Werther (1873)/Una coda non necessaria, ma non forse inutile
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UNA CODA NON NECESSARIA,
MA NON FORSE INUTILE.
Shakspeare, in una delle sue più splendide tragedie, l’Amleto, fa abbordare dal suo protagonista la questione del suicidio, risolvendola con un dubbio, che sconforta da quell’atto maniaco. Il celebre monologo, che incomincia con quelle parole, tanto citate: «To be, or not to be, that is the question, ec.» è conosciuto da tutti; ma noi ci permettiamo di rammemorarlo a chi non sapesse d’inglese, dolenti di non aver potuto restituire allo Autore la sua veste di gala. — Eccolo:
«Essere, non essere: ecco il problema! Di terror non dicesse: — Oltre la polve |
Amleto è perplesso, il suicidio non gli addormenta nell’animo i dubbi; l’inesplorata terra, che si stende di là dal sepolcro, e d’onde nessun viaggiatore è tornato, gli dà a pensare: — «meglio — egli finisce a conchiudere — meglio sopportare i mali che conosciamo, che i mali che ci sono ignoti.» — È una morale, che non viene da molto alto; ma basta a trattenerci sull’orlo del percipizio, facendoci riflettere, se non sul diritto di disporre dell’esistenza, sulla convenienza almeno di togliercela selvaggiamente. Ad ogni modo non è un ateo che discute: è un uomo, che implicitamente crede in un principio immateriale, vivente in noi, e che con noi non ha termine. Sarebbe un primo passo alla condanna della morte volontaria.
Alessandro Manzoni va più innanzi. Il suo Adelchi, quella simpaticissima figura, a cui l’infortunio cinge il capo d’un’aureola di grandezza, quasi da martire, rimastica anch’egli — e in un Monologo anch’egli — la desolata idea del suicidio. Ma non è che il durare d’un lontano baleno: si direbbe che il pensiero della distruzione volontaria di sè stesso ei non l’ha concetto; che è comparso furtivamente all’anima sua — ma l’ha appena sfiorato, a modo di fuggevole visione. Ei si sdegna quasi con sè medesimo d’aver potuto accogliere un’idea così pusillanime, così indegna di lui! Credente in Dio, ei si pente d’un moto, che reputa vigliaccherìa non pure, ma misfatto al cospetto del Creatore, e mancanza di gentilezza e di pietà verso il padre, sventurato pur esso — e forse più di lui. Rimasto pressochè solo sulla polvere del tradimento e della sconfitta, allorquando ogni cosa intorno a lui sembra persuaderlo, costringendolo quasi a un atto, che gli acqueterà per sempre nel cuore le tempeste della carne, egli finisce per trionfare col lume della sua fede e colla sua fortezza sovra ogni umano pregiudizio.
Mi fo lecito di ricordarvi intiero quel soliloquio sublime, o miei lettori. — «Almeno» — esclama il figlio di Desiderio —
«Almeno Morir? Nol puoi? Sento che l’alma in questo |
Amleto rifiuta il suicidio, perchè ha paura dei sogni che potessero stendere il loro ragnatelo d’intorno al suo cadavere, nell’eterno oblìo del sepolcro. Adelchi, natura meno fantastica, ma più religiosa (inscientemente religiosa, sto per dire) ritorna all’esistenza per un sentimento di vergogna, e, in uno, di dovere. — Ecco il progresso, ecco il vantaggio morale, che qui il nostro poeta ha sul poeta britannico: ravvisare la colpabilità d’un atto — e ritrarsene, per un’idea netta, indiscutibile; positiva come una legge, rigorosa com’essa, com’essa ineluttabile.
Si direbbe che, scrivendo quel monologo, Manzoni corresse col pensiero ad un cospicuo esempio de’ suoi giorni — all’esempio, fornito colle parole e cogli atti dal primo Napoleone. È noto com’egli — codesto Napoleone — pronunciasse una delle più virili sentenze intorno all’azione del suicidio, che s’erano fino allora dette su questo subietto, pietoso insieme e d’un altissimo senso morale.
Parlando da soldato a soldati, così ei li apostrofa, in uno de’ suoi Ordini del giorno, dopo qualche caso di suicidio avvenuto nell’esercito: «Un soldato deve saper domare la malinconìa e il dolore che destano le passioni; perocchè tanto è mestieri di verace coraggio a sopportare la angosce dell’anima, quanto a durar saldi contro al fulminare d’una batteria. Abbandonarsi al dolore, senza tentar di resistergli, uccidersi per sottrarsi ad esso, è abbandonare il campo di battaglia prima d’aver veduto il nemico.» — E, in un’altra solenne occasione, soggiungeva: « — Ho sempre creduto che un uomo, nel sostenere le traversìe della vita, e nello star fermo contro alle delusioni e alle sciagure che lo colgono, fa prova di maggior coraggio che non togliendosi ai mali coll’uccidersi. Il suicidio è l’atto di un giocatore che ha tutto perduto, o d’un prodigo che ha tutto sperperato: è assai più, insomma, una mancanza che non un documento di coraggio.»
Qui, la condanna del suicida, quantunque poggiata su basi affatto materiali, si fa più risentita.
Ma Napoleone, come già ho accennato, ha fatto anche più: egli ha illustrato le sue sentenze col proprio esempio. Non infido a sè stesso, la nostra generazione ha veduto l’Uomo d’Abukir e di Marengo, d’Austerlitz e di Tilsit, sopportar prima — allorquando la sua stella cominciò a velarsi — il titanico disastro di Mosca; poi condursi a poco a poco, a traverso i tempi sinistri del 1814, all’esilio dell’Elba; e, più tardi, dopo il sorridere d’una breve speranza, caduto sui campi della fatale Neerlandia, in mezzo a tanto tradir d’uomini e di cose, di illusioni e d’eventi, soggiogato e prigioniero, — persistere, pur sempre indomito, fra le tempeste dell’anima e i martirii dell’ambizione e dell’orgoglio.
