Avarchide/Canto II

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Canto II

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Canto I Canto III

 
Mentr’ogni altro mortal di cure sciolto
dava riposo all’affannate membra,
di gravosi pensieri Arturo avvolto
il sonno ha in bando, e d’avampar gli sembra:
nell’alma ha fisse le parole e ’l volto
di Lancilotto irato e si rimembra
di quanto è stato; e ’l punge ancor l’immago
del fido Galealto e del re Lago.

L’ira lo spinge e sprona, tema il frena
di non portare a’ suoi danno e disnore,
che non vorria però sentir la pena
in altrui gir del suo commesso errore.
Ha la mente real di dubbio piena:
qui combatte il profitto e qui l’onore;
vince al fin la virtude, e vuol ch’ei vada
per più lodata e più dannosa strada.

Dicegli ch’un tal re mostrar si deve
più sempre ardito nell’avversa sorte,
che nulla impresa è perigliosa o greve
all’alto valoroso animo forte;
e se ’l prendere Avarco fia men leve
non avend’ei di Lancilotto scorte,
che molto ancor maggior fia la vittoria
senza quel che ricopre ogni sua gloria.

Così fermo nel cor, pria che l’Aurora
spiegati i biondi crini annunzie il giorno,
sopra del letto suo sedendo ancora
le sete e gli ostri si ravvolge intorno;
poi l’uno e l’altro piè traendo fuora
di panno porporino il face adorno,
e ’n basso armato di ben culta pelle,
gli spron s’adatta dell’aurate stelle.

La real chioma sua ricuopre poi,
onde possa sprezzar la pioggia e ’l sole;
cinge indi la spada, che de’ suoi
fu lunga possession di prole in prole;
veste il bel manto ch’a quegli altri eroi
mostra che sovra lor s’onora e cole;
prende lo scettro al fin, che in alto pende,
e quale ardente sol di gemme splende.

Monta sopra il caval, non un di quelli
ch’usava in guerra e ’n perigliose pruove
ma picciolo, e che insieme i piedi snelli
d’un lato istesso dolcemente muove;
vieta ch’alcuno il segua o gli altri appelli,
ma tutto sol, mostrando gire altrove,
al padiglion che poco lunge avia
il vecchio re dell’Orcadi s’invia.

Truoval che del suo letto uscito a pena
tutte le vesti intorno anco non ave;
tal che, di meraviglia l’alma piena,
gli dice: “O sommo re, qual caso grave
davanti al giorno e così sol vi mena
verso colui cui nulla è più soave
che l’obbedirvi? E perché non più tosto
fu di farmi chiamar da voi disposto?”

Risponde Arturo: “Io vi volea soletto,
innanzi a l’apparir de’ duci nostri,
aprir nuovo pensier ch’io porto in petto,
in cui publico ben par si dimostri:
ché non trovando mai d’amor difetto
né d’alta fede ne’ ricordi vostri,
ragione è ben che ciascun mio consiglio
scuopra a voi prima, come a padre il figlio:

sappiate adunque che l’andata notte,
che sola in gravi cure consumai
conoscendo le cose a tal condotte
che se ne può temer vergogna e guai,
poi che l’aperte strade n’ha interrotte
chi ’l devea meno, e di cui men pensai,
disposi in me, col pio voler di Dio,
di non ceder, temendo, al tempo rio;

ma qual fiero nocchier con vela e remo
al contrario soffiar volger la prora:
e s’avvegna che può, ch’io nulla temo
che ’l porto amato non si trove ancora;
che se in vera concordia oggi vorremmo
spiegar l’alta virtù che in noi dimora,
so ben ch’Avarco non terrà sicuro
ferro o fuoco ch’egli abbia o fosso o muro.

Ma perché in dubbio son ch’una gran parte
dell’esercito nostro no ’l consenta,
ché chi invidiando si starà in disparte
chi perch’a Lancilotto ha la’lma intenta:
questi è suo amico, e quegli il tiene un Marte
e senza lui veder tutto paventa:
ma spero in voi ché se ’l vorrete usare,
il vostro dolce dir può il tutto oprare;

s’ha voi dunque paresse, io loderei
di chiamar tosto il publico consiglio,
al quale apertamente conterei
l’onor di tutti in quanto sia periglio,
e come oggi sarem di viltà rei
e del primo valor posti in esiglio
s’alcuna pruova non mostriam di noi;
voi seguirete ragionando poi”.

Dolce e ridente il valoroso vecchio
risponde: “Or vegg’io ben l’alta virtude
di Pandragon come in un chiaro specchio,
che col senno reale in voi si chiude.
All’obbedir più pronto m’apparecchio
ch’a ricercare omai martello o incude
per fabbricar consigli entro al mio seno,
de’ quali ottimi e certi sète pieno”.

Così fermo in tra lor, fu comandato
che la tromba reale immantenente
al publico consiglio in ogni lato
chiamasse i maggior duci e l’altra gente.
Tosto che tutto il popol fu adunato
sovr’alto trono aurato degnamente
posto il re prima, a gli altri illustri foro
dati dovuti seggi a i merti loro.

Allora in chiaro e placido sembiante
riguardandogli intorno, il sacro Arturo
così dicea: “Colui ch’ha sempre avante
il presente, il preterito e ’l futuro,
che ’ntende il tutto, e con le luci sante
aperto scerne quel ch’a gli altri è scuro,
spesso conduce l’uom per via di pene
al proprio desïato e sommo bene;

ed opra che i mortali spesso fanno
cose che colme a noi sembran d’errore
che al fin veggiamo, onde s’attende il danno,
il nostro util venire e ’l nostro onore.
Alle prime virtù che in alto stanno
non arriva pensier d’uman valore,
e perché il lor voler più ascoso vada
non tengon sempre la madesma strada.

Io non posso negar ch’io devea forse
a più gran sofferenza ieri armarme:
ma l’altrui fero orgoglio tanto scorse
ch’io più non volli e non potei frenarme,
ch’assai giusta cagione a dir mi porse
ch’io non temea restar senza quell’arme
ch’ei troppo apprezza tra voi tali e tanti
re, duci, conti e cavalieri erranti.

Certo che d’un sì ardito cavaliero,
con gli altri poi ch’a lui d’intorno sono,
in sì stretto bisogno, a dirne il vero,
troppo saria il soccorso utile e buono:
ma senza quello ancor sicuro spero,
prima per somma grazia e proprio dono
di chi fa il tutto, e poi per l’opre vostre,
che la vittoria fia ne le man nostre.

E ben dir si porria che quella speme
ch’avea ciascun di noi nel suo valore
ne facea incauti e men concordi insieme,
che ’l soverchio sperar padre è d’errore;
ma s’alquanto timor gli animi preme,
vien più sano il consiglio e saldo il core
tal che noi non avem, chi dritto stima,
più dubbioso il trionfo oggi che prima;

e tanto più che forse ora i nemici,
che gli sdegni de’ nostri avranno uditi,
pensando i cieli a’ lor disegni amici
molto più del dever saranno arditi:
e ’n brevissimo tempo sé infelici
e noi vedranno di lassù graditi,
pur che noi disponiam con gran ragione
di bene usar la dritta occasïone.

Loderei dunque molto che ’n quest’ora,
quando si crede meno, ordin si desse
di trarre il nostro esercito di fuora,
che con diversi assalti ricingesse
la città intorno, e dimostrar ch’ancora
avem quei cori e quelle mani istesse,
quel medesmo valore e quella gente
ch’han provato oltra il mare e qui sovente.

E quando anco, signor, paresse a voi
che ciò fosse a tentar troppo periglio,
ma senza quello irato e gli altri suoi
in pace dimorar, miglior consiglio;
col proprio amor, come se fusse a noi
padre ciascun di voi, fratello o figlio,
prenderò tutto in grado, e ’n questo giorno
presto son nel mio regno a far ritorno:

che comune è di voi, non di me solo,
quel che ne dee seguir, disnore o gloria.
Bastami non sentir ne l’alma duolo
d’avervi ascosa o tolta la vittoria,
o che la colpa mia chiudesse il volo
all’eterna di voi chiara memoria;
né d’altro calme: il resto pongo in Dio
e ’n voi moderator del voler mio”.

