Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro VII/Capo I

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Libro VII Libro VII - Capo II

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LIBRO SETTIMO.


REGNO DI GIOACCHINO MURAT


anno 1808 a 1815.




CAPO PRIMO.


Arrivo in Napoli del re, della regina. Feste. Provvedimenti di guerra e di regno.


I. Un decreto dell’imperatore Napoleone, che chiamò statuto, dato in Bajona il dì 15 di luglio del 1808, diceva: «Concediamo a Gioacchino Napoleone nostro amatissimo cognato, gran duca di Berg e di Cleves, il trono di Napoli e di Sicilia, restato vacante per lo avvenimento di Giuseppe Napoleone al trono di Spagna e delle Indie.» Altri capi regolavano la discendenza, Era prescritto che Carolina Bonaparte quando mai sopravvivesse a Gioacchino Murat marito di lei, salisse al trono prima del figlio. Che il re delle due Sicilie, finchè durasse la stabilita discendenza, aggiungerebbe al suo titolo la dignità di grande ammiraglio dell’impero francese. Che mancata la stirpe Murat, la siciliana corona tornasse all’impero di Francia. Che il nuovo re governasse lo stato dal dì primo del vicino agosto con le regole dello statuto di Bajona del 20 giugno di quell’anno.

Un editto contemporaneo di Gioacchino prometteva a’ popoli delle due Sicilie felicità, grandezza, soliti vanti di chi regna; giurava lo statuto di Bajona: diceva prossimo il suo arrivo, inculcava a’ ministri e magistrati di vegliare nella sua assenza al manteninento dello stato. Con altro decreto nominava a suo luogotenente il maresciallo dell’impero Perignon.

II. Saputo il nuovo re, i Napolitani si chiedevano a vicenda il natale di lui, la vita, i costumi, i fatti pubblici; ma la fama del suo valore tutte invadeva le restanti cose, e sì che i mali esperti delle virtù militari in lui temevano inflessibil comando, cuor duro alla pietà, moti continui di guerra e di ambizione, incapacità ed impazienza alle cure di pace. Ai quali timori aggiungevano fede i recenti fatti di Spagna e la ribellione di Madrid, oppressa da Gioacchino [p. 52 modifica]cou molta strage di popolo. Ma dall’opposta parte così deboli e di effetto lontano erano i benefizii del regno di Giuseppe e sì grandi e pubblici i sofferti mali, che ogni vicenda di stato piaceva alla moltitudine; la quale inoltre credendo che l’indole guerriera del nuovo re disdegnasse le odiose pratiche di polizia, sperava almeno cambiar dolori, che è genere di riposo nelle miserie. Era Gioacchino ancor lontano, e ricorrendo il giorno del suo nome, si fecero nella città e nel regno pompose feste, così come si usa per adulazione o timore de’ re presenti.

A dì 6 settembre di quell’anno egli fece ingresso nella città a cavallo, superbamente vestito, ma non col manto regio o altro segno di sovranità, bensì da militare qual soleva in guerra. Ricevè alla porta (simulata con macchine nella piazza di Foria) gli omaggi de’ magistrati, le chiavi della città, tutti i segni della obbedienza. Egli, bello di aspetto, magnifico della persona, lieto, sorridente co’ circostanti, potente, fortunato, guerriero, aveva tutto ciò che piace a’ popoli. Nella chiesa dello Spirito Santo prese dal cardinal Firao la sacra benedizione, con religioso aspetto, ma tenendosi in piedi sul trono. Passò alla reggia, e tutte le cerimonie con disinvolti modi adempì quasi re già usato a quelle grandezze; la città fu riccamente illuminata; l’allegrezza pubblica, quella che nasce da felici momentanee apparenze, fu sincera e per tutta la nulle si prolungò.

III. I primi atti del regno, concedendo perdono a’ disertori, convocando i consigli di provincia, restringendo alcune spese per fino a danno dell’esercito francese ch’era di presidio nel regno, furono benigni e civili; diede alcun soccorso ai militari in ritiro, ed alle vedove ed orfani dell’antica milizia napoletana, dal precessore abbandonati; riformò lo stemma della corona per aggiugnervi la insegna di grande ammiraglio di Francia, e mutar nel suo nome quel di Giuseppe. Ed erano i principii di regno oltrachè benigni, come ho detto, felici; la polizia aveva sospeso o nascondeva i suoi rigori; le feste per la venuta del re non appena terminale, ricominciarono i moti di allegrezza e i guadagni del popolo per altre feste che si apprestavano alla regina. Vi erano dunque molte speranze di pubblico bene e tutte le immagini di letizia pubblica, quando il di 25 di settembre Carolina Murat giunse in città. Fu la cerimonia meno magnifica di quella già fatta nello arrivo del re, ma più splendida per ammirazione della bellezza di lei e del contegno veramente regale, e per lo spettacolo di quattro figliuoli teneri, leggiadrissimi, e per il comune pensiero che a Gioacchino il diadema era dono di lei.

IV. Tra quelle feste il re maturò la spedizione di Capri. Quell’isola, come ho riferito nel precedente libro, tenuta dagl’Inglesi, [p. 53 modifica]fatta fucina di congiurazioni e di brigantaggio era commessa all’impero del colonnello Lowe, uomo triste ed avaro. Il disegno di assaltarlo non fu confidato dal re che al ministro, della guerra per apprestar armi e provvigioni, e ad un uffiziale del genio, napoletano, per girare intorno all’isola sopra piccola non avvertita nave, e indicare il luogo dello sbarco e le altre particolarità di guerra necessarie all’impresa. Due volte nel regno di Giuseppe quella spedizione erasi tentata, ed altrettante per mancanza di secreto tornata a vuoto, anzi a danno e vergogna, perchè le nostre navi scontrate dalle navi nemiche furono prese o disperse.

Quell’isola lontana da Napoli ventisei miglia, tre dal capo delle Campanelle, s’eleva dal mare tutta in giro per alte rocce; una strettissima cala che chiamano porto dà mal sicuro ricovero alle piccole navi; angusta spiaggia di arena in altro luogo permetterebbe lo approdare a’ legni sottili, ma lo impedivano potenti batterie di cannoni e fortificazioni e trinciere. l’interno dell’isola dividesi in due parti, l’una ad oriente poco alta, l’altra ad occidente altissima; in quella è la città, pur detta Capri, e molte ville, il porto, la marina, i superbi segni della tiberiana lascivia, e terreno fertilissimo coperto di vigne; nell’altra parte, detta Anacapri, la terra è sterile e sassosa, il cielo grave di nugoli, agitato da’ venti, e piccolo paese vi si trova fondato a cui si giugne per unica ed angusta strada, intagliata nel sasso a scaglioni (che sono trecento ottant’uno) alti, e la più parte dirupati per l’antichità e per lo scorrervi delle acque. Quattromila abitanti coltivano L’isola, ed erano in quel tempo fedeli al presidio inglese, forte di mille ottocento soldati. Dovunque mai uomo ardito approdar potesse, l’impediva o fossa, o muro, o guardia: chiudevano il porto e la marina batterie di cannoni; cinque forti, uno ad Anacapri, quattro in Capri, bene armati, difendevano ogni parte del terreno; la città era cinta di mura. Gl’Inglesi credendo quel posto inespugnabile lo chiamavano la piccola Gibilterra; ma nulla trattener poteva l’impeto militare di Gioacchino, che tenevasi a vergogna vedere dalle sue logge sventolare la bandiera nemica, e starsi i presidii sicuri e spensierati.

Maturato il disegno, armate molte barche, più molte caricate di soldati francesi e napolitani. dato supremo comando al general Lamarque, nella notte del 3 di ottobre muove la spedizione dal porto di Napoli, ed altra minore da Salerno. Al mezzo del giorno l’isola è investita da tre parti. al porto, alla marina, ad un luogo alpestre dal lido di Anacapri: de’ tre assalti i due primi erano finti, benchè per numero di barche e per impeto i più veri apparissero; quello ad Anacapri, modesto e quasi inosservabile, era il vero. Qui, sopra piccolo scoglio che le onde coprivano, sbarcammo alcuni [p. 54 modifica]uffiziali, cd appoggiando alla rupe una scala di legno, ascesi all’alto arrampicandoci tra quei sassi per non breve cammino, indi posta altra scala e salita, giungemmo a terreno alpestre e spazioso, naturalmente coronato di grandi pietre disposte in arco, ultimi e superabili impedimenti per poggiare al dosso dell’isola.

