Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro I/Capo I

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STORIA

DEL REAME

DI NAPOLI.


LIBRO PRIMO.

REGNO DI CARLO BORBONE.

anno 1734 a 1759.


CAPO PRIMO.

Introduzione al regno di Carlo Borbone.

I. Il fiume Tronto, il Liri, il piccolo fiume di San Magno presso Portella, i monti Appennini dove nascono le fonti di que’ fiumi, i liti del Mediterraneo, correndo i tre mari Tirreno, Ionio, Adriatico, dallo sbocco del lago di Fondi alla foce del Tronto, confinano le terre che nell’xi secolo ubbidivano all'impero greco ed alle signorie longobarde di Capua, di Salerno e di Benevento. Tanti separati dominii, la virtù del Normanno Roberto Guiscardo tramandò al nipote Ruggiero, già fattosi re della Sicilia, da lui conquistata sopra i Saraceni ed i Greci (1130). Passò il regno a Guglielmo il Malo, a Guglielmo il Buono, a Tancredi, e fugacemente a Guglielmo III. Quando il secondo Guglielmo perdè speranza di figli, maritò la principessa Costanza (sola che restava del sangue di Ruggiero) all’imperatore Enrico della casa sveva; il quale succedè, morto Tancredì, nella corona della Sicilia e della Puglia.

Così dalla stirpe normanna, chiara per virtù guerriere, andò il regno l’anno 1189 negli Svevi. Ad Enrico succedè Federigo II gran [p. 18 modifica]re. ed a lui brevemente Corrado suo figlio, e poi Manfredi altro figlio ma d’illegittimo congiungimento. I pontefici di Roma, che pretendevano all’imperio del mondo e vieppiù a quello delle Sicilie, dopo aver travagliata la casa normanna volsero le armi sacre e le guerriere contro la sveva. Sempre perdenti benchè combattessero in età d’ignoranza, ma incapaci per la stessa ignoranza de tempi ad essere oppressi e disfatti, risorgevano dopo le perdite più adirati nemici.

Clemente IV papa nell’anno 1265, poi che tre papi che lo precedettero avevano tentata vanamente l’ambizione di Enrico III re d’Inghilterra, instigò contro Manfredi il fratello di Luigi re di Francia, Carlo di Angiò, famoso in armi; che, vieppiù spinto dalle irrequiete brame della moglie, venne con esercito all’impresa. Coronato in Roma re delle Sicilie (1266), passò nel regno e combattè Manfredi accampato presso Benevento. La virtù dello Svevo non bastò contro la fortuna del Franco e l’infame tradimento de’ Pugliesi: morì Manfredi nella battaglia. Carlo stava contento sul trono, quando Corradino figlio di Corrado venne a combatterlo (1268). Il giovinetto, vinte in Italia le città guelfe, vincitore in Tagliacozzo dove gli eserciti si affrontarono, godevasi nel campo le gioje della vittoria e le speranze dell’avvenire, allor che il re gli spinse contro fresca legione tenuta in serbo; così che Corradino disfatto, fuggitivo, e poi tradito, fu prigioniero del felice Carlo: e un anno appresso, per crudeltà di quel re o spietati consigli del pontefice, ebbe (quell’ultimo figlio della casa sveva) troncato il capo. La stirpe degli Angioini si stabilì nel regno delle Sicilie.

Ella diede sei re, due regine; dominarono 175 anni tra guerre esteriori ed interne. Per opera di quei re angioini furono morti Manfredi e Corradino re svevi; poi Andrea e Giovanna Prima della propria stirpe: l’altro re Carlo da Durazzo, sorpreso negl’inganni che ordiva alle due regine di Ungheria, fu ucciso: Ladislao morì di veleni oscenamente prestati. A tempi loro per il vespro di Giovan di Procida furono uccisi ottomila Francesi, tiranni della Sicilia: de’ tempi loro fu il parteggiare continuo de’ baroni del regno: per opra loro nato lo scisma della Chiesa, due e tre papi contemporanei divisero le spoglie della sede apostolica e le coscienze de’ popoli cristiani. Ma que’ re, che ne’ penetrali della reggia nascondevano enormi delitti, erano su la scena del trono riverenti alla Chiesa; ergevano ed arricchivano tempii e monasteri, davano dominio ai papi, concedevano privilegi agli ecclesiastici. Carlo I e Ladislao avevano virtù guerriere; aveva Roberto prudenza di regno, questa e quelle oscurate dai vizii del sangue. Gli altri re della stirpe furono flagelli del regno.

Alfonso I di Aragona, dopo che fugò Renato ultimo degli [p. 19 modifica]Angioini, stabilì nell’anno 1441 la dominazione degli Aragonesi che finì nel 1501 con la fuga di Federico. Dominarono, in manco di 60 anni, cinque re di quella casa, quattro dei quali, Ferdinando I, Alfonso II, Ferdinando II e Federigo, s’ingomberarono sul trono nel breve spazio di tre anni, anche interrotto il regnare dalle felicità e dal dominio di Carlo VIII. Quella stirpe aragonese superba e crudele, mosse o respinse molte guerre, abbattè le case più nobili e più potenti del regno, impoverì l’erario, suscitò tra’ baroni gli umori di parte. Le quali divisioni ed universale fiacchezza causarono che lo stato da potente regno cadesse a povera provincia di lontano impero. Della quale caduta io toccherò le miserie: ma ritenga frattanto la memoria degli uomini che in poco più di tre secoli e mezzo regnarono quattro case, ventidue re, senza contare i transitorii dominii di Lodovico re d’Ungheria, del papa Innocenzo IV, di Giacomo di Aragona e di Carlo VIII; ritenga che per pochi anni di pace si tollerarono lunghi anni di guerra; che per travagli sì grandi avanzò la civiltà; che in tanti mutamenti fu osservato essere vizio de’ Napoletani la incostanza politica, ossia l’odio continuo del presente, e ’l continuo desiderio di nuovo stato: cagioni ed effetti delle sue miserie.

II. Quando Federigo, ultimo degli Aragonesi, combattuto dal re di Francia, tradito dal re di Spagna suo zio, fuggì d’Ialia, i due re fortunati, nel dividere l’usurpato regno, per luoghitenenti ed eserciti combatterono: Consalvo il gran capitano restò vincitore; il regno intero cadde a Ferdinando il Cattolico, e sotto forma di provincia fu da vicerè governato. Cominciò il governo vicereale che per due secoli e trent’anni afflisse i nostri popoli. Primo de’ vicerè fu lo stesso Consalvo.