Qui si tacque, e ’l re Lago il dir riprese:
“Famoso re, poi ch’all’antica etate
ogni legge, ogni gente, ogni paese
concedon la suprema degnitate,
rispondo il primo, e dico che l’imprese
con sì chiaro valor gipiù cominciate
e lungo tempo andate e al fin ristrette
non si devon lasciar se non perfette;

e ’l vostro alto e magnanimo disegno
affermo, e che la terra omai s’assaglia:
che pur troppo per noi sarebbe indegno
dar vilissimo indugio alla battaglia;
e non veggia Clodasso ch’un tal regno
che noi pensiam che sovr’ogni altro saglia
sia, per avere un solo o due perduto,
all’estrema ruina oggi venuto.

Gran danno veramente è stato, e grave,
di Galealto, e più di Lancilotto,
ch’al gran bisogno abbandonati n’ave
e ’l più saldo pensier nel mezzo rotto:
ma per questo so ben ch’alcun non pave
che per servire a voi sia qui condotto,
di far fé d’ora e sempre a quelle mura
come contr’a virtù nïente dura.

Noi non venimmo in questo lito strano,
di così nobil re seguendo i passi,
per far chiaro con l’opre che sia vano
di noi l’alto romòr ch’al mondo fassi,
mai più tosto a mostrar presso e lontano
che ’l valor nostro il grido superassi;
e ne vedrete ancor la pruova intera
pria che questo mattin si volga in sera.

So che ciascun, com’io, si lagna e duole
della tema che in noi pensate sia,
come importar quell’ultime parole
che del tornare indietro apron la via;
ma prima fermo, oscuro e freddo il sole,
la terra in alto e ’l foco in basso fia
che veggiate mancar la voglia in noi,
mentre in vita sarem, d’obbedir voi.

E s’io giunto al confin che cangia e fura
il volere e ’l poter così prometto:
che faran quei che nell’età più dura
han le membra robuste e fermo il petto?
Vi pregheran che sol prendiate cura
di pur tosto inviargli ove s’è detto;
e vi prometteranno in qual sia sorte,
che voi gli loderete o in vita o in morte”.

Così detto s’assise. Allor Gaveno
comincia: “Indarno fia tutti altri udire
dopo un tal re che largamente è pieno
di senno, di valor, d’arte e d’ardire;
e certo son che tutti aviamo in seno
il medesmo ch’ei dice alto desire,
chiaro mio re, di far quanto a voi piace
né senza darvi Avarco, essere in pace.

Né crediate ch’alcuno aggia temenza
perch’un sol cavaliero stia da parte:
anzi più speme è in noi di poter senza
lui veder quelle mura a terra sparte,
ch’ancor ch’ei mostre fuore alta eccellenza
non è però nel fine Ercole o Marte;
ma sì orgoglioso è ben, che spesso tale
disprezza e biasma che più d’esso vale.

Riguardate ogni duce e capitano,
ogni famoso re ch’avete intorno,
che più d’un troverrete a lui sovrano,
ma d’altra cortesia l’animo adorno;
poscia ove si ritruovi il buon Tristano
ch’all’antico valore ha fatto scorno,
con sì fiorito stuol ch’egli ha condotto,
si dee cura tener di Lancilotto?

Muovansi pur le vostre altere insegne,
e conosca il nemico ch’ancor vive
quella virtù che tutte l’altre spegne
come ogni lume il sole, ove egli arrive;
e vedransi illustrissime opre e degne
più che di quante mai si narra o scrive,
che fien donate al vostro nome solo,
non al superbo del re Ban figliuolo”.

Come tacque Gaven, subito sorge
il buon Tristano e dice: “Invitto Arturo,
il parlar di costui cagion mi porge
di ragionarvi anch’io piano e sicuro
di quanto il mio veder sì frale scorge
nello stato presente e nel futuro,
con quella fé, con quello integro core
che debbe un cavalier che cerchi onore.

Quant’ha del buon voler di tutti noi
raccontato Gaveno è fermo e vero,
che mille vite e mille oggi per voi
spender siam pronti sotto il vostro impero;
quel che ne seguirà, si resta poi
palese ad altri ch’all’uman pensiero,
che non può veder egli, e non poss’io,
ciò che n’abbia disposto in cielo Dio.

Deve il saggio di sé prometter l’opra,
ma non l’effetto mai, che ’n lui non giace;
duolmi poi che Gaveno oscuri e cuopra
delle somme virtù la chiara face,
quello oppressando ch’ad ogni altro è sopra,
e sia detto con nostra e con sua pace:
che Lancilotto è tal, ch’io posso dire
non aver di valor pare o d’ardire.

S’ei fosse stato in pruova alla battaglia
d’ogni sorte con lui, com’io più volte
con più dritta ragion, di quanto vaglia
potria credenza aver da chi l’ascolte;
quanto ferro schiantare e snodar maglia
gli ho poi veduto intra le schiere folte?
Come pronto a scovrir dov’è ’l vantaggio
e come al comandare accorto e saggio?

Questo dich’io perché non sia celato
il ver, come a i signor sovente avviene:
e perché si può dir grave il peccato
d’un cavalier quando silenzio tiene
ove con sì gran torto sia biasmato
quegli a cui lode eterna si conviene;
non per dire al mio re novella cosa
né ch’a sì gran bontà venisse odiosa.

Ma se pur piace al Ciel di tale aita,
al più grave bisogno, oggi privarve,
non sia per questo in noi manca e fallita
quella virtù che ’n tanti luoghi apparve.
Forse che l’ampia strada v’ha impedita,
com’altri ha detto per più gloria darve:
e pur fia realissimo consiglio
lo sprezzar per onore ogni periglio.

E quanto a me, non venni a tale impresa
con speranza d’altrui che di me stesso,
avvegna sì ch’assai mi duole e pesa
di non vedermi Lancilotto presso.
Movete omai, che nostra voglia intesa
è tutta al fare il voler vostro istesso:
già scolorata ha il sol la bianca aurora,
e mentre noi parliam si fugge l’ora”.

Lieto più che mai fosse, il re Britanno
diceva: “E questi sono i cavalieri
che con l’opere illustri onor si fanno,
non col mostrar orgoglio e gire alteri.
Qual faremmo a’ nemici scorno e danno
se due soli oltr’a voi cotai guerrieri
nell’oste avessi! E con voi tutto solo
spero loro anco dar perpetuo dòlo”.

Poi chiamato in disparte Maligante
di Bandegan figliuolo, il re di Gorre,
comandò ch’alla plebe intorno stante
devesse il tutto in alta voce esporre;
ed ei, passando molto spazio avante,
giunto al mezzo di lei silenzio imporre
fé da’ reali araldi, acciò ch’udisse
ciascuno il suo parlare, e così disse:

“Poi che noi trapassammo il nostro mare,
onorati fratelli e dolci amici,
seguendo il sovran re, per vendicare
i ricevuti oltraggi da i nemici,
già sei volte vedemmo il sol lustrare
del suo ciel le medesime pendici,
e sette volte poi la sua sorella
tornar congiunta alla medesma stella:

tal che poco a ciascun fia meraviglia
quando saprà di noi l’alto desio
di riveder la dolce pia famiglia
e far ritorno al suo terren natìo;
che se la pace della guerra è figlia
e ’l dì chiaro ha ’l natal dal tempo rio,
ben par che ’l giorno omai soverchio attenda
a far che l’una e l’altro il parto renda.

