Zenobia/Atto primo

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Atto primo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Fondo sassoso di cupa ed oscura valle, orrida per le scoscese rupi la circondano e per le foltissime piante che le sovrastano.

Radamisto dormendo sopra un sasso, e Zopiro
che attentamente l’osserva.

Zopiro. No, non m’inganno, è Radamisto. Oh, come

secondano le stelle
le mie ricerche! Io ne vo in traccia; e il caso,
solo, immerso nel sonno, in parte ignota,
l’espone a’ colpi miei. Non si trascuri
della sorte il favor: mora! L’impone
l’istesso padre suo. Rival nel trono
ei l’odia, io nell’amor. Servo in un punto
al mio sdegno e al mio re.
  (in atto di snudar la spada)
Radamisto. (sognando) Lasciami in pace.
Zopiro. Si desta. Ah, sorte ingrata!
Fingiam.
Radamisto.   Lasciami in pace, ombra onorata. (si desta)
Zopiro. Numi! (fingendo non averlo veduto)
Radamisto.   Stelle, che miro!
Zopiro. Radamisto!

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Radamisto.   Zopiro! (si leva)

Zopiro.   O prence invitto,
gloria del suol natio,
cura de’ numi, amor dell’Asia e mio,
ed è pur ver ch’io ti rivegga? Ah! lascia
che mille volte io baci
quella destra real.
Radamisto.   Qual tua sventura
fra questi orridi sassi,
quasi incogniti al sol, guida i tuoi passi?
Zopiro. Dell’empio Farasmane
fuggo il furor.
Radamisto.   Non l’oltraggiar: rammenta
ch’è tuo re, ch’è mio padre. E di qual fallo
ti vuol punir?
Zopiro.   D’esserti amico.
Radamisto.   È giusto.
Tutti abborrir mi dénno. Io, lo confesso,
son l’orror de’ viventi e di me stesso.
Zopiro. Sventurato e non reo, signor, tu sei.
Mi son noti i tuoi casi.
Radamisto.   Oh, quanto ignori
della storia funesta!
Zopiro.   Io so che tutta
sollevata è l’Armenia e che ti crede
uccisor del suo re. Ma so che venne
il colpo fraudolento
dal padre tuo; ch’ei rovesciò l’accusa
sopra di te; che di Zenobia...
Radamisto.   Ah! taci.
Zopiro. Perché?
Radamisto.   Con questo nome
l’anima mi trafiggi.
Zopiro.   Era altre volte
pur la delizia tua. So che in isposa
la bramasti.

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Radamisto.   E l’ottenni. Ah! fui di tanto

tesoro possessor. Ma... oh Dio!
Zopiro.   Tu piangi!
La perdesti? dov’è? Parla: qual fato
sí bei nodi ha divisi?
Radamisto. Ah, Zopiro, ella è morta, ed io l’uccisi!
Zopiro. Giusti numi! e perché?
Radamisto.   Perché giammai
mostro il suol non produsse
piú barbaro di me; perché non seppi
del geloso furor gl’impeti insani
mai raffrenar.
Zopiro.   Nulla io comprendo.
Radamisto.   Ascolta.
Da’ sollevati armeni
creduto traditor, sai giá che astretto
fui poc’anzi a fuggir. Lungo l’Arasse
presi il cammin. La mia Zenobia (oh troppo
virtuosa consorte!) ad ogni costo
volle meco venir; ma poi del lungo
precipitoso corso
al disagio non resse. A poco a poco
perdea vigor. Stanca, anelante, oppressa,
giá tardi mi seguía; giá de’ feroci
persecutori il calpestio frequente
mi cresceva alle spalle. — Io manco, o sposo —
mi dice alfin: — salva te sol; ma prima
aprimi il seno, e non lasciarmi esposta
all’ire altrui. — Figúrati il mio stato.
Confuso, disperato,
lagrimava e fremea; quando... ah, Zopiro,
ecco il punto fatal!... quando mi vidi
del parto Tiridate
a fronte comparir le note insegne.
Le vidi, le conobbi; e in un istante
non fui piú mio. Mi rammentai gli amori

