse gli eserciti e le armate per conquistar le Sicilie. Il giovine Carlo godeva in Parma i piaceri di regno, quando lettere patenti di Filippo, segrete della regina, lo avvisarono di nuovi disegni, e de’ nuovi mezzi potenti di successo. La Spagna, la Francia, il re di Sardegna erano collegati contro l’Impero: poderoso esercito francese, retto da Bervik, passava il Reno; altri Franco-Sardi sotto Villars scendevano in Lombardia: fanti spagnuoli sbarcavano in Genova, e cavalieri e cavalli andavano per terra ad Antibo; forte armata e numerosa dominava i mari dell’Italia: le forze spagnuole sarebbero dirette dal conte di Montemar, ma, per fama e dignità del nome, sotto il supremo impero dell’infante don Carlo. Erano speranze di quella impresa vincere i cesarei oltre il Reno, cacciarli di Lombardia, conquistar le Sicilie: «Le quali, alzate a regno libero (scriveva la madre al figlio) saran tue. Va dunque, e vinci: la più bella corona d’Italia ti attende.»

Era Carlo in quella età (17 anni) che più possono le ambizioni [p. 36 modifica]innocenti; figlio di re proclive alla guerra e di regina inisaziabile d’imperii e di grandezze, avido di maggior signoria che i ducati di Toscana e di Parma, ajutato all’impresa ma copertamente da papa Clemente XII, non dubitava delle sue ragioni sopra le Sicilie per lo antico dominio de’ re di Spagna, e ’l più recente del padre; impietosiva de’ popoli siciliani, che nella reggia di Filippo si dicevano più del vero travagliati dal governo di Cesare, Perciò ragioni, religione, pietà, proprio interesse, lo spingevano a quella impresa. Il buono ingegno, ch’ebbe nascendo, gli era stato tarpato dagli errori lella corte: aveva per natura cuor buono, senno maggiore della età, sentimento di giustizia è di carità verso i soggetti, temperanza, desiderio di grandezza, cortesia nei discorsi: piacevole di viso, robusto e grande di persona, inclinato agli esercizii di forza ed alle arti della milizia.

XX. Mentre le sehiere spagnuole si adunavano ne’ campi di Siena e di Arezzo, ed il navilio di Spagna trasportava soldati, cavalli, artiglierie, l’Infante convocò in Parma i generali più ilustri per fermare i consigli alla spedizione di Napoli. Poscia, nominata una reggenza, e promulgate le ordinanze per buon governo di quegli stati, si partì secondato da’ voti del popolo e da tutte Je specie della felicità. Rivide Firenze, visitò il cadente ed ultimo gran duca mediceo Gian Gastone, traversò Siena ed Arezzo, rassegnò in Perugia, nel marzo di quell’anno 1734, tutte le forze che gli obbedivano; sedicimila fanti e cinquemila cavalieri, genti de’ regni della Spagna, d’Italia e di Francia, le reggeva in guerra Montemar; e militavano, fra i più chiari, un duca di Bervik del sangue de’ re Britanni, il conte di Marsillac francese, molti grandi della Spagna, e ’l duca d’Eboli, il principe Caracciolo Torella, don Niccolò di Sangro, napoletani. L’infante don Carlo in quella rassegna, seduto, intorno era circondato di numerosa corte, splendida per ricche vesti ed insegne: vi si notavano il conte di Santo-Stefano già precettore, ora consigliero dell’Infante, il principe Corsini nipote al papa, il conte di Charny di sangue regio, cento altri, almeno, duchi e baroni: e fra loro, con semplice vestimento e modestia toscana, Bernardo Tanucci, l’anno innanzi avvocato in Pisa e professore di giuspubblico, ingraziatosi a Carlo per la eccellenza nelle arti sue, nominato auditore dell’esercito spagnuolo, e negli affari civili di regno consigliero gradito. I suoi futuri successi mi traggono a dire ch’egli nacque in Stia, piccola terra del Casentino, da poveri genitori, l’anno 1698; dotato d’ingegno da natura e dagli studii accresciuto, libero pensatore de tempi suoi, quando era libertà contrastare alle pretensioni papali. Così egli in Pisa; e quale poi fosse in Napoli, sollevato a primo dei ministri di Carlo dirò a suo luogo.

Dopo la rassegna di Perugia, l’esercito mandato verso Napoli fu [p. 37 modifica]negli stati pontificii accolto, mantenuto ed onorato: legati del papa lo precedevano, altri stavano nè campi, altri presso di Carlo: ma la corte romana, sebbene închinasse alle felicità di Spagna, conoscendo le mutabilità della sorte, velava que’ favori co’ ministri di Cesare. L’istesso Montemar sospettando che squadre imperiali venissero improvvise dietro alle sue colonne, fermò retroguardo fortissimo, e procedeva in tale ordinanza da volgere sopra ogni fronte le maggiori sue forze.

XXI. AI grido che l’esercito di Spagna si avanzava contro Napoli, le nuove speranze del popolo, i timori de’ ministri di Cesare, gli apparati, le provvidenze agitarono il regno. Era vicerè Giulio Visconti, e comandava le milizie il conte Traun; i quali non potendo dissimulare il pericolo, sperarono di attenuarne gli effetti, palesandolo: il vicerè con editto bandi la guerra; e convocando nella reggia gli eletti delle piazze, rivelò del nemico le speranze, i mezzi, il disegno; quindi il disegno, i mezzi, le speranze proprie; le fortezze munite, i presidii poderosi, le schiere attese da Sicilia, schiere maggiori da Alemagna, un esercito di venti mila imperiali guidati dall’animoso maresciallo Merey alle spalle dell’oste spagnuola, l’amore de popoli per Cesare, gli ajuti divini per giusta causa: e poi pregava gli eletti operassero col governo, accrescendo l’annona, mantenendo fida la plebe, pagando al fisco il promesso donativo di ducati seicento mila. Furono le risposte umili, confidenti; e, come è costume de’ rappresentanti di popolo scontento, promettitrici ne’ pericoli presenti di soccorsi lontani.