Chè, se anch’egli, sulle rupi dell’Elena, scontò l’obolo suo alla umana fralezza, e fu men gagliardo di nervi che non era stato, un dì, potente di energia e di volontà, non però mai attentò a’ suoi giorni nemmen col pensiero. E ben potea Byron meravigliarsene; ma non uno — o ch’io mento — oserebbe oggi biasimar l’uomo nell’eroe, nè sconsiderare l’eroe, perchè egli, dopo sì lunga serie di maestose fortune, ebbe il coraggio di mirare in faccia l’avversità, senz’essere tentato di cacciare la sua mano violenta anche nella bilancia dei giudizii di Dio. — Peccò... espiò: fermo nell’espiazione, com’era stato nel peccato.
Come non ricordare, a questo proposito, i nobilissimi versi del già rammentato Manzoni:
«Tutto ei provò: la gloria La fuga, la vittoria, |
E però, oggi che la disperazione del suicidio par che venga aumentando ogni dì più il funereo numero delle sue vittime, codesto esempio del più avventurato e del più infelice, a un tempo, dei mortali d’ogni secolo, qual fu senza verun dubbio, nelle sue rapidissime vicende di prosperità e di miseria, il primo Napoleone — quest’uomo, che per una stranissima coincidenza, al par di Nerone, non volle, per lunghi anni, dal volgo esser creduto morto, — è l’argomento più eloquente, che nella via dei fatti possa mettersi innanzi a chi, esagerando i proprii infortunii, e farneticandoli senza riscontro sulla terra, s’immagina di poter decretare a sè medesimo il diritto di seppellirli col corpo.
Ma se l’esempio di Napoleone gioverà sempre che sia rammentato ai meditatori del suicidio, la sentenza che di lui s’è allegata alle prime linee, non basta a far sacra una massima di morale, ad escludere ogni possibilità di dubbii, fondati su opposte ragioni; da che essa in sè racchiude, è vero, la conseguenza, il corollario d’un principio, ma non il principio stesso.
Nè a quel principio si può ascendere se non per una scala d’idee, di ordine più elevato.
Ove si ammetta l’esistenza d’un Dio Creatore, Essere infinito, immortale, non è difficile ammettere altresì che le sue migliori creature di questo mondo, dotate d’anima e d’intelletto, di parola e di ragione, sieno anch’esse immortali, infinite, pur sotto le forme d’una temporanea buccia. Finito e mortale nel tempo, l’uomo sarebbe, se l’espressione m’è perdonata, infinito e immortale nei tempi.
Predestinato il corpo alle trasformazioni successive e infinite della materia, perchè l’anima che lo abitava non si svolgerebbe, alla sua volta, in trasformazioni che sarebbero pur esse successive e infinite, seguendo altre leggi, men conosciute bensì, ma non forse men vere? E per continuare il parallelo, dato che fossero progressive le trasformazioni della materia, perchè progressive non dovrebbero esser pure le trasformazioni dello spirito? Usiamo le parole anima e spirito come nel significato comune.
Il progresso materiale — assoluta condizione delle trasfigurazloni successive e infinite — vaticinato da Paolo Gorini al nostro pianeta, non saprebbe andar disgiunto da un corrispondente morale progresso. Materia e spirito camminerebbero ancora di pari passo, guidati entrambi da un Ordine arcano, da una arcana Potenza. Come l’uomo della stirpe giapetica d’oggi non è più il rozzo tipo, che di poco si levava sulla tigre delle caverne e sul mammouth, suoi contemporanei del periodo glaciale, così sulla nuova Terra, sulla Terra del Gorini, ingentilita di nuove spoglie maestose, passeggerebbe un Uomo, d’anima più gentile e più pura2.
Dio — e l’immortalità dell’anima: questi due dogmi varrebbero, anche soli, a giustificare l’illazione che la vita dell’uomo non può essere scopo a sè stessa3, non può, in altre parole, avere ad intento il soddisfacimento di caduchi desiderii, di transitorii affetti, di passeggiere passioni. A qualche cosa di più alto, di più solenne, deve essenzialmente mirare uno spirito immortale4. Però nessuna causa senza effetti; nessun principio senza conseguenza. L’idea d’un Dio Padre non può scompagnarsi dall’idea del dovere ne’ suoi figli; l’immortalità dell’anima fa del dovere una dottrina, un principio, che non può spegnersi colla morte del corpo.
Ora, se il dovere è legge innata dell’anima, e la governa, ogni atto dell’umana vita debb’essere informato ad esso; il fine ultimo dell’esistenza, nell’animale fornito di ragione, non può essere adunque la felicità, non può essere la gioia, il piacere, l’appagamento dei sensi, di quanto, insomma, è destinato a perire insieme coll’involucro delle forme umane.
La credenza in Dio e nell’immortalità dello spirito, a chi non la sente, è parola che si sperde in mezzo ai rombi del turbine; ma a chi la sente, è obbligo sacrosanto di educare la mente a serietà di propositi. Accettate la felicità a scopo dell’esistenza — e non c’è umana scelleraggine, non c’è misfatto che non trovi la sua giustificazione negli sforzi adoperati a conseguirla. Come non assolvere allora il ladro, che preda l’onest’uomo, per procacciarsi, colle dovizie altrui, un breve momento di briaco tripudio? Perchè dar biasimo a Tiberio delle nefandità di Capri? Perchè condannar Nerone di essersi giaciuto colla madre, o d’aver fatto strangolar la moglie, da che più non bastava al furore delle proprie libidini? Il parricidio non avrà forse una discolpa, quando la vita del padre è un inciampo ai disegni del figlio, a cui il delitto contenterà l’avarizia, l’ambizione o la superbia? Chiamatemi a rassegna tutta la bieca e lunga falange delle terrene passioni — e levatene una sola dal branco che non abbia origine nell’egoismo, che non possa scusarsi colla facile teoria del conseguimento delle proprie brame, del greto e incondizionato compiacimento della propria volontà!