Mutarono gli ordini politici. Per magistrato novello, detto consiglio collaterale, gli antichi magistrati decaddero di autorità e di grido, la grandezza de ministri dello stato scemò, gli ufiziali della reggia restarono di solo nome, l’esercito sciolto; l’armata serva dell’armata e del commercio spagnuolo; la finanza esattrice risedeva nel regno, e fuori la dispensiera di danaro e di benefizii. I feudatarii abbassati da che senz’armi, i nobili avviliti nel consorzio di nuovi principi e duchi per titoli comprati. I seguaci di parte angioina, benchè tornati per accordo di pace agli antichi possessi, ricevevano poco e tardi; erano spogliate le parti sveva e aragonese: ghibellini e guelfi al modo stesso travagliati. La superbia di Roma rinvigoriva; tutto andò al peggio.

E così passarono, ora più ora meno infelici, due secoli di servitù provinciale sino a Filippo V e Carlo VI dei quali dirò tra poco. Imperarono in quel tempo sette re della casa di Spagna, da Ferdinando il Cattolico a Carlo II; e travagliarono in vario modo e [p. 20 modifica]principi e regno trenta romani pontefici da Alessandro VI a Clemente XI. Si ebbe gran numero di vicerè, de’ quali alcun buono, molti tristi, parecchi pessimi. Il dominio della casa austriaca spagnuola finì per la morte di Carlo II nell’anno 1700; ed în quello ha termine la storia di Pietro Giannone, uomo egregio, molto laudato, e pur maggiore di merito che di fama. Ed io, non che presuma di paragonarmi a quell’alto e sfortunato ingegno, come nemmeno raccomandarmi per simiglianza di sventure, ma solamente per congiungere ai termini di quella istoria i principii della mia fatica, dirò più largamente le cose del vicereale governo dal 1700 al 34, cominciamento al regno di Carlo; desiderandomi lettori già dotti ne’ libri del Giannone, così che mi basti rammentare talvolta de’ vecchi tempi quanto sia necessario alla intelligenza dei fatti che descriverò.

III. Al finire del 1700 Filippo V ascese al trono di Spagna e a’ dominii di quella corona per testamento del morto re Carlo II. Ma contrastando il trono a Filippo l’imperatore Leopoldo, si apprestavano gli eserciti a decidere la gran lite. Il vicerè in Napoli Medinaceli gridò re Filippo V: il popolo vi fu indifferente; i nobili amanti dell’Austria, avversi alla casa di Francia, un figlio della quale, duca di Angiò, era Filippo, si addolorarono. Ma venne a consolarli di speranze la guerra di Lombardia dove gli eserciti imperiali erano più fortunati, e il capitano principe Eugenio riempiva del suo nome e delle sue geste i discorsi d’Italia. Fu quindi spedito all’imperatore Leopoldo don Giuseppe Capece, ambasciatore secreto della nobiltà napoletana, la quale, promettendo levare il popolo, esigeva da Cesare per patti: spedir solleciti ajuti d’armi, mutare lo stato da provincia a regno libero, dargli re, Carlo arciduca. Mantenere i privilegi acconsentiti da passati príncipi, fondare un senato di cittadini consigliero negli affari di regno, sostenere le antiche ragioni della nobiltà, concedere nuovi titoli e terre a’ congiurati. E ciò concordato, tornò in Napoli a riferire quelle pratiche, e ad ordire la non facile impresa.

IV. Vennero nel tempo stesso, fingendo cagioni oneste, don Girolamo Capece e ’l signor Sassinet da Roma; don Iacopo Gambacorta principe di Macchia da Barcellona; il Capece colonnello nelle milizie di Cesare, il Sassinet segretario dell’ambasciata imperiale presso il papa, il Gambacorta giovine pronto, loquace, povero, ambizioso, con le qualità più eminenti di congiurato, per lo che fu capo e diede alla congiura il suo nome di Macchia (1701). Era il mezzo di settembre quando, computate le opere e i tempi, si prefisse primo giorno della impresa il dì 6 di ottobre. Uccidere il vicerè, occupare i castelli della città gridar re il principe Carlo figlio dell’imperatore Leopoldo. opprimere le poche spensierate milizie spagnuole, reggere lo stato sino all’arrivo dei promessi da Cesare [p. 21 modifica]soccorsi d’armi, furono i disegni della congiura. I congiurati (quasi tutta la nobiltà del regno) divisero le cure e i pericoli della impresa.

Ma nuovi avvenimenti ruppero le dimore, Lettere del cardinal Grimani ambasciatore di Cesare a Roma, scritte ad un congiurato, e per avviso del duca di Uzeda, ivi ministro di Filippo V. intercette dal vicerè, gli rilevarono esservi congiura, lasciandone oscure le fila e lo stato. Perciò di ogni cosa sospettoso vegliava l’interno della casa, mutava le usanze di vita, radunava le sue poche milizie, spargeva esploratori tra’ nobili e nel popolo: compose e concitò la giunta degl’inconfidenti a punire, fece imprigionare il padre Vigliena teatino, fuggì il padre Torres gesuita, trepidavano d’ambe le parti i ministri del governo e i congiurati.

Questi alfine, o confidenti nella propria potenza, o sforzati dalle male venture a precipitare le mosse. levaronsi a tumulto il 23 di settembre. Non poterono uccidere il vicerè (morte concertata col cocchiere di lui e due schiavi) perchè quegli non uscì come soleva in carrozza: investirono il Castelnuovo e lo trovarono chiuso e guardato: le prime speranze della congiura fallarono. Ma dopo quelle mosse irrevocabili, trascinati dalle necessità del presente, confidando nella immensa forza di popolo sfrenato, andarono con bandiera di Cesare gridando il nuovo re, accrescendo il tumulto, atterrando le immagini di Filippo, ergendo quelle di Carlo, arringando la plebe nelle piazze, promettendo abbondanza e, secondo gli usi dispotici del tempo, impunità, favori e privilegi. Ne’ quali moti que’ nobili congiurati, per accrescersi potenza o per giovanile superbia, si chiamavano de’ nuovi titoli di principi e duchi patteggiati con Cesare.

Il dottore, Saverio Pansuti, altiero, dotto, facondo, congiurato e nella congiura eletto del popolo, salito sopra poggiuolo della piazza del mercato, popolosa e facile alle novità, chiamò col cenno le genti ad ascoltarlo: disse ch’egli era il nuovo Eletto, rammentò i mali del governo di Spagna, ingrandiva le speranze dell’impero di Cesare, magnificava le forze della congiura, prometteva doni e mercedi, pregava il popolo si unisse a’ nobili. Finita l’aringa, un uomo tra quelle genti, canuto di vecchiezza e plebeo, con voce alta parlò in questi sensi.

