Visioni sacre e morali/Visione XI
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VISIONE XI.
DELLA VANITÀ
DELLA
BELLEZZA TERRENA
PER LA MORTE
D’AMENNIRA.
L’alma, in cui d’ogni corpo immagin nasce
Pe’ sensi, e col desío cresce, e diventa
3Esca di lei, che di pensier si pasce,
Le amate in sè volgea di beltà spenta
Rare sembianze, onde ragion fu vinta
6Troppo a cader pronta, e a risorger lenta,
E tal forma affinando al cupo avvinta
Suo meditar coll’infiammato ingegno:
9Oimè! Amennira, disse, è dunque estinta!
Tant’ebbe il Ciel gli umani voti a sdegno,
Che d’eterna coprì nebbia quel volto,
12Su cui partían Grazia e Onestade il regno?
Ah! se il bennato Spirto in vaga avvolto
Spoglia, e concesso in dono ai bassi chiostri,
15Innanzi tempo esser dovea ritolto,
Perchè in lui tutta unir quanta si mostri
Virtù divisa fra mill’Alme, e poi
18Mesto farne argomento ai pianti nostri?
E perchè al bel fulgor de’ raggi suoi,
Mentre sparía, sì chiaro aggiunger lume
21Per gravar d’atra notte Amore e noi?
Ma, lassa! donde avvien ch’io mi consume
Fra sì tristi sospir? Vinto pur giacque
24Chi alla mia libertade arse le piume:
Tre lustri il sol rivolse in giro, e tacque
De’ miei desir l’agitatrice guerra,
27Ch’ella destò, che per mio duol mi piacque:
Pace alfin mi recò lontana terra
Lunga etade, e men cruda immagin nova;
30Ed or, che il fral di lei sceso è sotterra,
Sveglia del foco mio l’antica prova
Nelle ceneri sue? Dunque l’acerba
33Morte, che tutto spegne, Amor rinnova?
Dunque uno scioglie, e all’altro il nodo serba
Più amaro? E per chi è polve, e per chi vive
36Va in un colpo di due trofei superba?
Deh! chi mi guida alle infelici rive,
Ove annebbiate dai lugubri orrori
39Giaccion le membra pie di spirto prive?
Sì che di pianto, e di fumanti odori,
E di fior copra le gelate spoglie,
42E se vive le amai, spente le onori.
L’ultima cercherei, se pur s’accoglie
Nei languid’occhi, scolorito raggio,
45Che in me temprasse l’affannate voglie:
Udrei, o udir parriami il parlar saggio
Delle pallide labbra e taciturne,
48Use a spirar dolcezza a ogni uom selvaggio;
E strignerei le fredde mani eburne
Con tanti d’amor segni e di pietade,
51Che invidia ancor n’avrian l’altr’ossa e l’urne.
Così, qual spesso a chi delira accade,
La mente fuor di sè nel duol rapita
54Dicea, spingendo per ignote strade
La salma sua stupidamente ardita,
Che i pian diversi alle pupille offerti
57Non vedea, perchè l’Alma era smarrita.
Poichè a sè ritornò dopo gl’incerti
Flutti de’ suoi pensier l’Anima errante,
60Mi trovai dentro a vasti campi aperti,
In cui non allignò mai verdeggiante
Erba, nè pinto fior, nè irrigò fonte
63Con limpid’acque le frondose piante:
Non rupe nuda, nè selvoso monte
Ivi s’ergea; ma sol di sabbia piene
66Valli ampie si perdean coll’orizzonte,
Sfumando i confin lor nelle serene
Vie dell’etere azzurro. Unica al guardo
69Lungi splendea nelle solinghe arene
Mole alta fin dove ferir può dardo;
E colà il grande, e non più visto obbietto
72M’invitò il passo per tristezza tardo.
Sul terren da qualunque arte negletto
Maravigliando io già, che l’occhio avvezzo
75Sì a lungo fosse a non mai vario aspetto;
Ch’io dal sol non varcava all’ombra e al rezzo,
Ma sempre egual fendea lume, e la stessa
78Aria nullo spirante odor, nè lezzo;
E sol qua e là della men grave e spessa
Arena sorgea fuor con fiacche forze
81Macchia di spini appena sorta e oppressa,
Ch’io m’avvidi esser nido, in cui rinforze
Vipera, od aspe il giovanil veleno
84Dalle svestite loro aride scorze.