Altro consiglio convocò il vicerè per la guerra. Differivano le opinioni del conte Traun e del generale Caraffa, Napoletano agli stipendi di Cesare. Voleva il Traun spartire le milizie nelle fortezze, obbligare il nemico a molti assedii, e contrastando per parti di esercito e per luoghi divisi, allungare la guerra e aspettare gli ajuti di Alemagna. Voleva più animosamente il Caraffa menomare i presidii di Pescara, Capua, Gaeta, Santelmo; vuotare ed abbattere le altre fortezze o castelli, comporre esercito che bastasse a fronteggiare il nemico, ed aspettare il tempo de soccorsi volteggiando all’aperto e scansando le diffinitive battaglie, se non quando per argomenti di guerra fosse certa la vittoria. Vinse il parere del Traun: presidiate copiosamente le fortezze, i castelli alzato campo forte per trinciere e batterie nelle strette di Mignano, pregato a Cesare di sollecitare i soccorsi. Venticinquemila Tedeschi nelle due Sicilie si spicciolarono contro all’esercito unito di Carlo, men poderoso per numero, e senza gli ajuti de’ luoghi e de’ munimenti.

Nel tempo stesso il vicerè mandò vicarii nelle province per levar gente d’armi, accumular denari e vettovaglie, provvedere alla difesa del regno facendo guerra in ogni città o borgo: furono vicarii i [p. 38 modifica]primi tra i nobili. Compose oltracciò la guardia civile nella città capo, e nelle maggiori del reame; formò un reggimento di Napoletani volontarii o ingaggiati per cura e spese del duca di Monteleone Pignatelli; e alla fine chiamando alla milizia i prigioni e i fuggiaschi rei di delitti, pose le armi in mano a’ regnicoli o buoni o tristi.

Continua presunzione delle tirannidi! volere i soggetti, schiavi a servirle, eroi a difenderle; scordando che la natura eterna delle cose, presto o tardi, nella persona o nella discendenza, a prezzo di dominii o di sangue, fa scontare a’ tiranni le praticate crudeltà sopra i popoli.

Le cose fin qui comandate dal Visconti erano inopportune o non bastevoli, ma oneste: seguirono le peggiori. Alcuni tra nobili, che ne’ consigli avevano parlato liberamente a pro dello stato, furono per suo volere, senza giudizio, senza esame, come ad innocenti si usa, confinati nella Germania: molto denaro privato deposto ne’ banchi o ne tribunali per liti civili, fu incamerato dal fisco: la città, minacciata, sborsò ducati centocinquantamila. E fra tante violenze pubbliche riuscivano più odiose le cortesie agli ecclesiastici: pregati a soccorrere il governo, chi poco diede, chi tutto negò senza patir forza o rimprovero. La viceregina, ed era inferma, si partì con la famiglia cercando ricovero in Roma. Gli archivii della monarchia furono mandati per sicurezza in Gaeta e Terracina. Il vicerè, egli stesso, faceva segreti apparecchi di lasciar la città. Fra tante sollecitudini passavano i giorni.

XXII. L’esercito spagnuolo procedendo traversò gli stati di Roma senza che l’Infante entrasse in città, pregato dal pontefice ad evitargli contese cogli ambasciatori di Cesare: e per la via di Valmontone e Frosinone toccava quasi la frontiera del regno, Ma prima ch’ei giungesse, altre armi sue posero il piede nelle terre di Napoli. Il conte Clavico ammiraglio dell’armata spagnuola, salpata da’ porti di Longone e di Livorno, arrivò con mostra potentissima di navi avanti alle isole di Procida e d’Ischia le quali si arresero; però che poco innanzi, per provvido consiglio del governo, erano state quelle isole, impossibili a difendere, sguarnite di presidii. Gl’isolani, accolto lietamente il vincitore, giurarono fedeltà all’Infante. Le navi spagnuole, scorrendo e combattendo lungo i lidi della città, accrebbero, secondo il variar delle parti, le speranze o i timori.

Cominciando le pratiche fra i Napoletani e gli uffiziali di quelle navi, si sparsero in gran copia nella città gli editti di Filippo V e di Carlo. Diceva Filippo aver prefissa la impresa delle Sicilie per amore de’ popoli oppressi dalla durezza ed avarizia tedesca; ricordare gli antichi festevoli accoglimenti; credere (fra le contrarie apparenze o le necessità del governarsi) stabile a lui la fedeltà de soggetti, e, se mutata, perdonare i falli e i tradimenti, confermare i [p. 39 modifica]privilegi alla città ed al reame, promettere d’ingrandirli; abolire le gravezze del governo tedesco, scemar le altre; reggere lo stato da padre; sperare ne’ popoli ubbidienza ed amore di figli. Nelle promesse di Filippo giurava Carlo, e soggiungeva che le discipline ecclesiastiche durerebbero con le stesse buone regole di governo, e che nessun altro tribunale sarebbe stato aggiunto a’ presenti. Così svaniva i sospetti dell’abborrita inquisizione, e secondava gl’interessi della numerosa classe de’ curiali. L’editto di Filippo era del 7 di febbrajo dal Pardo; quello del figlio del 14 di marzo da Civita-Castellana.