Ma se noi guarderemo a quanto è stato
fatto infin qui da noi con somma lode,
le cittadi e ’l paese guadagnato
e l’altrui vendicate ingiurie e frode;
non ci devria parer che indarno andato
sia ’l dì veloce che le vite rode:
anzi a Dio ringraziar tenuti semo
de i molti affanni e del sudore estremo,

che n’ha fatti illustrissimi e immortali
sopra quanti son oggi e che mai furo;
pur che noi stessi a sì gran volo l’ali
non cerchiamo impedir di visco impuro,
perché il fin de le imprese a noi mortali
rende tutto il passato o chiaro o scuro,
e la gloria acquistata in danno e scorno,
senza ben seguitar, faria ritorno;

e s’al mezzo cammin dell’opre altere
non cercassimo a lui termine degno,
il penar di molti anni in poche sere
s’avria posto l’oblio sotto il suo regno.
Convien ch’or più che mai cresca il volere
di pervenire al destinato segno
d’espugnar la città di tanto nome,
e carchi andar di prezïose some.

Né malagevol fia, se ’l core istesso,
quale avemmo infin qui, ne resta in petto:
ché questo è ’l chiaro dì che n’ha concesso
il nostro re per sì onorato effetto,
ed oggi adempierem quel c’ha promesso
più d’un profeta e più d’un vate ha detto,
allor che del futuro volse il Cielo
alla vittoria e ’l tempo aprirne il velo.

Non vi sovvien ch’alla isola di Vette,
là ’ve più sguarda la famosa Antona,
ch’eran le nostre navi in un ristrette
l’aura attendendo che dall’Orse suona,
ch’Arturo il grande e le sue genti elette
e poi di grado in grado ogni persona
al sacrificio avean le luci intente
che ’n su ’l lito si fea divotamente?

Che in un momento d’alto ivi apparire
veggiam volando il fero uccel di Giove,
e di colombe timide assalire
schiera che fugge e non sa, lassa, dove?
E mentre ha di predar maggior desire
in questa e ’n quella il crudo artiglio muove;
sei ne percuote indarno ad una ad una,
né per pasto di lui ne resta alcuna;

che tutte sopra noi caddero a terra,
altre nel collo altre nell’ali offese.
Doppo la sesta, irato il vol riserra
dietr’una al fin, che la raggiunse e prese:
e sì tenacemente in piè l’afferra
che non più come l’altre in basso scese,
poi con la preda sua tant’alto sale
che no ’l poteo seguir vista mortale.

Taurino allor, che di Merlino è figlio
e de’ celesti auguri ha l’arte vera,
tutto informato dal divin consiglio
disse: - Il Motore eterno d’ogni spera,
Colui che quanto vuole opra col ciglio
e fa pioggia e seren, mattino e sera,
ne promette all’impresa alta vittoria,
e che sovra ’l mortal n’andrà la gloria.

Ma qual percosse qui l’aquila invano
le sei colombe, né tenute l’ave;
nella settima poi l’adonca mano
vincitrice sen gìo di preda grave;
tale il sest’anno in quel paese strano
vedrem, che indarno di dolor n’aggrave:
ma nel settimo poi dorata salma
avrem di Lauro e di famosa Palma -.

Or non volete adunque, anime chiare,
dell’annunzio del Ciel vedere il fine,
che cinque volte ancor veggiam tornare
Cintia, ch’or fugga il sole or s’avvicine?
Grande error certo fora il dispregiare
per breve spazio le virtù divine,
e tanto più che in sé congiunto tiene
il devere e l’onore e ’l nostro bene.

E perch’io so come a gran torto adopra
chi di sprone il destrier corrente stringa,
non vi voglio altro dir, se non ch’all’opra
con magnanimo core ogn’uom s’accinga:
ciascun dell’arme lucide si cuopra
e col ferro il valore intorno cinga,
con sicuro sperar di dentro Avarco
dormir, di preda e di vittoria carco.

Ma innanzi fconvenevole ristoro
all’affanato corpo dia ciascuno,
perché frale è la forza di coloro
che soverchia soffrir sete o digiuno;
poi per discerner meglio il valor loro
ogni gente, ogni duce ad uno ad uno
comanda il re ch’a lui davanti vegna,
con l’ordine richiesto e con la insegna”.

Così diss’egli, e ’l popol lieto intorno
fece il ciel risonar con chiaro grido,
quale il vento che vien dal mezzo giorno
spingendo il mare al più sassoso lido,
ove il monte più rotto innalzi il corno
preparando a gli uccei sicuro il nido;
poi l’un l’altro invitando in alta voce
muovon verso l’albergo il piè veloce.

Chi porge ivi nuov’esca al suo corsiero,
chi la sella gli pon, chi addrizza il freno,
chi riguarda il suo scudo, chi al cimiero
le piume adatta che venian già meno.
Quel si ricuopre d’arme ardente e fero,
quell’altro chiude i suoi pensieri in seno:
questi ha vergogna di voltarsi al Cielo,
questi altri il prega con divoto zelo.

Tra i privati guerrier, già intorno al foco
chi legne apporta e chi vivande appresta,
chi sgombra sassi s fa spazioso il loco
ove la mensa poi si truovi presta:
ché ciascun la fatica prende in gioco
mentre la fame vincitrice resta;
la qual poi superata, ogn’uom riprende
o l’asta o l’arco che vicin gli pende.

Ma il magnanimo Arturo d’altra parte,
sott’ampio padiglion che intorno ornato
di seta e d’ostro con mirabil arte
ha riccamente ogni sostegno aurato,
dal suo divo German, quel che le carte
celesti ha tutte intere rivoltato,
e di Gallia passato a Pandragone
difese ivi di Dio la pia ragione;

né sol l’alta dottrina e ’l santo essempio
mostrò contra i nemici allor del vero,
ma con l’arme compagno al duro scempio
degli angli fu con l’onorato Utero:
il qual mancato poi, del sommo tempio
sotto d’Arturo ancor tenea l’impero;
da costui dunque allor divoto e pio
fu il suo richiesto onor renduto a Dio;

doppo il qual, con le luci al Ciel rivolte,
in atto e ’n voce umil così dicea:
“Alto Signor che le nostr’alme hai tolte
col morir del tuo Figlio a morte rea,
fa ch’avanti che in notte il dì si volte
l’orgoglio abbassi che soverchio avea
contr’a te, contr’a noi l’empio Clodasso,
che di crudele oprar non fu mai lasso”.

Così detto partisse, e gli altri ancora
vanno a prender ristoro, e l’arme appresso;
ma per voler del re con lui dimora
il re Lago, ch’amò qual padre istesso,
il buon Tristan, che sovr’ogni altro onore,
il saggio Maligante e i giunti ad esso
Boorte e Lïonel, poi non chiamato
restò Gaven, che sempre gli era a lato.

Fatti assedere all’onorata mensa,
di prezïosi cibi intorno piena,
or a questo or a quel dona e dispensa
il re con fronte placida e serena,
in quel modo migliore in cui si pensa
che scorger possa alcun di loro a pena
che sia più in grado alla reale altezza,
ma che di sorte egual ciascuno apprezza.

Quando al fin fu di vino e di vivande
il desio convenevole adempito,
disse il re Lago: “Poi che ’l sole spande
già caldi i raggi, in alta parte gito,
e dell’estivo dì, ch’oggi è ’l più grande,
il quarto del cammin quasi ha fornito,
non tardiam più di dar principio all’opra
e seguire il voler di Chi sta sopra”.

No ’l disse in van, ch’Arturo immantenente
comandar fa che le sonore trombe
empiano il ciel di grido alteramente,
onde il fiume e la valle ne rimbombe;
al cui roco romor l’armata gente
lascia gli alberghi, a guisa di colombe
ch’escan fuor nell’aurora ad ali stese
de’ seminati campi a i danni intese:

e qual poi di lontan la fiamma appare
ch’a’ boschi depredar le chiome suole,
tal delle lucid’armi il lampeggiare
si vede tremolar che muove il sole;
né tante le stagion più belle e care
han frondi, erbette, fior, rose e vïole
né tante ha stelle in ciel, quanta si vede
gente sopra i destrieri e gente a piede.

E come il buon pastor che le sue gregge
sopra gli erbosi colli a pascer mena,
che con la verga in man muove e corregge
mentre che quella spinge e quella affrena;
così la schiera sua governa e regge,
talor loda porgendo e talor pena,
ogni onorato duce, e guarda intorno
come l’ordin miglior più venga adorno.