E qual differenza, in codeste passioni, tra il parricidio e il suicidio? La sola diversità delle intenzioni fa distinto l’uno dall’altro atto; l’origine, in fondo, è la medesima. In entrambi i casi è un omicidio che si commette. La società ha perduto uno de’ suoi costituenti: a cospetto della società sono colpevoli entrambi d’aver trasgredito al gran Patto, che tacitamente lega tra sè le anella dell’umana famiglia. Il maggior ribrezzo, o la maggior pietà, che possa suscitare l’uno o l’altro dei due casi, è un sentimento, non un criterio. Noi non siamo datori a noi della vita che viviamo — e chi non dà, non può prendersi ciò che non ha dato: ecco la logica parola, innanzi alla quale, finchè sopravviva ne’ nostri costumi un caso di morte data, cadono, sotto una medesima riprovazione, l’assassino e il suo giudice, il suicida e il carnefice.
Mi duole il dirlo, ma la sola prevalenza del sentimento sul raziocinio, la sola prevalenza delle passioni sul giudizio logico, può ancora spiegare l’esistenza, ai nostri giorni, di quella negazione della Provvidenza, che è il suicidio; di quella bestemmia di Dio, ch’è il boia.
Ma se noi non dobbiamo a noi stessi la nostra vita (ricordo al lettore il primo maschio e la prima femmina), se quel solo che ce l’ha data — e che noi chiamiamo Dio — ce la può togliere; come ce la toglie col fatto della morte naturale, a cui nessuno finora ha saputo sottrarsi, chi v’accerta ch’Egli, e come padre e come giudice, non abbia scritto su questa creta una misteriosa parola? Non abbia imposto leggi allo spirito imperituro, che le dà affetti e intelligenza?
Le infinite cure — e ce lo attestano e spiegano gli uomini della scienza — che il Creatore ha poste nelle sue creazioni per assicurare la perpetuazione delle varie specie, non paleserebbero, per avventura, una di codeste leggi, che imporrebbe l’obbligo all’uomo di tendere, con tutte le sue facoltà, alla conservazione della propria vita, lasciando intiero nel Creatore il diritto di deliberare Egli solo sulla durata di essa, di giudicare Egli solo dell’istante più opportuno in cui troncarla, facendone questione d’una giustizia, di cui Egli non ha reputato di doverci rivelare le riposte ragioni?
«Io soffro — esclama il suicida — e ho diritto d’uccidermi per cessar di soffrire.» — Argomentazione falsa tratta dal falso concetto, che molti si sono fatti, e si fanno tuttavia, dello scopo dell’esistenza, dalla falsa idea che l’uomo non era messo in questo mondo se non per cercarvi la sua felicità5; che l’uomo non ha se non diritti a esercitare — e nessun dovere a compiere.
«Tu soffri, o sventurato? Ma e chi ti dice che tu non abbia il dovere di rassegnarti a soffrire? che, d’altra parte, per quest’unico motivo del tuo soffrire, tu abbia acquistato il diritto d’affrettare, di precipitare il termine della tua esistenza? E se il dolore fosse il cómpito d’una espiazione? Sei tu siffattamente sicuro di te stesso da eliminare dal conto ogni possibilità d’avere errato mai? Sei tu tanto orgoglioso da non voler tollerare il pensiero di fare ammenda de’ tuoi errori?
Ma i miei dolori, i miei patimenti, eccedono le mie forze» — insiste il suicida6.
«Hai tu mai pregato, infelice? intensamente, fervidamente pregato? — Ebbene, pròvati a pregare — e sentirai le tue forze crescere come per celeste prodigio; vedrai, all’ultimo, come quel Dio che tempera il freddo all’agnello tosato, ha commisurato le forze morali dell’uomo alla fralezza della sua natura, solo ch’ei non disperi di Dio, disperando di sè stesso.»7
La giustezza di quest’ultima sentenza è confessata anco dallo stesso protagonista del presente romanzo, in uno di quegli intervalli, che ben si potrebbero dire di lucida visione. — «Oh, è pur vero, o Guglielmo» — scrive il Werther, nella sua lettera del 22 agosto — «che quando noi veniamo meno a noi stessi, ci vien meno intorno a noi ogni cosa!» — Qui la verità prorompe, quasi malgrado di sè medesima, fuori dall’intime latèbre dell’anima, sì che la diresti un avvertimento divino.
Ma chi potrebbe valutare le forze tutte del suicida, se invece di educare sè medesimo all’abitudine dei sani e gagliardi pensieri, non le avesse miseramente sciupate, trascinando il cuore di debolezza in debolezza, trascinando la mente di sofisma in sofisma, per giungere all’impotenza morale e al paradosso?
E i sofismi, di cui suol essere lastricata la Via Crucis dell’amore, sono pur sempre quei medesimi; onde è che, combattuto uno di codesti monomani ragionanti, son combattuti tutti gli altri.