L’esercito spagnuolo, passata senza contrasto la frontiera del Liri, stette un giorno ad Aquino, tre a san Germano. Gli Alemanni, fermate le idee della guerra, attendevano alle sole fortezze o castelli, accrescendone le armi, le vettovaglie, i presidii: il conte Traun con cinquemila soldati teneva le trinciere di Mignano: il vieerè, tirando dallo stato nuovi denari, aspettava con tormentosa pazienza gli avvenimenti futuri. Quello che seguì nella notte del 30 di marzo accelerò la fortuna dell’esercito spagnuolo, i precipizii dell’altro. Montanari di Sesto, piccola terra, esperti delle foreste soprastanti a Mignano, offrirono al duca d’Eboli, capo di quattromila Spagnuoli, di condurli sicuri e inosservati al fianco ed alle spalle delle linee tedesche. Accettata l’offerta, promesse le mercedi, minacciate le pene, grudilero gli Spagnuoli al disegnato luogo; e ne avvisarono il conte di Montemar, acciò ad ora prestabilita fosse assalito il campo nemico alla fronte, al fianco, alle spalle: il cannone di Montemar darebbe segno di muovere al duca d’Eboli. Ma una vedetta di Alemanni scoprendo quelle genti, nunzia frettolosa riferì al Traun i luoghi, i campi e il numero dei nemici maggiore del vero. Il generale tedesco che credeva inaccessibili que’ monti, ora, per nuovi esploratori, accertato delle narrate cose, disfece il campo, chiodò le gravi artiglierie, bruciò i carretti, e nella notte trasse le schiere dentro la fortezza di Capua, abbandonando, ne’ disordini del fuggire, altri cannoni, bagagli ed attrezzi che furono preda del duca d’Eboli, il quale ai primi albori, viste le trincee deserte, discese dal colle e mandò al duce supremo il lieto avviso. Al vedere il conte Traun fortiticarsi a Mignano senza rendere impenetrabili le soprastanti foreste, e lasciar libera la via degli Abruzzi per Venafro, poco guardata Sessa, nulla Mondragone: e nell’opposta parte al vedere il conte Montemar trasandare le quattro facili strade e disporre l’esercito ad assaltare la fronte del campo, convien dire che il nome di buon capitano era più facile ne’ tempi addietro che ne’ presenti.

Divolgate in Napoli ed accresciute dalla fama e dall’amor di parte le venture di Mignano, e rassicurata la insolenza plebea, [p. 40 modifica]stando l’armata spagnuola sempre a mostra della città, e le piazze delle navi piene di soldati e d’insegne, il vicerè, conoscendo ch’era pericolo il più restare, si partì al declinare del giorno 3 di aprile con gli Alemanni suoi, e soldati ministri; da fuggitivi però, che senza i consueti onori e senza editto, per le vie meno popolose della città, verso Avellino, e di là verso Puglia. Alla città senza capo e senza difesa provvidero i magistrati e le milizie civili.

XXIII. L’Infante. dopo sei giornate di cammino, pervenne a Maddaloni con tardità ch’era consiglio per dare alla fama spazio di pubblicare la buona disciplina dell’esercito, le liberalità del nuovo principe. La regina Elisabetta, ricca dei freschi tesori venuti dal Messico, ne aveva data parte all’Infante per l’acquisto di Napoli: ed egli, magnifico, gli spargeva largamente nei popoli: pagava le vettovaglie, faceva doni, limosine, benignità frequenti; e, come usava quel tempo, dava spesso a gettare nella moltitudine monete a pugni. Entrando nella città di Maddaloni fu incontrato da numeroso drappello di nobili napoletani, concorsi a fargli guardia di onore. Sopraggiunsero gli Eletti di Napoli, deputati a presentare le chiavi, sperargli felicità, promettere fede ed obbedienza: conchiudendo l’aringa col dimandare confermazione de’ privilegi della città. Carlo, in idioma spagnuolo, per sè e per il padre re delle Spagne, li confermò. Non poco diversi da’ presenti erano que tempi: oggi a signor nuovo si chiederebbe leggi, giustizia, eguaglianza civile; il nome di privilegio faria spavento, la primazia di una città o di un ceto produrrebbe tumulti: la storia che scrivo spiegherà le cagioni de’ mutati desiderii. L’Infante nel resto del giorno, in presenza del popolo, attese ad uccidere colombi che nelle torri del magnifico ducal palagio nidificavano: come in Alife e in san Germano passò giorni alla caccia; non potendo le sollecitudini della guerra, o le cure di regno distorlo da quei passionato diletto, il quale, invecchiato, gl’indurò il cuore, macchiò parecchie fiate le virtù di buon principe, e pur talvolta lo espose a pericolo della vita.

Il dì seguente, 10 di aprile, trasferì le stanze da Maddaloni ad Aversa, e per consiglio provvide alla guerra ed al regno. Fece suo luogotenente il conte di Charny per gli ordini civili della città e delle province; volle che i tribunali, per le agitazioni della guerra inoperosi, tornassero alle cure della giustizia. Mandò con sei mila soldati il conte Marsillac ad occupar la città, disbarcare le artiglierie per gli assedii, assediare Baja e tre forti della città, stando il quarto (il Carmine) senza presidio, a porte schiuse. Altre squadre accampò nelle pianure di Sessa per impedire a’ presidii di Capua e Gaeta di comunicare insieme e, correndo il paese, vettovagliarsi, E finalmente mosse contro le Puglie la scelta dell’esercito a combattere il vicerè, che avendo unite alle proprie schiere quelle del generale [p. 41 modifica]Caraffa e del principe Pignatelli, ed altre venute da Sicilia, altre da Trieste, campeggiava le province con otto mila soldati. Ma il duca d’Eboli, capo degli Spagnuoli, procedeva lentamente per aspettare la espugnazione de’ castelli della città, e così, minorati gl’impacci, aver pronte allure squadre ai suoi bisogni.