Poi più di tutti Arturo, il re sovrano,
pien di divino onore andar si vede,
il cui sembiante alteramente umano
di Giove al sacro aspetto ivi non cede:
nell’altre membra a Marte prossimano
e nel petto a Nettuno esser si crede,
e qual l’invitto tauro a i bassi armenti,
tal quel dì si mostrava all’altre genti.

Or voi figlie chiarissime di Giove,
sacrate Muse cui nïente è scuro,
cantate a me, perch’io gli canti altrove,
i duci e i re che seguitaro Arturo:
ch’a narrar l’altro stuol che seco muove
voce aver converria di ferro duro,
con mille lingue e mille bocche poi;
ond’io dirò quei soli, e gli altri voi.

Del paese Nortumbrio, ove a Boote
spande il Tueda le sue frigid’onde
e ’l tien diviso dalle terre Scote,
là dove il Chevïota il dì gli asconde,
non lontan dalla Tina, che percuote
dall’Austro il fianco con l’erbose sponde,
voller le genti aver per duce loro
solo il re valoroso Pelinoro.

Sei chiare insegne avea spiegate al vento,
ove sotto ogni due mille contaro
guerrier pedestri, e ciascun mille cento
cavalier d’esso e d’altri seguitaro;
poi Gargantin, ch’avea tanto ardimento
che ’l teneva al suo re pregiato e caro,
quei di Dunelmia e Ricciamondia mena,
ove la Tesa e ’l Vere empie l’arena.

Seco eran di Darlingia e d’Alertone
e dell’altre cittadi e ville intorno
per sangue e per virtù quelle persone
ch’avean più il nome di chiarezza adorno:
sopra cui sole quattro insegne pone,
ch’a molte più di lor fariano scorno.
Appresso era Abondano il fortunato,
che i guerrier d’Eborace avea da lato,

ove l’Usa e ’l Sual mischiano insieme
le placid’acque, ove si gode in seno
la ricca e bella Udona, che non teme
che ’l nutrimento suo le venga meno;
ov’Ulla e Beverlai l’un l’altro preme
per vicinanza in quel medesmo seno,
e dove Patrinton quel loco ingombra
ove l’acque insalar si vede all’Ombra.

Quattro anch’ei sopra lor portava insegne,
non men che l’altre di valore ornate.
Altrettante ne innalza, né più indegne,
agraven seco, di Gaveno il frate,
sotto cui va la gente ch’oggi spegne
la sete di Dona alle sue gregge amate,
dico Assolme e Lincolnia, e dove il Trenta
d’irrigar pure Ancastro s’argomenta.

Lucano, il brutto ardito, aveva quelli,
sotto il numero eguale alle primiere,
più vicini all’Avon, ch’ampi ruscelli,
nel principio assetato, veggion bere,
e tra i colli d’intorno erbosi e belli
Noringania e Lecestria risedere
e Nortantona, nel cui lito aprico
son Butrone e Coventria e Varrivico.

Ma in compagnia del primo duce diero,
per meglio esser condotti all’opre rare,
il possente Avirago e ’l buon Gundero,
ch’han non men di Lucan le spade chiare.
Gli altri popoli poi, presso al sentiero
ove più irato di Germania il mare
combattendo gli scogli alto risuona,
verso la Cantabrigia e l’Umtinctona,

ove da molti rivi cinta intorno
la vaga Eli qual’isoletta giace,
ove lieta Valpole il destro corno
ingombra, e ricche le sue valli face;
dello scettro ducal fecero adorno
il possente Agreval, che in guerra e ’n pace
tal conobbero in lui senno e valore
che ’l voller tutto solo a tanto onore.

Ma Ganesmoro il nero quelli avea,
che son sopra l’oceano orïentale,
di Nortfolcia e Soffolcia, che solea
mostrar fra l’altre che più in arme vale,
con quei di Nordovico, e gli reggea
con la quinta bandiera, all’altro eguale.
Poi veniva il superbo re Gaveno,
ch’alla pietrosa Orcania regge il freno.

Era figliuol costui del gran re Lotto
e della bella Elìa, suora d’Arturo,
e però venti insegne avea condotto,
di stuol più ricco assai che in arme duro:
ond’avea troppa invidia a Lancilotto,
non sendo al par di lui forte e securo,
che con ogni altro avuto ardire avrebbe
di contrastar, come poi seco anch’ebbe;

quei di Cantio e di Roffa con lui mena,
d’Essesia e Midelsesia, dove è assisa
la ricchissima Londra e bella, piena
de’ ben della fortuna in ogni guisa,
della Tamigia in su la riva amena
che dal cor di Ciprigna mai divisa
non fu, poi che le lassa in dolci tempre
i suoi candidi cigni a pascer sempre:

e gli mantien securi da gli assalti
del britannico mar, che la rispinge
verso il suo fonte a perigliosi salti
quanto in due dì va l’uom che non s’infinge;
e quei della Sussesia, che men alti
da’ liti son che l’ocean dipinge,
con gli altri di Surrea pur seguon l’orme
del re ch’io dissi, ch’a vertù gli informe.

Il saggio Maligante, che fu figlio
del vecchio Bandigamo, il re di Gorre,
famosissimo in arme, ma in consiglio
tal ch’a quanti vi fur si dee preporre,
con parlar dolce e con allegro ciglio
reggeva quei del lito che discorre
Vintonia e Vetta, l’isola che siede
su ’l mar che Neustria a mezzo giorno fiede;

altresì di Cicestra e Bercherìa,
là verso il monte onde Tamigia parte,
ogni prode guerriero esso seguìa,
con sette sue bandiere all’aria sparte.
Poi di Dorcestria e Sarisburia,
su ’l lito pur della medesma parte,
menar Gerfietto, Ostorio e Prasutago,
con quattro sole insegne, il popol vago.

Indi vien Gossemante, il core ardito,
con quei di Sommerseto e di Devona,
che poste son tra l’uno e l’altro lito
ove il mar di Boote e d’Austro suona;
e d’altrettanta gente era fornito
che tutti tre quei primi, e non men buona;
Creuso il Senescial veniva poi,
che ’l terzo più di lui menò de’ suoi:

ch’eran della Cornubia, ove più sporge
al sito occidental verso la Spagna,
e dove più vicina e dritta scorge
di qua dal mar l’armorica Brettagna.
Ma quei della Sutvallia, che più sorge
dritto al settentrïon che ’l mar non bagna,
ove il Pembruco popolo a Milforte
non pensò mai trovar di sé più forte:

ebbero in duce loro il forte Ivano,
che ’n fra quattro stendardi gli divide.
Poi Meliasso, che in beltà sovrano
a ciascun altro fu che mai si vide,
fuor ch’al figlio onorato del re Bano
ch’ebbe in tutto le stelle amiche e fide:
nacque costui d’Aglaie e di Caropo,
né mai simile a lui fu innanzi o dopo;

ma perché la beltà fu in basso stato
e l’età giovinetta anco il premea,
fu d’una sola insegna accompagnato,
che di Stromorra e di Norvallia avea.
Mandrino il saggio, che ’l seguia da lato,
menava quei dell’isola Anglisea
con gli altri di Bangaria, ed ha la terza
bandiera sopra lor ch’al vento scherza.

Taurin, che di Merlino era figliuolo
e dell’arte paterna dotto a pieno
de gli uccei osservando il gusto e ’l volo
prediceva le piogge e ’l ciel sereno;
quante stelle sostien questo e quel polo
e qual propria virtù chiuggano in seno
conoscea in tutto, e ’l corso de’ pianeti,
e quai fossero a noi dogliosi o lieti:

egli in somma vedea così ’l futuro
com’ogni altro il passato o quel c’ha innante;
due frati ha seco, a cui non giace oscuro
d’erbe valor, di fiori o d’altre piante,
né di morte poteo l’artiglio impuro
sopra alcun mai ch’a lor venisse avante,
con l’onde chiare o con radici sole
risaldando ogni piaga, o con parole:

l’uno era Pellican, l’altro Serbino,
e tutti tre sei insegne aveano insieme,
di Landaffa e d’Erfordia, che ’l confino
tra l’Uvallia e Cornubia adentro preme,
con quei che ’l fiume Logo han per vicino
e l’ondosa Sabrina, ov’ella geme
scendendo al mar che in occidente guarda
e col torbo reflusso la ritarda.