“Voi, Eletto, e voi, popolo, ascoltate. Sono molti anni che il mal governo spagnuolo fu da noi scosso, movendoci Masaniello popolano, Stettero i nobili o contra noi o in disparte, e spesso vennero ad aringare (come ora il nuovo Eletto) per ricondurci alla servitù, chiamandola quiete. Io, giovinetto, seguitai le parti del popolo, vidi le fraudi de’ signori, le tradigioni del governo, le morti date a miei parenti ed amici. Io vecchio ora che parlo, e assennato dal tempo, credo che in questa congiura di nobili debba [p. 22 modifica]il popolo abbandonarli. come nella congiura di Masaniello fu da nobili abbandonato. Udite già gli assunti nomi di principe di Piombino, principe di Salerno, conte dî Nola; e aspettatevi tanti altri ancora ignoti, ma che tutti sarebbero sopra noi nuovi tiranni. Io mi parto da questo luogo: mi seguirà chi presta fede ai miei detti.” Restò vuota la piazza: il primo oratore tornò confuso.

Ma pure molti della più bassa plebe e del contado, non per amore di fazione ma per avidità di guadagni, rinforzarono i congiurati; e nel tumulto andavano spogliando le case, ed necidendo alla cieca uomini d’ogni parte: alle quali opere malvage, parecchi uomini della nobiltà, cospiratori ancor essi, o aderenti ma non palesi, ripararonsi ai castelli da milizie spagnuole guardati; altri fuggirono la sconvolta città, altri munirono le case di sbarre e armigeri. Scemavano la potenza della impresa le sfrenatezze della plebe e l’avvedimento de’ grandi: tal che il principe di Macchia per editto minacciò pena di morte così a’ predoni quanto a coloro tra’ nobili che indugiassero oltre un giorno ad ajutare le parti del re Carlo. L’editto disperante agli uni, estremo agli altri, nocque in doppio modo alla congiura.

Così che il vicerè, vedendo freddo il popolo, i nobili divisi, i congiurati pochi e ormai timidi, fece sbarcare nel terzo dì le ciurme delle galere spagnuole ancorate nel porto; e formate a schiera con le milizie, le spinse dal Castelnuovo contro i ribelli accampati dietro certe sbarre in alcuni posti della città: mentre i castelli, ad offendere e spaventare, facevano romore continuo di artiglieria. La torre di Santa Chiara, occupata dai congiurati per innalzarvi la bandiera d’Austria, spiare dall’alto nella città, e sonare a doppio le campane, fu subito espugnata; gli aliri posti assaltati e presi. Si dispersero i difensori: il Macchia ed altri fuggirono; Sassinet e Sangro furono prigioni: abbassata e vilipesa la bandiera di Carlo, si rialzarono le immagini e le insegne di Filippo. Nulla rimase della tentata ribellione, fuorchè la memoria, ii danno e i soprastanti pericoli.

Di fatti, richiamato il Medinaceli, venne da Sicilia vicerè il duca di Ascalona. A don Carlo di Sangro, colonnello di Cesare, fu mozzato il capo nella piazza del Castelnuovo; altri congiurati finirono della stessa morte; altri spietatamente uccisi nelle carceri. Sassinet, però che segretario di ambasciata, fu mandato in Francia prigione: molti languivano nelle catene, i beni di tutti furono incamerati, crebbero i rigori, le pene, i supplizii per tutte le colpe sopra tutte le classi de’ cittadini. Al quale spettacolo e terrore il popolo si sdegnò del governo, e sentì pentimento d’essere mancato alla congiura de’ nobili, come suole agli nomini: fallire e pentirsi.

V. (1702) Saputa dal re Filippo quello congiura, misurata la mole de corsi pericoli, incerte ancora le guerre d’Ttalia e di Spagna,

è [p. 23 modifica]volle per liberalità e clemenza calmare gli odii della ribellione e de’ castighi. Imbarcato perciò a Barcellona, venne in Napoli nel giugno del 1702, e fu ricevuto con le festevoli accoglienze che usano le genti oppresse a coloro in cui sperano. Il popolo non ottenne quel che più bramava, ritenere il suo re, da maggiori destini chiamato nelle Spagne; ma conseguì la larga mercede alle amorevoli dimostrazioni, però che il re abolì molle taglie, donò molti milioni di ducati dovuti al fisco, rimise le passate colpe di maestà, diede titoli a’ nobili di sua parte, sempre mostrandosi co’ soggetti benigno e piacevole. Si assembrarono il clero, i baroni, gli eletti per decretare, in segno di universale gratitudine, un dono al re di trecento mila ducati, e lo innalzamento della sua statua equestre in bronzo nella piazza maggiore della città. Ma i progressi dell’esercito d’Austria in Lombardia obbligarono Filippo, dopo due mesi di gradevole soggiorno, a partire di Napoli per pigliare il freno degli eserciti gallispani che fronteggiavano il fortunato Eugenio di Savoja. Lasciò vicerè lo stesso Ascalona.

VI. Nell’anno 1705, trapassò l’imperalore Leopoldo, e gli suecesse Giuseppe, suo primo figlio. Non perciò rallentarono i furori della doppia guerra in Alemagna e in Italia: sì che l’Ascalona spediva soldati, navi, e denaro in ajuto di Spagna; straziando per leve d’uomini e di tributi gli afflitti popoli. L’amore per Filippo dechinava, e n’era cagione l’acerbità de’ suoi ministri. Così stando le cose nel 1707, il principe Eugenio, disfatti nella Lombardia gli eserciti gallispani, spedì sopra Napoli, per le vie di Tivoli e Palestrina, cinque mila fanti e tre mila cavalieri tedeschi sotto l’impero del conte Daun. Il vicerè Ascalona, scarso di proprie forze, concitò i regnicoli che trovò, per avversione alla guerra e per tendenza alle novità di governo, schivi all’invito. Solamente il principe di Castiglione, don Tommaso d’Aquino, e ’l duca di Bisaccia, don Niccolò Pignatelli, con poche migliaja di armati, accamparono dietro al Garigliano, ed all'avanzarsi del Daun, tornarono in Napoli. Capua ed Aversa si diedero al vincitore; il duca di Ascalona riparò a Gaeta. L’avanguardo tedesco, retto dal conte di Martinitz, nominato da Cesare vicerè di Napoli, era in punto di marciare ostilmente; quando legati di pace gli andarono incontro a presentare le chiavi della città, non vinta, ma vogliosa del nuovo impero. L’ingresso delle schiere cesaree fu trionfale; il popolo alzò voci di plauso al vincitore, e furioso, qual suole nelle allegrezze, atterrata la statua poco innanzi eretta di Filippo V, rotta in pezzi, la gettò nel mare. Pochi giorni appresso cederono i tre castelli della città; il presidio di Castelnuovo, ufiziali e soldati spagnuoli e napoletani, passò agli stipendii del nuovo principe, non vergognando della incostanza. [p. 24 modifica]

Il principe di Castiglione, o non ancora sentisse morte le speranze, o (che più l’onora) si conservasse fedele alle sventure della sua bandiera, con mille cavalli riparavasi nelle Puglie; ma trovato munito dal nemico il passo di Avellino, deviò per Salerno. Più numerosa cavalleria tedesca lo inseguiva; le sue genti lo abbandonavano; con pochi resti de’ mille fu prigione. Potendo quegli esempii su tutto il regno, si arresero al general Veizeel gli Abruzzi, che il duca d’Atri vanamente incitava alla guerra, ed indi a poco la fortezza di Pescara; la sola Gaeta, rinforzata delle galere del duca di Tursi, faceva mostra di resistere lungamente.