Il forte di Baja, dopo breve assedio aperta la breccia, si arrese il 23 di aprile; il castello Santelmo il 25; il castello dell’Ovo il 2 di maggio: il Nuovo (sol perehè gli assalitori nel mezzo dell’assedio, mutata idea, investirono altra fronte) resistè più lungamente; ma pure il 6 di maggio abbassò le porte. I presidii de’ quattro castelli furono prigioni; poche morti soffrì l’esercito spagnuolo e poco danno, ricompensato largamente dalle abbondanti provvigioni quivi trovate e dalle valide artiglierie, che subito volse agli assedii delle maggiori fortezze. Cotesti castelli quando furono edificati, utili secondo il tempo, avevano le condizioni convenienti alle armi di quella antichità ed alla scienza comune di guerra. Oggi sono a perdita d’uomini e di provvigioni, cittadelle contro del popolo, ricovero ed ardire alla tirannide. Ingrandire il piccolo castello di Santelmo tanto che alloggiasse forte presidio di tremila soldati, e demolire i tre castelli della città, sol che restassero batterie difenditrici del porto, sarà il senno di futuro governo quando in altra età i reggitori di Napoli non temeranno le ribellioni, guardati da leggi, giustizia e discipline.

XXIV. Resa libera la città di ogni segno del passato dominio, l’Infante il 10 di maggio vi si portò con pompa regio, tra esultanze straordinarie del popolo, però ch’erano grandi le universali speranze, e ’l tesoriere spargeva nelle vie della città monete in copia di argento e d’oro. Egli entrava nel mattino per la porta Capuana; ma, volendo prima rendere a Dio grazie de successi, scese nella chiesa suburbana di san Francesco e restò in quel monistero di frati sino alle quattro ore dopo il mezzodi: quando, montato sopra destriero, con abiti e giojelli ricchissimi, venne in città, e’ furono prime cure sue visitare il duomo, ricevere dalla mano del cardinal Pignatelli la ecclesiastica benedizione, assistere divotamente alle sacre usate cerimonie, e fregiar la statua di san Gennaro con preziosa collana di rubini e diamanti. Compiuto nel duomo il sacro rito, continuò il cammino sino alla reggia; e passando innanzi alle carceri della vicaria e di san Giacomo, ricevute le chiavi in segno di sovranità, comandò aprir le porte per mandar liberi i prigioni: insensata grandezza! La città fu in festa; le milizie schierate nelle strade, o poste in guardia della reggia, erano urbane: i fuochi di allegrezza e le luminarie durarono tutta la notte.

Ma il giubilo de’ cittadini non dissipava i timori di guerra. Si combatteva nella Lombardia, la vicina e ricca Sicilia fruttava a [p. 42 modifica]Cesare, un esercito d’imperiali campeggiava le Puglie, le maggiori fortezze del regno guardate da numerosi presidii e da capitani onorati difendevano la bandiera e il dominio dell’Impero: abbondanti rinforzi sperava il vicerè, e già seimila Croati si dicevano in punto di arrivare a Manfredonia: i popoli, ora partigiani de’ Borboni, muterebbero con la fortuna. Erano prospere a Carlo le condizioni di regno, non certe. Perciò il conte Montemar, visitati e stretti i blocchi di Capua e di Gaeta, marciò con nuove schiere verso Puglia, ed unendosi al duca d’Eboli compose un esercito di dodici mila soldati, fanti e cavalieri, ajutati da molte navi che radevano i lidi, ora più lente ora più celeri come in terra l’esercito. E l’Infante nel tempo stesso, adoperando arti civili, chiamò con editto tutti i baroni del regno a giurar fede al nuovo impero; prefisse i tempi, minacciò le pene a’ trasgressori. E giorni appresso, il 15 di giugno dell’anno 1734, fece pubblico il decreto di Filippo V che cedeva le sue ragioni antiche e nuove su le Sicilie, unite in regno libero, a Carlo suo figliuolo, nato dalle felici nozze con Elisabetta Farnese, il qual nuovo re si fece chiamare Carlo per la grazia di Dio re delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, Piacenza e Castro, gran principe ereditario della Toscana. E disegnò le armi, annestando alle nazionali delle due Sicilie tre gigli d’oro per la casa di Spagna, sei di azzurro per la Farnese, e sei palle rosse per quella de’ Medici. Si ripeterono le feste civili, le ecclesiastiche, e il re ne aggiunse altra popolare, la coccagna, macchina vasta raffigurante gli Orti Esperidi, abbondanti di grasce donate alla avidità e destrezza di popolari; perciocchè i luoghi erano aperti, ma intrigati, e la presa difficile. Carlo dall’alto della reggia giovenilmente godeva i piacevoli accidenti della festa, quando la macchina mal congegnata, caricata di genti, repentinamente in una parte precipitò, tirando nelle rovine i soprastanti e opprimendo i sottoposti. Molti morirono, furono i feriti a centinaja; la piazza si spopolò: Carlo con decreto vietò simili feste all’avvenire.

XXV. Primo atto del sovrano potere fu il creare Bernardo Tanucci ministro per la giustizia. All’arrivo in Puglia dell’esercito spagnuolo, il vicerè intimidito e veramente inutile alla guerra montò in nave e partì seco traendo il general Caraffa, accusato dal conte Traun, e chiamato a Vienna dall’imperatore per patir biasimo e pene; mercede indegna al buon consiglio dato e non accolto. Il principe Belmonte restò capo degli Alemanni, ottomila soldati, avventicci più che ordinati, varii di patria e di lingua, nuovi la più parte alla disciplina e alla guerra. Il qual Belmonte, dopo aver campeggiate la Basilicata e le Puglie, pose le stanze in Bari per più comodo vivere, non per avvedimento di guerra; avvegnachè nessun’opera forte aggiunse alle mura di quella città, ed [p. 43 modifica]all’apparire de’ contrarii, lasciato in Bari piccolo presidio, accampò l’esercito in Bitonto, città più forte per più saldi ripari e per munito castello e lunghe linee di fossi e muri nella campagna; lavoro di agricoltura, utile non di meno alle difese. Pose nella città milacinquecento soldati, manco atti alle battaglie; schierò le altre genti dietro i muri e i fossi della campagna, accampò la cavalleria su la diritta dell’esercito, ridusse a castelli due monasteri collocati acconciamente alle ali estreme della sua linea. E ciò fatto, altese gli assalti del nemico.