Nudo squallor, mesto silenzio, e appieno
Sterili, e di beltà piagge sfornite
87Mi poser quasi a seguir oltre il freno;
Ma lo scopo destò le sbigottite
Voglie, e sì forte il corpo mio sospinse,
90Che le sabbie dal piè striser più trite.
Nè il desío fra il cammin lungo s’estinse,
Anzi addoppiò il vigor per vincer tutto
93Quel solitario loco; e alfin lo vinse.
Giunto dove il mio duol m’avea condutto,
Mirai cinto d’altissime colonne
96Un monumento di funebre lutto,
Nella volta di cui con varie gonne,
E d’elette virtù coi segni vari
99Sculte in pietra sedean piangenti Donne.
Sotto i curvati, e fra di lor contrari
Archi reggenti la testuggin erta
102Stava di marmi peregrini e rari
Tomba feral, ma nel coverchio aperta,
Che parea da tremoto, o turbin fiero
105Pel diroccato suo colmo scoperta.
Vergate d’oro in un macigno nero
Tai brevi rilucean lugubri note:
108Sacro all’ottimo Dio massimo e vero.
Quella, che fia specchio all’età rimote
Del vedovile onor, che afflitto or tace,
111Nota in pietade anche alle genti ignote,
Amennira (ahi che lessi!) oimè! qui giace.
Chiunque l’orme in queste sabbie imprime,
114Riposo preghi alla sciolt’Alma e pace.
Ristetti, inorridii, sdegnai le prime
Incaute brame, che me spinser lasso
117Quelle a calcar piagge deserte ed ime;
Poi vergogna ed amor al dubbio passo
Diér moto sì, che lentamente salse
120Pe’ gradi, che cignean il tetro sasso:
Ma ribrezzo in toccar l’urna m’assalse,
E la mia lena interna al terror mista
123Il gel nascente a superar non valse.
Tremando alfin afferrai l’orlo. Ahi vista
Squallida, lagrimevole, dogliosa,
126Ahi d’umana beltade immagin trista!
Su letto di putredine schifosa
Giacca dal tempo nel suo morder forte
129L’estinta spoglia avidamente rósa:
Fitti i rai spenti entro l’occhiaje smorte,
Guaste le labbra, aperto il petto, e l’anche
132Gonfiate, e tinte di livida morte:
Rigide e impallidite le man bianche,
Dilacerato il grembo, e combattuto
135Dalle serpi non mai nell’ira stanche:
Lezzo, noja ed orror quel, che rifiuto
Fu degl’ingordi vermi, ed era in lei
138La più vezzosa parte il cener muto.
Abborrii sì que’ lordi avanzi e rei,
Che colla fronte addietro volta io mossi
141Giù dagl’infausti gradi i passi miei;
E colmo di stupor, quasi un Uom fossi
Che sogna, e a sè chiede se vegli, o dorma
144Fra i dubbj dal sognar stesso in lui mossi,
A me chiedea: Vera, o ingannevol forma
Gli affascinati miei sensi delude?
147Travidi? o pur del piè la stabil orma
Lasciai su queste solitudin crude?
Chi ad Amennira alzò tomba sì grande
150In terre d’ogni ancor vil pianta ignude?
O forse il nome addita altra, che spande
Pari onor, Donna estinta, ed a me sembra,
153Che sue sieno le offerte altrui ghirlande?
Ma qual altra in virtude egual rassembra
A lei, che amore e morte in cor mi pose?
156E di chi son quelle infelici membra?
Quelle son, che tu amasti, ella ripose.
Della subita voce al colpo amaro
159L’Alma mia quasi in sè tutta s’ascose;
E i nervi da quel suon scossi tremáro;
Divenne il guardo agli occhi miei rubello,
162Che improvvise caligini annebbiáro.
Ma sciolte l’ombre da valor novello,
Che a me, come nol so, diè forza, io vidi
165Ritta fra i venti su l’opaco avello
D’Amennira la forma, e ai segni fidi
La riconobbi. Era il medesmo e vago
168Volto, che m’infiammò ne’ patrii lidi;
L’aria stessa e il color: non avea pago,
Nè mesto, ma tranquillo il viso grave,
171E maggior dell’antica era l’immago.