Era fatta la strada: succcederono a’ primi sbarcati altri ad altri, già più di ottanta tenevamo il piede su l’isola, il generale con noi, in cima di ogni scala, per segno e per trionfo stava piantata la nostra banderuola, e i male accorti difensori nulla avean visto. Fummo alfine scoperti: accorse il nemico su la cresta della soprastante collina; ma trattenuto da colpi che di dietro a’ macigni si tiravano, e timido, irresoluto, aspettando da Capri i dimandati soccorsi, non osava di appressarsi, e frattanto altri soldati disbarcavano, e sì che in breve cinquecento de’ nostri combattevano.

Ma il mare si fece procelloso, le nostre navi presero il largo; lo avvicinarsi al primo scoglio era impossibile, piccolo stuolo di audaci che io tentò fu sommerso, cessò lo sbarco. Non bastando i disbarcati all’impresa (giacchè di cinquecento, sette erano morti, centotrentacinque feriti), si attese la notte oramai vicina, sperando che coprisse al nemico la pochezza de’ nostri mezzi, e gli aggiungesse spavento. Frattanto si combatteva in tutto il giro dell’isola: il colonnello Lowe dotto in astuzie di polizia, inesperto di guerra, disordinò, confuse tutte le regole del comando; come agevolmente movevano in mare le nostre barche, così a stento nell’isola egli facea volteggiare i presidii, senz’opera e senza scopo, ed intanto Anacapri ed un piccolo reggimento maltese che il guerniva non erano afforzati. Giunse la notte, e le apparenze non le cure di guerra cessarrono.

Il cielo fu per noi. Dopo breve oscurità la luna uscita limpida e piena su l’orizzonte illuminò la cresta della collina che il nemico guardava. Visti i soldati inglesi da noi che i macigni e le ombre del colle coprivano, erano uccisi o feriti; e sì che arretrandosi, lasciando alcune ascolte che presto cadevano o fuggivano perchè da tutti i nostri mirate ed offese, restò il luogo deserto. Ed allora formata in due colonne la nostra piccola schiera, superati senza contrasto quegli ultimi ostacoli del terreno, marciando chetamente una colonna per la diritta, l’altra per la sinistra de’ macigni, dietro a’ quali a strepito e ad inganno pur si lasciarono alcuni soldati a durare il fuoco, giungemmo inosservati al piano del colle, poco lontani dalle squadre nemiche. Le assalimmo con impeto, grida, spari e sonar di tamburi; le ponemmo in rotta, e prigioniere si arresero, fuorchè poche più celeri ed industriose, nella confusione della notte e fra gl’intrighi delle strade e del paese pervenute a chiudersi nel forte. [p. 55 modifica]

Nella notte istessa, occupata la testa della lunga scala che mena in Capri e quanta terra si poteva e conoscevasi di Anacapri, fu circondato il forte. Ed a’ primi albori del dì 5, intimata la resa e minacciato il presidio di sorte estrema se facesse difesa, che l’ambasciatore, com’è costume, dimostrava inutile, dopo breve consiglio, il forte fu ceduto, altri trecento soldati si diedero prigioni, e uniti a quattrocento già presi, furono a trionfo mandati in Napoli. Vi giunsero quando la malignità di alcuni, o la timidezza di altri, e la ingenita loquacità della plebe, dispensiera di sventure, diceva noi morti o presi: noi già padroni di Anacapri, perciò dell’isola, superbi di avere espugnato luogo fortissimo, assalitori, benchè di numero quanto la quarta parte del presidio nemico, e tenendo prigioni al doppio delle nostre forze, noi, se Francesi, lieti di combattere sotto gli occhi di capitano antico e valorosissimo; e se Napoletani, più lieti perchè ammirati dal nuovo re, dalla nostra città spettatrice, e facendo gara di arte e di animo con le schiere francesi. In tutto quel giorno il re da su le logge guardò gli assalti e le difese, spedì ordini e provvedimenti; non cessò che per la notte; ed al dì vegnente, non ancor chiaro il giorno, ripigliò le sospese cure; ma dipoi, impaziente, si recò a Massa prossimo il più che poteva a Capri.

V. Nello stesso giorno esplorato il promontorio di Anacapri, posti i campi, formata batteria di cannoni per offendere, benchè ad estrema portata la sottoposta città, si ordinarono tutte le parti del militare servizio, chiamando in fretta altre schiere che giunsero per la via stessa del primo sbarco, non avendo trovato nella calma delle osservazioni altro luogo men disagevole di quello scelto fra i moti e le sollecitudini della guerra. Aspettata la notte per discendere in Capri, credevasi ad ogni passo incontrare il nemico, giacchè per case, muri ed altri impedimenti era il terreno adatto alle difese; ma il colonnello Lowe con più di mille soldati tenevasi chiuso nella città, onde noi, cingendola di posti nella notte, cominciammo nel vegnente giorno ad assediarla.

Ma gl’Inglesi ch’erano in Ponza ed in Sicilia, avvisati del pericolo di Capri, accorsero con parecchi legni di guerra; e giunti corrispondevano con l’assediata città per la via del porto, rompevano le nostre comunicazioni con Napoli, tentavano o fingevano assalti ad Anacapri, e per continuo copioso fuoco di artiglieria disturbavano l’assedio. Ed allora i Franco-Napoletani, offensori ed offesi, con accrescimento di fatica e di gloria, provvedendo alla doppia guerra, formarono nuova batteria (chiamata per onor di assedio da breccia, ma che distava dalla città trecento metri), così che aperti i fuochi, le palle, ch’erano da sei, bucavano i muri senza scuoterli, e bisognò menomare la carica per ottenere qualche effetto [p. 56 modifica]di breccia. Ma il colonnello Lowe timido per sè, vie più discorato da parecchi Napolitani, che, fuggiaschi per delitti o fabbri di congiure, stando in Capri temevano di cader nelle mani della polizia di Napoli, inalberò bandiera di pace; ed a patti che si fermarono in quel giorno 18 di ottobre diede la città, le rocche, i magazzini, tutti gli attrezzi di guerra, e prigioni con sè stesso settecento ottanta soldati inglesi e corsi, da essere trasportati in Sicilia con giurata fede di non combattere i Napoletani nè i Francesi, o gli alleati della Francia per un anno ed un giorno; quei tristi o rei che stavano in Capri ebbero asilo, prima del trattato, sopra i legni inglesi. La città fu consegnata, i prigionieri in due giorni partirono; e fra quel tempo giungevano da Sicilia, ma tardi, altre navi, altre genti, altri mezzi di guerra.

Capri restò presidiata e meglio fortificata dai Francesi; perciocchè il recente assedio avea scoperto molti errori di arte, e L’isola di nemica divenuta parte del regno avea mutate le condizioni di guerra. Il governo donò i tributi di un anno agl’isolani; ma il dono era minore de’ guadagni che innanzi facevano a cagione della liberalità degl’Inglesi e delle occasioni di controbando, e delle dissipazioni del denaro pubblico fra le sollecitudini della guerra. Quella impresa per celerità, modo ed effetti accrebbe gloria a Gioacchino.

VI. Fu seguita da importanti miglioramenti. Rivocato il decreto di Giuseppe che avea messe le Calabrie in istato di guerra, tornarono quelle province sotto al pacifico impero delle leggi; richiamati gli esuli, sprigionati i rei di stato, e sciolte le vigilanze; tutte crudeltà di polizia estimate insino allora necessarie o prudenti. Ma non per anco fu permesso il ritorno a’ rinchiusi in Compiano, Fenestrelle ed altre più lontane prigioni della Francia; perchè grande n’era il numero, certa di molti la malvagità, e del ritorno loro pubblico il danno. Sono questi gli effetti del dispotismo: i rei, i meno rei, gli innocenti colpiti dalla stessa pena; e quando la potenza, o pentita o per circostanze temperatasi, vorrebbe rivocare quelle condanne, la rattiene il pericolo che fa allo stato la libertà di alcuni tristi: e però sempre pessima è la sorte dei buoni nei rigori o nelle blandizie della tirannide. Nel proseguimento del regno di Gioacchino molti tornarono da quelle crudeli relegazioni, e molti vi erano periti, i peggiori vivevano: la morte più colpiva gl’innocenti, perchè della ingiusta pena più addolorati.