Stretta di assedio che il conte Daun dirigeva, e aperta, non finito il settembre, una breccia, gli assalitori vi montavano, e gli assediati andavano fuggendo in mal ordine dietro un argine alzato giorni innanzi per compenso de’ rotti muri: la debilità del luogo, la paura de’ difensori, l’impeto degli assalti, la fortuna portando i Tedeschi oltre la fossa e la trinciera, entrarono nella costernata città e vi fecero stragi e rapine. L’Ascalona e pochi altri riparati nella piccola torre di Orlando, la cederono il dì seguente per solo patto di vita, e vennero in Napoli prigioni: erano, tra i più chiari, oltre il vicerè, il duca di Bisaccia e ’l principe di Cellamare, uomini poco innanzi autorevoli e primi nel regno, valorosi nelle battaglie, nobilissimi di sangue. favoriti sempre dalla fortuna; oggi avviliti e prigioni di barbaro straniero. La plebe, dietro quella misera truppa di cattivi, offendeva l’Ascalona rammentando le esercitate crudeltà nella congiura di Macchia; e più spietata e codarda volgeva le ingiurie a’ due nobili napoletani che soli o tra pochi mantennero nelle sventure la giurata fede a Filippo. 11 dominio di Cesare si stabili nel regno; e chiamato in Germania il conte di Marlinitz, restò vicerè il conte Daun.

VII. Subito attese a ricuperare le fortezze (dette Presidii) della Toscana. che soldati spagnuoli guardavano. Al general Vetzeel, colà spedito con buona schiera, si renderono Santo Stefano ed Orbitello: indi per più gravi travagli di guerra, Porto Longone; e finalmente, nel 1712, Portercole. Chiamato il Daun a guerreggiare in Lombardia, gli succede ne! viceregno il cardinale Vincenzo Grimani veneto.

Era finita per Napoli la guerra; ma la occupazione di Comacchio da’ soldati cesarei, la intimazione di Cesare al duca parmigiano di tenersi feudatario non più del papa, ma dell’impero, e infine il divieto al regno di pagare le tasse consuete al pontefice, mossero Clemente XI ad assoldare venti mila uomini d’arme sotto il conte Ferdinando Marsili, bolognese, ed accamparli nelle terre di Bologna, Ferrara e Comacchio. Ciò visto, il Daun partivasi dalla Lombardia verso quella schiera, ed in Napoli si adunavano altre [p. 25 modifica]forze contro Roma. L’imperatore Giuseppe non voleva contese col papa, ma intendeva per quegli atti di guerra forzarlo a riconoscere sovrano di Spagna Carlo, suo fratello. Perciò il Daun, procedendo contro que’ campi, proponeva accordi al pontefice, il quale, alle risposte audace e saldo, mostrava confidare nella guerra. Strano perciò vedere un felice capo di eserciti invocar la pace, ed un papa le armi.

Alle ostinate ripulse procedendo le genti tedesche, presero con poca guerra Bondeno e Cento, circondarono Ferrara e Forte-Urbano; e, imprigionata parte delle milizie papali; fugati i resti, stanziarono ad Imola e Faenza. Clemente, solto quelle sventure, è alle peggiori che minacciava l’esercito mosso da Napoli, piegò lo sdegno e, non più pregato, pregando accordi, accettò patti e pubblici e secreti, per i quali tutte le voglie del vincitore si appagavano. Fu vera pace negli atti scritti e nella mente degli uomini, ma tregua e inganno nell’animo del pontefice; il quale aspettava opportunità di rompere quegli accordi, che, non ratificati dalla coscienza, parevano a lui leggi di forza, durabili quanto la necessità.

VIII. Morto in Napoli, nel 1710, il cardinal Grimani, venne vicerè il conte Carlo Borromeo, milanese. E nel seguente anno trapassò l’imperatore Giuseppe, al quale succedè Carlo, fratello di lui, terzo di quel nome nelle contrastate Spagne, quarto nella Germania e nel reame di Napoli. Durò altri due anni la guerra che fu detta di successione, ma dipoi la pace di Utrecht venne a rallegrare le travagliate genti (1713). Ciò che importò di quegli accordi alla nostra istoria fu il mantenimento del regno di Napoli a Carlo V, e la cessione del regno della Sicilia al duca di Savoja, Vittorio Amedeo. E pure importa sapere, per i futuri destini di questi due regni, che la corona delle Spagne si fermò in Filippo V.

Poco appresso alla pace di Utrecht, il re Vittorio andò a Palermo per entrare al possesso del regno, e godere gli omaggi e ’l nome nuovo di re. Giunto nell’ottobre, e lietamente accolto da’ popoli, ebbe il dominio del regno dal marchese de Los Balbases, vicerè per Filippo V: e coronati con la moglie nel seguente dicembre, tornarono in Piemonte, lasciando l’isola, presidiata e obbediente, a governo del vicerè Annibale Maffei mirandolese.

Ma nella pace di Utrecht non essendo chiamato l’imperatore Carlo VI (così che in tutto l’anno 1713 durò la guerra in Spagna, in Italia, nelle Fiandre) abbisognò nuova pace che si fermò in Rastadt l’anno 1714; per la quale l’imperatore teneva la Fiandra, lo stato di Milano, la Sardegna, il regno di Napoli e i Presidii della Toscana. Il conte Daun ritornò in Napoli vicerè. Pareva stabile quella quiete, però che le ambizioni de’ re potenti erano soddisfatte, quelle de’ deboli principi disperate: quando tre anni [p. 26 modifica]appresso, nel 1717, senza motivo di guerra, senza cartello, senza contrasto, poderosa armata spagnuola occupò la Sardegna. Dopo la universale maraviglia si apprestavano armi muove in Germania ed in Francia; ma lo stesso naviglio di Spagna, improvvisamente assaltando la Sicilia, prese Palermo, fugatone il vicerè di Amedeo; espugnò Catania, bloccò Messina, Trapani, Melazzo. Reggeva tanta guerra il marchese di Leede, nato Fiammingo, generale di Filippo V.

