Viaggio di un povero letterato/XXI
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Capìtolo xxi.
L’ALLORO ED IL CIPRESSO.
Eravamo giunti alla Torre.
Questa denominazione si dà a una grande tenuta che era ed è ancora possesso della casa principesca romana dei Torlònia.
Un gran cancello signorile, un viale in rettilìneo, sparso di bianco lapillo: il viale tàglia un gran parco folto; in fondo si vede un palazzo massìccio, che ha sapore di Settecento, di chiesa, di nobiltà di chiesa; è un po’ tetro; è tutto chiuso. Sopra il palazzo si eleva una spècie di torretta quadrata, da cui la tenuta tòglie il nome;1 e si scorge da ogni parte. Stemmo un po’ lì e poi dissi di girare attorno.
Si girò attorno: dietro il palazzone vi sono le fattorie, uno chalet, tutto coperto di rose, una villa ridente, velata, per così dire, da un filare, sorgente su di un àrgine di altìssime pioppe frondose. È una grande azienda agrìcola oggi, la Torre.
«La Torre! la Torre! la Torre!» Questo nome ricorre nelle poesie di Giovanni Pàscoli con un suono di spàsimo e con l’insistenza di un’ossessione. «La Torre!» e nulla più, come se i lettori sapessero che cosa è la Torre.
Il padre del poeta, signor Ruggero Pàscoli, era ministro di quella tenuta, e abitava con la numerosa famìglia nel palazzo della Torre. Era uomo di molta gentilezza d’ànimo e di gran rettitùdine, della quale virtù, così — diciamo — pericolosa, è anche testimonianza una làpide che il principe Don Alessandro Torlònia fece apporre nella chiesetta gentilìzia della Torre in memòria di quel suo fedele ministro, e — parrebbe — ad ammonimento altresì del futuro.
Ora un bel mattino d’estate dell’anno 1865, il signor Ruggero Pàscoli partì dalla Torre: baciò i suoi piccini, che èrano tutti piccini. Andava a Cesena in carrettino per affari. Sarebbe tornato la sera: ai bimbi avrebbe portato bei doni: alle bimbe belle bàmbole.
Andò, tornò, ma non rivide la sua famiglìa.
Nel pomerìggio di quel giorno stesso un carrettino col soffietto alzato per la calura, che veniva al trotto di quella che il Poeta ricorda, cavallina storna, si fermò alle prime case di Savignano. Le brìglie èrano abbandonate e la cavallina pareva domandare soccorso. La gente guardò e vide un uomo con la testa chinata oramai e sanguinante, e fu riconosciuto per il signor Ruggero Pàscoli. Un colpo di fucile a tradimento gli aveva spezzata la testa. Perchè? A quei tempi uòmini micidiali, dati a disonesti guadagni, dominàvano in quelle terre di Romagna, e il trovare un uomo ucciso non era cosa che meravigliasse troppo.
Quella rettitùdine e questa disonestà micidiale si èrano incontrate in quel giorno d’estate. La gente tacque o bisbigliò sommessamente; chi poteva avere udito o veduto, non aveva nè udito o veduto. La Giustìzia fece, per suo conto, un po’ lo stesso; e ben è vero che in quei primi tempi del nuovo regno la veste polìtica di liberale servì a tante cose, che con la Pàtria e con la libertà non avevano nulla a che fare.
Poi la mòglie dell’assassinato stava smemorata sul greppo della Torre, quello dove sorgèvano le alte pioppe: ella guardava, la immota, la immensa serenità del cielo nelle estive sere: ogni tanto, ogni tanto per il cielo corruscava una vampa di fuoco: èrano i lampi di caldo. Un pìccolo bambino le era accanto, quegli che fu poi Giovanni Pàscoli. Guardava anche lui i lampi di caldo.
Ci ricorda lui stesso, in una sua prosa, la madre sul greppo e i lampi di caldo nella serenità della estiva sera: non egli lo dice, ma in me rimase la impressione che egli volesse significare la natura, la quale appare serena, ma ogni tanto la sua pupilla scatta con un lampo di feròcia.