Nel tempo istesso si diede opera onde rimuovere gli ostacoli che le vecchie abitudini opponevano ai nuovi codici. Della quale opera (e il dico in questo luogo anticipando i tempi per meglio ordinare le materie) fu assidua la cura in tutto quel regno; ed ebbe a principale istromento il regio ministro conte Ricciardi, che qui nomino ad onore e a durevole gloria per quanto durar possono queste povere [p. 57 modifica]carte. Il registro delle nascite, delle morti, dei matrimonii fu confidato a magistrati civili; il matrimonio non poteva celebrarsi in chiesa come sacramento, se prima non celebrato nella casa del comune come patto di società. Il registro delle ipoteche fu aperto; e più dello stato civile ebbe contrasto, perocchè molti particolari interessi gli si opponevano: ma saldo il governo nel suo proponimento, le proprietà furono chiarite, i crediti assicurati: molte case nobili, che fra i disordini e le trascuranze della famigliare economia ignoravano il vero stato del patrimonio avito, trovandolo scarso o nullo, di ricchissimo che il supponevano, ne incusavano a torto il governo e le nuove leggi. Per le provvidenze di quel libro non più si videro ingannevoli fallimenti, patrimonii dedotti, amministrazioni economiche date o chieste, cedo bonis, ed altre di altri nomi fraudi alla proprietà, tanto frequenti nei passati tempi.

VII. Per la parte amministrativa furono ordinate con un sol decreto la municipalità di Napoli e la prefettura di polizia; e date a quella, tolte a questa parecchie facoltà; sì che la già odiosa prefettura divenne magistrato men regio che civico. Fu nominato un corpo d’ingegneri di ponti e strade: questa parte di pubblica amministrazione istromento di civiltà e di ricchezze, affatto trasandata sotto il dominio dei vicerè, sentì la magnificenza di Carlo Borbone, come ho riferito nel primo libro; ma quella virtù non fu dal figlio seguita, sì che nel suo regnare lunghissimo poche nuove strade si costruirono, e meno per pubblica utilità che a comodo delle proprie ville o cacce. Sotto Giuseppe surse un consiglio di lavori pubblici, e due ispezioni per i ponti e strade: il consiglio rimase sotto Gioacchino, le ispezioni si slargarono in un corpo d’ingegneri numeroso, abilissimo, del quale dirò le opere a suo luogo.

Un decreto, tra molti di Giuseppe, prometteva in Aversa una casa di educazione per le fanciulle nobili. Con altri decreti Gioacchino la fondò in Napoli, nello edifizio detto de’ Miracoli; e poichè prendevane cura suprema la regina, fu detta dal suo nome Casa Carolina. La nobiltà delle fanciulle non era ricercata ne’ titoli e nelle memorie degli avi, bensì nella presente onestà e nel vivere agiato e civile della famiglia; onde l’istesso accoglieva i nomi più chiari per antico legnaggio, edi più pregiati della nuova età. La casa in sette anni cresciuta di merito, grandezza e fama; conservata, benchè odiati cadessero i fondatori nel 1815, si mantiene ancora con le prime regole; ed è stata ed è potente cagione dei costumi migliorati delle famiglie, e dell’incontrarsi spesso virtuose consorti, provvide madri amorose delle domestiche dolcezze. Io ho discorso in questo libro, e spesso discorrerò in poche righe, tempi e fatti lontani, così esigendo l’indole del regno di Gioacchino, che fu di ridurre ad atto e migliorar le instituzioni teoriehe ed imperfetto di [p. 58 modifica]Giuseppe, e di spingere i Napoletani e sè medesimo alla grandezza, ad ogni ambizione, ed a’ precipizii. Perciò m’era d’uopo disegnare brevemente, e come a gruppi, ciò eh’ egli fece da successore di altro re, e descrivere con ordine di tempi e di cose le opere una all’altra succedente del proprio ingegno.

VIII. Prima tra queste fu la milizia assoldata e la civile. Gioacchino, al suo giungere in Napoli, compose due reggimenti di Veliti, ed altri battaglioni e compagnie sotto inavvertiti nomi: astuzie necessarie per assoldar uomini. Giuseppe non aveva osato porre in piede la coscrizione perchè la ripugnanza dei popoli al militare servizio, l’istesso brigantaggio, la facilità a’ coscritti di fuggire in Sicilia, facevano temere che uomini levati per noi servissero di ajuto e reclutamento al nemico; rispetti gravi e veri, non dispregiati ne’ primi tempi di regno dallo stesso arrischioso Gioacchino. I reggimenti di Giuseppe si composero di uomini tratti dalle carceri e dalle galere, o di perdonati del brigantaggio, o de’ ribaldi adunati dalla polizia, o infine (e questa era la parte più pura ma piccola) de’ prigioni delle ultime guerre della Calabria; formavansi nelle piazze chiuse, s’impediva loro l’uscirne, ed appena instrutti andavano in lontane regioni. I due reggimenti di veliti davano minor sospetto, perchè formati di gentiluomini, abborrenti così dal brigantaggio, come dal fuggire in Sicilia, lasciando alle vendette della polizia le famiglie.

Per le milizie civili nuova legge e difettiva, imponendo non piccola taglia a’ possidenti e troppo servizio a’ militari, pareva scritta per avarizia e per imporre a’ popoli travagli e tributi; nè a sostegno della società ma del governo. Eppure la volontà e l’opera continua del re produssero che la milizia civile serviva, combatteva, acquistava uso e gloria di guerra. L’ultima invasione francese nel regno di Napoli, e direi meglio nella Italia, differisce dalle passate, pur francesi o di altre genti, per alcune essenzialità, delle quali prima e maravigliosa è armare i popoli vinti, come non usano le conquiste, perchè a farlo si vuole proponimento di bene operare, pensiero di durabilità, o speranza di pubblico amore.

IX. Ma tenui ed incerti mezzi di guerra non bastavano a’ bisogni ed alle ambizioni di Gioacchino. Al cominciare dell’anno 1809 si magnificavano i servigi e le ricompense de’ reggimenti napoletani che militavano in Spagna: si profondevano lodi e doni ad ogni milite soldato o civico che nelle continue occasioni di guerra esterni o di brigantaggio faceva impresa di valore; ne’ circoli di corte, ne’ discorsi del re, negli usi, nelle fogge, non si pregiavano che le cose e le sembianze militari. E dopo allettato in tanti modi, e lusingato il genio delle armi, si pubblicò la legge della coscrizione. Ogni Napoletano da’ 17 a 26 anni sarebbe scritto nel libro della [p. 59 modifica]milizia, dal quale tirando a sorte due nomi per mille anime avrebbe l’esercito diecimila giovani all’anno: erano esenti, per giovare alla popolazione, gli ammogliati o gli unici; lo erano per pietà i figliuoli di donna vedova, sostegni delle famiglie; e, per mercede e ad impegno di studio, gli estimati eccellenti a qualche arte o scienza. Il servizio non aveva (ed era difetto ed ingiustizia) durata certa.

Quella legge spiacque al popolo perchè suo mal destino è il disgustarsi de’ tributi e dell’esercito, ricchezza e forza dello stato, mezzi di grandezza, di civiltà, d’indipendenza. La città di Napoli, che aveva il vergognoso privilegio di non dar uomini alla milizia, il perdè, come il perderono alcuni ceti e famiglie. Più ingrandiva il disgusto al pensare che quei soldati servir dovessero gli ambiziosi disegni dell’imperatore de’ Francesi, combattendo per causa che dicevano altrui, in lontane regioni, fra pericoli e travagli più che della guerra, di genti barbare e climi nuovi. Il qual sentimento era scolpito nel cuor di tutti, così che io stesso la intesi dalla bocca del re quando lamentavasi della sua dipendenza dalla Francia e del comandar duro del cognato; nè il dissuadeva o consolava il mio dire (perchè forse sembravagli adulazione ingegnosa), che le guerre dell’imperator Bonaparte erano per la civiltà nuova contro l’antica, e perciò di causa e d’obbligo comune agli stati nuovi.

Pubblicata quella legge, ne cominciò l’adempimento. Altro distintivo di quel tempo era il far le cose di governo con l’impeto delle rivoluzioni, il qual difetto era spesso aggravato del cattivo ingegno e lo zelo indiscreto delle minori autorità. Si voleva, per ottenerne merito e premio, compier presto la coscrizione nella provincia dall’intendente, nel distretto dal sotto-intendente, nel comune del sindaco; e così, fra tanti stimoli, spesso le forme si trasandavano, vi erano ingiustizie, e apparivano maggiori; e icoscritti credendosi scelti non più dalla sorte, ma dall’umana malizia, fuggivano o si nascondevano: fuggitivi, erano chiamati refrattarii e perseguiti, la famiglia multata, i genitori puniti. Le quali pratiche inique serbaronsi per alcuni anni, sino a tanto che il governo per miglior consiglio, ed i popoli per maggior pazienza eseguirono le coscrizioni con modi onesti e volontarii.