Si collegarono in Londra nel 1718, contro la Spagna, infida e ingorda di reami, l’Impero, il Piemonte, la Francia e la Inghilterra; e per patti, allora secreti, assalirono gli eserciti e le armate spagnuole in varie parti. Molte navi inglesi con soldati di Cesare ancorarono nel porto di Messina; oltre dieci migliaja di Napoletani e Tedeschi accamparono a Reggio, intendendo a liberare la cittadella di Messina e ‘l forte di San Salvatore dall’assedio che stringeva l’intrepido Leede. In due battaglie navali ebbe piena vittoria l’ammiraglio inglese Bing su lo spagnuolo Castagnedo; così che molte navi furono prese, altre affondate, poche fugate o disperse. La città di Messina, benchè dagli Spagnuoli posseduta, era investita; i campi spagnuoli minacciati: ma quel Fiammingo, assediato ed assediatore, provvedendo quando alle offese quando al difendersi, espugna le due fortezze, e, innanzi agli occhi del vincitore Bing e de’ campi cesarei, avventuroso innalza sopra quelle rocche la bandiera di Spagna. Lasciata la città ben munita, corre all’assedio di Melazzo.

(1720) Altre armate, altre schiere nemiche alla Spagna arrivano in Sicilia: è presa per esse Palermo, liberata Melazzo, ricuperata Messina: i popoli che parteggiavano per il fortunato Leede, oggi, multata sorte, parteggiano per Cesare: tutto va in peggio. Il generale spagnuolo, sospettando le sventure estreme, preparava l’abbandono dell’isola. La Spagna, travagliata in altre guerre, ormai non eguale a’ potentissimi suoi contrarii, accetta per pace i secreti accordi dell’alleanza nemica, e riceve piccolo e futuro premio contro i danni gravi e presenti della guerra. La Sicilia per quella pace fu data a Cesare: il re Amedeo n’ebbe, ricompensa povera, la Sardegna: ebbe Filippo V la successione a’ ducati di Parma, Piacenza e Toscana. I principi ancora viventi di que’ paesi, il papa pretendente al dominio di Parma, e ‘l re Amedeo restarono scontenti di que’ patti: ma in povertà di stato null’altro poterono che lamenti e proteste. Il generale Leede imbarcò per la Spagna le sue genti e cinque cento dell’isola che volontarii si spatriarono; però che rimasti fedeli alla parte spagnuola temevano lo sdegno e la vendetta del vincitore. Misera sorte di chi s’intrigò [p. 27 modifica]nelle contese de’ re, e meritata se lo fece non a sostegno di massime civili, ma per ambizione o guadagno.

Le due Sicilie si unirono sotto l’impero di Carlo VI, che nominò vicerè nell’isola il duca di Monteleone, ed in Napoli il conte Gallas dopo il conte Daun richiamato. Morto il Gallas, gli succede il cardinale di Scrotembach. E poichè nell’anno 1721 morì Clemente XI e fu eletto Innocenzo XIII, il nuovo papa, vedendo declinata la fortuna e la potenza di Filippo V, non dubitò di concedere al felice Carlo VI la domandata investitura de’ due regni. A questo Innocenzo nell’anno 1724, Benedetto XIII successe,

IX. In dieci anni, dal 1720 al 30, non avvenne in Napoli cose memorabili, fuorchè tremuoti, eruzioni volcaniche, diluvii e altre meteore distruggitrici. Ma nella vicina Sicilia, l’anno 1724, fatto atroce apportò tanto spavento al regno, che io credo mio debito il narrarlo a fine che resti saldo nella memoria di chi leggerà; e i Napoletani si confermino nell’odio giusto alla inquisizione, oggidì che per l’alleanza dell’impero assoluto al sacerdozio, la superstizione, la ipocrisia, la falsa venerazione dell’antichità spingono, verso tempi e costumi abborriti, e vedesi quel tremendo ufizio, chiamato santo, risorgere in non pochi luoghi d’Italia, tacito ancora e discreto, ma per tornare, se fortuna lo ajuta, sanguinario e crudele quanto ne tristi secoli di universale ignoranza.

Andarono soggetti al santo-uffizio, l’anno 1699, frà Romualdo laico agostiniano, e suora Geltrude bizzoca di san Benedetto: quegli per quietismo, molinismo; eresia; questa per orgoglio, vanità temerità, ipocrisia. Ambo folli, però che il frate, con le molte sentenze contrarie a dogmi o alle pratiche del cristianesimo, diceva ricever nngeli messaggieri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, avere inteso dalla vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione. I santi inquisitori ed i teologi del santo-uffizio avevano disputato più volte con quei miseri, che ostinati, come mentecatti, ripetevano delirii ed eresie. Chiusi nelle prigioni, la donna per 15 anni, il frate per 18 (attesochè gli altri sette li passò a peniteaza ne’ conventi di san Domenico) tollerarono i martorii più acerbi, la tortura, il ftagello, il digiuno, la sete; e alla per fine giunse il sospirato momento del supplicio. Avvegnachè gl’inquisitori condannarono entrambo alla morte, per sentenze confermate dal vescovo di Albaracin stanziato a Vienna, e dal grande inquisitore della Spagna; dopo di che il devoto imperatore Carlo VI comandò che quelle condanne fossero eseguite con la pompa dell’atto-di-fede. Le quali sentenze amplificavano il santissimo tribunale, [p. 28 modifica]la dolcezza, la mansuetudine, la benignità de’ santi inquisitori: e incontro a sensi tanto umani e pietosi le malvagità, la irreligione, la ostinatezza de’ due colpevoli. Poi dicevano la necessità di mantenere le discipline della sacrosanta cattolica religione, e spegnere lo scandalo, e vendicare lo sdegno de’ cristiani.

Il dì 6 di aprile di quell’anno 1724, nella piazza di Sant’Erasmo, la maggiore della città di Palermo, fu preparato il supplizio. Vedevi nel mezzo croce altissima di color bianco e da’ lati due roghi chiusi, alto ciascuno dieci braccia, coperti da macchina di legno a forma di palco, alla quale ascendevasi per gradinata; un tronco sporgeva dal coperchio di ogni rogo; altari da luogo in luogo, e tribune riccamente ornate stavano disposte ad anfiteatro dirimpetto alla croce; e nel mezzo, edificio più alto, più vasto, ricchissimo di ornamenti per velluti, nastri dorati ed emblemi di religione. Questo era per gl’inquisitori; le altre logge per il vicerè, l’arcivescovo, il senato; e per i nobili, il clero, i magistrati, le dame della città: il terreno per il popolo. A’ primi albori le campane sonavano a penitenza: poi mossero le processioni di frati, di preti, di confraternite, che traversando le vie della città, fatto giro intorno alla croce, si schierarono all'assegnato luogo. Popolata la piazza sin dalla prima luce, riempivano le tribune genti che a corpi o spicciolate, con abiti di gala, venivano al sacrifizio, era pieno lo spettacolo; si attendevano le vittime.