«L’umana natura — dice Werther — ha steso dintorno i suoi confini: gioie, dolori, patimenti, tutto essa può tollerare fino ad un certo limite: trasceso questo, rovina. Qui non si tratta, adunque, se il tale sia stato debole o forte; bensì se la misura del suo soffrire non oltrepassi il vigore, che Dio gli concedeva a sostenerlo — sia che il soffrire sia fisico o morale. Or io credo fermamente che tanto è strano il chiamar codardo l’uomo, che nell’eccesso del dolore spezza lo stame a’ suoi giorni, come sarebbe insensato chiamar codardo l’infermo che si morisse di febbre acuta.»8
E, innanzi a Werther, l’amante di Giulia aveva detto: — «V’ha coraggio, no’l niego, a sostenere con costanza i mali che non si ponno cansare; ma non v’ha che l’insensato, il quale sostenga volontariamente quelli, a cui egli può sfuggire senza commetter male; ed è sovente un male grandissimo quello di tollerare un male senza necessità. Colui, che non sa disfarsi d’una vita di dolore, per mezzo d’una morte subitanea, rassomiglia a colui, che toglie più tosto di lasciarsi invecchiare addosso una piaga che d’abbandonarla al ferro salutare del chirurgo.»9
Abbiamo citato queste due Lettere, perchè contengono quanto di più prominente abbia inventato, fino ad oggi, la dialettica del suicidio: sono, direi quasi, il substratum di codesta sostanza, il risultato ultimo dell’ingrata distillazione.
Vediamo.
Il paragone, che Werther istituisce tra il suicidio per patimenti morali, e il suicidio per patimenti fisici, collocandoli amendue sulla medesima linea, col solo suffragio degli argomenti recati, è già stato a suo luogo confutato10. Che i mali fisici sembrino alcuna volta superare la misura delle nostre forze (noti il lettore che abbiamo pensatamente detto sembrino), non vogliamo sconoscere. Che, poi, nei mali morali, la somma delle forze, atta a sopportarli, non faccia mai difetto, perocchè Dio non ce l’ha certo negata — e allorquando, per colpa nostra, l’equilibrio venga a turbarsi, la preghiera indubitamente lo ristaura — è cosa che anche questa abbiam già fatta presentire. Solo non abbiamo soggiunto come, puranco ne’ patimenti fisici, la preghiera — è un soldato, o lettore, che ti parla di preghiera, senza ipocrisia, come senza timore di ridicolo — la preghiera schietta, calda, perseverante sovra tutto, non può a lungo restarsi senza benefica efficacia.
Intorno ai dolori morali, questo intanto è certissimo, che la costante abitudine, il costante esercizio d’una ginnastica morale, che ci avvezzasse, a soffrire con calma e serenità di mente le contrarietà della vita, invece di lasciarci mollemente andar giù, in balia dell’onda cieca dei casi, senza tentar di resistere all’assalto delle prime dolorose impressioni, finirebbe, senza fallo, a crescere i nervi del nostro vigore, a ritemprarci a quell’energia di animo, di cui ci fornirono insigni esempli, in epoche varie, e sotto il predominio di religioni e di filosofie diverse, Ciniro, Regolo, Silvio Pellico, i martiri di Cristo — e gli strozzati di Mantova11.
Abbiamo separati i mali dell’anima da quelli del corpo, per accomodarci all’intelligenza comune, accettando le distinzioni degli scrittori che qui pigliamo ad esame: distinzioni, a dir vero, naturali, e, nel nostro linguaggio scientifico, più necessarie ancora che utili. Ma l’anima e il corpo, finchè stanno uniti quaggiù, non avrebbero essi alcun legame, alcuna relazione, alcuna corrispondenza tra loro?
I medici — non materialisti — da gran tempo hanno già risposto di sì; ma forse non hanno mai pensato a trarre finora tutte le conseguenze dal loro postulato.
V’hanno esempi, infatti, di gemelli che mostrano inclinazioni, desiderii, abitudini eguali; che, pur disgiunti tra loro, per grandissime distanze talvolta, sono colpiti da malattia identica, e persino dalla morte, ad un tempo medesimo, come sotto all’impressione di una sola percossa. Come non inferirne l’induzione che, adunque, un intimo rapporto corra tra essi, un rapporto di natura essenzialmente immateriale, il quale congiunge entrambi le esistenze, a guisa di elettrica favilla, a traverso il velo di quella parete ch’è il corpo? — E non saremmo noi autorizzati a credere che, a maggior ragione, codesto vincolo, ribelle ai chirurgici strumenti12, codesto vincolo che non cade nel dominio de’ nostri imperfettissimi sensi, perchè non è vassallo della materia, perchè non s’aggira negli spazii del finito — codesto vincolo, infine, sussista nell’uomo tra il suo corpo e il suo spirito?
Ebbene, noi saremo ancora conseguenti a noi stessi, ammettendo altresì quest’altra logica conclusione: che i rimedii, indicati a sopportare i mali morali, debbono giovare a sopportare altresì i mali fisici. Taccio che la fortezza d’animo si stimò, anche dagli Antichi, bastante a indurare il corpo contro i dolori che l’assaltano. Nella storia di questi ultimi venticinque anni, per non dir d’altri tempi, quanti esempi non diedero di codesta virtù i nostri patrioti d’ogni parte d’Italia, sostenendo con dignitosa rassegnazione le turpi torture della cuffia del silenzio e del bastone?
E la fortezza d’animo — l’abbiamo già dichiarato — quando non è virtù ingenita, s’acquista coll’abitudine di quella ginnastica morale, che a grado a grado ci fa capaci di padroneggiare i moti del cuore e le evoluzioni del cervello, invece di lasciarci vilmente sopraffare da essi. Però nulla di più fatale che addormentarci in quell’aura di malinconia, la quale, con sì sciagurata facilità, ci predispone a subire le allettative dei morbosi sentimenti e degli eunuchi sofismi, che poi ci spalancano sotto ai piedi l’abisso — e ci abbandonano, ancor vivi, nelle braccia della morte.