X. Avuti i soldati, si componevano in reggimenti di tutte le armi, s’ingrandivano le fabbriche militari, fondavansi nuove scuole, nuovi collegi. La maggior spesa per la finanza era L’esercito; e poichè d’anno in anno questo cresceva, giunsero a tale le strettezze dell’erario che le taglie non bastavano; altre nuove se ne aggiunsero, le rendite delle comunità si usurparono; ed infine gran parte de’ tesori di Gioacchino, frutto di guerra e di fortuna, fu spesa per l’esercito. E tanti dolori, tanto sforzo dello stato e del [p. 60 modifica]re non producevano lo sperato effetto, perchè Gioacchino disadatto allo studio de’ popoli, ignorante della storia di Napoli e d’Italia, avendo lunga e sola esperienza de’ suoi, credeva gli uomini nostri, come i Francesi, aver animo proclive alla milizia, tolleranza de’ travagli, stimolo e disio d’onore, intendimento pari al proprio stato. Per ciò, e perchè sperava che le blandizie del comando gli fruttassero l’amor de’ soldati, rilassò le discipline riponeva la forza dell’esercito meno nella bontà che nel numero delle squadre; continuò a tirar soldati dai condannati a pena e da prigioni; li univa agl’innocenti coscritti; di tutti perdonava i falli, nascondeva i difetti, secondava le voglie. Quella moltitudine, chiamata esercito, non era parte della società, ma fazione nello stato; e Gioacchino, tra quella, non re, ma capo. Erano i soldati di bello aspetto, bellamente vestiti, audaci, presuntuosi, animosi nelle venture; e sarieno stati obbedienti in ogni fortuna, se migliore fosse stata di Gioacchino l’indole ed il giudizio. La disciplina non è virtù dell’esercito, ma del capo; tutti i soggetti vi si piegano perchè sopra tutti i cuori la legge, la giustizia, le pene, le abitudini hanno possanza; un reggitore di eserciti severo a sè, severo agli altri, obbediente alle ordinanze, esigitore inflessibile dell’altrui obbedienza, soldato ne’ travagli, imperatore al comando, non mai debole, non mai molle, è sicuro della obbedienza delle sue squadre. Ma tal non era Gioacchino.

Delle milizie, in sì breve tempo di regno da lui composte, egli volle far mostra; e prescrisse che a’ 25 di marzo, di natale di lui e della regina, si distribuissero a’ nuovi reggimenti dell’esercito ed alle legioni civiche le bandiere. Il re per sua natura e per arte di regno amante di feste, pavoneggiando della persona, del vestimento, del corteggio ricchissimo, credeva, con soperchia fidanza, imprimere ne’ popoli sentimento della sua potenza e della sicurezza comune. Chiamò dalle province le scelte di legionarii, e di soldati; fece alzare magnifico trono nella più larga piazza della strada di Chiaja; tutto preparò con orientale ingegno per la pompa. Marciavano intanto per il regno le compagnie di soldati col consueto militare contegno, e quelle de’ legionarii a modo di bande civili, spesate e festeggiate per comando del governo nelle comunità di passaggio, e liete fra tante apparenze di universale allegrezza. Giunte in Napoli alcun giorno prima del 25 di marzo, i legionarii non albergarono ne’ duri quartieri de’ soldati, ma comodamente ne’ palagi de’ nobili, de’ ricchi e degli stessi regii ministri. E visto che un sol giorno non bastava alle cerimonie di corte ed alle feste, che si chiamarono delle Bandiere, fu assegnato il dì 26 alle seconde. Nel qual giorno i reggimenti francesi e napoletani ch’erano in città, altri chiamati da Capua e da Salerno, dodicimila soldati [p. 61 modifica]schierarono nella strada di Chiaja; stando il re sul trono la regina con la famiglia, i ministri, i grandi dell’esercito e della corte in separate lussureggianti tribune; alzato un altare alla diritta del trono, con sopra la croce e bandiere, e in seggiola ricchissima, con vesti e decoro pontificale, il cardinal Firao, Le compagnie destinate a ricevere dalla mano del re le bandiere, stavano in punto.

Cadeva stemperata pioggia, ma il militar contegno non sofferendo che fosse intoppo alla festa, il cardinale, al convenuto segno delle artiglierie de’ forti e delle navi, a voce canora ed intesa benedi le bandiere; e benedette, abbracciate a fascio, sotto la pioggia le recò al re, che le fece disporre in giro al trono; e quando per riceverle e giurar fede le compagnie, una dopo l’altra, si avvicinavano, il cielo serenò; che parve alla plebe augurio di futura felicità. Proseguì la festa: conviti, giuochi, spettacoli teatrali furono dati a’ legionarii; e si coniò per memoria una medaglia di argento, che aveva nell’una faccia l’effigie del re, nell’altra quattordici bandiere (quante erano le province) ordinate a trofeo, col motto: Sicurezza interna; ed attorno: Alle Legioni Provinciali, il 26 di Marzo del 1809. Le compagnie dopo ciò ritornarono alle province dove altre feste si fecero.

XI. Le deseritte apparenze di prosperità e di forza davano alla corte di Sicilia sdegno e timore, mentre i successi in Ispagna dell’esercito francese sdegnavano ed intimidavano le genti nemiche della Francia. Di là nuove alleanze, primi moti di guerra in Germania, e primi apparati di spedizione anglo-sicula contro il regno, le quali cose secondo che importa al mio subietto descriverò. Il dominio della Spagna, per inganni acquistato, non restò pacifico all’imperatore dei Francesi; ma scoppiarono tumulti e sconvolgimenti in varii luoghi di quel regno, e poichè gl’Inglesi infiammavano la superbia di quelle genti, e la sostenevano con armi e danaro, e poi navi e soldati, abbisognò a Bonaparte poderoso esercito per imprenderne la conquista. Egli stesso se ne fece reggitore, i più conti generali e duecento mila soldati lo seguivano. Marciò, così potente, sopra Madrid, incontrò le schiere spagnuole e le oppresse; e sempre procedendo ed occupando paesi e luoghi forti, uccise nemici a migliaja, ne fece prigioni un maggior numero, ma la guerra ingrandiva. Gl’Inglesi, quarantamila soldati, stavano fortificati nel Portogallo e nella Galizia; Bonaparte era a Madrid, le sue schiere andavano divise combattendo gli Spagnuoli, ed avendo per punto obbiettivo di guerra la città di Lisbona. Così al finire del 1808.

A’ principii dell’anno seguente una grossa schiera d’Inglesi, combattendo in Galizia, da Francesi fu vinta e incalzata alla Corogna; altri Francesi avanzavano sul Portogallo; gli Spagnuoli, [p. 62 modifica]dovunque incontrati erano rotti ; l’imperatore da Madrid era passato a Valladolid, gl’Inglesi alla Corogna nuovamente battuti si riparavano sulle navi, la città si arrendeva: tutto andava in Ispagna prosperamente per la Francia. E perciò la Inghilterra, visto il bisogno di potentissima diversione, impegnò l’Austriaco a subita ostilità. Bonaparte, ciò saputo, tornò a Parigi, e richiamate di Spagna le sue guardie, convitati i suoi alleati, cominciando trattati o finti o veri, si preparò ad altra guerra. Diversione per la Spagna era la guerra di Germania; di questa, le guerre di Olanda, del Tirolo, di Polonia e d’Italia; e di quella d’Italia; la guerra di Napoli. Perciò da Lisbona a Flessinga, de Flessinga a Varsavia, da Varsavia all’ultima Reggio, sollevate in armi tutte le genti d’Europa, due milioni di soldati combattevano, nè a modo barbaro ma ordinati e mossi dal senno. Non mai nel mondo tanti eserciti, tanti spazii , e battaglie e casi di guerra e di fortuna un sol pensiero ha raccolti.

XII. Primi a muovere (il 10 di aprile) furono i Tedeschi di Austria, guidati dal principe Carlo sul confine della Baviera; mentre altre schiere comandate dall’arciduca Giovanni sboccavano in Italia per la via del Tagliamento; altre sotto l’arciduca Ferdinando s’incamminavano per il gran ducato di Varsavia; ed altre, poche invero di numero, ma concitatrici di popoli, dirette dai generali Jellachich e Chasteler solleverebbero in armi il Tirolo: quattrocentomila Austriaci movevano tanta guerra. Incontro al principe Carlo si destinava Bonaparte con duecentomila soldati, metà confederati e Francesi; dovea far fronte in Italia il vicerè con le schiere italo-franche, nel Tirolo il duca di Danzica con poche squadre francesi e bavare, ed in Polonia il principe Poniatoski reggendo Polacchi e Francesi. L’Olanda riposava: le due Sicilie, a vederle erano in calma, ma nell’isola il generale inglese Stewart e la regina Carolina preparavano navi e soldati; e Gioacchino in Napoli ordinava le milizie, disponeva l’esercito ne’ campi ed in istanze opportune alle difese, dissimulava il sospetto di essere assaltato, simulava sicurezza e potenza.