La mente, che le larve oscure pave,
Dal leggiadro sentì Spettro diffusa
174Maravigliosa in sè luce soave;
E dalla piena calma al core infusa
Argomentò, che quella fosse un’Alma
177O dal Ciel scesa, o in pace a viver usa.
Fiso io guardava l’impalpabil salma,
Ch’ove avvien, che il vel doppio in sen trabocchi,
180Stretta avea l’una insieme all’altra palma,
E all’alto i lumi da pietà sì tocchi
Volgea, che mai lassù non fúro affissi
183Nè più amorosi, nè più amabil’occhi.
Tacendo essa, io pur tacqui, o non ardissi,
O me rendesse muto il mio stupore.
186Confuso alfin ruppi il silenzio, e dissi:
O mia misera speme, e mio dolore,
Fra le spolpate nel funereo seggio
189Ossa tue carche di cotanto orrore,
Amennira, ed è ver ch’io ti riveggio?
O pur fra i sogni e i simulacri vani
192Del mio turbato immaginar ondeggio?
Da quali ignoti spazj, e alberghi arcani
Degli astri, o degli abissi a me tu vieni
195Tratta di Morte dalle ferree mani?
Ma da qualunque a me sede ti meni
Sì amico volo, ah! tu soave spiri
198Grazia, e fra il lutto ancor mi rassereni.
Io già credei, che i caldi miei desiri
Dal volto tuo per lunga via divisi
201Nulla più dasser esca ai miei sospiri;
Chè interrogai del cor quegl’indivisi
Dal dolce palpitar moti, che fúro
204Vive poi fiamme, ove a penar lo misi,
Nè in lui conobbi dell’antico e duro
Suo nodo orma pur lieve, anzi mel finsi
207Queto, e in sua libertade appien securo;
E d’inni eletti a coronar m’accinsi
Altre labbra ed altri occhi, e i novi rai
210De’ tuoi più vaghi al paragon mi pinsi;
Ma poichè quella, che non rota mai
L’adunca falce invano, al Mondo tolse
213Teco il lume, che ogni altro ombrò d’assai,
Destossi l’ardor mio più forte, e avvolse
Col primo laccio il cor, cui valse poco
216L’error suo, che il deluse, e nol disciolse.
Sentii, quando il dì sorse, e quando il loco
Cesse alla notte, che squallida crebbe,
219L’immagin tua spirarmi affanno e fuoco,
E fin la mia ragion stessa m’increbbe,
Che tante in meditar sotterra mute
222Tue doti il duolo e il desiderio accrebbe.
La triste allor bramai mia servitute;
E quella, che parea tua crudeltate,
225Col vero nome suo chiamai virtute;
E per sì raro aggiunto a tua beltate
Pregio e fulgor l’avvelenato strale
228Più acerbe m’inasprì le piaghe usate.
Ahi lasso! or so, che l’Alma a fuggir l’ale
Non ha, se Amor contrasta; ed or m’avveggo,
231Che Amor, che da virtù nasce, è immortale.
Quindi spinto da lui l’ultima chieggo
Aíta in sì romite ingrate piagge,
234Ma pur felici, perchè in lor te veggo.
Deh! almen col suon delle parole sagge,
Poichè il volto gentil tu non m’ascondi,
237Fa che un lampo di speme in sen m’irragge.
Ma tu pensi? tu guardi, e non rispondi?
Pel cener tuo, per quella pace eterna,
240Che in te s’annida, e fuor di te diffondi,
Per la tríonfatrice aura superna,
Che il volo all’Ombra tua mirabil dona,
243Sciogli la lingua, e il mio tempra e governa
Folle desir, che a vaneggiar mi sprona.
Che se colla mia voce Amor t’offese,
246Tu che il movesti in me, tu mel perdona.
Ella, che allor ambe le mani stese
In atto di chi al Ciel libera chiede
249Grazia, chinò la fronte, e a dir sì prese:
Io non lasciai la mia profonda sede
Per ricercar da te delle tue meste
252Brame accese d’amor novella fede:
Dio, che in me vive e regna, agita queste
Mie docil penne, e le trasporta seco
255Lungi dal centro della via celeste;
Chè ovunque io vada il mio dolore ho meco;
E fuor della prigion sacra le guida,
258Per porger luce a te smarrito e cieco.