Poi dìssero a quella donna: «Il vostro uomo fu ucciso, e ciò è spiacèvole. Ma voi e questi vostri bimbi che state a far qui? Qui siete di troppo, alla Torre. Avete la casa vostra a San Màuro. Via, andate alla vostra casa. Vi ritirate quieti e parlate poco».
Andàrono. I piccini otto; la madre nove. Questo fu per settembre, il giorno della Madonna. C’era a San Màuro gran festa e sparàvano i mortaletti. Passò la carrozza coi figli e la donna dell’assassinato. Un uomo del pòpolo quando la carrozza passò, disse nella sua indifferente pietà: Ve’ un nid ad farlott! «Vedi un nido di verle!» Poi venno l’inverno: e la madre faceva in silènzio i pìccoli àbiti di lana coi grossi ferri: ma non li potè terminare perchè infermò e morì: poi, poi cominciàrono a infermare e morire i figli, poi fu venduta la casa, poi fu dispersa la famìglia. E anche queste infermità, susseguite da morte, non pàrvero cosa naturale, essendo gente ben conformata e sana.
E allora?
E allora nei tempi in cui si credeva agli Dei, si sarebbe potuto imaginare che un qualche Iddio, Dio Pan, Dio Apòlline, adottasse per suo figliuolo quell’òrfano. «Noi ne faremo un poeta, un poeta di gran sentimento.» La cosa è strana, perchè i poeti di gran sentimento non sono molto frequenti fra noi, così che avremmo un poeta assai originale; e il Pàscoli, il quale per sua naturale disposizione era da giòvane disposto al lepore piuttosto, e all’amàbile e bonària allegria, fu così come al Dio piacque.
Egli cantò nel suo silènzio, fatto di umiltà, un pìccolo idìllico canto, ma senza uòmini, e senza amore, il generatore degli uòmini. Cantava le ròndini, i nidi, l’erba cedrina, le stelle, i pianeti, le rose, le cose mìnime e immense, ma senza mai nominare gli uòmini, così che l’idìllio era quasi doloroso e pauroso: cantava con uno stupore sacro, con un procèdere sgomento quasi che paventasse di svegliare l’òcchio feroce della Natura: la misteriosa sfinge della Natura. Anzi egli la lodava, questa Natura, nell’ape, nelle rose, nelle ròndini, nelle stelle: la diceva pietosa e buona. Ed il suo canto era sìmile al susurro delle andrene che egli vedeva sopra la tomba della fanciulla; e vedeva anche la fanciulla là sotto la terra e la chiamò beata, perchè pura di vite create a morire.
La infantilità dell’idìllio diventava ben tràgica! Più tardi, è vero, egli nominò gli uòmini che camminàrono nella stòria; ma essi èrano senza variazione di stòria; ed èrano piuttosto ombre che uòmini, i quali dalla guerra della vita andàvano verso una grande purificazione.
Il Dio Apòlline, o Pan che fosse, aveva inoltre data al poeta una sampogna, che è un primitivo istrumento pastorale, ma così sottilmente lavorata con lima d’oro e formata di così preziosa matèria che ne usciva una dolcìssima cantilena: la quale si confondeva con l’antico dolore, per modo che il poeta finì con amare quasi il suo dolore, perchè non avrebbe potuto liberarsi da questo senza distrùggere quella sua cantilena.
E con quella sampogna si recava spesso alla casa dei morti, a consolare i suoi, e altri ancora.