Gli altri intra quella e ’l corso dell’Avone,
di Glicestra, Stafordia e di Vigorna,
sotto il quarto onorato gonfalone
Mandoro han primo che la schiera adorna,
perch’ha di ben condurla ogni ragione
quando innanzi s’addrizza o indietro torna;
pure elesser Costante e Vertigero
che gli fosser compagni a tale impero.

Mena in guerra Urïan quei di Licestra
e quei di Derbia, ove bagnando il Trenta
questa lassa a sinistra e quella a destra,
non lunge al monte onde ruscel diventa
e per la pioggia sterile e silvestra
per sassoso cammin ratto s’avventa;
cinque insegne ha spiegate, e ’n compagnia
Condevallo e Conon seco venia.

Quanto ha Lancastro e quanto intorno gira
doppo il fiume Ribel, vicino al mare
che ’n ver l’occaso e nell’Ibernia mira,
col buon Landone il destro volle andare;
Cumbria a Carlela, che più dell’Orse tira,
là dove il Chevïata in alto appare
e dove all’ocean passa Solveo,
Brun senza gioia per suo duce aveo.

Portan sei insegne i due, ma Telamoro
conduce quei che son lungo il Tueda
tra Landonia e la Marcia, che ’n fra loro
veggion Fortea del mar famosa preda,
con quei di Fiffa, ove in sì bel lavoro
ha tempio il divo Andrea, ch’a nullo ceda,
con gli altri d’Edimborgo e di Bombaro;
e tre insegne fra tutti alte spiegaro.

Quei d’Atolia Alibello han per suo duce,
co i compagni che son tra ’l Tavo, e l’Erna
e di Marnia e d’Angusta, che conduce
la fronte innanzi che più l’onde scerna;
due insegne porta sole: e quel che luce
di ricchezza ch’avanzi ogni moderna,
dico Arganoro, mena quei ch’avea
tra le sue foci in mezzo Dona e Dea.

Sei mena insegne; e ’l buon Malchino il grosso
quei di Moravia e di Canoria ha seco,
là dove è il Porto di Salute, scosso
d’ogni scoglio che sia sopr’acqua o cieco,
ove non fu mai d’ancora rimosso
legno per vento nubiloso e bieco:
lì di Nessa e di Nardo l’acqua beve,
e di Lindorna poi tranquilla e leve.

Quattro insegne ha di lor; Finasso il bianco
ha quei di Catanesia e di Storlanda
e di Travernia, che si scorge al fianco
l’Orcadi, ove più l’ali Borea spanda:
ivi l’esca domestica vien manco,
ma sol fere selvagge in luce manda,
onde a fornir la mensa fa mestiero
che sia ’l popol più d’altro ardito e fero,

com’ei son senza par, che quasi ignudi
al più gelato ciel menan la vita:
prendono i cibi sanguinosi e crudi,
la terra è il letto ch’a posar gli invita;
nullo è ch’a Bacco s’affatichi o sudi,
che la più semplice acqua è più gradita.
Di questi adunque son quattro bandiere,
e di dardo ciascuno e d’arco fere.

Bandegamo, il fratel di Maligante
che del padre onorato il nome porta,
famoso duce e cavaliero errante,
al popol di Rossia fu fida scorta
ed a quel della Lotia, c’ha davante
l’Ebridi, verso il sito che conforta
i fiori e l’erbe a trar la fronte fuora
là ver l’april con la sua tepid’ora:

ivi tra boschi stan, paludi e laghi
che Nessa e Nardo con Lindorna fanno,
ma di pesci e di caccie assai più vaghi
che di dare al terren d’aratro affanno,
cui nullo è che sementi o che l’impiaghi;
ch’al culto natural contenti stanno;
quattro insegne ha spiegate di costoro,
c’han pelli intorno di selvaggio toro.

Quei di Loquabria, che ’l medesmo Nessa
van seguitando pur nel Grampio Monte,
ove la selva surge assai più spessa
e son le fere più mordaci e pronte,
han la cura di lor larga rimessa
in Bralleno, il guerrier d’altere e conte
virtù ripieno, e quattro insegne spiega
all’aura in alto, ch’or le drizza or piega.

Amillan quei d’Argadia appresso mena,
ove più verso Ibernia esce il Novanto,
l’antico promontorio a cui l’arena
bagna il padre Ocean dal terzo canto:
tre insegne ha sole; e quel ch’al mondo ha piena
gloria sovra tutti altri e porta il vanto
d’essere in correr lancia ardito e dotto,
fuor solamente il chiaro Lancilotto,

io dico di Norgalle il Cavaliero,
che mena quei di Glasco e di Dumblano
pur lungo il Grampio, ov’ei circonda altero
Lomundo, il lago che gli assiede al piano
e di molte isolette tien l’impero
colme di genti che non stanno in vano,
ma con quattro bandiere il forte duce
seguono ove a gran gloria gli conduce.

Taulasso vien dapoi della Montagna
con quei di Gallovidia, c’han la sede
sopra il mar detto Rin ch’a torno bagna
il promontorio Mule che si vede
Solveo vicin che nell’oceano stagna:
poi cacciato da quello indietro riede
presso all’isola Mona; e questa gente
han sopra lor tre insegne solamente.

Il buon re Lago poi, che d’anni grave
l’unico suo figliuolo ha seco Eretto,
conduce quei dell’Orcadi, d’ond’ave
lo scettro in man d’imperadore eletto:
dell’Orcadi, ove il sol, se ’l verno aggrave,
in tai brevissim’ore ha il dì ristretto
ch’a pena visto si ripon tra l’onde,
poscia all’estivo ciel poco s’asconde.

Stanno a guisa di cerchio aggiunte insieme,
pur d’assai poco mar fra lor distinte,
ove più l’Aquilone intorno geme
al sen Deucalïon, che l’ha ricinte;
Pomonia è la maggior, che ’l mezzo preme
delle trent’una che di gloria ha vinte,
benché famosa è pur Bure e Renolse,
che ’n ver la Catanesia più s’accolse.

Era il medesmo poi signor di Tile,
ove più varia il dì, perché non pare
giamai tal volta, e poi cangiando stile
molti corsi di luna aperto appare;
regge anco l’Irta, cui nulla è simile
di grandezza fra lor, ch’è senza pare,
ma più ver l’occidente s’allontana,
ove ancora è dell’Ebridi sovrana.

Son del medesmo poi Lenissa e Schia,
molto a quelle vicine, e son disgiunte
da sì breve confin, che si diria
una, e se forse due, troppo congiunte;
or il suo vecchio re lo stuol seguia,
di fido e vero amor l’anime punte:
e ben sedici insegne hanno spiegate,
le più vaghe di tutte e meglio armate.

Poscia di qua dal mare, ove si stende
della Gallia il famoso e bel paese,
quanto la terra Armorica comprende
e dal Britanno sen riceve offese,
dal loco ove superba Era gli rende
dell’onde il dritto che ’n Gebenna prese
fin nella foce ove discende Olina
ch’al Monte di Michel dritta s’inchina;

ubbidisce all’impero di Tristano,
del re Meliadusse il germe eletto:
a cui del popol suo ripose in mano
lo scettro il re, che si chiamava Ovetto,
di cui ’l padre onorato era germano
e di tempo minor, ma più perfetto;
e con dodici insegne era venuto
per dare al campo al maggior uopo aiuto:

però che ’l dì medesmo arrivat’era
che ’ntra’ due primi fu l’amara lite.
Blomberiffe e Blanor menano schiera
di genti a quei per vicinanza unite,
della famosa Neustria, dove altera
s’accompagna la Sena ad Anfitrite
con sommo onor, ma in tutto ciò si sdegna
di lassar il terreno ov’ella regna.