Già scorso di due ore il mezzo del giorno, mense innumerevoli ed abbondanti cuoprirono le tribune, così che la scena preparata a mestizia mutò ad allegrezza. Fra quali tripudii giunse prima la misera Geltrude, legata sopra carro, con vesti luride, chiome sparse e gran berretto di carta che diceva il nome, scritto con dipinte fiamme d’inferno. Convojavano il carro, tirato da bovi neri e preceduto da lunga processione di frati, molti principi e duchi sopra cavalli superbi; e dietro, cavalcati a mule bianche, seguivano i tre padri inquisitori. Giunto il corteggio, e consegnata la donna ad altri frati domenicani e teologi per le ultime e finte pratiche di conversione, ricomparve corteggio simile al primo per il frate Romualdo: ed allora gl inquisitori sederono nella magnifica ordinata tribuna.

Compiute le formalità, bandito ad alla voce l’ostinato proponimento de’ colpevoli, lette le sentenze in latino, prima la donna salì al palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiottate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo: indi bruciarono le vesti, anch’esse intrise nel catrame, e partirono. La misera rimasta sola sul palco, mentre gemeva e le ardevano intorno e sotto i piedi le finmme, cadde col coperchio del rogo, e scomparso il corpo, rimasero a’ [p. 29 modifica]sensi degli spettatori i gemiti di lei; le fiamme, il fumo, che andavano ad oscurare l’alta croce di Cristo svergognata. Così frà Romualdo morì nell’altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna. Tra gli spettatori notavasi un drappello sordido, mesto, di ventisei prigioni del sant’uffizio. voluti presenti alla cerimonia: soli, fra tutti, che piangessero di que’ casi, perciocchè gli altri, sia viltà o ignoranza, o religion falsa, o empia superstizione, applaudivano l’infame olocausto. Erano i tre inquisitori frati spagnuoli: degli allegri assistenti non dirò i nomi, però che i nepoti, assai migliori degli avi, arrossirebbero; ma sono in altre carte registrati; che raramente le pubbliche virtù, più raramente i falli rimangono nascosti. Descrisse quell’atto in grosso volume Antonio Mongitore; e dal dire e dalle sentenze si palesò divoto e partigiano del santouffizio: egli lodato per altre opere a soprattutto per la biblioteca siciliana, chiaro mostrò che la dolcezza delle lettere umane era stata in lui vinta dagli errori del tempo, e dalla intolleranza del suo stato: era canonico della cattedrale.

X. L’anno 1730 nuovi moti di guerra si palesarono; giacchè per le secrete pratiche di Hannover, la Francia, la Spagna e la Inghilterra apprestavano eserciti ed armate, e l’imperatore Carlo VI, avvisato di que’ disegni, spediva nuove milizie ad afforzare gli stati di Milano e delle Sicilie. In quell’anno istesso, per la morte di Benedetto XIII, ascese al papato Clemente XII. E si udì il famoso re Vittorio Amedeo rinunziare il regno a suo figlio Carlo Emanuele, per andare privato nel castello di Chambery. Anni avanti, maggior re, Filippo V, aveva pur fatta cessione del regno per vivere divotamente, ei diceva, nel castello di Sant’Idelfonso; ma dopo otto mesi, per la morte del figlio Luigi, ripigliata la corona, regnò come prima infingardo e doppio. Così Amedeo, presto fastidito del ritiro di Chambery, volea tornare all’impero; ma il figlio re gli si oppose, ed indi a poco lo mandò prigione al castello di Rivoli, poscia a quello di Moncalieri, dove, guardato, morì miseramente, negatogli di vedere gli amici, il figlio istesso, la moglie.

XI. (1732-35) Dopo due anni di pratiche ed apparecchi venne in Italia l’infante di Spagna don Carlo, per mostrarsi a’ popoli di Toscana, Parma e Piacenza, suoi futuri soggetti, facendosi nella reggia spagnuola memorabili cerimonie di congedo; avvegnachè nel giorno della partita stando il re Filippo e la regina Elisabetta seduti in trono, e tutta la corte assistente, l’infante don Carlo, com’era costume di quella casa e come voleva figliale rispetto, s’inginocchiò innanzi al padre, il quale con la destra gli segnò ampia croce sul capo, e messolo in piede gli cinse spada ricchissima d’oro e di gemme, dicendo: “È la stessa che Luigi XIV mio avo mi pose al fianco quando m’inviò a conquistare questi regni di Spagna: porti a te, [p. 30 modifica]senza i lunghi travagli della guerra, fortuna intera.” E baciato su la gota, lo accommiatò. Poco di poi eserciti poderosi di Francia scesero per cinque strade in Italia, dal vecchio maresciallo di Villars; e rinovando guerra nella Lombardia ebbero successi felici. Ciò visto, molte navi spagnuole sciolte dai porti di Livorno e Longone, ed un esercito radunato negli stati di Parma e di Toscana, guidato dall’infante per nome o impero, e dal conte di Montemar per consiglio, si avviarono nemichevolmente verso Napoli. La quale impresa, come origine del novello stato, narrerò nel seguente capo, qui bastando accennare che non ancora finito il mezzo dell’anno 1735, tutte le terre e tutti i popoli delle due Sicilie stavano sotto il re Carlo Borbone.

XII. Le cose riferite de’ passati tempi risguardano al dominio di questi regni; palleggiati di casa in casa regnante per guerre e conquiste. E se qui fermassi il racconto, null’altro avrei rappresenato che violenze de’ grandi, sofferenze di popoli, vicissitudini di fortuna; cose note sazievolmente a’ lettori. Sarà miglior pregio descrivere fra tanti scambiamenti d’impero il cammino della civiltà, ovvero le leggi, i magistrati, la finanza, l’amministrazione, la milizia, le condizioni dei feudi, lo stato della Chiesa: nè già da principio al fine, materia che soperchierebbe lo scopo dell’opera e le forze dello scrittore, ma quali erano l’anno 1734, quando Carlo Borbone venne al trono delle Sicilie.

Nella caduta dell’imperio di Roma decaddero le sue leggi; si ebbero leggi scritte da’ Longobardi. Vinti costoro da’ Normanni, rimasero quelle leggi più autorevoli perchè durate sotto stirpe nemica e vincitrice. Prima sparse, furono poi composte in libro; ma non isperì chi legge in esso (una copia se ne conserva negli archivii della Trinità della Cava) trovarvi distinte le materie legislative, essendo l’ordinare de’ codici scienza moderna. Le leggi di Roma restate in quella età valide per il clero, sapienza e tradizione per i dotti, non avevano forza nello stato, perciocchè il re comandava, sentenziavano i giudici, le ragioni dei cittadini si dispensavano secondo il libro longobardo.