E qui il Dio Pan, o Apòlline, compiva un altro miràcolo perchè il cimitero si trasfigurava agli occhi del poeta come fosse stato l’antica ìsola dei beati, circondata dall’azzurro mare. E anche questa era una consolazione. Qualche volta poi avveniva che da quella sampogna uscìssero squilli come dai bèllici oricalchi delle più perfette orchestre moderne. Sono scherzi che fanno gli Dei, cioè gli invisìbili. Il poeta aveva un po’ di paura dei suoi stessi suoni, ma quasi se ne compiaceva. Si doleva soltanto — e un po’ infantilmente — quando qualcuno, di quelli che si chiamano crìtici, voleva smontare la sua sampogna per vedere come era fabbricata, e se la marca di fàbbrica era ellènica, o latina, ovvero inglese, o germànica; ma non si scompòngono, gli istrumenti degli Iddii! E si doleva altresì quando qualche altro, maestro di lògica, gli diceva: «Lei si decida o per la sampogna o per il bèllico oricalco. Majora canamus o minora canamus?» Una volta anzi avvenne questo fatto curioso che intorno a lui, come già intorno ad Orfeo, si radunàrono tutte le bèstie, ma non èran già le tigri e i leoni, ma èrano i conigli, le pècore e altri animali così detti ùmili e mansueti. Ad un tratto, la sampogna squillò, e una voce rimbombò: «Itàlia!», e fu un fuggi fuggi, e il poeta si trovò solo con la sua contraddizione vicino, e un puzzo all’intorno, che egli sinceramente non avrebbe mai sospettato.
Sono scherzi che fanno gli Dei.
Ma con tutto questo avvenne che un bel giorno alla casa del poeta arrivò una Donna.
Era la fiammante Glòria!
Ella viene sovente da chi non la invoca: tuttavia nella fattispècie del Pàscoli la cosa è sempre un po’ miracolosa, quando si consìderi il pòpolo d’Itàlia, che accorre così volentieri ai rimbombi di piazza o agli spettàcoli còmici, ma difficilmente si diverte all’autèntica tragicità. Ma questa volta si era accorto di questo solitàrio che cantava così dolcemente davanti alla porta dei morti. Se non che quando la Glòria arrivò, il poeta aveva già i capelli grigi, e le belle donne, si sa, non bàciano capelli grigi. Sono scherzi degli Dei, i quali non dànno mai in terra doni compiuti.
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Ma il fiaccheraio era tediato di quella troppo lunga mia sosta davanti al greppo e alle pioppe luminose. Io tacevo. Ma non taceva l’ànima romagnola del fiaccheraio. «Quella gran villa chiusa, tutta proprietà di un solo padrone, con tanti poderi»..., e lui doveva pagare l’affitto per due buchi di càmere! Ciò lo esasperava.
Pazienza, amico; e spera nell’avvenire!
Gli dissi infine che si poteva avviare verso San Màuro.
Si avviò. Ma la sua ànima rimaneva esasperata. — Guarda qua! guarda là, boia de Signor! — diceva ogni tanto.
Dovunque si volgesse lo sguardo, èrano tutte fattorie con lo stemma della casa Torlònia; pìngui campi: gran verde, fuor della terra nera: case colòniche patriarcali, fra pagliai giganteschi: melagrani rossi, eliotropi gialli, tutti i fiori della fiammante estate.
Non si poteva dar pace il fiaccheraio che tanta ricchezza fosse per uno solo.
Io gli parlai allora mansuetamente della vanità di così sterminata ricchezza. Lo assicurai che a me avrebbe fatto paura tanta ricchezza nè avrei saputo come amministrarla. A lui non faceva paura, e quanto ad amministrarla ci avrebbe pensato lui. Poi gli parve che io lo beffassi; e perchè cercavo di persuaderlo che io non lo beffava, disse: — Lei svària! — che vuol dire: «Lei va nelle nùvole».
«Sì, anche. Anzi non dico di no.
Eppure se non ci fòssero stati gli uòmini che vanno nelle nùvole, voialtri camminereste ancora su quattro zampe!»
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Le casette basse di San Màuro ci vènnero incontro. La vettura balzò sull’acciottolato. Entrammo nel borgo.
Ho bussato alla casa del dottor Grigioni.
L’arrivo inatteso di un forestiero che si presenta in carrozza, gènera un pìccolo scompìglio nel ritmo sèmplice di una buona casa di villàggio. Io ne fui mortificato. La mòglie del dottore, una giòvane signora, che venne ad aprire, mi parve anche più mortificata per l’assenza di un salotto, oppure perchè il dottore non era in casa. Carlo non c’era. — Carlo non c’è! Oh, se avesse imaginato.... Ma forse è ancora in paese. — Ed ella lanciò Eros, il figlioletto, a cercare se il babbo fosse nella farmacia. Lanciò anche Iris, la figlioletta.