I primi passi furono a vantaggio delle armi austriache, perocchè il principe Carlo invase parte della Baviera, e l’arciduca Ferdinando del ducato di Varsavia: Jellachich e Chasteler cacciarono verso Italia le schiere bavaro-francesi, e levarono in armi il Tirolo; l’arciduca Giovanni spinse i presidi italo-franchi fuori della Carintia e della Stiria, procedè in Italia, occupò Verona. Le quali venture i benchè dipendenti dall’impeto primo degli assalitori e dal necessario adunarsi degli assaliti, apparivano al comune degli uomini vittorie finite dell’oste austriaca su la francese. Il governo di Napoli nascondeva per mal consigliata prudenza quegli avvenimenti, che la corte di Sicilia esagerando divolgava; e perciò se in quel tempo la [p. 63 modifica]spedizione anglo-sicula scioglieva dall’isola contro noi, più numero e più animo trovava ne’ suoi partigiani, più scoramento ne contrarii. Ma dubbietà, lentezza, scambievoli sospetti tra i ministri di Sicilia e d’Inghilterra ritardavano le mosse. E intanto limperatore Bonaparte che vedeva di sì vasta guerra il capo in Baviera, vi accorse con le schiere francesi, le unì alle alemanne confederate, ne formò un solo esercito, e in tre giorni movendolo pervenne, come per arti ci soleva, a combattere ne campi di Taun con superiorità di soldati. Dopo quella prima battaglia altre due ne vinse in Abensberg ed Eckmühl; combattè intorno a Ratisbona, espugnò la città, divise, disperse l’esercito nemico, e andò in gran possa sopra Vienna, che subito (a’ 12 di maggio del 1809) si arrese. Diede all’esercito breve riposo; e in quel tempo arrivarono nuove squadre, ed il resto della guerra dalle due parti si preparava.

L’esercito austriaco in Italia, poi che intese le maravigliose sventure di Baviera, mutò le condizioni di guerra, e, d’offensore, assalito, abbandonò Verona; e imprese a ritirarsi verso Alemagna per le vie di Klagenfurt e di Gratz; raggiunto alla Piave fu vinto, e le sue ultime schiere sempre alle mani col nemico erano rotte o sforzate, duro destino di un esercito solamente inteso a ritirarsi. Ebbe più sicura stanza in Ungheria ponendosi in linea con le schiere del principe Carlo, nel tempo che l’esercito italo-franco si congiungeva sopra i monti del Sommering all’oste di Bonaparte.

Più ratte, più gravi furono le sventure austriache nel Tirolo; perciocchè, udite le sorti della vicina Baviera, i popolari armamenti, variabili col variar di fortuna, si sciolsero; Jellachich e Chasteler, con poche schiere ritirandosi verso lo bassa Ungheria, inseguiti dal duca di Danzica, e in ogni scontro disfatti, s’imbatterono nella vanguardia italiana, e disordinatamente in picciol numero salvaronsi. Nella Polonia si combatteva, si facevano trattati di tregua, si volteggiava dalle due parti, si dilungava la guerra, per prudenza comune del Poniatowski e dell’arciduca Ferdinando, quegli manco forte di questo ch’era disanimato da’ casi di Baviera e di Vienna.

I descritti fatti di Germania erano raccontati ed amplificati tra noi, aggiungendosi alle solite millanterie degli eserciti la provvidenza del governo che attendeva in tutti i modi a raffrenare i borboniani, inanimire i suoi, frastornare o trattenere la già pronta spedizione anglo-sicula. Ed in quel tempo giunse decreto dell’imperator Napoleone, da Vienna, col quale spogliava il papa delle temporali potestà, univa gli stati pontificii alla Francia, dichiarava la città di Roma libera, imperiale; provvedeva al mantenimento non largo nè scarso del pontefice, rimasto capo del sacerdozio. Il carico di mutazioni sì grandi era dato al re Gioacchino: una giunta. [p. 64 modifica]di cui parte il general francese Miollis e ’l ministro di Napoli Saliceti, adunata in Roma, diede principio al cambiamento; il papa si chiuse ed afforzò nel Quirinale, il popolo di Roma pareva che godesse di quelle novità, perchè i rattristati dissimulavano la mestizia. Poscia il pontefice scrisse e pubblicò la bolla di scomunica contro l’autore e i ministri dello spoglio: e intanto, benchè il papato fosse ancora in credito presso de’ popoli, la scomunica non offendeva; lo spoglio giovava agli stati nuovi col dimostrarsi tenaci al proponimento di civiltà, e spregiatori di ogni odio che nascesse da plebea ignoranza. Dipoi quell’uso di ragionevole potenza trascorse in abborrita tirannide per la miserevole prigionia del pontefice, iniqua per anco in politica perchè stolta.

Erano dunque al mezzo dell’anno 1809 tutte le cose favorevoli al governo di Murat ed alla possanza dello imperatore Napoleone, quando, l’11 di giugno, il telegrafo della Calabria annunziò la spedizione anglo-sicula, forte d’innumerevoli navi da guerra e da trasporto, salpate dall’isole Eolie, e poco innanzi da’ porti di Palermo e Melazzo.

XIII. Erano state incerte e formidabili le prime nuove; ma dipoi, meglio vista l’armata, lo stesso telegrafo riferì navigare i mari della Calabria sessanta legni da guerra di ogni grandezza, e duecento sei da trasporto; apparire dalle bandiere esservi imbarcata persona reale ed ammiragli ed altri personaggi di grado, e vedersi la piazza di ogni nave popolata di soldati inglesi e siciliani. Per i quali segni e per le relazioni avute innanzi, il governo di Napoli sapeva che per nome il principe reale di Sicilia don Leopoldo, e per fatto il generale inglese Stewart comandava quella spedizione, la quale sopra i numerati legni trasportava quattordicimila soldati da ordinanza, e generali di esercito e di armata, e personaggi moltissimi per opere o consiglio atti alla guerra ed alle fazioni civili, e per fino i giudici di un tribunale di stato, gli stessi malamente, noti per la trista istoria del 99.

Poco appresso uscirono del porto di Messina due novelle spedizioni, delle quali una disbarco nel golfo di Gioja quattrocento briganti e soldati, l’altra nella marina tra Reggio e Palme tremila soldati e non pochi briganti. E quei soldati di Gioja uniti agli altri di Palme posero il campo sopra i monti della Melia (ultimi degli Apennini), ed impresero l’assedio di Scilla, mentre i briganti si dispersero tra’ boschi e ne’ mal guardati paesi, concitando i creduli e i tristi, uccidendo, rubando, distruggendo in mille modi. E nel tempo stesso tre lotte sicule-inglesi correvano intorno alle coste de’ tre mari Adriatico, Ionio, Tirreno, che per tre lati cingono il regno, minacciando i luoghi forti, assaltando i deboli, lasciando a terra editti e briganti, e perciò inviti e mezzi alle ribellioni. Era di tanta [p. 65 modifica]mole di contese principal motivo, come ho detto innanzi, far diversione alle guerre maggiori d’Italia e di Alemagna; ma pure altre cagioni movevano la corte di Sicilia e i partigiani suoi: speranza di regno, cupidità di punire, di bottino e vendette.

XIV. Dalla nostra parte tutte le difese si preparavano, tutte le milizie si mossero. Gioacchino, di natura operoso ed or viepiù per interessi gravi e proprii, spediva comandi, provvedimenti, consigli; recavasi di persona nei campi, nei quartieri, alle marine; ordinò per custodia della città la milizia urbana, che chiamò di volontari-scelti, alla quale si ascrissero in breve tempo, per difesa comune e per desiderio di piacere al re, i magistrati, i nobili, gli uffiziali del governo, i potenti per nome o per ricchezza; richiamò da Roma il ministro Saliceti, sperimentato istromento di polizia, e per bisogno, non per affelto, gli concesse l’antica potenza. Le schiere si adunarono in tre campi, uno a Monteleone di quattromila soldati, altro in Lagonegro di milaseicento, il terzo di undicimila in Napoli e nei dintorni: erano meno di diciassette migliaja i combattenti per Murat; avendone poco innanzi mandate in Roma altre sei migliaja per operare i politici cambiamenti dei quali ho discorso, e stando altri reggimenti nel Tirolo e in Ispagna. Procuravano la tranquillità interna del reame le milizie provinciali e la fortuna; guardavano la città i volontari-scelti; presidiavano le fortezze pochi e i meno validi soldati dell’esercito. Ma tante agitazioni copriva apparenza di calma; e sì che vedevasi il re sempre lieto fra popolani, la regina coi figli al pubblico passeggio ed ai teatri, le spese di lusso accresciute; i magistrati, gli offizii, il consiglio di stato agli ordinarii negozii; gli atti e i decreti del governo come dei tempi di pace e di sicurezza.