L’amante di Giulia, che finisce, del resto, a non uccidersi, conviene in questo: che c’è coraggio nello sfidare l’avversità; ma è coraggio da balordi, secondo lui. Il coraggio illuminato vuol che l’uomo uccida sè stesso, allorquando egli non può uccidere i suoi dolori.
Splendida logica invero! Varrebbe proprio il conto d’avere un’anima immortale, dove ogni soffio di vento valesse a piegarla a sua posta, come una fragil canna palustre! E sta a vedere che, allorquando piega, essa fa prova di maggior gagliardìa che allorquando non piega! E che è sensata cosa il piegare, insensata il non piegare! D’onde sa poi l’amante di Giulia — se è permesso chiederlo — ch’egli non commette male, rimandando l’anima sua, prima del tempo, a Dio? In quel momento forse, in cui l’anima sta espiando i suoi falli, perocchè nessuno in questa vita è scevro di falli? D’onde sa, l’amante di Giulia, ch’egli soffre senza necessità? che v’hanno mali, dolori, patimenti, che sono senza necessità, dappoichè è Dio, è il Padre nostro che ce li manda?
Quale perversione d’idee, del resto, se fosse lecito al figlio ribellarsi ai decreti del padre! Se dai supremi attributi, che pur siamo costretti a consentire alla Divinità, si radiassero la sapienza, che proporziona il castigo alle nostre forze, e la giustizia, che non si diletta a castigare senza necessità!
Singolare! Si accetta siccome cosa naturalissima l’idea che i genitori, allorchè ce ne stiamo sotto alla loro autorità, ci puniscano, acciocchè la punizione ci torni utile, giovando a ravvederci — e poi si repugna a credere che la punizione di Dio, dalla cui autorità non siamo liberi mai, ci sia inflitta per utilità del nostro spirito, soltanto perchè a noi repugna il credere a leggi che non sappiamo comprendere, pur presumendo nella nostra superbia, che le leggi, le quali governano l’Universo, abbiano il dio Termine là dove finisce l’orizzonte sensibile del nostro intelletto!
Ed eccoci frattanto ad un’altra singolarità, non meno strana della prima: il padre reputa giudizioso di venire sbocconcellando a’ suoi figli il pane della Verità, adattandone, d’età in età, i bocconi ai loro denti, affinchè, somministrandolo intiero, ad una sol volta, non riesca loro indigesto. Dio, al contrario, a codesti uomini d’eterna, sebben progressiva, fanciullezza, acconsentirebbe ad un tratto tutto il tesoro de’ suoi segreti, a rischio di palesarsi, per siffatto procedere, — scusate l’assurdità! — meno giudizioso della sua creatura, meno provvido assai di Beniamino Franklin, il quale dettava questa sentenza d’oro: — «S’io chiudessi nel mio pugno un alveare di verità, mi guarderei bene dall’aprir la mano, se non in modo da non lasciarne uscire che una sola per volta!»
Jacopo Ortis ripete i medesimi sofismi, gli stessi paradossi di Werther, e dell’amante di Giulia del Rousseau. Già abbiamo recato qualche brano di una lettera dell’Ortis; ora ci facciamo a restituire integra la parte del testo che cade nel nostro assunto, per meglio analizzarla. Avvertiamo solo che il Dio dell’Ortis, qui, è la Natura; a cui pare ch’ei conferisca eguali attribuzioni ed egual potere che a Dio.
«Nè io credo di ribellarmi da te — egli esclama, indirizzandosi alla Natura — nè io credo di ribellarmi da te, fuggendo la vita. La vita e la morte sono del pari tue leggi: anzi una strada tu concedi al nascere, mille al morire. Se non ci imputi la infermità che ne uccide, vorrai forse imputarne le passioni, che hanno gli stessi effetti e la stessa sorgente, perchè derivano da te, nè potrebbero opprimerci se da te non avessero ricevuto la forza? Nè tu hai prefisso una età certa per tutti. Gli uomini denno nascere, vivere, morire: ecco le tue leggi: che rileva il tempo e il modo? — Nulla io sottraggo di ciò che mi hai dato. Il mio corpo, questa infinitesima parte, ti starà sempre congiunta sotto altre forme. Il mio spirito — se morrà con me, si modificherà con me nella massa immensa delle cose: e s’egli è immortale, la sua essenza rimarrà il lesa. — Oh, a che più lusingo la mia ragione? Non odo la solenne voce della natura? Io ti feci nascere, perchè anelando alla tua felicità, cospirassi alla felicità universale; e quindi per istinto ti diedi l’amor della vita e l’orror della morte. Ma se la piena del dolore vince l’istinto, che altro puoi tu fare se non correre verso le vie che io ti spiano per fuggir da’ tuoi mali? Quale riconoscenza più t’obbliga meco, se la vita ch’io ti diedi, per beneficio, ti si è convertita in dolore?»
Tralasciamo, siccome cosa superflua, di tornare sulle massime di questa lettera, che Ortis ha comuni con Werther e coll’amante di Giulia, perocchè già le abbiamo confutate.
Nascere, vivere e morire non sono non possono essere le sole leggi che Dio ha prescritte all’Umanità. Questi tre termini, presi in modo così assoluto, mancano d’un nesso che li colleghi. Date un intento, un fine al nascere — che non sia la materiale necessità — e la vita e la morte non saranno più che una fase del primo termine, un’applicazione continua dello scopo preposto a tutti e tre i termini.