Il quale volse anch’egli le sue colonne da Bari a Bitonto, avendo schiere maggiori usate alla guerra, cavalleria doppia della contraria ed artiglierie copiose. Giunto a vista degli Alemanni, accampò; e nel seguente mattino; 25 maggio di quell’anno 1734, spiegò le ordinanze, soperchiando la fronte nemica, e ponendo fanti contro fanti, cavalli contro cavalli, ed altra cavalleria, di che abbondava, su l’ala diritta per correre la campagna e per gli eventi. Tentò gli Alemanni con poche genti; e trovata resistenza, retrocede confusamente, sperando che il nemico, fatto ardito, uscisse dai ripari ad inseguirlo: ma poi che le simulazioni non ingannarono il Belmonte, Montemar sperò vittoria dall’aperta forza; e movendo i fanti, spingendo i cavalli, accendendo le artiglierie, fece suonare ad assalto i tamburi e le trombe. Alle quali viste trepidarono i cavalieri alemanni; e dopo breve ondeggiare ruppero in fuga disordinatamente verso Bari, fuorchè il colonnello Villani con due cento Usseri che, pure fuggendo ma ordinato, prese il cammino degli Abruzzi e si ricoverò in Pescara, La partenza de’ cavalieri, non attesa e così celere che parve diserzione non fuga, sbalordì le altre schiere; e per fino il generale Belmonte ed il principe Strongoli, altro generale agli stipendii di Cesare, lasciato il campo seguirono i fuggitivi. La vittoria di Montemar fu certa e chiara; chè se la guerra due altre ore durò per combattimenti singolari, inutili ed ingloriosi, fu solamente perchè mancava nel campo di Cesare chi ordinasse di arrendersi. Furono espugnati i due conventi, si diedero nello stesso giorno la città e il castello di Bitonto, si diede al dì vegnente la città di Bari: mille degli Alemanni morti o feriti, prigione il resto; preda del vincitore armi, attrezzi, bagagli; e suo trofeo ventitrè stendardi. Perdè l’esercito spagnuolo trecento morti o feriti, e furono prezzo della conquista di un regno e della gloria che ne colse il conte di Montemar, meno per sua virtù che per gli errori del nemico.

Doveva il Belmonte far sua base gli Abruzzi, liberi di Spagnuoli, con la ben munita fortezza di Pescara ed i forti castelli d’Aquila e Civitella: doveva ne’ due mesi che oziosamente vagò per le Puglie, preparare i campi a combattere: doveva, così indugiando, instruire e agguerrire i soldati venuti di Croazia, per dar tempo a’ promessi [p. 44 modifica]ajuti di Alemagna; o, quando in tutto fosse stata avversa la sorte, dovea combattere sotto le mura di Pescara, sostenuto da una fortezza, da un presidio e dal fiume. Se a’ maestri di guerra fosse dato lo scegliere le parti del Montemar o del Belmonte, nessuno forse prenderebbe quelle che furono vincitrici; e perciò venne al Belmonte mala fama, non meritata, d’infedeltà, come calunnia spargeva; ben dovuta d’ignoranza. Caddero senza guerra, per il solo romore della battaglia di Bitonto, i castelli delle Puglie, eccetto Brindisi e Lecce. Buona schiera di Spagnuoli si avviò per gli Abruzzi; Montemar con le altre squadre tornò in Napoli; dei prigionieri alemanni tremilacinquecento passarono agli stipendii di Carlo; nuovi soccorsi d’uomini, di navi e d’armi venivano di Spagna e di Toscana. I principii di regno erano tuttodì più felici, e perciò nuove feste nella città. Giunto il Montemar, andò alla reggia, ed il re, sedendo a tavola di stato pubblica, siccome era costume, fece col piglio liete accoglienze al vincitore, il quale, decoroso e modesto, rispondeva con gl’inchini alle grazie. Ed allora Carlo in idioma spagouolo dimandò (come si usa quando manca subbietto al discorso) Che nuove abbiamo, Montemar? E quegli: «Che i vostri nemici han dovuto cedere alle vostre armi; che tutti, o estinti o prigioni, onorano la vittoria; che le vostre schiere combatterono con egual valore, ma furono più invidiate le Vallone.» I circostanti, maravigliando il debole richiedere del re, ammirarono il bel rispondere del conte. Al quale nel seguente giorno il re diede premii, onori, titolo di duca, e comando perpetuo del Castelnuovo. Dipoi fece alzare nel campo di Bitonto salda piramide, scrivendo nel marma la felicità della battaglia, sotto qual re, con quali armi, per qual capitano: monumento che, dopo i racconti della istoria, rimane segno di superbia non di virtù.

Cederono alle armi spagnuole, l’un dietro l’altro, tutti i castelli del regno; e le piccole guernigioni alemanne passarono a servir Carlo. L’isola di Lipari, minacciata da navi spagnuole, accettò lieta il nuovo dominio. Le sole maggiori fortezze, Pescara, Capua, Gaeta, resistevano. Ma il di 29 di luglio Pescara capitolò: le sue fortificazioni, benchè del genere moderno, difettano nella giacitura, nel rilievo, nelia mancanza di opere esteriori; e sebben tali resisterono a lungo assedio, nè il generale Torres abbassò la bandiera imperiale prima che fosse aperta larga breccia e tanto agevole da uscir per essa con la guernigione: onore che ottenne in mercede di virtù, sempre dal mondo, e vieppiù da nemici ammirata in guerra. Oltre alle riferite cose, un’altra di quello assedio è memorabile.