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di Zenobia e di lui; pensai che allora

l’avrei difesa invan; lei mi dipinsi
fra le braccia al rival; tremai; m’intesi
gelar le vene ed avvampar; perdei
ogni uso di ragion; non fui capace
piú di formar parole;
fosca l’aria mi parve e doppio il sole.
Zopiro. E che facesti?
Radamisto.   Impetuoso, insano,
strinsi l’acciar: della consorte in petto
l’immersi, indi nel mio. Di vita priva
nell’Arasse ella cadde, io su la riva.
Zopiro. Principessa infelice!
Radamisto.   Io, per mia pena,
al colpo sopravvissi. A’ miei nemici
mi celò la caduta. Al nuovo giorno
pietosa man mi sollevò, mi trasse...
Ma tu non m’odi, e torbido nel volto
pensi fra te! So che vuoi dir: stupisci
che mi sostenga il suol, che queste rupi
non mi piombin sul capo. Ah! son punito:
è giusto il ciel. M’han consegnato i numi,
per castigo a me stesso, al mio crudele
tardo rimorso.
Zopiro.   (A trucidar quest’empio
non basto sol.)
Radamisto.   So che aprir deggio il varco
a quest’anima rea; ma pria vorrei
trovar l’amata spoglia,
darle tomba e morir. L’ombra insepolta
erra per queste selve. Io me la veggo
sempre sugli occhi: io non ho pace. Andiamo,
andiamo a ricercar... (incamminandosi)
Zopiro. (arrestandolo) Ferma! che dici?
Circondano i nemici
ogni contorno, e il tenteresti invano.

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In questa valle ascoso

resta e m’attendi: alla pietosa inchiesta
io volerò.
Radamisto.   Sí, caro amico; e poi...
Zopiro. Non piú: fidati a me. Da questo loco
non dilungarti: io tornerò. Frattanto
modera il tuo dolor, pensa a te stesso,
quel volto obblia, non rammentar quel nome.
Radamisto. Oh Dio! Zopiro, il vorrei far, ma come?
          Oh, almen, qualor si perde
     parte del cor sí cara,
     la rimembranza amara
     se ne perdesse ancor!
          Ma, quando è vano il pianto,
     l’alma a prezzarla impara:
     ogni negletto vanto
     se ne conosce allor. (parte)

SCENA II

Zopiro solo.

Oh Zenobia! oh infelici

mie perdute speranze! Avrai, tiranno,
avrai la tua mercé. Co’ miei seguaci,
quindi non lungi ascosi, a trucidarti
di volo io tornerò. Quel core almeno,
quell’empio cor ti svellerò dal seno.
          Cada l’indegno, e miri
     fra gli ultimi respiri
     la man che lo svenò.
          Mora; né poi mi duole
     che a me tramonti il sole,
     se il giorno a lui mancò. (parte)

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SCENA III

Vastissima campagna irrigata dal fiume Arasse, sparsa da un lato di capanne pastorali, e terminata dall’altro dalle falde d’amenissime montagne. A pié della piú vicina di queste comparisce l’ingresso di rustica grotta, tutto d’edera e di spini ingombrato. Vedesi in lontano, di lá dal fiume, la real cittá di Artassata, con magnifico ponte che vi conduce, e sulle rive opposte l’esercito parto attendato.

Zenobia ed Egle da una capanna.

Zenobia. Non tentar di seguirmi:

soffrir nol deggio, Egle amorosa. Io vado
fuggitiva, raminga; e chi sa dove
può guidarmi il destin? Se de’ miei rischi
te conducessi a parte, al tuo bel core
troppo ingrata sarei. Facesti assai:
basta cosí. Due volte
vivo per te. La tua pietá mi trasse
fuor del rapido Arasse; il sen trafitto
per tua cura sanò; dolce ricetto
mi fu la tua capanna; e tu mi fosti
consolatrice, amica,
consigliera e compagna. Io, nel lasciarti,
perdo assai piú di te. Non lo vorrei;
ma non basta il voler. Presso al cadente
padre te arresta il tuo dovere, e in traccia
me del perduto sposo affretta il mio.
Facciamo entrambe il dover nostro. Addio.
Egle. Ma sola e senza guida
per queste selve... Il tuo coraggio ammiro.
Zenobia. Non è nuovo per me. Fanciulla appresi
le sventure a soffrir. Tre lustri or sono
che l’Armenia ribelle un’altra volta
a fuggir ne costrinse; e allor perdei