Ben de’ pensieri tuoi scorta è mal fida
L’ingannevole Amor, che ti dipigne
261Dolce quel frutto, ove il velen s’annida.
Se tu sapessi fra le sue benigne
Braccia il rigor di Dio, che me pur ama,
264Con quanta amaritudine mi strigne,
Orrida ti parría non sol la brama
Empia, ma il desir vano, ancor che lieve,
267Che innocente vaghezza il mondo chiama.
Oh come peso in giusta lance ha greve
D’error ogni ombra! e come al guardo eterno
270Offresi lorda ancor l’intatta neve!
Beato appien chi al suo cor freno interno
Pose aspro, mentre visse, e al duro estremo
273Passo ebbe morte, e i suoi tríonfi a scherno,
E giunse ove non mai di gloria scemo
L’aureo momento interminabil versa
276Torrente immenso di piacer supremo.
Io trassi vita ai lusinghieri avversa
Modi d’Amor, che mesce a scarso mele
279Parte letal d’assenzio ingrato aspersa:
Tu il sai, che i sospir dolci e le querele
Tenere odiai. Ah! che a te solo fui,
282Ma non a me, quant’io dovea, crudele.
Non furor mio, non l’Angel reo co’ bui
Moti, onde l’Alma a Dio ribelle ancide,
285Me vinse; anzi onta e scorno accrebbi a lui;
Ch’io serbai voglie castamente fide
A quel Divo Amator, che la sua luce
288Per seguir Lui larga su noi divide.
Pur la nebbia, che il cor molle produce,
L’Anima invase; ed io spruzzata giacqui
291Da ruggin leve, ove ragion più luce:
L’error conobbi; e benchè a Dio nol tacqui,
Col fonte nol purgai del pianger santo,
294E in ben oprar troppo a me incauta io piacqui.
Or poichè siedo ai nudi Spirti accanto,
Trafitta io son da acuta fiamma eletta
297A terger quel, che non lavò il mio pianto.
Nol ti dirò, qual da tai vampe stretta
Crudo io provai martír; chè la tua mente
300Per così atroce idea troppo è ristretta.
Ma quai dirotte lagrime repente
Inondan le tue gote? e qual dintorno
303Fiato sprigioni di sospiri ardente?
M’invidj forse tu l’eterno giorno?
O temi per l’ardor, che in me s’aggira,
306Che sia funesto il loco, ov’io soggiorno?
Datti pace, se questo il duol ti spira;
Ch’ivi squallor non àvvi, e non pupilla
309Gonfia di lutto, e non lamento ed ira;
Ma nell’infiammatrice alta favilla
Cara a Dio stommi ubbidiente ancella
312Fra il mio piacer e il mio dolor tranquilla.
L’ultime voci tue, risposi, quella
Mi reser calma, che testè rapimmi
315Del grande affanno tuo l’immagin fella.
Perdona il pianto all’amor mio. Ma dimmi
(Se mi è dato esplorar gli arcani ignoti
318Di Dio, che la tua voce in parte aprimmi)
Com’esser può fra sì contrarj moti,
Che duolo e gioja in un s’annidi, e insieme
321Sì avversi affetti in te regnin immoti?
Ch’ove cede un, l’altro ne tragge, e preme
Qual preda, che tien dietro al laccio, o all’amo?
324Vien egli forse a confortar l’estreme
Tue pene, e il vedi, chi l’error d’Adamo
Lavò col sangue? E veder Dio ti lice?
327Ah! nol veggo, sclamò; l’intendo, e l’amo.
E il mio perfetto amor è la radice,
Per cui, benchè punta da pena intensa,
330Io son placida almen, se non felice;
Chè non m’oscura più la nube densa,
Che in terra il mio pensar d’ombre coprío;
333Ma la pietà di Lui comprendo immensa,
E al suo voler così consente il mio,
Che se mi fosse eterno duol prescritto,
336Io l’amerei, perchè tal piacque a Dio.
Chè fora colpa nel divino Editto
O torve, o lagrimose erger le ciglia,
339E in me più alcun non può nascer delitto.