L’armata nemica procedeva, sbarcando nei luoghi meno guardati della marina pochi soldati, non pochi briganti; questi per correre il paese, quelli per tenersi accampati alcune ore, e tornar volontarii o scacciati alle navi. Così lentamente navigando per dieci giorni giunse alle acque di Napoli, e spiegò a pompa, di rincontro alla città, le vele; delle quali, per il gran numero de’ legni e per lo studio a schierarli, pareva il golfo coperto. Così restò per due giorni, e nel terzo assaltò Procida ed Ischia, meno per disegno di guerra che per curare gl’infermi e dar ristoro ai cavalli: Procida si arrese alle prime minacce, Ischia fece debole resistenza; pochi soldati che guardavano quelle due isole, andarono prigioni nella Sicilia.

Nei seguenti giorni quei legni rimasero nelle posizioni stesse oziosi, onde l’immenso popolo della città, che al primo apparire della flotta sbigottì, oramai stava a rimirarla come spettacolo, Pochi fanti, più cavalieri guardavano la spiaggia da Portici a Cuma; alcuni battaglioni custodivano il colle di Posilipo; il resto [p. 66 modifica]dell’esercito accampava sul poggio di Capodimonte. Nè vi era altra guerra se Gioacchino per mal pesato consiglio e per genio de’ combattimenti non avesse chiamata in Napoli da Gaeta, dove stava ancorata e sicura, la sua piccola armata, che di una fregata, una corvetta e trentotto barche cannoniere si componeva. Obbediente a comando salpò le ancore il capitano di fregata Bausan, e navigando nella notte parte attraversò dell’armata nemica, coperto meno dalle tenebre che dalla incredibile temerità della impresa. Spuntò presto il giorno: furono quei legni osservati perocchè andavano a bandiera spiegata, e subito molte navi nemiche si mossero, sicure della preda, combattendo dieci contro uno; ma la vittoria non fu certa, nè facile, nè allegra. Imperocchè i Napoletani, che (per aver soccorso dalle batterie della costa, e, nei casi estremi, rifugio in terra) radevano il lido, pervennero al mare di Miliscola, su l’arena del quale ergesi antica batteria di cannoni e mortari; ed ivi per due ore dalle due parti animosamente guerreggiando, otto delle nostre barche affondarono, cinque furono predate, diciotto tirate a terra, e, disposte a battaglia, immobili combattevano; le altre sette barche e i due legni maggiori, malamente danneggiati, presero asilo nel porto di Baja. Il nemico perdè due barche sommerse, un maggior leggn bruciato, e soffrì guasti e morti non poche.

La fregata e corvetta napoletana ristoravano in fretta i loro danni, mentre il nemico mutava gli sdruciti legni; ed in quel mezzo il capitano Bausan, vedendo che durava il comando del re, giovandosi del vento che per fortuna si alzò propizio, uscì dal porto con le due navi, e volse le prore a Napoli: le quali mosse parvero al nemico audacia non già ma stoltezza o fatalità di perdita estrema. Molti legni di varia grandezza assaltarono quei due che sempre combattendo navigavano sforzatamente; e alfine, superata la punta di terra detta di Posilipo, la guerra sino allora udita per romor di cannoni fu anche vista dalla città. Il re aveva assistito la mattina ai fatti di Miliscola, e nel tragitto del giorno erasi mostrato, come poteva, su le marine ad incorar gli equipaggi con l’aspetto e la voce; la regina e le sue figliuole andarono a passeggio nella strada di Chiaja incontro al combattimento, dove giunger potevano le nemiche offese: l’animoso esempio fu comando ai cortigiani, stimolo agl’impiegati, e subito l’imitarlo ambizione e moda alla moltitudine; sì che la strada, come a giorno di festa, s’ingomberò di genti e di carrozze. Calche più grandi erano in molti luoghi della città donde scoprivano il mare, e vedevano ad occhio nudo i danni e le morti sopra le due nostre navi; le quali avendo gli alberi maggiori rotti e rovesciati, spezzate le funi, forate in cento parti le vele, procedevano lentamente, come pompa funebre osservata e compianta dal popolo. [p. 67 modifica]

Ed alfine, al dechinare del sole entrarono in porto mentre le navi nemiche, offese dalle nostre batterie, si slargavano; e cessato il combattere, grido festivo si alzò da varie parti della città: che i più schivi alle nuove cose, i più nemici di Murat, i più amici dei Borboni, pure in quel giorno palpitarono di pietà, di patria e di onore. Non appieno finito il combattimento, il re andò sopra i due legni, fece lode pietosa dei morti, giuliva dei presenti, e diede promesse, adempite nel seguente giorno, di premii e doni. Le due navi rimasero invalide al navigare; furono molti i morti della nostra parte, ed al doppio i feriti, nè leggiero il danno degli Anglo-Siculi.

I quali tornarono all’usata pigrizia; ed il re, che sino allora aveva comandato al generale Partounneaux di non muovere da Monteleone, mutato consiglio, impose di assaltare il nemico e scacciarlo dalle Calabrie. Marciava il generale, ma prima che giungesse in Scilla e Melia, gli Anglo-Siculi, levando a furia l’assedio e ’l campo, abbandonarono artiglierie, altre armi, attrezzi, ospedali e cavalli. Pochi giorni appresso, intesa la battaglia di Wagram, i prodigiosi fatti della Germania e l’armistizio tra la Francia e l’Austria fermato in Znaim, il nemico smurò i forti e le batterie di Procida ed Ischia, rimbarcò le genti, abbandonò le isole, richiamò per segni le altre sue navi che scorrevano lungo i nostri lidi, e tornò ai porti della Sicilia e di Malta. Fu questo il fine di una spedizione pomposamente annunziata, minaccevole agli atti, pigra alle opere.

XV. Terminata la guerra esterna, si accese la interna, vasta quanto non mai ed orrenda. I briganti lasciati sopra terra nemica non avevano altra salute che vincere; e per la simultanea loro entrata in tutte le province del regno, fu generale l’incendio. Quando Le milizie assoldate erano state nei campi, e le civili a difesa della città, i briganti avevano dominato spietatamente nella campagna; e perciò liberi e fortunati per due mesi, crebbero di numero e di ardire: formati in grosse bande sotto capi ferocissimi, una entrò in Crichi, paese di Calabria, e dopo immensa rapina, fuggiti quei che per età robusta potevano dar sospetto di resistenza, vi uccise quanti vi trovò, vecchi, infermi, fanciulli, trentotto di numero, tra’ quali nove bambini di tenerissima età. In Basilicata altra banda assediò nel suo palagio il barone Labriola, che alfine, vinto dalla fame, si arrese, e dopo patto di vita e di libertà egli e la sua famiglia (sette di ogni età, di ogni sesso) furono trucidati. Sul confine tra Basilicata e Salerno milatrecento briganti, dei quali quattrocento a cavallo, campeggiavano apertamente; e non più fuggitivi come innanzi, ma sicuri, entravano nei paesi grandi e popolosi. In una imboscata di questa banda, nelle strette del Marmo, s’imbattè il giovine generale de Gambs, che per velocità del suo cavallo uscì del bosco; ma viaggiando dietro lui donna ch’egli amava, e che avea fatta madre di [p. 68 modifica]due figlioli, al vedere sè libero e colei nel pericolo, ritornò al soccorso, e prima di raggiungerla fu ucciso. In Puglia altro capo di briganti, ricordando la credulità di quei popoli e le riferite fortune del Corbara nel 1799, si finse il principe Francesco Borbone, compose una corte, e con pompa regia taglieggiava, rapinava, e solamente astenevasi dal sangue per meglio accreditare con la clemenza la regal condizione. Fra i delitti di brigantaggio e quelli che dal brigantaggio derivavano, il censo giudiziario del regno numerò in quell’anno, 1809, trentatremila violazioni delle leggi.

Sconvolgimenti sì grandi si operavano sotto il nome del duca d’Ascoli, del principe di Canosa, del marchese della Schiava e di altri primarii cortigiani del re di Sicilia, ed avevano incitatori e seguaci molti già fuggiti coi Borboni. Avvegnachè nei disegni di quella guerra, e nelle opinioni e discorsi della corte borbonica, il brigantaggio, tenuto mezzo legittimo e chiamato voto e fedeltà di popolo, non faceva ribrezzo ai borboniani più onesti. Ma il re Gioacchino che ne giudicava per le opere, furti, assassinii, rovine, e niente di sacro, di nobile, di grande; non popolo mosso, comunque barbaramente qual nel 1799, a sostegno de’ proprii diritti, o di opinioni che sono dritti nei popoli, ma plebe armata, ladra, omicida; fu preso da tanto sdegno e vendetta che dettò tre leggi degne di ricordanza.

