Avarchide/Canto I
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L'AVARCHIDE
DI
LUIGI ALAMANNI
CANTO I
ARGOMENTO
Per l’acerbo parlar del reo Gaveno
ira s’accendon Lancilotto e Arturo,
Nè le offese fra loro hanno più freno,
Nè val consiglio di guerrier maturo;
Chè Lancilotto, pien d’aspro veneno,
Di partire dal campo in cuor fa giuro;
Ma consolato dalla madre, a parte
Riman co’ suoi, lungi dal fero Marte.
i
Canta, o Musa, lo sdegno e l’ira ardente
Di Lancilotto del re Ban figliuolo
Contra ’l re Arturo, onde sì amaramente
Il britannico pianse e ’l franco stuolo;
E tante anime chiare afflitte e spente
Lasciar le membra in sanguinoso duolo,
D’empi uccelli e di can rapina indegna;
Come piacque a Colui che muove e regna.
ii
Or chi fu la cagion di tanta lite?
Gaven, che dell’Orcania era signore,
Che portò invidia a le virtù gradite
Di Lancilotto, e gli pungeva il core,
Che per opra di lui fosser fallite
Le nozze ch’ei bramò con troppo ardore
Di Claudiana di Clodasso figlia,
Che fu bella e leggiadra a maraviglia.
iii
Ma, temendo di lui, gran tempo tenne
L’uno e l’altro dolor nel petto ascoso,
Fin che Tristan con le sue genti venne:
All’arrivar del quale il re famoso
Fe’ ’l consiglio adunare, ove convenne
Ogni duce maggiore, onde fu oso
Di dar principio alle dannose risse;
E drizzatose in piedi così disse:
iv
Invittissimo Arturo, poi ch’io veggio,
Che tutto il Cielo a’ vostri onori aspira;
E che nulla temenza avem di peggio,
Che ne possa d’altrui fare ingiust’ira;
D’aperto palesar divoto chieggio,
(Come colui ch’al suo dover rimira)
Quel ch’a voi sia vergogna, e strazio e morte
A chi segua di voi l’istessa sorte.
v
Qui con voi tanti duci avete e tali,
Tanti gran cavalieri, e tanti regi,
Che di quanti mai furo, e fien mortali
Riportar ne porrian le palme, e i pregi;
Se non fosse tra lor chi gli immortali,
(Non pur simili a noi) par che dispregi;
E non sol voi, ma Chi nel cielo ha regno
(Cred’io) che tien di comandargli indegno.
vi
Questi per sempre aver l’impero in mano,
E voi signoreggiar con gli altri insieme,
Fa d’ora in ora ogni disegno vano
Del lungo assedio, che i nemici preme;
Tal che ’l fin è più che già mai lontano,
E men ch’al cominciar si mostra speme
D’espugnar più lo sventurato Avarco,
Che prender si devea nel primo varco.
vii
E certo si prendea, con tutto quello
Che ’l nemico Clodasso oggi possiede,
S’allor che ’l crudo esercito rubello
Pose in Brettagna l’infelice piede
E che Vittorio e Massimo il fratello
Fur dell’oste di voi famose prede
Alcun de’ vostri che presenti sono
Non ne faceano al padre ingiusto dono.
viii
Seguì ’l medesmo poi non di qui lunge,
Ch’egli ebber Claudïana prigioniera;
Così ’l secondo a quel primiero aggiunge
Danno pipiù grave e di peggior maniera,
Perchè tenero amor di costei punge
Tale il paterno cor, che in una sera
V’aria dato quant’ha lontano e presso,
I figliuoi, la corona e poi se stesso.
ix
E l’uno e l’altro apertamente fero
Senza vostro congedo e senza voi,
Per ben mostrar ch’ogni potere intero
Era in lor soli sopra gli altri eroi.
Or chi ciò stimerà fallo leggiero
Qual può grave chiamar peccato poi?