Già tu sai, se col suo cor si consiglia
Uom nell’opre, che a lui sembran perfette,
342E in sè laude ne desta, e maraviglia,
Che in esse macchia d’error lorda ei mette,
Togliendo a Dio quel che a lui tutto attiensi
345Dell’opre onor compiutamente elette;
Chè in Uom non mai piena virtù contiensi,
Se in noi Dio senza noi co’ moti primi
348Grazia non dia, che a tanto don conviensi.
E ben di Dio tai pie geste sublimi
Son in Dio senza l’Uom, che divien reo,
351S’ei primo d’esse facitor s’estimi.
Fuor d’ogni merto uman Dio queste feo
Prove in terra fra il gaudio e il duol divine
354Ne’ Spirti, ch’ei di caritade empieo;
E queste innova infra delizie, e spine
Su l’Alme ignude, cui rubigin presa
357Dal corpo lor tarda il beato fine;
E con tal fiamma agitatrice, e accesa
D’onnipotente amor penetra e cribra
360L’Anima a lui, non a sè stessa, intesa,
Ch’io sento in me, che un infinito vibra
Gaudio e infinita pena, e quello e questa
363Dentro me quasi in pondo egual si libra.
Nova inudita a te si manifesta
Arte d’ Amor, che in me dogliosa e lieta
366Tormento e pace, e affanno e gioja innesta.
Il ritardar m’ affligge, e insiem m’accheta
Il pietoso voler di Lui, che amando
369Più bella fammi in allungar la meta:
Ben provo ognor, che più cocenti io spando
Sospir, che Amor più a sè mi trae, che al Cielo
372Chiamata son; ma non so come, o quando.
Cose oltre al naturale ordin ti svelo:
Ma perchè a te, che fra caligin siedi,
375Col troppo folgorar fann’ombra e velo,
Di quel che in parte intendi, e in parte credi
Eccoti un paragon fido, che allumi
378I tuoi dubbj pensier: Volgiti, e vedi.
Mi volsi, e un sol mirai piover a fiumi
Aurei sua luce inestinguibil deutio
381A un cavo acciar, che rifletteane i lumi.
Parea lo specchio aver senso, e per entro
Al fondo curvo destar moto, e alzarse
384Verso il sol, che il rapia forte al suo centro;
Ma di catena oscure tracce sparse
In esso rimandar gli togliean piena
387La luce, e insiem al suo fonte appressarse.
Mirabil mostro! Avea nascenti appena
Due candid’ale ai ferruginei lati,
390Non pari all’orme della sua catena.
I folgori dal globo igneo vibrati
Rodean ardendo i rugginosi ed ampi
393Vestigj dal servil ceppo vergati,
E l’acciar, come fosse un Uom, che avvampi
Pago, e onor dal suo rogo e pace aspetti,
396Stridea infocato, e ne invitava i lampi,
Che nel fulgor ripercotea più netti,
E col riverberar più pura fiamma
399Cresceangli i vanni a fender l’aria eletti.
Poichè l’immensa lampa, che l’infiamma,
Col foco affinator, che in esso tenne,
402Qualunque divorò di ruggin dramma,
Spiegò lo speglio le robuste penne
Per la splendente via degli astri erranti,
405Ed immerso nel sole il sol divenne.
Nel meditar la Visíon, che avanti
Agli occhi miei veracemente apparve,
408Il nudo io sciolsi di que’ detti santi,
Che al basso ingegno indissolubil parve,
E ripien d’ineffabile dolcezza
411Rimasi allor, che il grande obbietto sparve.
Ma ritorcendo in lei da tanta altezza
I rai, m’avvidi in riguardarla fiso
414Che aggiunta al volto avea nova bellezza.
La fronte lieta crescea grazia al viso,
E due leggiadri solchi in su le tinte
417Guance di rose apría soave il riso.
Fresche aure, e di color celesti pinte
Scherzando fean tra mille odori e mille
420Le brune sventolar chiome discinte.
Le nere luci d’amorose stille
Di gaudio umide il sen bagnavan miste
423A pioggia di chiarissime scintille.
Tutto quel ch’era in lei, se non di triste,
Di grave almen sembrommi che vestisse
426Forme rare, e beltà non mai più viste.
Ella, che il guardo in me sereno affisse,
Del mio maravigliar poichè s’accorse:
429Oh me felice! ecco omai giunto, disse,
L’aspettato momento. A me già porse
La diva esca quel Dio, che in seno accolsi,
432Di cui più Morte non porrammi in forse.