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la minor mia germana. Oh lei felice,

che morí nel tumulto o fu rapita!
Io per sempre penar rimasi in vita.
Egle. E vuoi con tanto rischio andare in traccia
d’un barbaro consorte?
Zenobia.   Ah! piú rispetto
per un eroe ripieno
d’ogni real virtú.
Egle.   Virtú reale
è il geloso furor?
Zenobia.   Chi può vantarsi
senza difetti? Esaminando i sui,
ciascuno impari a perdonar gli altrui.
Egle. Ma una sposa svenar...
Zenobia.   Reo non si chiama
chi pecca involontario. In quello stato,
Radamisto non era
piú Radamisto. Io giurerei che allora
strinse l’armi omicide,
m’assalí, mi trafisse e non mi vide.
Egle. Oh generosa! E ben, di lui novella
io cercherò: tu puoi restar.
Zenobia.   No, cara
Egle, non deggio: a troppo rischio espongo
la gloria mia, la mia virtú.
Egle.   Che dici?
Zenobia. Io lo so, non m’intendi. Or odi e dimmi
se temo a torto. Il giovanetto duce
delle attendate schiere,
che da lungi rimiri, è Tiridate,
germano al parto re. Prence finora
piú amabile, piú degno
non formarono i numi
d’anima, di sembianti e di costumi.
Mi amò, l’amai: senza rossor confesso
un affetto giá vinto. Alle mie nozze

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aspirò, le richiese; il padre mio

lieto ne fu. Ma, perché seco a gara
le chiedea Radamisto, al mio fedele
impose il genitor ch’armi e guerrieri
pria dal real germano
ad implorar volasse; e, reso forte
contro il rivale, all’imeneo bramato
tornasse poi. Partí; restai. Qual fosse
il nostro addio, di rammentarmi io tremo:
prevedeva il mio cor ch’era l’estremo.
Mentr’io senza riposo
affrettava co’ voti il suo ritorno,
sento dal padre un giorno
dirmi che a Radamisto
sposa mi vuol; che a variar consiglio
lo sforza alta cagion; che, s’io ricuso,
la pace, il trono espongo,
la gloria, i giorni suoi. Suddita e figlia,
dimmi, che far dovea? Piansi, m’afflissi,
bramai morir; ma l’ubbidii. Né solo
la mia destra ubbidí: gli affetti ancora
a seguirla costrinsi. Armai d’onore
la mia virtú; sacrificai costante
di consorte al dover quello d’amante.
Egle. Né mai piú Tiridate
rivedesti finora?
Zenobia. Ah, nol permetta il ciel! Questo è il timore
che affretta il partir mio. Non ch’io diffidi,
Egle, di me: con la ragion quest’alma
tutti, io lo sento, i moti suoi misura.
La vittoria è sicura.
ma il contrasto è crudel: né men del vero
l’apparenza d’un fallo
evitar noi dobbiam. La gloria nostra
è geloso cristallo, è debil canna,
ch’ogni aura inchina, ogni respiro appanna.

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Egle. Misero prence! E alla novella amara

che detto avrá?
Zenobia.   L’ignora ancor: mi strinse
segreto laccio a Radamisto. Ei torna
agl’imenei promessi.
Egle.   Oh numi! e trova
sollevata l’Armenia,
vedovo il trono, ucciso il re, scomposti
tutti i disegni sui;
e Zenobia...
Zenobia.   E Zenobia in braccio altrui.
Egle. Che barbaro destin!
Zenobia.   Or di’: poss’io
espormi a rimirar l’acerbo affanno
d’un prence sí fedel? che tanto amai?
che tanto meritò? che forse al solo
udir che d’altri io sono... Addio.
Egle.   Mi lasci?
Zenobia. Sí, cara; io fuggo: è periglioso il loco,
le memorie, i pensieri.
Egle.   A chi fa oltraggio
l’innocente pietá...
Zenobia.   Temer conviene
l’insidie ancor d’una pietá fallace.
Addio; prendi un amplesso e resta in pace.
          Resta in pace, e gli astri amici,
     bella ninfa, a’ giorni tuoi
     mai non splendano infelici,
     come splendono per me.
          Grata ai numi esser tu puoi,
     che nascesti in umil cuna.
     Oh, di stato e di fortuna
     potess’io cangiar con te! (parte)

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SCENA IV

Egle sola.