Di tante alme città fiorite e chiare
sei sole insegne han seco de’ migliori,
che ’l possente Roan non vuol restare,
senza i suoi, preda a’ barbari furori;
Gostanza e l’altre poi più presso al mare
ha il consiglio affermato de’ maggiori
di mandar pochi e bene usi in battaglia,
e non popol maggior che poco vaglia.

Con l’Amoral di Gallia e Persevalle
un numero altrettanto s’accompagna
d’abitator della spigosa valle
che la tranquilla Somma irriga e bagna,
con quei che dalla fronte e dalle spalle
ornano i colli e veston la campagna
verso i Calesi e gli ultimi Morini,
che le brittannich’onde han per confini.

Baveno, a Lancilotto assai congiunto
sì come Blomberiffe anco e Blanoro,
non volle, né quei due, mostrarsi aggiunto
all’ira sua, perché stringea costoro
la fé ch’a Arturo diedero in quel punto
ch’ebbero sproni e spada e cinto d’oro,
come molti altri ancor, con quei legati,
che per cavalleria furo sforzati.

Menò adunque Baven quei che si stanno
tra la Schelda e la Mosa, in su la foce,
ov’han sempre temenza e spesso danno
del furor di Nettunno ch’assai nuoce;
né il batavo valore, ond’essi vanno
superbi tra i vicini, aspro e feroce
gli può scampar, che ben sovente vede
di pesci albergo la nativa sede;

sei insegne ha di costor: Nestor di Gave
ha quei più lunge poi di tal periglio,
ove carca è di merci e d’oro grave
la ricca Anversa in popolar cosiglio,
con le vaghe città che vicine ave,
Guanto nel sangue suo talor vermiglio,
Bruggia e ’l dotto Lovan, ch’a’ buoni insegna,
de’ quai tutti portò la sesta insegna.

Né men n’ha Lionel dell’altra parte
ch’alquanto all’Austro e l’occidente inchina,
ove son le famose in molte carte
tra gli Ambiani, e la Samarobrina
Atrebati cittadi intorno sparte,
ma lontane all’odor della marina;
doppo costui seguiano i quattro figli
di quel ch’ebbe dal Ciel gli aurati gigli;

dico del re de’ Franchi Clodaveo,
il primier che fra i suoi conobbe il vero
del mondo Salvator che scarco feo
l’uman legnaggio del mortale impero:
questi per vendicare il torto reo
ch’a Lancilotto fea Clodasso altero
gli mandò volentier, con quelle schiere
che più armate e miglior potesse avere.

Childeberto il maggior di quelli è duce
che ’n mezzo pasce all’onorata Sena
Lutezia la real, d’ogni altra luce,
Lutezia d’oro e di vertù ripiena:
Lutezia, ov’ogni ben piove e conduce
l’alta celeste possa e la terrena,
con tutto ’l popol poi ch’ella ha d’intorno
a farle il sen d’ogni bellezza adorno.

Le genti di Suesson mena Clotaro,
pur del gran Clodoveo figliuol secondo,
de’ Remi ancora, ov’è ’l terreno avaro
d’alberi, ma di spighe assai fecondo;
i Bellovaci poi con gli altri a paro
porgon le spalle all’onorato pondo:
Clodamiro di quelli arma la schiera
che bevon l’acqua onde superba è l’Era.

Seco mandò la nobile Orliense
la chiara gioventù che ’n lei fioriva,
con tutti poi delle sue selve immense
abitator tra l’una e l’altra riva;
la regia Bles, la vaga Ambuosa, accense
d’amor di verde lauro e non d’oliva,
seguono il duce lor, con tanta fede
come alla giusta impresa si richiede.

Teodorico il quarto ha quei più lunge
tra la Mosella ascosi e tra la Mosa,
i Lotteringhi e gli altri che disgiunge
con la fronte Vosego in alto ombrosa,
Vorme, Argentina e Spira, dove aggiunge
l’altero Ren con la sua barba ondosa.
Ciascun sedici insegne sole accolse,
che di pari onorargli il padre volse.

Venne con lor Sicambro, il duce antico,
che i quattro giovinetti in guardia prende:
Ostorio ha seco, il suo perfetto amico
che del sangue medesimo discende.
Questi passar per mezzo l’inimico
lito German, che quanto può difende
quei di Coldasso; e senza tema o danno
il Ren, mal grado suo, superat’hanno;

però che di Franconia, che si giace
lungo l’Ircinia all’onde del Mogono,
sola al suo Clodoveo figlia verace,
come si convenia, partiti sono,
che de’ suoi più nemici ivi di pace
di venti chiare insegne ha fatto dono;
poi con lor Meroneo venne e Lotaro,
ch’a gli Alemanni in guerra comandaro:

de’ quai solo otto insegne spiega al vento,
sendo la gente lor ridotta a poco;
che ’l numero miglior allor fu spento
che ’l franco Clodoveo con ferro e foco
d’essi oppresse il furore e l’ardimento,
di libertà spogliandoli e di loco;
ma quei cui perdonò, fede e valore
gli mostrar poscia sempre e puro amore.

Presso a i quattro fratei, dal manco lato
ne veniva il chiarissimo Boorte,
d’un fratel del re Bano in Gave nato
né molto men di Lancilotto forte:
del paludoso Angiò d’arbori ornato
e di Torsi fruttifero ave scorte
con quanto abbraccia d’ognintorno l’Era,
e d’otto piene insegne adduce schiera.

Doppo costui seguìa Florio il Toscano,
che nobilmente sopra l’Arno nacque
vicino al chiaro Monte Fiesolano
ove perde Mugnone il nome e l’acque:
che giovinetto già s’oppose in vano
al Gottico furor, ma vinto giacque;
né potendo soffrir quel fero giogo
si dispose a cangiar fortuna e luogo;

e con tutti i miglior di sangue e d’opra
nel paese onorato a lui vicino,
intra ’l Tebro e la Magra, ove ’l mar copra,
e la nevosa fronte d’Appennino,
con pregar tanto e con promesse, adopra
che gli conduce a mettersi in cammino
di dare al grande Arturo alto soccorso,
il cui nome real per tutto è corso.

E tanto più s’accendon poi che sanno
che ’l Goto imperador molti in aita
ha mandati a Clodasso, e passat’hanno
per l’Alpi aperte e per la via più trita,
ond’essi allor senza timore o danno
gir non potean, ché loro era impedita.
Resta solo il cammin sicuro in mare,
che nuovo, lungo e periglioso appare:

ma la chiara virtù, ch’è scorta e chiave
d’ogni serrato varco, gli provide,
ch’ove l’Arno va in mar non mancò nave,
ma molte ne trovar sicure e fide.
Venti ne appresta, e fa ciascuna grave
d’una sua insegna, oltra i nocchieri e guide;
e ’l chiaro ciel, ch’a’ bei disegni aspira,
o l’Euro o l’Aquilon dì e notte spira.

Così il Liguro, il Gallo e ’l Mare Ispano
trapassando veloci e ’l Freto ancora,
volgonsi presso a Gade a destra mano
con l’Austro addietro che lor presta l’Ora:
il promontorio sacro di lontano
lassando e ’l Nerio e ’l Cantabro di fuora,
l’Aquitania e l’Armorica riviera,
scesero al fine a Nante sopra l’Era;

e già ’l terz’anno avea rivolto il sole
che sotto Arturo fea mirabil pruove.
Lancilotto non v’era, onde si duole
ogni nobil guerrier ch’ivi si truove:
stassi irato da parte, e veder vuole
il fin de la battaglia che si muove;
e i suoi, che ’n diece insegne avea compresi,
tutti son di diversi e stran paesi:

di Germania, di Gallia e di Brettagna
i miglior cavalieri e pien d’onore,
chi della bella Italia e chi di Spagna,
dell’alte sue virtù corsi al romore;
non ha invidia fra lor chi più guadagna,
ma chi mostra più ardire e più valore;
molti ha di Gorre, e molti suoi cugini
di Berri e d’altri luoghi a lui vicini.

Ma sopra tutti i suoi, più illustri foro
quei cavalier che liberati avea
della Dogliosa Guardia, ove in oscuro
sito l’empio castel chiusi tenea;
poi quel fresco di forze e d’anni duro
chiaro Lambego il tutto correggea,
e ’l seguì sempre in ogni sua fortuna,
che nudrito l’avea fin dalla cuna.