Ma Iris tornò annunziando dolorosamente che nella rimessa non c’era più la bicicletta.
— Allora si vede che è andato per qualche vìsita d’urgenza, ma fra poco ritornerà.
La signora, quella buona pìccola signora, con quella sua ùmile squillante voce càndida, parea come mandare messaggi aèrei per la campagna: «fa presto, Carlo! C’è qui quel signore tuo amico, che è venuto a trovarti».
Mi offerse pavidamente di entrare. Io dissi che intanto sarei andato a vedere la casa del Pàscoli....
— E intanto Carlo verrà; e tu Iris, e tu Eros, accompagnate il signore....
— Dove, mamma?
— Giù in fondo alla contrada, dove è la casa dove è nato il Pàscoli....
— La casa del poeta? — esclamàrono sùbito Iris ed Eros.
— Ma sì, la casa del poeta — disse la signora. Pregai che non si disturbàssero: ma ella mi fece osservare che era mèglio vi fossi andato accompagnato; così i proprietari non avrèbbero detto nulla.
— Tu, Iris, sai fare a dare qualche spiegazione....
Anche Eros disse che sapeva fare.
— Be’, le darete un po’ per uno.
Dunque andammo. E Iris ed Eros saltellàvano davanti a me.
I calzolai del borgo, col deschetto fuori, battèvano il cuoio su la pietra: un fornàio sfornava il pane, il pane a crocette caro al pòvero Pàscoli: più lontano, in mezzo alla via, uòmini e donne circondàvano una di quelle zingaresche pesciaiuole di Bellària; la quale si stava appollaiata, alta, su le coffe del pesce, in vetta al suo baroccino sgangherato. Giovanìssima ella era; ma garriva che facèssero presto, garriva con violenza, perchè il pesce si corrompe col sole. «E vi do, oggi, o pòpolo, da mangiare per niente!» dicea. Bene gli uòmini le gettàvano parole salaci. Ma ella teneva fronte a quei motti, e pur non cessava dal contare il rame ed il nichel su le pìccole palme, limate dall’acqua del mare. — Va là, Marcòn! — disse quand’ebbe finito: e lanciò la sua rozza, disperata lei e la rozza, pel lungo viàggio nell’arsa campagna.
«Poeta? che cosa suona poeta e casa del poeta fra questa gente?» dicevo fra me.
L’ombra del fiaccheraio, allora, mi si appressò.
— Se lei — disse delicatamente, e con bel garbo — se lei si ferma molto per i suoi affari....
— Vi ho già detto che non ho affari....
— Insomma, per quello che ha da fare. Non vòglio sapere i suoi interessi....
— Ebbene?
— Stacco la bèstia, e lei mi trova qui all’osteria. Màngio un pezzo di pane....
— E pigliate un altro aperitivo, — dissi. — Va bene. Ed ecco il franco per l’aperitivo e pel pane. È questo che volevate dire?
Questa volta ci eravamo intesi: non però pienamente; chè lui parve dire: «lei ha l’ària di farmi una elemòsina; invece è un franco di più che mi viene». Questa gente è nata veramente contàbile! Lui si avviò verso l’osteria; io, preceduto da Iris e da Eros, andai alla casa del poeta.
— Eccola là — disse Iris.
La casa natia di Giovanni Pàscoli è una casetta all’estremità del borgo, verso la campagna: è ad un solo piano; gentile, bianca, con le persiane verdi, i coppi spioventi: ma il giardino è grande all’interno.
Iris ed Eros quando èbbero detto: — La casa del poeta! — naturalmente si fermàrono.
I proprietari della casa non dìssero nè «entrate», nè «cosa volete?».
La casetta era ancora, come una volta, circondata di fiori: erba cedrina, gerani, rose e poi un grande alloro cupo e scuro.