Misera principessa,

quanta pietá mi fai! Semplice, oscura,
povera pastorella
per te oggetto è d’invidia! E a che servite,
o doni di fortuna? a che per voi
tanto sudar, se, quando poi sdegnato
il ciel con noi si vede,
difendete sí mal chi vi possiede?
          Di ricche gemme e rare
     l’indico mare abbonda,
     né piú tranquilla ha l’onda,
     né il cielo ha piú seren.
          Se v’è del flutto infido
     lido che men paventi,
     è qualche, ignoto a’ venti,
     povero angusto sen. (parte)

SCENA V

Zenobia sola, cercando per la scena.

Radamisto! Ove andò? Consorte! Il vidi;

tornai su l’orme sue; ma per la selva
ne ho perduta la traccia. A questa parte
eran vòlti i suoi passi. Ah! dove mai
sconsigliato s’aggira? Il loco è pieno
tutto de’ suoi nemici. In tanto rischio,
custoditelo, o dèi. Che fo? m’inoltro?
Avventuro me stessa. Egle si trovi:

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ella per me ne cerchi. Astri crudeli,

bastan le mie ruine:
cominciate a placarvi; è tempo alfine.
          Lasciami, o ciel pietoso,
     se non ti vuoi placar,
     lasciami respirar
     qualche momento.
          Rendasi col riposo
     almeno il mio pensier
     abile a sostener
     nuovo tormento.
  (parte, e, finito il ritornello dell’aria, toma agitata)
Misera me! Da questa parte, oh Dio!
vien Tiridate. Oh, come io tremo! oh, come
l’alma ho in tumulto! Il periglioso incontro
fuggi, fuggi, Zenobia. Il cupo seno
di que’ concavi sassi
al suo sguardo m’asconda insin che passi.
  (si cela nella grotta)

SCENA VI

Tiridate, poi Mitrane, e detta in disparte.

Tiridate. Né ritorna Mitrane! Ah! mi spaventa

la sua tardanza. Eccolo. Aimè! Che mesto,
che torbido sembiante! Amico, ah! vola:
m’uccidi, o mi consola. Il mio tesoro
dov’è? ne rintracciasti
qualche novella?
Mitrane.   Ah, Tiridate!
Tiridate.   Oh Dio,
che silenzio crudel! Parla. È un arcano
la sorte di Zenobia? Ognuno ignora
che fu di lei, dove il destin la porta?

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Mitrane. Ah! pur troppo si sa.

Tiridate.   Che avvenne?
Mitrane.   È morta.
Tiridate. Santi numi del ciel!
Mitrane.   Quell’empio istesso,
che il genitor trafisse,
la figlia anche svenò.
Tiridate.   Chi?
Mitrane.   Radamisto
fu l’inumano.
Tiridate.   Ah, scellerato! E tanto...
No, possibil non è. Qual cor non placa
tanta bellezza? Ei ne languía d’amore.
Non crederlo, Mitrane.
Mitrane.   Il ciel volesse
che fosse dubbio il caso. Ei dell’Arasse
sul margo la ferí: dall’altra sponda
un pescator nell’onda
cader la vide. A darle aita a nuoto
corse, ma invano: era sommersa. Ei solo
l’ondeggiante raccolse
sopravveste sanguigna. I detti suoi
esser non ponno infidi:
la spoglia è di Zenobia, ed io la vidi.
Tiridate. Soccorrimi.
Zenobia.   (Oh cimento!)
Tiridate. (si appoggia ad un tronco) Agli occhi miei
manca il lume del dí.
Zenobia.   (Consiglio, o dèi!)
Mitrane. Principe, ardir! Con questi colpi i numi
fan prova degli eroi.
Tiridate.   Lasciami.
Mitrane.   In questo
stato degg’io lasciarti!
Di me, signor, che si direbbe!
Tiridate.   Ah! parti.