XXVI. E quasi ne’ medesimi giorni, a 6’ di agosto, la fortezza di Gaeta si arrese. Giova nelle storie presenti andar ripigliando alcune vecchie memorie, ehe senza tai ricordi rimarrebbero peregrine [p. 45 modifica]erudizioni di poche menti. Le prime mura di quella città furono alzate, come dice antica tradizione, da’ Trojani; ed Enea le diede nome dal nome della sua nutrice ivi sepolta. Subito crebbe d’uomini e di ricchezze, e non capendo nelle prime mura, si allargò in altre più vaste, Alfonso di Aragona vi alzò un castello, Carlo V, veduta la forza del luogo e l’ampio porto sicuro a’ legni di commercio e di guerra, fece chiudere la città di muri a fortezza: e ne’ succedenti tempi ogni nuovo re volle aggiugnervi opera o nome: tal che nel 1734, quando l’assediarono gli Spagnuoli, era poco men d’oggi e tale qual io la descrivo. Siede su di un promontorio che finisce un istmo nel mar Tirreno: il promontorio per tre lati s’immerge in mare, il quarto scende a ripida e stretta pendice che poi si allarga, fra i due lidi dell’istimo, sempre in pianura finchè non convalli co’ monti di Castellona e d’Itri. Nella cima del promontorio è torre antichissima detta di Orlando: le mura della fortezza seguono la china del terreno, e però vanno a serra ed a scaglioni a toccare d’ambe le parti l’ultime sponde, formando bastioni, cortine, angoli sporgenti, angoli entranti, così che ogni punto è difeso: vi ha la scienza moderna, non le regole, però che le impediva la natura del luogo. Non direi perfette quelle opere, nè spregevoli, e si richiede buono ingegno a difenderle o ad espugnarle. Nella fronte di terra una seconda cinta sta innanzi della prima, e due fossi, due cammini coperti, varie piazze d’armi la muniscono. In due soli punti sono più facili le rovine; nella così detta cittadella (il castello di Alfonso) e nel bastione della breccia che ha preso nome dalle sue sventure: da cinta, quanta ne resta, è tagliata nel duro sasso calcare.

Allorchè il blocco della fortezza mutò in assedio erano in essa mille Alemanni e cinquecento Napoletani del battaglione che il duca di Monteleone formò: nessuni o pochi artiglieri, così che i Napoletani, per natura destri, furono esercitati a maneggiare il cannone: abbondavano armi, attrezzi, provvigioni di guerra e vettovaglie. E dall’opposta parte il duca di Liria dirigeva le offese con sedicimila Spagnuoli, navi da guerra, armi, macchine, mezzi soperchianti; e però aperta in breve tempo la trinciera di assedio, procedendo per cammini coperti verso le mura, alzò parecchie batterie di cannoni e mortari da percuotere in breccia la cittadella, e controbattere i cannoni della fortezza. Avanzavano gli approcci, quando il duca Montemar venne ad accelerarne il fine ed a godere della vittoria; e poco più tardi, per le ragioni medesime e per fama di guerra, vi andò il re Carlo. Dopo il suo arrivo, moltiplicati i fuochi, cominciata la breccia e arrecato per le bombe danno e spavento alla città, il conte di Tattembach governatore della fortezza, in consiglio de’ capi del presidio propose di arrenderla, ma fu da’ minori [p. 46 modifica]contrastato. Misera ed umile condizione di un comandante di fortezza vedere alcun altro degli assediati di sè più lento a desiderare gli accordi. Contrastanti le opinioni, e aggiunte al dechinare delle difese le discordie, sopravvenne la necessità di darsi prigionieri al nemico, e tutto cedere della fortezza. Pochi d’ambe le parti vi morirono; nulla si operò che fosse degno d’istoria. E dopo ciò, in tutto il reame, la sola fortezza di Capua strettamente bloccata alzava la bandiera di Cesare, stando su gli Alemanni il conte di Traun, su gli Spagnuoli il conte Marsillac, tra loro amici e in altre guerre compagni o contrarii, prigioniero l’uno dell’altro, sbattuti dalla fortuna in varii casi, ma sempre in petto benevoglienti.

XXVII. Le presenti felicità di Carlo crescevano per le vittorie de’ Gallo-Sardi nella Lombardia, e per la rara costanza de’ potentati europei agli accordi contro l’Austria. La battaglia di Parma quasi disfece l’esercito alemanno in Italia; il principe Eugenio non bastava con poche genti a fronteggiare sul Reno gli eserciti potenti di Bervik e d’Asfeld; l’Inghilterra e la Olanda duravano nella neutralità; il Corpo Germanico dava pochi e mal sicuri ajuti all’Impero; la Russia, benchè amica, terminava i pensieri e la guerra nella Polonia. Il re Carlo, vistosi potente e sicuro, preparando l’impresa i di Sicilia, si volse alle cure interne dello stato; prese giuramento dagli eletti della città; raffermò per editti e religioni i giuramenti della baronia, e compose il ministero, il consiglio e la corte de’ più grandi per nome, nobiltà e ricchezze. Provvide le magistrature: accolse benignamente que’ vicarii di Cesare spediti dal vicerè nelle province, mandò vicarii suoi, nobili anch’essi e venerati: rimise molte colpe; consultò i seggi circa le gravezze da togliere. Favoriva la nobiltà per naturale propensione d’animo regio, e perchè, non ancora surto il terzo stato, nobili e plebe componevano il popolo. Dal qual favore proveniva pubblico bene, perciocchè i baroni grati a que’ benefizi, o allettati dalle grandezze della reggia o lusingati dalle ambizioni venivano in città, alleggerendo di loro i vassalli ed imparando costumi e forme di miglior civiltà. Ma vennero a bruttare le beneficenze di Carlo il sospetto e la intemperanza. Erano nella città pochi partigiani di Cesare (come ne ingenera qualunque impero), deboli, spregevoli, desideranti le vittorie di quella parte, ed ingannando, più che altri, le speranze proprie con falsi racconti di guerra e di politica. Scherniti per lungo tempo dalla fortuna, scemando di numero e di audacia, perdevansi nelle disperazioni e nel nulla; ma dalle felicità reso più molle l’orecchio de’ governanti e più superbo il cuore, formarono parecchie giunte, una nella città, altre nelle province, chiamate d'inconfidenza, destinate a punire per processi secreti e giudizii arbitrari i nemici del trono; disegnando con quell’alto nome alcuni miseri, e facendo di vuote [p. 47 modifica]speranze o sterili sospiri nemicizia e reità di stato. Della giunta di Napoli era giudice tra molti Bernardo Tanuccci, sconvenevole officio al grado e al nome, ma le prime ambizioni sono cieche.