Lì, fra quei due bimbi, un po’ incantati per la soggezione; e la gente della casa che andava, veniva, badava alle sue faccende sogguardàndomi ogni tanto come si guarda un importuno, e quel cupo àlbero d’alloro.... mi colse una gran depressione di spìriti.
Pensavo alla Glòria dei poeti.
Intanto un uomo era balzato dalla bicicletta.
— Il papà — dìssero festosamente Iris ed Eros.
Era il dottor Grigioni: non un barbuto e grave uomo, ma un giòvane uomo sèmplice, vivo, cortese.
Egli mi spiegò quel poco che c’era da spiegare.
Ma io sentivo che la depressione aumentava dentro di me. Il giardino pieno di fiori era triste ai miei occhi come il prato dell’asfodelo, per cui gli antichi imaginàrono andare i morti: l’alloro aveva una immobilità cupa e dolente. Dove sei tu ippogrifo dalle brìglie d’oro su cui volò il giovanetto nel suo gran sogno di vita? Casetta, nido di allòdole fra il grano, triste tu mi apparivi allora come un nido abbandonato.
— Andiamo, andiamo, dottore — dissi.
— Non vuol vedere il museo?
— Ah sì; ma non importa.
— Già che è qui....
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Andammo a vedere il museo. Esso è nel Municìpio. Iris ed Eros fùrono mandati a prèndere le chiavi. Andàrono di corsa, ridenti. Il fiaccheraio beveva e mangiava all’osteria: lo vidi beato, immoto, col vermìglio vino davanti.
Aprimmo il Municìpio chiuso: entrammo.
Nel silènzio, nel sole, nel caldo chiuso della sala del Consìglio, dominava un immenso ingrandimento fotogràfico, già sbiadito, grande come mezza parete, con una sfacciata cornice dorata: Giovanni Pàscoli in toga ed ermellino: i suoi pòveri baffi càdono giù, la sua stanca persona cade giù. Come è melancònico Pàscoli in veste accadèmica!
Io volevo uscire, all’aperto; e lui, il dottore, voleva che almeno vedessi una cosa che giudicava di un certo interesse. Mi parve scortesia rifiutare e rimasi.
Nel museo c’era ben poco: in uno scaffale le òpere del Pàscoli, rilegate, allineate, poi una cuna o lettuccio di legno, la vècchia zana romagnola dove stèttero i figli dell’assassinato: poi dentro un’altra vetrina una leccarda dell’arrosto, un caldanino di còccio e fiorami, una màglia di lana non finita, coi ferri dentro.
Il dottore cercava entro una grossa busta fra molte carte.
Quel caldanino, quella leccarda, quella cuna, che ora sono lì nella morte, un tempo fùrono nella vita. Casa di Ruggero Pàscoli; mensa familiare, ùmile santa mensa fiorita di tanti bambini; mensa tepente odorosa; parva domus, nido sospeso; primavera anche nell’inverno! E Cristo veniva a quella mensa. Poi una schioppettata, e Gesù Cristo non potè difèndere.
Mi tornàvano a mente le parole di Monaldo Leopardi: la spezzata corona delle giòvani olive, che èrano allegrezza e decoro della paterna mensa.
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— Usciamo, caro dottore.
Egli cercava ancora.
— Ma che cerca?
— Una cosa curiosa.
Egli tranquillamente cercava nelle buste, e a me intanto rifiorivano questi versi alla madre:
....Fioccava senza fine, |
— Ah, ecco — disse il dottore che aveva trovato — ; e mi venne da presso, e mostràndomi un ritrattino che aveva mezzo occultato nella mano, domandò:
— Questo chi è?
— Giovanni Pàscoli — risposi naturalmente.
Quello infatti che il dottore mi mostrava era un ritratto di Giovanni Pàscoli.
Il dottore sorrise; scoprì per intero il ritrattino e disse: — No, è il padre, Ruggero Pàscoli che aveva, quando fu ucciso, press’a poco la stessa età del poeta quando l’anno scorso morì. La somiglianza è così grande che tutti rispòndono come lei, e questa somiglianza non è senza significazione. Ma c’è di più: guardi.