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Mitrane.   Ch’io parta? M’accheto,

     rispetto il comando;
     ma parto, tremando,
     mio prence, da te.
          Minaccia periglio
     l’affanno segreto,
     qualor di consiglio
     capace non è. (parte)

SCENA VII

Tiridate e Zenobia in disparte.

Tiridate. Dunque è morta Zenobia? E tu respiri,

sventurato cor mio! Per chi? che speri?
che ti resta a bramar? Gli agi, i tesori,
la grandezza real, l’onor, la vita
m’eran cari per lei. Mancò l’oggetto
d’ogni opra mia, d’ogni mia cura: il mondo
è perduto per me. No, stelle ingrate, (si leva)
dal mio ben non sperate
dividermi per sempre. Ad onta vostra,
ne’ regni dell’obblio
m’unirá questo ferro all’idol mio. (snuda la spada)
Zenobia. (Aimè!) (uscendo)
Tiridate.   L’onda fatale
deh! non varcar, dolce mia fiamma: aspetta
che Tiridate arrivi;
ecco... (vuol ferirsi)
Zenobia.   Férmati! (trattenendolo)
Tiridate. (rivolgendosi) Oh dèi!
Zenobia.   Férmati e vivi!
  (gli toglie la spada, e s’incammina per partire)
Tiridate. Zenobia, anima bella! (vuol seguirla)
Zenobia. Guardati di seguirmi: io non son quella.
  (in atto di partire)

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Tiridate. Come! e vuoi... (in atto di seguirla)

Zenobia.   Non seguirmi,
principe, te ne priego; e non potrebbe
chi la vita ti die’ chiederti meno.
Tiridate. Ma possibil non è... (seguendola)
Zenobia. (risoluta in atto di ferirsi) Resta o mi sveno.
Tiridate. Eterni dèi! Deh!... (arrestandosi)
Zenobia. (in atto di ferirsi) Se t’inoltri un passo,
su questo ferro io m’abbandono.
Tiridate.   Ah, ferma!
M’allontano, ubbidisco. Odi: ove vai?
Zenobia. Dove il destin mi porta. (partendo)
Tiridate. Ah, Zenobia crudel!
Zenobia.   Zenobia è morta. (parte)

SCENA VIII

Tiridate e poi Mitrane.

Tiridate. Principessa, idol mio, sentimi... Oh stelle!

che far degg’io? Né seguitarla ardisco
né trattener mi so. Questo è un tormento,
questo...
Mitrane.   Signor, gli ambasciadori armeni
giunsero d’Artassata.
Tiridate. (con affanno) Ah, mio fedele,
corri, vola, t’affretta,
sieguila tu per me.
Mitrane.   Chi?
Tiridate.   Vive ancora;
ancor del chiaro dí l’aure respira.
Mitrane. Ma chi, prence?
Tiridate.   Zenobia.
Mitrane.   (Aimè! delira.)
Tiridate. Oh Dio! perché t’arresti? Ecco il sentiero;
quelle son l’orme sue.

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Mitrane.   Ma...

Tiridate. (con impazienza) S’allontana,
mentre domandi e pensi.
Mitrane. Vado. (Oh, come il dolor confonde i sensi!) (parte)

SCENA IX

Tiridate solo.

Non so piú dove io sia: sí strano è il caso,

che parmi di sognar. Come s’accorda
la tenerezza antica
con quel rigor? M’odia Zenobia, o m’ama?
se m’odia, a che mi salva?
Se m’ama, a che mi fugge? Io d’ingannarmi
quasi dubiterei, ma quel sembiante
tanto impresso ho nell’alma... E non potrebbe
esservi un’altra ninfa
simile a lei? Di sí bell’opra forse
s’invaghí, si compiacque,
e in due l’idea ne replicò Natura.
No; begli occhi amorosi,
siete quei del mio ben. Voi sol potete
que’ tumulti, ch’io sento,
risvegliarmi nel cor. Non die’ quest’alma
tanto dominio in sugli affetti suoi,
care luci adorate, altro che a voi.
          Vi conosco, amate stelle,
     a que’ palpiti d’amore,
     che svegliate nel mio sen.
          Non m’inganno; siete quelle:
     ne ho l’immagine nel core:
     né sareste cosí belle,
     se non foste del mio ben.