T seggi della città, invitati, come indietro ho detto, e adunati a consiglio per proporre l’abolizione di alcune imposte, grati a Carlo ed ambiziosi, pur confessando il non soffribile peso delle presenti taglie pregavano a mantenerle; e di più a gradire gli universali sforzi nel donativo che offrivano di un milione di ducati. Così veniva frodato il comun bene dagli affetti ed interessi di quel solo ceto che mal rappresentava L’intero reame: avvegnachè il re per i bisogni della vicina spedizione di Sicilia, rendè grazie al consiglio, confermò le taglie, accettò il dono; e poco appresso que’ medesimi seggi imposero alla nazione gravezze nuove. I quali falli, troppe volte ripetuti ora da’ senati, ora da’ consigli de’ re, ora da’ ministri, generarono nel popolo il desiderio di tal cosa che fosse efficace nell’avvenire ad impedirli. E questo mi è piaciuto accennare su gli inizii della mia fatica per far procedere insieme co’ fatti la dimostrazione che i sociali sconvolgimenti sempre muovono da remote cagioni, crescono inosservati, e si palesano quando sono irrevocabili. Dimostrerà questa istoria (se la vita e le forze basteranno a’ concetti) che le opinioni, i bisogni, le opere, le rivoluzioni de’ Napoletani furono effetti necessarii delle presenti vicissitudini; e che la sapienza di governo consiste nel discernere in ogni tempo il vero stato di un popolo, non confidando in certe false specie di libertà o di obbedienza.

XXVIII. L’impresa di Sicilia fu stabilita e apprestata. Era in quell’isola vicerè per lo Impero il marchese Rubbi; e però che l’idea della guerra (contrastare al nemico per assedii) era comune ai due regni, reggeva la cittadella e i forti di Messina il principe di Lobkowitz, la fortezza di Siracusa il marchese Orsini di Roma, quella di Trapani il generale Carrera: pochi Alemanni guardavano il castello di Palermo e gli altri dell’isola. Il popolo ubbidiente a Cesare, desiderava Carlo per consueta voglia di novità e perchè l’odio a Tedeschi è antico e giusto nelle genti d’Italia. Era l’esercito spagnuolo pronto a muovere di quattordicimila soldati, fornito di artiglierie e di altri strumenti di campo e di assedio; molte navi correrebbero i mari dell’isola; duce supremo e vicerè per Carlo sarebbe il duca Montemar; duci minori, il conte di Marsillac ed il marchese di Grazia Reale; i popoli si speravano amici, la fortuna seconda. L’armata salpò da’ porti di Napoli e Baja il 23 di agosto di quell’anno 1734. A mezzo corso divisa, Montemar volse le prue a Palermo, Marsillac a Messina. Quando in Palermo si scoperse il navilio di Spagna, il vicerè imbarcò per Malta; i Tedeschi si chiusero nel castello; e il popolo, sciolto da’ freni della fedeltà e del [p. 48 modifica]timore, tumultuava: ma gli amici della quiete correvano armati per la sicurezza della città, ed il Comune inviò deputati al Montemar. unici di obbedienza e di allegrezza. Egli preceduto dagli editti di Carlo, sbarcato il dì 29 al porto di Solanto, entrò in Palermo nel vegnente giorno trionfalmente, Così a Messina, viste le navi spagnuole, il principe di Lobkowitz desertò due castelli per accrescere le forze della cittadella e del castello Gonzaga, che soli volea difendere. La città liberata del presidio tedesco si diede vogliosa alla Spagna. Furono poco appresso le principali fortezze assediate o bloccate, gli altri forti per minacce o con poca guerra ceduti, tutta l’isola occupata per armi o per editti. E pubblicando la fama gl’irreparabili danni patiti dall’Impero in Napoli, in Lombardia, in Germania, i Siciliani piegando alla certa fortuna. il dominio di Carlo si stabili sollecito ed universale.

Mentre in Sicilia si guerreggiava, cadde la fortezza di Capua. Gli Spagnuoli sempre minacciando assediarla, stringevano solamente il blocco; certi che presto mancherebbero le vettovaglie al numeroso presidio. Il conte Traun, più volte uscito da’ muri alla campagna, uccisi molti nemici, molti presi, guastò parte delle linee che circondavano la fortezza: ma non potendo predar viveri, le sue condizioni peggioravano; e le valorose geste, belle in campo, tornavano inutili alle difese. E però il di 24 di novembre Capua cedè, per patti onorevoli al vinto: i commissarii spagnuoli trovarono nella fortezza armi, macchine, polveri abbondantissime; i magazzini di vettovaglie affatto vuoti, gli ospedali pieni; sì che al conte Traun per quelle perdite crebbe nome di buon guerriero. Andava il presidio, cinquemila e cento soldati, a’ porti dell’Adriatico, indi a Trieste; ma nell’uscire dalla fortezza e nel cammino più che duemila Tedeschi passarono a Carlo, che di tutti gli eserciti europei sono quelli più facili a mutar bandiera; indizio di domestica servitù, effetto di milizie levate non per coscrizione o sorte, ma per comando ed arbitrio.