Il ritrattino sbiadito rappresentava il signor Ruggero Pàscoli, sorridente, felice, in mezzo alla nidiata dei suoi figliuoli, attorno a lui, su le ginòcchia di lui.
— Ma vede! — disse il dottore — . La mano del padre è posata per protezione e per più intenso affetto su la testa di Giovannino. Ciò lei può dire che è casuale; ma ecco un altro ritratto — e ne mostrò un altro, una spècie di dagherrotipia, dove ancora la mano del babbo sta posata su quella stessa testolina infantile: — si distingue appena un po’ il nero degli occhi, ma è lui, Giovannino. Questo voglio dire — continuò il dottore — che vi sono molte cose che ancora non sappiamo. I crìtici dìssero che il dolore del poeta per la uccisione del padre era diventato un sèmplice dolore artìstico. Fu, invece, un dolore vero, quasi fosse stato egli, insieme col padre, trafitto.
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Si parlò di altre cose che qui non è il caso di riferire. — Piuttosto si può dire — disse il dottor Grigioni — che, nella vita, Pàscoli fu un tìmido, forse un dèbole verso gli uòmini.
— Forse — risposi; ma poi mi ripresi e dissi: — Ma che cosa sono gli uòmini? Pochi come lui bussàrono alle porte del Mistero con tanto ardimento.
— E anche questo è pur vero — disse il dottore.
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Uscimmo all’aperto, infine. Dopo, del Pàscoli non si parlò più.
Il dottore volle che entrassi nella sua casa: egli non aveva vergogna se non aveva salotto. La casa era piena di libri, di fiori; e dietro la casa c’era un grande orto, ricco dei bei doni della terra. La signora servì la limonea. Mi pregò di non guardare la casa: «mio marito mette i libri da per tutto».
— Come fa, dottore — domandai — , lei uomo di stùdio, a vìvere qui fra questi?... — E non riuscivo a dire uòmini.
— Ma tanto qui come a Milano, come a Roma — disse sorridendo il dottore — son tutti uòmini; è questione di levare un po’ la scorza.
— Non desìdera di lasciare la condotta, trovare occupazione altrove?
— Non desidero.2
Ed ecco entrò un villano col cappello in testa e reclamò il dottore sùbito per la sua donna che «urlava come una bèstia e la scottava come il fuoco».
— Ora vengo — gli disse il dottore e a me disse sorridendo: — La sòlita ipèrbole romagnola. E sono romagnolo anch’io!
— Ma tu non bevi vino! — disse la signora.
Così presi commiato dal dottore, dalla buona signora, da Iris, da Eros.
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Il fiaccheraio era pacificato. Passammo davanti al cimitero di San Màuro: una gran massa scura di cipressi. Ma il fiaccheraio non se ne accorse; nè parlò parola.
Parlarono i cipressi e dìssero: — E il cipresso è uguale all’alloro! —
Era oramai il pieno mezzodì, l’ora in cui il Dio Pan va per i campi.
Ma forse il Dio Pan o il Dio Apòlline, al cui giudìzio io mi ero rivolto per corrèggere i giudizi degli uòmini, non sono anche loro, come la Glòria, mai esistiti.
E il cipresso era uguale all’alloro!
- ↑ Il luogo, veramente, fin dai tempi dei Malatesta era detto Torre di Giovedia.
- ↑ Allo scòppio della guerra (1915), il dottor Carlo Grigioni abbandonò condotta, famìglia e andò semplice soldato: perciò non pareva sàvio ai buoni abitatori del luogo. Sentii dire che lo avèvano visto a Forlì in piazza d’armi con lo zàino o il fucile. Così in fatti lo vidi e stemmo un pomerìggio insieme a Brisighella, dove egli, nelle ore di riposo, si occupava ad illustrare il luogo per le Guide del Touring. Non so poi se àbbia ottenuto il grado di ufficiale mèdico, ma credo di sì essendo egli assai valente.
(Milano, 20 novembre 1916).