Non v’era anco il possente Galealto,
che Lancilotto suo non può lassare
e fatto ha contr’Arturo il cor di smalto
per l’ingrato voler che in esso appare;
e vieta che non vadano all’assalto
ch’ei sente contro Avarco apparecchiare
le sue genti, che seco avea menate
dall’Isole Lontane fortunate,

di Cerne, d’Autolaa; dell’altre molte
Esperidi cui ’l sol la fronte preme
e dell’ultime terre più rivolte
dell’occidente su le piagge estreme,
c’ha tante altre isolette in seno accolte
che l’Icaro e l’Egeo n’han meno insieme,
tra ’l Bretton Cavo e ’l Freto Magagliano
là dove appare il gran Temistitano.

Ma il popoloso numero e ’nfinito
che dal terren natio primiero venne,
poi che fu con Arturo in pace unito,
rimandò nel suo regno, e sol ritenne
venti insegne di tutte, ed ha seguito
mai sempre poscia, ovunque il cammin tenne,
Lancilotto, di cor sì amico e fido
che di Pilade antico avanza il grido.

Così di questi due le genti sole
mancavan tra color ch’a guerra vanno,
che in pace or sotto l’ombra or sotto il sole
or correndo or lottando a cerchio stanno.
Ma il magnanimo Arturo un nuovo sole
nel giorno più seren del più bell’anno
sopra un fero corsier d’altere membra
con l’arme lucentissime risembra.

Una candida insegna solamente
ha innanzi, ovunqu’e’ sia, che in alto porta
Caradosso Brebasso, il re possente:
alla qual va d’intorno e face scorta
numero senza fin di nobil gente,
in arme ardita e nel consiglio accorta,
e tutti cavalieri. Or questi furo
i regi e capitan ch’aveva Arturo.

Ma dimmi, o Musa, tu: chi ’l più perfetto
cavaliero e destrier fu in tutta l’oste?
De i destrier fu quel da Sicambro eletto
nell’aspre regioni all’Euro poste
su l’onde d’Ebro, allor ch’al giovinetto
Iustino imperador fur l’armi opposte
da i Tartari vicin, ch’egli il soccorse
e co’ Franchi ch’avea palma gli porse:

ch’oltre a molt’altri don gli fu cortese
di questo nobilissimo destriero,
ch’al par de’ venti al corso si distese,
grande oltra modo e bel, forte e leggiero,
securo e fido in perigliose imprese
perch’al freno era umile, all’arme fero.
Tra i cavalier, di tutti era sovrano
il possente e chiarissimo Tristano,

però che Lancilotto ivi non era,
ch’avanzava ciascun d’alto valore,
né ’l suo caval, di cui del sol la spera
non vide o vedrà mai forse il migliore;
ma quello in ozio con l’amica schiera
di crucciosi pensier nodrisce il core,
e ’l buon corsier sotto l’albergo ombroso
tra la paglia e tra ’l fien prendea riposo.

Ma il campo tutto in arme insieme accolto
mostra col suo splendor ch’arda il terreno,
e ’l romore e l’andar del popol folto
tremar fa il loco che ’l riceve in seno:
come là ne gli Arimi, ov’è sepolto
vivo Tifeo, tra ’l Sipilo e ’l Celeno,
ch’ad ogni acceso folgor che ’l percuote
di spaventoso suon la terra scuote.

Corsa è in Avarco la veloce fama
ch’Arturo in arme a lei rivolge il passo.
Tosto il consiglio paventoso chiama
de i miglior duci e cavalier Clodasso:
chi le mura guardar securo brama
fin che veggia il nemico afflitto e lasso,
chi vuole, uscendo pur, presso alle porte
porsi in loco che sia vallato e forte.

Ma il chiaro Seguran, ch’a nullo cede
di valor, di prodezza, o d’ardimento,
con orgoglioso dir già muove il piede
verso le porte, e l’apre in un momento:
spinge chi tardo va, muove chi siede,
a chi non mostra ardir mette spavento;
fa sonar d’ognintorno altere trombe
sì che l’aria e la terra ne rimbombe.

Veggionsi quinci e quindi arme e destrieri
con fretta ritrovare, e muover d’aste,
quei che vili eran pria divenir feri;
sì che d’uno il valor per molti baste;
ma i vecchi infermi e gli altri male interi,
le madri pie, le verginelle caste
s’atterran supplicando a i sacri altari,
che gli difenda il dì da i danni amari.

Nella parte d’Avarco all’occidente
che d’alquanto nell’Austro si rivolte,
lontan come potrebbe arco possente
la saetta avventar sole in due volte,
giace un piano arenoso, ove sovente
inonda l’Euro alle gran piogge e folte
che gli viene a man destra, e si distende
dove un colle alla fronte assiso pende,

il qual detto dal vulgo è Sabbioniera,
perché tal la natura l’ha mostrato;
ivi adunque adunar ciascuna schiera
fa il forte Seguran dal manco lato.
Venne egli il primo, ed ha la gente fera
che dalla fosca Ibernia avea menato,
d’Ultonia, di Momonia e di Lagina
e di Connacia ch’all’occaso inchina.

Ha seco Banduin, di Persia detto,
con Ideo ’l forte, antichi cavalieri;
vien Palamede poi, l’altero petto,
ch’avea di tutte l’Ebridi i guerrieri,
ed a lui degnamente dier soletto
di quaranta e tre isole gli imperi:
e non disdisse a lui l’Ila e la Iona,
che pur raro o non mai cede a persona.

Vien Gallinante poi, di Giron figlio,
di Girone il cortese, il maggior duce
che giamai fosse o d’arme o di consiglio,
e di vera bontà divina luce:
ch’or piangeria, se con l’aurato giglio
non vedesse il figliuol, ch’oggi conduce
Seguran suo cugin contro alle squadre
le quai più che se stesso amava il padre.

Fu il nobil giovinetto capitano
di quei di Mona, l’isola cui bagna
d’Ibernia il mar, ch’al lito prossimano
quasi congiunta appar con la Brettagna;
poi di paese e popolo lontano
ch’altro cerchio ricuopre, altr’onda bagna,
venne Brunoro il Nero, con la schiera
di quei che son tra ’l Reno e la Visera,

dell’Usfalia e di Frisia, ove in mar cade
la torba Amasia, e quei due primi insieme.
di quei che lungo l’Albi han le contrade
che la Selva Semana adombra e preme,
Turingii e Misnii, e per più basse strade
di Bransuic le fredde parti estreme,
mena le schiere il fero Dinadano,
che di Brunoro il Nero era germano.

I Sassoni, che pur tra l’Albi e l’acque
del gelato Svevo han fredda sede,
volser duce Faran, che tra lor nacque
e di barbaro orgoglio a nessun cede:
e cui la cortesia così dispiacque
che virtude estimava il romper fede.
Gli altri di Sclesia sopra il fiume Odero
ebber per capitan l’ardito Estero.

I feroci Boemi, ch’entr’al seno
della frondosa Ercinia ascosi stanno,
della Fontana il nobile Drumeno
per conducergli a guerra eletto s’hanno;
quei di Pomeria, a cui bagna il terreno
l’oceàn dove a lui correndo vanno
la Vistula e l’Ortel, per capo e duce
hanno Arduino il Fellon, che gli conduce.

L’Assia, ch’al monte Anobe in mezzo giace
e quasi sopra il Ren dritta si stende,
tutto il popol vicin ch’a lei soggiace
fa che ’l Nero Perduto in guardia prende.
La Svevia, avversaria d’ogni pace,
più verso l’Alpi, ond’il Danubio scende
tra i Vindelici, Retii e l’Eno e Lico,
presero in duce Bronadasso antico.