E benchè di credito scemasse quel codice poi che le Pandette di Giustiniano furono lette e disputate nelle scuole d’Italia, reggeva pure sempre accresciuto dalle leggi normanne: trentanove di Ruggiero, ventuna di Guglielmo I, tre del II, tutte col nome di Costituzioni. Passato il regno agli Svevi, Federigo volle che le sue leggi con le normanne, disposte in libro e chiamate dal suo nome costituzioni di Federigo II, si promulgassero. E quindi crebbe la mole delle leggi scritte co’ capitoli della stirpe angioina, con le prammatiche degli Aragonesi. Divenuto il regno provincia spagnuola e poi tedesca, molte leggi col nome istesso di prammatiche furono date [p. 31 modifica]da’ re di Spagna , dagl’imperatori di Germania, e da’ loro vicerè. Fra tanto scambiarsi di dominii e di codici, alcune città si governavano per consuetudini.

E perciò cominciando a regnare Carlo Borbone, undici legislazioni, o da decreti di principe, o da leggi non rivocate, autorità di uso reggevano il regno: ed erano: l’antica romana, la longobarda, la normanna, la sveva, l’angioina, l’aragonese, l’austriaca spagnuola, l’austriaca tedesca, la feudale, la ecclesiastica la quale governava le moltissime persone e gli sterminati possessi della Chiesa, la greca nelle consuetudini di Napoli, Amalfi, Gaeta, ed altre città un tempo rette da uffiziali dell’impero di Oriente; così come le consuetudini di Bari e di altre terre traevano principio dalle concessioni longobarde. Le molte legislazioni s’impedivano, mancava guida o imperio alla ragione de’ cittadini, al giudizio dei magistrati.

Un giudice in ogni comunità, un tribunale in ogni provincia, tre nelle città, un consiglio detto collaterale presso il vicerè, altro consiglio chiamato d’italia o supremo presso del re in Ispagna quando i re spagnuoli dominavano, o in Germania quando imperavano i Tedeschi, erano i magistrati del regno. Non bastando alla procedura i riti di Giovanna II, suppliva l’uso, e più spesso l’arbitrio del vicerè: non essendo ben definito il potere de’ magistrati, la dubbietà delle competenze si risolveva dal comando regio: e le materie giudiziario avviluppandosi alle amministrative, il diritto e ‘l potere, il magistrato e ’l governo soventi volte si confondevano. Finalmente, per la ignoranza di quella età, i soggetti credendosi legittimi servi, e i reggitori stimandosi non ingiusti a soperchiare, ne derivava doppio eccesso di servitù e d’impero: con deformità più manifesta ne’ processi e ne’ giudizii. Crearono gli enunciati disordini curia disordinata e malvagia. Qualunque della plebe con toga in dosso dicevasi avvocato, ed era ammesso a difendere i diritti o le persone de’ cittadini: e però che all’esercizio di quel mestiere pieno di guadagni non si richiedevano studii, esami. pratiche, lauree, moltiplicava tuttodì la infesta gente de’ curiali.

XIII. Ora dirò della finanza, parte assai principale di governo, che oggi vorrebbe sottoporsi a regole e guidarsi con filosofiche dottrine, tal che mantenesse la potenza allo stato e la prosperità del vivere civile: ma ne’ tempi de’ quali compongo le istorie, era uso cieco e violento di forza, senza ordine, o misura, o giustizia; rovinoso a’ privati, non profittevole all’universale, S’imponevano tributi a tutte le proprietà, a tutte le consumazioni, a qualunque segno di possesso, alle vesti, al vitto, alla vita, senza misura o senno, solamente mirando all’effetto maggiore delle imposte. Sotto i Normanni e gli Svevi (rammento cose note, ma necessarie) ne’ regni [p. 32 modifica]meno rei di Guglielmo il Buono, di Federigo II e di Manfredi congregandosi a parlamento la baronìa, il clero, i maggiori di ogni città, si statuivano le somme da pagarsi al fisco; ma quelle pratiche civili, già decadute sotto gli Angioini ed Aragonesi, cessarono affatto nell’avaro governo vicereale, che a ragione temeva le adunanze degli uomini e de’ pensieri: o se talvolta i reggitori commettevano a’ Seggi della città di proporre le nuove taglie, era scaltrezza per evitare i pericoli e l’onta dell’odiosa legge. Poste tutte le gravezze, nè però satollata l’avidità o provveduto a’ bisogni, si venne a’ partiti estremi, sperdendo i beni del demanio regio, dando a prezzo i titoli di nobiltà e le magistrature, infeudando le città più cospicue, ipotecando le future entrate del fisco, o alienandole come quelle dette con voce spagnuola arrendamenti.

XIV. Non meno della finanza era mal provvista l’amministrazione de’ beni e delle entrate comunali, che per le costituzioni di Federigo II, perciò sin da tempi antichissimi, affidavasi ad un sindaco e due eletti, scelti dal popolo in così largo parlamento che non altri erano esclusi dal votare fuorchè le donne, i fanciulli, i debitori della comunità, gl’infami per condanna o per mestiero. Si adunava in certo giorno di estate nella piazza, e si facevano le scelte per gride, avvenendo di raro che bisognasse imborsar più nomi per conoscere il preferito. Libertà, che non eguale alle altre regole di governo e superiore a’ costumi del popolo, trasmodava in licenza e tumulti. Due sole amministrazioni si conoscevano, di municipio e di regno: le innumerevoli relazioni di municipio a municipio, a circondario, a distretto, a provincia, erano trasandate o provvedute per singolari arbitrarie ordinanze. L’amministrazione del regno non avendo codice che desse moto, norma o ritegno alla suprema volontà, mancava quell’andar necessario per leggi che è certo cammino e progresso alla civiltà. Perciò le opere pubbliche erano poche, volgendosi a profitto dell’erario il denaro, che ben regolato regno spende per comune utilità: le sole nuove fondazioni erano di conventi, di chiese, di altri edifizii religiosi, ovvero monumenti di regio fasto. Quindi le arti, poche e meschine: una la strada, quella di Roma; piccolo e servo il traffico di mare cogli esterni, nullo quello di terra, i fiumi traboccanti, i boschi cresciuti a selvatiche foreste, l’agricoltura come primitiva, la pastorizia vagante, il popolo misero e dicrescente.

Solamente per circolo inesplicabile dell’umano intelletto, risorgevano fra tanta civile miseria le lettere e le scienze, nè già per cura del governo, che in questa come nelle altre utili opere stava ozioso ed avverso, ma per accidentale (se non da Dio provveduto) simultaneo vivere d’uomini ingegnosissimi. Domenico Aulisio, Pietro Giannone, Gaetano Argento, Giovan Vincenzo Gravina, Nicola [p. 33 modifica]Capasso, Niccolò Cirillo e tanti che saria lungo a nominarli, nati al finire del secolo XVII, vivevano ne’ primi decenni del secolo seguente come luce della loro età e dell’avvenire. E viveva Giovan Battista Vico, miracolo di sapienza e di fama postuma, però che da nessuno pienamente inteso, da tutti ammirato, e coll’andar degli anni meglio scoperto e più accresciuto di onore, dimostra che in lui era forse volontaria l’oscurità, o che le sentenze del suo libro aspettano per palesarsi altri tempi ed ordine di studii più confacente alle dottrine di quello ingegno.