Rammentata l’ostinatezza dei fuorusciti a combattere con modi atroci contro la patria, e l’essersi accompagnati ad esercito straniero, e l’avere alcuni mosso, altri seguito il brigantaggio, prescrisse che i beni liberi di quelle genti fossero confiscati, e parte data in ricompensa ai danneggiati, parte in premio ai più zelanti seguaci del governo; il resto venduto a benefizio della finanza: con modi tanto celeri e larghi che apparisse il governo sdegnoso, non avido, ed ai suoi magnifico.

Con altra legge invitò i Napoletani che militavano per il re Borbone a disertare quelle bandiere e venire in patria, ove avrebbero, come più bramassero, il ritiro dal servizio, e lo stesso grado che lasciavano nell’esercito di Sicilia, e miglior fortuna, ed onorato combattere per la terra natale. A coloro che, schivi all’invito, cadessero prigioni, minacciava come a ribelli la morte. Ma lo dico ad onore degli uffiziali borbonici e di Gioacchino, non alcuno tra loro per lusinghe o minacce disertò, nè i prigioni ebbero altra pena che le consuete molestie della prigionia militare.

Una terza legge prescrisse che in ogni provincia, per cura del comandante militare e dell’intendente, si facesse lista dei briganti, chiamati dopo allora Fuorgiudicati; si affiggesse nei pubblici luoghi di ogni comune; si desse ad ogni cittadino facoltà di ucciderli o arrestarli; arrestati, si giudicassero dalle commissioni [p. 69 modifica]militari con le consuete celeri forme: egual pena di morte avessero i promotori e sostenitori del brigantaggio, benchè non inclusi nelle liste, e questi in apparenza vivendo nelle città, s’incarcerassero le famiglie dei capi più conti delle bande; ed infine, dei briganti dannati a morte s’incamerassero i beni. Formate le liste, si vide maggiore di quel che credevasi la mole del brigantaggio; ed era fortuna che le bande non avessero accordo, nè simultaneità di opere, nè unità di obbietto, e senza ordini guerreggiassero e senza regole: condizioni necessarie a gente avventicce, per malvagità radunate.

La polizia ritornata in potenza e rianimati i già depressi suoi ministri, ripigliò le antiche pratiche. A sua dimanda fu fatta altra legge che imponeva alle comunità la compensazione dei furti e danni arrecati nel territorio dal brigantaggio; e poichè le comunità popolose e ricche potevano tener lontani i briganti, quella rigidezza colpiva le più misere. La facoltà d’incarcerare le famiglie dei fuorgiudicati produsse miserevoli arresti di vecchi padri, vecchie madri, innocenti sorelle, giovani figliuoli; ma si aveva almeno alle crudeltà la certa guida del parentado: la facoltà d’incarcerare i promotori e gli aderenti, vaga, arbitraria, facile agli errori ed agl’inganni, produsse mali smisurati ed universale spavento. Tal rinacque il rigore, che, se la benignità del re non avesse temperata in molti casi l’asprezza delle sue leggi; o se gli afflitti non fossero stati ultima plebe, di cui sono bassi non sentiti i lamenti, quel tempo del regno di Giacchino avrebbe pareggiato in atrocità e mala fama i più miseri tempi di Giuseppe.

Le milizie, levati i campi, spartite nelle province, a mala pena tenevano fronte ai briganti. Quattro compagnie francesi, cinquecento soldati, rotte in Campotanese, furono sforzate a ritirarsi; altra squadra di quarantotto uomini, accerchiata tra i monti di Laurenzana, fatta prigione e trucidata: il comune di San Gregorio, guardato da quattrocento soldati tra Napoletani e Francesi, assalito e preso. Potenza, capo di provincia, investita e non espugnata perchè chiusa di mura ed a tempo soccorsa. Così triste furono le cose interne nella estate dell’anno 1809 per effetto della spedizione anglo-sicula: dipoi minorò il brigantaggio dai combattimenti e dai perdoni, ma non fu spento, come dirò a suo luogo, se non al finire del 1810.

XVII. Le riferite sventure attristavano le province, dappoichè nella città il contento de’ superati pericoli, lo splendore della corte, e la festa che si apprestava per il di natale dell’imperatore Napoleone davano a’ riguardanti la immagine di felicità pubblica. E quindi in Europa la doppia fama sul regno di Gioacchino, laudato dagli uni, che solo miravano la reggia e la città, biasimato dagli [p. 70 modifica]altri che visitavano le province. Giunse il dì 15 agosto, e mentre preparavano le cerimonie, potente flotta nemica facendo vela sopra la città, navigava nel golfo, ma nulla mutando alle cose, si aggiunse il presto armarsi delle nostre navi e delle batterie del porto. Alle tre ore dopo il mezzo giorno i legni nemici schierati a battaglia lanciarono sopra la città le prime offese, e la nostra armata poco forte, ma soccorsa dal lido, avendo gli alberi e le vele ornate e colorate a festa, andò incontro al nemico, guidata da Gioacchino sopra nave ricchissima, vestito (e fu la sola volta in sette anni di regno) da grande ammiraglio dell’impero. Si combatteva dalle due parti ed intanto nella bellissima riviera di Chiaja disponevansi a mostra i reggimenti della guernigione, ed al romor del combattimento echeggiavano le salve dei castelli ed i suoni festivi dell’esercito insino alla sera, quando il nemico, nessun danno avuto e nessuno arrecatone, prese il largo. Non mai ho visto in tante felicità di regno e di reggia lieto il re quanto in quel giorno, perocchè la fortuna tutti appagava i suoi desiderii, guerra, pompa, gloria, e lui solo spettacolo d’immenso popolo ammiratore.

XVIII. Egli ne’ mesi che restavano di quell’anno levò altri reggimenti di fanti e cavalieri, ordinò l’artiglieria ed il genio, regolò le amministrazioni militari, poco allontanandosi (e lo allontanarsi benchè poco fu errore) dagli ordinamenti francesi; avvegnachè l’esercito napoletano facendo parte della confederazione degli stati nuovi, ed avendo spesso a combattere, vivere, provvedersi tra schiere di esterne nazioni, doveva con gli eserciti compagni francesi, belgi, polacchi, over ordini e leggi comuni. Di questa prescritta uniformità si lamentava la presuntuosa Italia, e le dava odioso nome di servitù, non vedendo ch’era mezzo presente alla tanto bramata italica unione, e germe di futura indipendenza.

Ordinò armata marittima spinto dal suo genio per le militari cose, e dal patto fermato con l’imperatore Napoleone di costruire in un certo tempo quattro vascelli e sei fregate. Come la coscrizione per l’esercito, fu l’ascrizione per l’armata; si provvide con tre leggi alla guerra marittima, alle amministrazioni, alle costruzioni, e per queste ultime sì presero i modelli francesi, non forse perfetti e capaci di miglioramento; ma era divieto di Bonaparte il variare, benchè migliorando, le costruzioni dei legni da guerra, perocchè anteponeva, e saggiamente, ad ogni altra cosa la uniformità nel cammino, nella manovra e nel combattere.

XIX. Fu regolata l’amministrazione delle comunità soggettandola troppo a’ ministri del re. Era invero sì rilassata ne’ passati tempi che a reggerla si voleva freno di leggi e braccio di governo, ma faceva spavento l’uso del potere, perchè temevasi che trascorresse in abuso, e trascorse. [p. 71 modifica]

Proseguendo le provvidenze della commissione feudale, si preparò la ripartizione fra cittadini de’ beni de’ feudi.

Fu curata la istruzione pubblica, nuove cattedre aggiunte alle antiche ed eretti licei e scuole, decretate da Giuseppe. Ed anzi tanto in meglio furono variate quelle leggi che la pubblica istruzione del regno debbe credersi opera di Gioacchino più che di altro re. Ai vescovi si vietò di stampare, e in ogni modo di pubblicare editti e pastorali senza permissione del re; dura dipendenza a chi, libero sino allora, usava imporre ceppi alle altrui libertà.

Si sciolsero tutti gli ordini monastici possidenti {duecentotredici conventi di frati e monache), si lasciarono i cercanti; durava il genio e l’avarizia finanziera.