La nascita, considerata come un atto di necessità materiale, esclude essenzialmente l’idea preesistente di Dio e dell’anima; esclude qualunque intento morale, prefisso alla vita. Il mondo non è, allora, se non un gregge d’uomini, a cui il carceriere e il boia insegnano, commentandola, la dottrina del bene e del male; gli eventi sono un cieco avvicendarsi di casi, al quale indarno si chiederebbe una ragione di essere, un ammaestramento, uno scopo infine qualsiasi.
In un mondo di cotale struttura, dove l’uomo non ha legge nè vincolo morale che presieda alla sua esistenza; dove la sua apparizione e la sua scomparsa non hanno un significato, un perchè, come non suppongono addentellato, nè ingranaggio che lo rannodino alle altre opere della creazione, ma sono, all’incontro, una mera vicenda abbandonata al caso — in un mondo di cotale struttura si capisce come il tempo e il modo del morire non abbiano maggior rilevanza del tempo e del modo del nascere e del vivere. Mirata dall’alto di questo concetto, che noi vorremmo chiamare allucinazione, la vita e la morte, non essendo più strette tra loro da un legame morale — l’adempimento d’un dovere — non c’è più ragione nemmeno perchè, allorquando ci sentiamo infelici, allorquando la piena del dolore vince gl’istinti dell’amor della vita e dell’orrore della morte, — non abbiamo a crederci in diritto di procacciarci la calma, il riposo, fuggendo per una delle molte vie, che ci si spianano dinanzi, a quella guisa che si ricorre all’oppio o all’haschich, per procacciarci il sonno — o ci lasciamo amministrare l’etere, il cloroformio, od altro rimedio qualunque d’anestesiaca potenza, per sottrarci al dolore d’una operazione chirurgica.
Il dolore quaggiù — il dolore della materia e quello dello spirito — si rivela così generale tra gli uomini, che è più insensato che sagace il non indurne la conseguenza che il soffrire è una delle condizioni, una delle supreme leggi, imposte dalla Divinità alla nostra esistenza terrena.
Rimontiamo a più alte considerazioni.
Poniamo, per un momento, che la materia e lo spirito, il finito e l’infinito, sieno modificazioni d’un identico e solo principio, all’incirca come i fisici dicono essere l’elettricità, la luce, il magnetismo e il calorico. Poniamo altresì che codesti due modi d’essere, dotati ciascuno di qualità speciali, che è a dire, di fisionomia, d’individualità propria, spiccata, irrecusabile, sieno ciò nullameno chiamati a conglobarsi in una forma sensibile, a cui daremo il nome di corpo umano. Poniamo, infine, che dopo un più o men lungo consorzio dei due modi d’essere — della materia e dello spirito, dell’anima e del corpo — i due compagni di viaggio si separino, destinati a seguire ciascuno la sua legge particolare di successive trasformazioni, in armonica e sintetica analogia tutte colla loro speciale natura.
Ignari finora, come tutti siamo, delle sorti ultime della materia, possiamo credere, anche senza gran danno, che la successione delle sue trasformazioni si prolunghi all’infinito, senza perciò includere la necessità d’essere progressive nel meglio, se non forse in senso diverso affatto da quello che noi siamo convenuti di chiamar meglio morale.
Pur come si fa, non volendo riuscire illogici, a concepir l’idea di trasformazioni successive dello spirito, che non sieno un graduale e progressivo miglioramento morale, attraverso la infinita via ch’esso dee percorrere, per condursi alla sua mèta; a quella mèta, la quale si nasconde ostinata al poco acume del nostro occhio mortale?
Infrattanto, senza chiedere l’ali alla fantasia per tentare di seguir vaticinando col pensiero le intrinseche ed estrinseche condizioni, nelle quali si compie codesto ciclo di progressive fasi, o vicende, dello spirito — è impossibile non ammettere che il miglioramento graduale dee pervenire, nell’ultimo suo stadio definitivo, alla perfezione — e che sia questa appunto la mèta, a cui, volenti o non volenti, tutti tendiamo. Che monta sapere se tutte codeste trasfigurazioni serbino eguali caratteri nelle sembianze, se, ad esempio, si svolgano tutte in un medesimo pianeta, oppure se l’individuo, se l’Io, varchi in taluna d’esse fasi, da un globo all’altro, siccome vorrebbero gli spiritisti, — che assegnano anche agli astri una successività di perfezionamento nella loro materia, come nella qualità delle creature, chiamate ad abitarli? — A noi basti sapere intanto che lo spirito, procedendo di fase in fase — e purificandosi e migliorando sempre, in ciascuna d’esse (giudice Dio solo del grado di successivo miglioramento) ha per legge universale il Progresso13; per cómpito, l’obbligo di camminare verso la sua perfezione individuale — in necessaria armonia col disegno generale della creazione degli esseri, o in altre parole, col tipo perfezionale dell’Essere collettivo — che noi, per inopia di linguaggio, non sappiamo di che nome battezzare.
E perciò, prefissa ad ultimo termine la perfezione, le trasformazioni dello spirito altro non sarebbero se non evoluzioni o mezzi atti a conseguirla: stromenti, le facoltà morali d’ogni individuo rette dal libero arbitrio.
Dopo simiglianti premesse, che cosa diventa, nella fase Uomo, il suicidio?
Che l’esistenza corporea ci sia concessa a «beneficio nostro,» come sillogizza l’Ortis, è più che nessun mortale possa affermare: nulla almeno di quanto ci attornia, in questo globo della Terra, ci autorizza ad arguirlo.
Non certo chi miri la tanta diseguaglianza, la tanta disparità delle condizioni umane e le infinite miserie e le infermità e i guai d’ogni natura, — che tuttodì, che ad ogni passo, s’affacciano al nostro sguardo, offendendo in noi il senso pudico della pietà — lo potrebbe.