II duca Montemar chiamato alla guerra di Lombardia, partì di Sicilia, lasciando per le sue veci il marchese di Grazia Reale. Caddero indi a poco la cittadella di Messina (era caduto il forte Gonzaga) e le fortezze di Siracusa e di Trapani. Nulla fu memorabile in quegli assedii per arte, nè per valore; due soli fatti nella espugnazione di Siracusa attestano la semplicità de’ tempi. Ferveva l’assedio; il generale della fortezza, bramando un giorno di tregua per ristaurare nell’interno le trincere e rinfrancare i soldati, mandò allo Spagnuolo dicendo: «Il generale Orsini, ammirato delle arti e della eccellenza spagnuola nel condurre gli assedii, aver brama di vedere per istudio le opere loro; dimandarne il permesso. Se gliel concederete, sospenderemo le offese per quel poco d’ora che il [p. 49 modifica]generale sarà fuori della fortezza.» Que’ detti lusingarono l’alterezza spagnuola, tanto che la prudenza mancò; e, fatta tregua, l’Orsini, uscito, vide e lodò la grandezza delle opere; poi convitato dal generale contrario, lodando e rallegrandolo protrasse la dimora fino alla notte. Ricominciate le offese, continuavano ne’ seguenti giorni: una bomba del campo spagnuolo caduta e fermatasi nella stanza dove il generale Orsini riposato desinava, fu cagione, che, vista imminente la morte, egli in animo votasse alla santa protettrice della città, se dal pericolo campava, rendere la fortezza. La bomba non iscoppiò; la fortezza fu resa. L’ultimo della guerra fu in Trapani. E poichè le rocche de’ Presidii della Toscana erano passate alle armi di Spagna, la conquista de’ due regni al cominciare del luglio del 1735 fu compiuta. Nelle descritte guerre molti Napoletani e Siciliani seguirono le parti di Cesare o di Carlo, gli uni agli altri nemici; miseria di genti serve, divise di interessi e di voglie.

XXIX. Quando non ancora era compiuta la guerra di Sicilia, Carlo si avviò per quell’isola, e traversando il Principato Ulteriore, le Puglie, parte di Basilicata e le Calabrie, spargeva regalmente le ricchezze di America mandate a lui dalla madre. Più che due mesi e mezzo, aspettando che la cittadella di Messina si arrendesse, viaggiò nel regno, troppo dedito alla caccia per la quale i boschi si preparavano con grandi spese. Cacciando una volta presso a Rosarno, colto da stemperata pioggia, si riparò in povero tugurio, e trovando giovine donna or ora sgravata volle che il bambino portasse il nome di Carlo; si fece suo patrigno; donò di cento doppie d’oro la madre; assegnò al fanciullo ducati venticinque al mese finchè in età di sette anni venisse alla reggia. Lo scrittore che ciò narra, e che pur di mille vanità empiè le sue memorie, trovò meno degno di ricordanza il nome, il seguito e la fine dell’avventuroso fanciullo. Nella marina di Palmi sopra splendida nave Carlo imbarcò per Messina; e ’l principe Ruffo, che per baronale ambizione lo sperava in Scilla suo feudo, deluso in quella speranza, compose altra specie di corteggio. Innumerevoli barche ornate de’ segni di festa e di pace andarono incontro alla nave del re, e disposte a semicerchio lo accompagnavano. In cinque gondole meglio adornate non vedevi che donne le più belle di quella città, dove le donne son belle, gajamente vestite, quali di loro affaticandosi liete a remi, quali governando il timone, e le altre sonando istromenti e cantando a cadenze versi di allegrezza e presagi di comun bene. Lusinghe imitatrici della favola, che non però guastavano il cuore di Carlo, in tanta giovinezza temperato e severo, Con quel corteggio arrivò a Messina dove altre feste si fecero.

Due mesi appresso andò a Palermo per via di mare, giacchè il [p. 50 modifica]proponimento di andar per terra fu distolto dall’asprezza de’ luoghi, deserti di abitatori e selvaggi. Dopo magnifica entrata, Carlo l’ultimo giorno di maggio convocò nel duomo i tre Bracci o ceti del parlamento (il baronale, l’ecclesiastico, il demaniale), e tutti i notabili per nobiltà o grado: ed egli venuto in chiesa, e compiuti divotamente i riti sacri, montò sul trono, e ad alta voce (tenendo ferma la mano su i libri del Vangelo) giurò di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento, i privilegi delle città: e, soddisfatto al debito di re, invitò i presenti a giurare obbedienza e fede al suo imperio. Tutti giurarono; il sacro patto fra i soggetti ed il re fu statuito in presenza del popolo e di Dio. Finita la cerimonia, si preparò per il terzo giorno nella chiesa istessa l’unzione e coronazione di Carlo che fu simile alle precedenti di altri diciotto re coronati in quel tempio, ma più magnifica per pompa e ricchezza, perciocchè la corona pesante diciannove once (cinque di gemme, quattordici d’oro e di argento) costava un milione e quattrocento quarantamila ducati. Fece coniare in abbondanza monete d’oro, le onze, e di argento le mezze-pezze, col motto: Fausto coronationis anno, che i tesorieri per tutto il cammino dalla chiesa alla reggia gettavano a pioggia nel popolo. Ciò fu il 3 di giugno dell’anno 1735. Quatiro giorni diede ancora alle pubbliche feste, e nel quinto, il re sopra ricchissima nave, seguitato da gran numero di altri legni, fece spiegar le vele per Napoli, dove approdò il giorno 12 tra le accoglienze universali e feste tanto prolungate che volsero in sazietà e fastidio. Quelle finite, cominciarono al re le cure di pace.