Ma fra tanti ordinamenti non si fece motto dello statuto di Bajona, benchè patto di sovranità, Gioacchino abborrendo per fino le immagini delle nazionali rappresentanze, e non richiedendone l’adempimento i Napoletani, sebben queruli, proclivi a’ tumulti ed agl’impeti delle rivoluzioni più che al tardo e sicuro procedere di politico miglioramento.

XX. Pareva finita la guerra, fuorchè in Ispagna, allorchè s’intese potentissima spedizione di navi e soldati uscita da’ porti della Inghilterra, minacciare la Olanda ed Anversa. Era questa, come ho detto innanzi, una delle preparate diversioni alla guerra di Germania; ma che operò ventiquattro giorni dopo la battaglia di Wagram, diciotto dopo l’armistizio di Znaim, quattro mesi più tardi del bisogno. E frattanto prese Walcheren. espugnò Flessinga, predò, distrusse molti vascelli olandesi, fece immenso danno, immenso ne’ pati; pochi uomini dalle due parti furono morti in guerra, molti degl’Inglesi per morbo, e dopo ottanta giorni di travagli la spedizione ritornò menomata, sbattuta, senza gloria, e solamente cagione di lacrime e di spese.

Le quali cose, lontane di luogo e d’importanza, erano da Napoletani freddamente intese; ma non così del trattato di pace tra l’Austria e la Francia, fermato a Vienna il 14 di ottobre del 1809, pubblicato con feste civili ne’ comuni del regno, e sacre cerimonie nelle chiese. Di già quel nostro politico reggimento contava numerosi partigiani; nè più per opinioni o speranze, ma per interessi e persuasioni, onde piacque l’indebolimento della monarchia austriaca, l’ingrandimento degli stati nuovi, il riconoscimento di alcuni principii che poco innanzi si dicevano rivoluzione. Aggiunta la Toscana alla Francia, come già gli stati di Parma e i dominii del papa, l’impero francese aveva termine a Portella. Questi stati italo-franchi, ridotti ad estreme province, lontani dalla sede del governo, sforzati a ricevere leggi di popolo straniero, giustamente si querelavano. Ma d’altra parte pensando che per quelle novità [p. 72 modifica]l’Italia tutta aveva comuni, esercito, leggi, interessi, speranze; che per cose non per nomi si legano i popoli; che vano e dannevole è il confonderli se i bisogni sono discordi, e che il lasciar Roma e Toscana quali erano innanzi, ovvero ordinarle a regni indipendenti o anche incorporarle a’ già ordinati regni d’Italia, faceva ostacolo, o meno (a mio credere) conferiva alla futura italiana unione: pensando a ciò, le molestie degl’Italo-Francesi potevano in alcun modo consolarsi col prospetto di più bello avvenire; e dirò concetto forse biasimato, ma pur vero; se la intolleranza della servitù è un supplicio presente, ma un bene certo e futuro de’ popoli, dessa nel 1825 (anno in cui scrivo) viene agl’Italiani dal dominio di Bonaparte, arbitrario, violento, ma pieno di effetti e di speranze.

XXI. In quel mezzo partirono prima il re, poi la regina verso Parigi, e credevasi per onorare il ritorno dell’imperatore Napoleone da guerra felicissima. Il re si fermò a Roma per rassegnare le schiere francesi e napoletane che presidiavano la città, e visitare castel Sant’Angelo e Civita Vecchia; da signore fu accolto e diè comandi, proseguì il cammino per Francia. Arrivò a Parigi al finir di novembre, poi la regina, già essendovi gli altri re o principi del parentado di Bonaparte, fuorchè Luciano nemico e Giuseppe guerreggiante in Ispagna; tutti adunati da Napoleone per grave caso di famiglia, lo scioglimento del matrimonio con la imperatrice, voluto da lui, diceva, per ragioni di stato, assentito da Giuseppina in sagrifizio alla Francia, approvato (sia per adulazione o per senno) da quasi tutti gli adunati parenti e dallo stesso vicerè d’Italia figlio di colei che ripudiavasi, disapprovato dal solo Gioacchino; il senato riconobbe il divorzio e il legittimò. Restò libera, mesta, scontenta la Giuseppina; libero anch’egli restò Bonaparte, gravato del futuro, e correndo col pensiero tutte le reggie europee.

Nello stesso congresso di famiglia, proposte per ispose a Bonaparte varie principesse, egli inclinava ad una della casa d’Austria perchè la più regia in Europa; inclinava Gioacchino ad altra della casa di Russia perchè la più potente; ma i pareri degli astanti seguirono il desiderio dell’imperatore, e l’arciduchessa Maria Luisa, figlia di Francesco I, fu scelta. Si tenne il voto secreto.

XXII. Il re stava in Francia quando le isole di Ponza e Ventotene da soldati napoletani e dal principe di Canosa che li reggeva furono abbandonate, non per alcun timore o sospetto, ma perchè le fortune di Francia e di Napoli non varierebbero per maneggi di polizia, ed era di troppo peso alla stretta siciliana finanza il dominio di quei due scogli. Trenta navi trasportavano in Palermo uomini, armi ed attrezzi di guerra; ma da furiosa tempesta combattute, qualcuna [p. 73 modifica]naufragò, molte presero necessario ed infelice ricovero ne’ nostri porti o spiagge, poche pervennero in Sicilia, e su queste il Canosa.

XXIII. E tuttora assente il re, il ministro di polizia Cristoforo Saliceti per morbo violentissimo trapassò di anni cinquantatrè, di fama varia, essendo stato istromento potentissimo di libertà, ed al cangiar delle sorti astuto ministro de’ re nuovi, mansueto in famiglia e buon padre, benevolo agli amici, de’ nemici oppressore, de partigiani suoi o tristi o buoni sostenitore potente, alle opere di stato ingegnosissimo, delle scienze e degli scienziati poco amante, e delle altrui virtù (per troppa e mala conoscenza degli uomini) miscredente. Si disse morto di veleno, accreditando la voce i sintomi del morbo, l’accettato convito da un nemico, e la propria potenza; ma poi fu visto che di tifo maligno morì, Ebbe sepoltura nella fossa gentilizia della casa Torella, lo che sarà cagione di pietoso racconto in altro libro di queste istorie.

XXIV. Rimasta in Francia la regina, tornò il re, e si volse alle cure di stato. Fondò in ogni provincia una società di agricoltura, le assegnò terreno per gli esperimenti e per vivajo di utili piante, aprì scuole agrarie, diede premii e più vaste promesse agl’inventori di macchine o processi giovevoli agricoltura, coordinò le società agrarie delle province col giardino delle piante in Napoli, al quale fece dono di ventiquattro moggia di terra, allato al Reclusorio; e comandò che vi si alzasse vasto e bello edifizio per conserva di piante, ed esperienze, ed insegnamenti botanici; però in cento modi giovò all’agricoltura, base per noi di nazionale ricchezza, quasi abbandonata ne’ passati tempi alle naturali liberalità della terra e del cielo, non più bastevoli or che in Europa, per sola umana industria, danno copiosi prodotti i suoli più macri sotto clima più ingrato.

A molti comuni si concessero mercati liberi e fiere, giovamenti al commercio dov’è lento, danni o inutilità dov’è in fiore. In tutte le comunità si fondarono le scuole primarie. I tributi tornarono più comportabili non per minorazione ma per miglior ordine; anzi nuova legge improvvida, avara, proibì la fabbricazione del tabacco. Le cose dell’esercito, soldati, armi, vestimenti, stanze, fortezze, procedevano in meglio; la disciplina peggiorava. Per leggiera cagione alcuni soldati calabresi ed altri delle guardie si azzuffarono, e subito la privata contesa eccedè in tumulto, ed indi a poco in ribellione; perciocchè i due reggimenti presero le armi contumacemente, e disposti a guerra in mezzo alla popolosa città di Napoli, con pericolo di molti ed universale spavento, tirarono archibugiate, sì che parecchi dalle due parti perirono. Poco appresso un uffiziale delle guardie, senz’abito o segno di milizia, percuotendo per ingiusta causa un venditore di merci, fu arrestato da un commissario [p. 74 modifica]di polizia, che in atto e con seguito di magistrato curava la pubblica tranquillità. Ed ecco, al saperlo, gli uffiziali tutti delle guardie sollevansi in armi, fanno libero l’arrestato, arrestano il commissario, lo traggono a ludibrio per la via di Toledo, e giunti al luogo dove poco innanzi era seguito l’arresto del colpevole, astringono il magistrato a piegare a terra i ginocchi e dimandar perdono dell’ardimento. De’ due gravi misfatti che ho narrato, la pena fu nulla o lieve; si spargevano i semi di futuri disastri.