Chè, se noi ci facciamo a meditare con calma l’arcano problema, due modi soltanto ci si parano innanzi di soluzione:
O negar Dio, ne’ suoi più incliti attributi — e commiserare, o bestemmiare nel mondo un fatale aggregato di molecole e d’atomi, su cui, inscienti ed assolute, imperano la Forza e la Fortuna;
O concludere nell’idea che la contentezza e il dolore, gli agi e la povertà, costituiscono altrettante circostanze — necessarie ed essenziali — poichè a Dio non è piaciuto di crearci di primo lancio perfetti, onde lasciare al nostro arbitrio, alla nostra elezione, il procacciarci i mezzi di esercitare le nostre morali potenze, il vigore spirituale della nostra immortale individualità.
In un mondo, architettato a immagine d’ippodromo, di palestra, ove il merito della vittoria sgorga solo dalla virtù della lotta e della sua perseveranza, l’esistenza nostra non saprebbe evidentemente essere un beneficio. Parrebbe, in quella vece, più adeguato chiamarla una destinazione di prova, una missione auto-didattica, auto-educatrice, una cotal specie di alunnato morale, a cui si rannoderebbero le idee di emendazione, d’espiazione, di sacrificio di sè medesimo.
— E il suicidio? torniamo a chiedere. —
Il suicidio? — Mentre la morte naturale è un giudizio della Divinità, che chiama lo spirito a nuove funzioni, a nuovi doveri — nel momento forse più favorevole ad esso, nel suo lavoro espiatorio — il suicidio interrompe audacemente, improvvidamente, il corso della suprema Giustizia, quando per avventura non richiedeasi dal suicida che un atto di fortezza o d’annegazione, a propiziare il passato — ed avviarsi, migliore, incontro all’avvenire.
Al cospetto di dottrine religiose, che proclamano Dio e l’immortalità dell’anima, che ammettono uno stato definitivo di perfezione — e per conseguenza, premii e castighi, e la necessità d’una prova purificatrice — il suicida è l’uomo, che lacera la sua sentenza, e fugge dal carcere, per non aver la virtù di riconoscere le proprie colpe, e però la giustizia dell’inflitta espiazione; o per non avere il coraggio di resistere alla condanna proferita dal giudice. Fuggire, non è provare d’aver ragione; sottrarsi alla pena, non è provare di non averla meritata.
Qual meraviglia, adunque, se — contro alla commiserazione dei codici attuali, propizia al suicida — Iddio, nella sapientissima coerenza de’ suoi atti — reputasse meritevole di pena il temerario, che tenta eludere i disegni della sua giustizia?
O rosei giovani, che trascinati dalla prepotente violenza d’una passione — e sedotti dal luccicare infausto di brillanti sofismi — ribiascicate amaramente nell’animo l’idea della vostra distruzione, imitate Foscolo e Goethe, che in condizioni di spirito, non dissimili dalla vostra, ben meditarono entrambi il suicidio; ma no’l compirono, perchè, — avendo avuto la rassegnazione e la forza d’aspettare il balsamo alle loro piaghe... dal tempo — la passione, che pareva immortale, svampò a poco a poco, cedendo il luogo ai miti suggerimenti d’una ragione, riconciliata a Dio, ed alle indeclinabili necessità del proprio destino.
E solo, del sinistro proponimento, rimasero gli ultimi guizzi, che come in tela fiamminga, dominata dal buio, vanno a percuotere d’una stanca fosforescenza i volti delle due fantastiche figure — il Werther e l’Ortis.
Per non parlare che dell’Autore del Werther, avete letto, o giovani, ciò che il Foscolo scriveva intorno a quel romanzo, che dovette gran parte della sua fama all’amore caldissimo e verace, inspirato dalle prepotenze napoleoniche e francesi, a favore della gran patria italiana? — Se l’aveste obliato, io ve lo ripongo sotto agli occhi. In una lettera, che nel 1813 egli mandava a una signora L..., così ragiona:
«Voi mi direte che io canto la palinodìa dell’Ortis, e che discordo poco sinceramente da’ miei principii. A ciò, in primo luogo, rispondo che s’io avessi potuto e saputo prevedere la profonda ferita che quel libro avrebbe aperta nel petto delle giovinette, io non lo avrei mai pubblicato. Or me ne pento davvero, e solo mi conforta la certezza che quelle afflitte mie pagine, se destano la gioventù alla meditazione e al dolore, la guidano ad ogni modo alla virtù ed al vero amore, la più santa e la più bella della passioni, quando non tende che a sacrificarsi per la persona che si ama: e felice me se io potessi sacrificarmi per voi! Ditemi, se voi sapeste che io avessi perduta la vita per voi, se voi mai sapeste ch’io l’ho aborrita e sfuggita per cagion vostra, potreste voi mai avere i vostri sonni tranquilli? potreste udir più pronunziare il mio nome, senza fremere dentro voi stessa? E spesso sareste tentata a credere che io non v’amava, poichè, cercando io l’eterna mia pace, vi ho abbandonata a lunghi e crudeli rimorsi.»14
Ciò che solo importava al mio assunto era di mostrare come, in questa lettera, il Foscolo magnanimamente si pentisse dell’opera sua; però avrei dovuto stringermi a non citare se non che le prime linee. Ma mi suonerebbe non altrimenti che a guisa di peccato farisaico, se non avessi rammentato anco il seguito. Il quale, a prima giunta, ha cera di dissentire; ma è una ricantazione bell’e buona anch’essa — e forse più profonda che non paia — ma sovra tutto applicabile ad alcune delle ragioni, che non di rado, pur troppo! sogliono determinare il suicidio.
Riccardo Ceroni.
Note
- ↑ Adelchi, atto V, scena II.