XV. Assai peggiori delle istituzioni civili erano le militari. Si usavano per levar soldati tutti i modi illegittimi: i gaggi, la seduzione, la scelta da’ condannati o dai prigionieri, la presa de vagabondi, l’arbitrario comando de’ baroni; il solo mezzo giusto della sorte non era usato. I pessimi delle città erano quindi eletti al più nobile uffizio dei cittadini, e si mandavano per guerre lontane in Italia o più sovente in Ispagna, dove con abito spagnuolo, sotto non propria insegna, per nome e gloria d’altri combattevano. Napoli intorpidiva in servitù scioperata, i Napoletani stavano in guerra continua ed ingloriosa. Non erano nello interno ordini di milizia; milizie straniere guardavano il paese, e le nostre in terra straniera ohbedivano alle non proprie ordinanze: le arti di guerra imparate altrove non erano utili a noi; e ’l sangue e i sudori delle nostre genti non facevano la gloria nostra. Cosi che mancavano ordini, usi, esercizii, tradizione, fama, sentimento di milizia: e questo nome onorevole negli altri stati era per Napoli doloroso ed abborrito.

XVI. La stessa feudalità era caduta di onore. Io dirò in miglior luogo come ella venne a noi, quanto crebbe; come per le consuetudini feudali e le costituzioni de principi disposte in libro, la servitù de’ vassalli si legittimò; quali furono le venture della feudalità ne’ regni angioini e svevi, e quanta la superbia di lei contro i re aragonesi: qui basta rammentare che precipitò di tanta altezza nel governo de’ vicerè; nè già per leggi o studio di abbassarla, ma per propria corruzione e per esiziale natura di que’ governi. I baroni non più guerrieri, né sostegni o pericolo de’ loro re non curanti le opere ammirate di generosa nobiltà, oziosi e prepotenti ne’ castelli, si godevano tirannide sopra vassalli avviliti. E i vicerè avari vendevano feudi, titoli, preminenze; innalzavano al baronaggio i plebei purchè ricchi; involgavano la dignità feudale. Perciò, all’arrivo del re Carlo Borbone, i feudatari, potenti quanto innanzi per leggi, erano, per se stessi, vili, corrotti, odiati e temuti; non come si temono le grandezze ma le malvagità.

XVII. Rimane a dire della Chiesa. Chi scrivesse con verità ed ampiezza le vite ed opere de pontefici, distenderebbe la storia civile della Italia; tanto si legano al pontificato le guerre, le paci, gli [p. 34 modifica]sconvolgimenti e mutamenti di stato, la civiltà rattenuta o retrospinta. E per dir solamente del nostro regno, le brighe de’ pontefici arrestarono, poi spensero il bene civile che faceva la stirpe sveva: i pontefici doppiarono i mali della stirpe angioina: i pontefici alimentarono le guerre domestiche sotto i re aragonesi. Niccolò III congiurò net vespro siciliano: Innocenzo VIII concertava la ribellione e la guerra baronale contro Ferdinando ed Alfonso: Alessandro VI non disdegnava di praticare con Bajazet, imperatore de’ Turchi, per dar travagli ai regni cristiani delle Sicilie: i pontefici nel lungo corso del viceregno concitavano a discordia ora i reggitori ora i soggetti, come giovasse meglio alle pretensioni sterminate della Chiesa.

E poichè natura delle cose o provvedimento divino è il precipitare ai mali che ad altri si arrecano, furono que’ pontefici quanto più malevoli tanto più tribolati ed infelici. Grandi sventure tollerò il papato in que’ secoli: appena ristoravasi dalle divisioni e scandali dello scisma, che seguirono le dottrine di Lutero e la riforma; le guerre infelici, la prigionia di Clemente VIT, gli atti del concilio di Trento non in tutto accettati dai re cristiani; la bolla di Cœna Domini rifiutata, la così detta monarchia di Sicilia rinvigorita, le rivoluzioni di Napoli per la inquisizione, il discacciamento de’ nunzii, l’abolizione della nunziatura: ed in breve la scoperta ribellione delle potestà civili e delle opinioni all’imperio della Chiesa.

E più scendeva la pontificale alterigia se nuovi frati e smisurate ricchezze non si facevano sostegni al declinare. Mancando di que’ tempi perfino il catasto, rimangono ignote molte notizie importanti all’istoria: gioverebbe conoscere il numero degli ecclesiastici e la quantità de’ loro possessi, per misurare quanto il sacerdozio potesse in quel popolo; ma le praticate ricerche ed il lungo studio non sono bastati al bisogno, percioccchè gli scrittori del tempo, se divoti alla Chiesa, mentivano per vergogna le mal tolte ricchezze; o se contrarii, per acerescere lo scandalo, le accrescevano. Tra le opposte sentenze io dirò le conghietture più probabili. Nel solo stato di Napoli erano gli ecclesiastici intorno a centododici mila, cioè, arcivescovi 22, vescovi 116, preti 56,500, frati 31.800, monache 23.600. E perciò in uno stato di quattro milioni di abitanti erano gli ecclesiastici nella popolazione come il 28 nel 1000, eccesso dannevole alla morale perchè di celibi, alla umanità perchè troppi, alla industria e ricchezza publica perché oziosi. Nella sola città di Napoli se ne alimentavano 16,500.

In quanto ai beni, gli autori più circospetti gli estimarono, escluso il demanio regio, due terze parti dei beni del paese; ed altri scrittori, che pur si dicevano meglio informati, affermano che delle cinque parti quattro ne godeva la Chiesa: sentenze l’una e l’altra maggiori del vero. [p. 35 modifica]

All’arrivo del re Carlo Borbone la sede apostolica pretendeva sopra i re e di regni arrogantemente come a’ tempi di Gregorio VII: ma, scema di moral potenza, sostenevasi, come ho detto, per gran numero di ecclesiastici e smisurate ricchezza; appoggi mondani, solamente saldi tra viziose generazioni.

XVIII. Stringerò in poche sentenze le materie discorse in questo capo. Era la Chiesa tuttavia potente di forze temporali; le credenze de’ popoli alla religione, ferme o accresciute; a’ ministri di lei ed al pontefice, addebolite. La feudalità intera, i feudatarii spregevoli, la milizia nulla, l’amministrazione insidiosa ed erronea. La finanza spacciata, povera nel presente, peggio per l’avvenire; i codici confusi, la curia vasta, intrigante, corrotta; il popolo schiavo di molti errori, avverso al caduto governo, bramoso di meglio. Perciò, bisogni, opinioni, speranze, novità d’impero, interesse di nuovo re, genio di secolo, tutto invitava alle riforme.