Il Norico terren, ch’all’occidente
ha l’onde d’Eno e dal settentrïone
riga il Danubio, e ’l cinge all’oriente
il Cetio, c’ha nevosa ogni stagione,
a Bustarino il grande la sua gente,
nel qual molto si fida, in guardia pone.
L’Austria, che stende il suo valloso piano
dall’Istro e ’l Narabone al giogo Albano,

dié Rossano il Selvaggio duce a’ suoi,
che fu sempre fra lor di sommo onore,
l’altra, che col Danubio scende poi
tra ’l Savo e ’l Sao, Pannonia inferïore,
Fortunato e Grifon, fér duci voi,
perch’odiaste Tristan d’acceso core:
poi di quei tra l’occaso e ’l mezzo giorno
gente infinita avea Clodasso intorno.

Quei d’Aquitania, in cui l’oceano inonda
Pirene e ’l promontorio curïano,
ove Aturia e Sigmen riversa l’onda,
non molto l’un dall’altro di lontano,
mena Nabon, che nacque alla sua sponda
del Visigoto sangue e dell’Alano,
ché Rosmunda la bella era sua madre,
ch’Alarico di lui fece esser padre.

Menò la gente Terrigano il grande
del fertile Santonge e del Pottiero,
e dove a Burdigallia l’acque spande
l’ampia Garona con sembiante altero;
gli altri che son tra le pietrose lande
del terren limosino alpestre e fero,
di Caòrs, Perigorto e i vicin loro,
han per duce il valente Palamoro.

Poi seguendo a levante i Pirenei
dov’è la famosissima Tolosa,
l’onorata Nerbona, che con lei
contese un tempo e ne divenne odiosa:
ma piangea seco allora i tempi rei
che l’avean posta in servitù noiosa
de’ Visigoti sotto il duro impero,
che dié lor capitan l’empio Agrogero.

Gli altri che son su l’onde di Ruscena,
dell’Orbio e di Latago più presso
ov’al Gallico mar la torba arena
Rodan col doppio corno avvolge in esso:
e ’n cui stagnando l’acqua intorno piena
di trista impressïon fa l’aria spesso,
tal che Nemauso e Monpelier ne piange,
che ’l frenato Nettunno ivi non frange,

ebber duce Galindo, e quella gente
ch’oltr’a l’Ostie del Rodano ha Provenza,
d’Arli real, ch’allora ebbe, e sovente,
sovr’ogni altro vicin somma eccellenza,
d’Acqua Sestia e Marsilia, ch’altamente
già mantenea la greca riverenza,
tutta per capitano avea Margondo,
ch’a nessun altro in arme era secondo.

Menava Gracedon della Vallea
quei ch’a levante son tra ’l monte e ’l mare,
ov’ha il porto Tolon, che s’e’ potea
meglio i venti schivar non avea pare:
ov’il Foro di Iulio ancor piangea
che pure allor tante memorie chiare
furo in lui tutte spente, e poco meno
d’Antipoli faceva il lito ameno.

Quando ritorna poi verso Boote,
che più lunge a Nettunno ebbe la sede,
ove nel sen del Rodano si puote
veder Sorga e Durenza che s’assiede,
e dove al fianco rapida percuote
Lisera, e di se stessa il face erede,
qui Valenza gentil lassando a tergo
e là il sacro Avignon, di venti albergo;

con quel ch’ad essi d’ognintorno giace,
diede a’ suoi capo e duce Matanasso.
Ciò che più all’Alpi gelide soggiace
dell’Allobroge valli al chiuso passo,
ove al saggio Granopoli non tace
la Lisera che vien di sasso in sasso
fino alla nobil Vienna, ha la sua schiera
donata a Marabon della Riviera.

Con Sismondo da poi, suo primo figlio,
vien Gunebaldo, il fero Borgognone,
che del sangue fraterno era vermiglio
tre volte stato: e funne empia cagione
perfidia, crudeltade e rio consiglio
di tòrre a quei le debite corone:
e menar tutti quei che ’ntorno stanno
di Sona all’onde, che sì dolce vanno.

D’altri popoli appresso e d’altra parte,
della Rocca signor venia Verralto,
menando quei ch’al mezzogiorno parte
da i Galli il Pireneo dov’è più alto
e del Cantabro ocean l’onde sparte
a i colli Biscain dan fero assalto,
con quei d’Asturia, a cui tra’ sassi e l’acque
l’opera pastoral più d’altra piacque.

Quei dell’aspra Galizia han Ferrandone
il Pover, ch’ebbe in man tutto il paese
che da’ Ravanei monti s’interpone
fin dove il fiume Linia il corso stese,
ove il gran promontorio al mar s’oppone
che dal fin della terra il nome prese;
gli altri che d’indi van sopra il Düero
mena Calarto il Picciolo, ma fero,

con quei che bevon di Pisarga l’onde,
Astorga e Borgo e di Palenza appresso
e di Nazera ancor, che si nasconde
de’ monti all’ombra ond’è ’l Navarro oppresso.
Quei lungo il mare infin là dove abbonde
il Tago d’oro nell’arene impresso
con tutto l’altro ove Mondaga corre
diede Lisbona in guardia ad Esclaborre.

Quei ch’abbraccia il Duero e Guadïana
più contr’all’Orse alquanto e l’Orïente,
ove ha Tolleto la città sovrana
che di molte giornate il mar non sente,
Safaro conducea, persona estrana,
d’altronde uscito che d’Ibera gente:
ma perch’era fratel di Palamede
avevan somma in lui speranza e fede.

Quei che son poscia in su ’l famoso Beti,
onde il nome ebbe la provincia prima,
infin là dove loro il passo vieti
Serra Morena con l’altera cima,
ov’è tra i colli erbosi e i campi lieti
Cordova, che più d’altra ivi si stima
e l’Ispali, ch’adorna l’oceàno,
Merangiò della Porta han capitano.

Poi quei più verso il Freto e ’l mezzogiorno,
che si veggion vicin l’antica Gade,
ove cinte da’ monti d’ogn’intorno
può Granata veder le sue contrade;
così l’altro paese, assai più adorno
di fior che ricco di felici biade,
di Maliga, di Murzia e Cartagena
il forte Morassalto in guerra mena.

Valenza, che nel sen della Montagna
giace Idubeda, ed ha dall’occidente
il Godamoro che ’l terren le bagna,
come fa il Sema quel dell’orïente,
e con le rive al lito s’accompagna
ch’all’onda Balearida consente,
de gli abitator suoi dié in mano il freno
per questa guerra al perfido Druscheno.

Quei che dell’acque del reale Ibero
bevon nel primo fonte d’ond’egli esce,
con quei ch’al mezzo corso, ove più altero
con la Singa e col Sicori s’accresce,
infin ch’al mar, privato del suo impero,
presso a Tortosa il doppio corno mesce,
han per duce il re Loto; e gli altri poi
c’han più verso Pirene i campi suoi:

dico l’antica e chiara Taragona
con quanto abbraccia il periglioso lido
ov’è l’ornata e vaga Barzalona
ha il suo ripien d’odor leggiadro nido,
infin là dove ancor la fama suona
del tempio di Ciprigna, allor più fido
forse ch’oggi a i nocchieri, capitano
han chiamato Roderco, il crudo Alano.

Ilba vien poi, del gran Teodorico,
degli Ostrogoti il re, che in Roma allora
teneva il seggio, sommo duce antico,
e di Geppidi stuol menava ancora:
né ’l mandava quel re con core amico
per trar Clodasso di miseria fuora,
quanto perch’al re Franco Clodoveo,
benché cognato suo, grand’odio aveo.

Appresso il re degli Eruli Odoacro,
ch’a Ravenna infelice il giogo pose,
menava il popol suo superbo ed acro
contr’all’umane e le celesti cose,
che più d’un nome e più d’un tempio sacro
distrusse e spense già, non pure ascose.
L’ultimo fu Clodino, il Marte detto,
de’ figliuoi di Clodasso il più perfetto;

i suggetti e vassalli seco avea
che più cari e fedeli erano al padre,
poi che ’l vecchio Clodasso non potea
seguir, come già feo, l’armate squadre:
e perché molta in lui speme tenea
e vedute n’aveva opre leggiadre,
doppo il buon Seguran fé lui primiero
sovra ’l sommo de’ suoi famoso impero.