- ↑ Vedi l’insigne opera sulla Formazione delle montagne.
- ↑ «La vita non è scopo assoluto, ma solo un mezzo ed una condizione dello scopo.» — Conversations-Lexicon, Brockhaus, 1836; alla voce Selbstmord (suicidio).
- ↑ Già il Rousseau aveva fatto dire a Lord Edward, in risposta alla lettera dell’amante di Giulia: «Tu, che credi nell’esistenza di Dio, nell’esistenza di un’anima immortale, e nella libertà dell’uomo, tu non pensi certo che un essere intelligente riceva un corpo e sia collocato sulla Terra, a casaccio, solo per vivere, soffrire e morire. Non ha, per avventura, la vita umana uno scopo, un fine, un obbietto morale?» — La nouvelle Héloïse, P. III, lett. XXII.
- ↑ «Oh, a che più lusingo la mia ragione? Non odo la solenne voce della Natura? Io ti feci nascere, perchè anelando alla tua felicità, tu cospirassi alla felicità universale.» — Lettera di Jacopo Ortis, senza data, ma che precede quella del 19 marzo 1797.
- ↑ Vedi, nelle Lettere del Werther, quella del 12 agosto 1771.
- ↑ Statuite le relazioni di padre e figlio, di Creatore e creatura, la preghiera è una delle conseguenze più immediate e più razionali che ne scendono.
- ↑ Lettera del 12 agosto 1771. — E l’Ortis: «Se non ci imputi (parlando della Natura) la infermità che ne uccide, vorrai forse imputarne le passioni, che hanno gli stessi effetti e la stessa sorgente, perchè derivano da te, nè potrebbero opprimerci se da te non avessero ricevuto le forze?» – Vedi la Lettera immediatamente antecedente a quella del 19 marzo 1797, già citata addietro.
- ↑ La nouvelle Héloïse, P. III, lett. XXI.
- ↑ Vedi, nella Lettera 12 agosto, la risposta d’Alberto alle ragioni, che Werther espone intorno, direi così, alla irresponsabilità dell’atto suicida.
- ↑ Vedi Martini Luigi, Il Confortatorio di Mantova negli anni 1851, 52, 53 e 55: Mantova, 1867; 2° vol.
- ↑ «Ho cercato l’anima nelle mie varie operazioni; ma essa non è mai caduta sotto al mio bisturì.» Così un medico famoso di Francia.
- ↑ Il Progresso è la legge stampata da Dio in fronte ad ogni opera sua: il pronao di quell’immensurabile tempio, che noi chiamiamo l’Universo. Dal giorno, al quale i calcoli di Lyell, e degli odierni geologi, hanno potuto risalire, per via di scientifiche congetture, a traverso le vestigie de’ secoli muti, il Progresso si è palesato tanto nelle condizioni atmosferiche e fisiche del nostro pianeta, quanto nelle forme plastiche degli animali, più propriamente detti, e degli uomini che lo popolano. Gl’isolani della Nuova Olanda, gli Australi in genere, i Boschiman, gli Esquimesi, le schiatte insomma più basse della scala antropologica, che oggidì esistono, per quanto diseredate, esibiscono nondimeno un innegabile miglioramento delle facoltà intellettuali dell’uomo primordiale, che visse durante l’epoca della pietra: Uomo, che per lunghissimo tempo — forse per qualche secolo — non fu avvertito del fuoco se non dal guizzo dei fulmini e dal fiammeggiare dei vulcani, senza impararne la produzione e l’uso non altrimenti che le scimmie; mentre oggi non v’ha selvaggio che coll’attrito di due fuscelli di legno arido non sappia eccitare la provvida scintilla che gli serve ad allestirsi il cibo, a diradarsi intorno le tenebre, a scaldarsi, a tener lontane le fiere. Le investigazioni dei Naturalisti intorno agli animali senza parola, c’inducono, d’altra parte, a questa singolare osservazione, che, man mano che l’uomo venne raffinando e forbendo i suoi costumi, man mano ch’ei venne accostandosi alla geniale e stabile convivenza della famiglia, ai santi talami della fratellanza civile, non pure andarono scomparendo dalla faccia della Terra le più infeste famiglie di carnivori, ma quelle che sopravvissero al cataclisma, come, ad esempio, tra i mammiferi, l’orso, la tigre, la iena, l’elefante, il rinoceronte, modificarono d’assai le loro estrinseche forme, e in quella trasformazione perdettero insieme gran parte della loro primitiva ferocia, della loro, sto per dire, terribilità.
- ↑ Foscolo, Epistolario: edizione Le Monnier, 1852; vol. I, pag. 475.
- Testi in cui è citato William Shakespeare
- Testi in cui è citato il testo Opera:Amleto
- Testi in cui è citato Alessandro Manzoni
- Testi in cui è citato il testo Adelchi
- Testi in cui è citato Napoleone Bonaparte
- Testi in cui è citato George Gordon Byron
- Testi in cui è citato il testo Il cinque maggio
- Testi in cui è citato Paolo Gorini
- Testi in cui è citato Silvio Pellico
- Testi in cui è citato Benjamin Franklin
- Testi in cui è citato Jean-Jacques Rousseau
- Testi in cui è citato il testo Ultime lettere di Jacopo Ortis/Parte seconda
- Testi in cui è citato Ugo Foscolo
- Testi in cui è citato il testo Ultime lettere di Jacopo Ortis
- Testi in cui è citato il testo Adelchi/Atto quinto
- Testi in cui è citato il testo Adelchi/Atto quinto/Scena II
- Testi in cui è citato Luigi Martini
- Testi in cui è citato Charles Lyell
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- Testi di Riccardo Ceroni