Sento pel sommo vol, ch’io mi disciolsi
Dai lacci miei. Veggio i celesti liti,
435Veggio il vero Oríente, a cui mi volsi.
Or come fia, che a seguir me t’inviti?
Se amante sei, pari in amar ti rendi
438A me, che l’amor mio chieggio, che imiti.
Pensa, che ne’ singulti estremi attendi
Il foco esplorator d’ogni opra chiara,
441Che in essa anche il chiaror medesmo emendi,
E che non mai da questa valle amara
Giunger puote, ove regna Amor beato,
444Chi a ben amar quaggiù pria non impara.
Dopo tai detti il putrido e smembrato
Suo corpo in rimirar, dolce sorrise;
447E certa in sè del trionfal suo stato
Soggiunse poi: Guaste quantunque e incise
Dai vermi, o Spoglie mie, non rimarrete
450Eternamente già da me divise;
Benchè fracide, esangui, ah! voi mi siete
Tenera cura ancor. Grazie vi rendo,
453Che nel terren tumulto umíli e quete
Tolleraste il mio fren duro piangendo.
Ma il vostro lutto cangerassi in nuove
456Fonti di gioja meco, ov’io risplendo.
Altri più vaghi obbietti, ed altre prove
Del ben, che immaginar non fia ch’Uom possa,
459Vi colmeran d’altre delizie altrove.
Tacque; e ondeggiar sembrò la tomba scossa,
Qual di zefiro al fiato un roseo scuole
462Cespo, e festose n’esultaron l’ossa.
Allora oltre i sentier liberi al sole
Il Ciel l’ultime sfere a lei scoperse;
465E fra il suon delle Angeliche parole,
E fra un nembo di fior, che la coperse,
Sibilo d’aura leve in lei s’infuse,
468Che all’aperte di Dio braccia l’offerse,
E del piacer nel vortice la chiuse.
ANNOTAZIONI
ALL’UNDECIMA VISIONE.
Pag. 223. | O temi per l’ardor, che in me s’aggira, |
Che sia funesto il loco, ov’io soggiorno? |
Descrive l’Autore sotto il nome d’Amennira lo stato dell’anime del Purgatorio, appoggiandosi a quanto ne scrisse Santa Caterina da Genova nel suo eccellente trattato Del Purgatorio, e a quello altresì, che sopra questo punto lasciò scritto San Francesco di Sales, come vien riferito da Monsignor Camus Vescovo di Bellas, nel suo libro intitolato Lo Spirito di San Francesco di Sales, parte 16 cap. 9 car. 345; cioè, che quelle sante anime, in mezzo ai loro inesplicabili tormenti, godono d’una somma pace: Primo, per la perfettissima conformità del loro volere a quello di Dio, in cui il loro è in certa maniera trasformato: Secondo, per il perfetto e puro amore, col quale amano Iddio senza verun rapporto a se stesse: Terzo, per la sicura speranza, che hanno di non perdere mii più il sommo Bene, essendo incapaci di qualunque minima ombra di colpa, e di dover possederlo in eterno nella Gloria immortale. Lo stesso pure lasciò scritto la Beata Battista Varano nella sua Operetta Dei dolori mentali di Cristo, da lui rivelati alla suddetta Beata colle seguenti parole: “E nulla diversità non c’è, nè differenza di pene dalle infernali a quelle del Purgatorio, salvo che quelle dell’Inferno mai e poi mai non avranno fine, e quelle del Purgatorio sì. E le anime, che stanno in quelle, volentieri e allegramente, benchè lor doglia, si purgano e sofferiscono in pace, rendendo infinitissime grazie a me somma Giustizia”. E questo è il testo genuino di quell’Operetta, del quale se n’è tralasciata l’ultima Parte, volendo malamente attribuire quell’Operetta al Padre Scupoli, che nacque molti anni dopo la Beata Battista.
Pag. 223. | Ma nell’infiammatrice alta favilla |
Cara a Dio stommi ubbidiente ancella | |
Fra il mio piacer e il mio dolor tranquilla. |
Secondo la giusta dottrina seguíta dall’Autore intorno al Purgatorio, può ognuna di quelle benedette anime acconciarsi le parole dette in altro senso dalla Sposa de’ sacri Cantici: Facta sum coram eo quasi pacem reperiens. Cant. 8.