E chi ardisce cotanto non suggetto,
Ma imperadore e re puot’esser detto.
x
Or quel ch’esser deveva utile a voi
Senza fine a voi nuoce, ad altrui giova:
Però che ’n sicurtà di tutti i suoi,
Non molto ha Claudïana si ritruova
Sposa di Seguran, c’or verso noi
Farà più che giamai di vincer pruova,
Con virtù rischiarando ove fortuna
D’oscura povertà forse l’imbruna.
xi
E troppo è da temer, ch’egli è pur certo
Del buon sangue illustrissimo del Bruno;
E s’ei non passa, aggiunge quasi al merto
Del cortese Girone invitto ed uno:
Molto è in consiglio e più nell’opre esperto,
Onorato e gradito da ciascuno;
Ha molti cavalier, molti altri a piede,
Poi sopra tutti il forte Palamede.
xii
Ma perchè ’l ragionar del tempo andato
Par più di sconsolato che di saggio,
Più lungo non farò, poi che sfogato
Quel che nascosi lungo tempo v’aggio:
Vi dirò sol che poi che ’l Cielo ha dato
Al buon Tristan per noi lieto vïaggio
Si ricorreggan quei che torti andranno,
Richiudendo ogni varco al nuovo danno.
xiii
Qui si tacque e rassise e ’n mantenente
Surge all’incontro il fero Lancilotto
Con gli occhi accesi e con la faccia ardente;
E con turbato suon tremante e rotto
Disse: Chi fugge tra l’armata gente
Sempre in biasmar i buon fu ardito e dotto,
E la chiara virtù che non è in lui
Oscura quanto può sempre in altrui.
xiv
Ma se non fosse l’alta riverenza
Ch’al nostro re, qual’è dovuta, porto
V’avrei di tutti i vostri alla presenza,
Per non mi far disnòr, non dirò morto
Ma la testa lassata e ’l mento senza
Gli effemminati velli, e ’l collo attorto
D’uccello in guisa, e fatto eterno esempio
A i falsi accusatori il vostro scempio.
xv
Che se ben non diceste il nome mio,
Nè di farl’anco sète degno assai,
Bene intendo, Gaven, che son quell’io
Ch’Arturo e tutti i suoi sempre spregiai:
Che quanto sia menzogna sallo Dio,
Che sa ben ch’altra cosa non bramai,
Dapoi ch’io porto lancia e cingo spada,
Che di far notte e dì ciò che gli aggrada.
xvi
E senza ragionar de merti vostri
Confermo ch’io rendei certo a Clodasso
I due suo’ figli, ch’eran prigion nostri,
Presi da me nel periglioso passo
Quand’io, salvando di Britannia i chiostri;
Fui nel sangue de’ lor vermiglio e lasso,
E feci sì ch’ei non si vantan oggi
D’aver troppo calcati i vostri poggi.
xvii
E s’io volsi del mio fare altrui dono
(ch’eran miei di ragion, poi ch’io gli presi)
Perchè accusato a sì gran torto sono
Che del mio re la maëstate offesi?
Non avrebbe Clodasso in abbandono
Per questi due lassato i suoi paesi;
Poscia io non son, come voi sete, avvezzo
Di guerra i pregionier vendere a prezzo.
xviii
E se nell’espugnar di qua dal mare
Benicco, il luogo dov’io nacqui prima,
Mi venne in sorte d’ivi ritrovare
Del re la figlia, e non ne fei la stima
Ch’io veggio al vulgo ed a voi stesso fare
Come di spoglia veramente opima,
Ma, qual si convenia con donna tale,
La rimandai nell’abito reale;
xix
Devreste voi però tanto biasmarme
E metter tra i superbi e tra i rubelli?
Non volsi come avaro conservarme
A miglior tempo lei co’ suoi fratelli,
Ch’io cerco usar contr’a gli armeti l’arme,
E non contra i legati e poverelli,
Nè cangerò voler per altrui voglia,
E seguane a chi può piacere o doglia.
xx
Debbon esser nemici i cavalieri
Mentr’hanno spada in mano o lancia in resta,
Ma cortesi, pietosi, amici veri
Come scarca dell’elmo aggian la testa:
I fatti come voi stan crudi e feri
Più che leoni o torbini o tempesta
Verso i prigion, verso le donne umili,
Quanto verso i guerrier timidi e vili.
xxi
Pur non di voi, che tutto invidia sète
E sposar bramavate Claudïana,
Mi vo’ doler, che fatta l’opra avete
Che far deve alma doppiamente insana;
Ben di voi sacro re, che ritenete
Di noi qui scettro e podestà sovrana,
Che, bench’a voi nipote, aggiate un tale
In onor quasi a voi medesmo eguale;
xxii
E vogliate soffir che inanzi a voi
Possa a torto a i migliori oltraggio dire:.
Il peccare e ’l fallir de i servi suoi
Colpa è del re, s’ei non gli sa punire.
Non avria di parlar sì altero in noi,
Senza il vostro volere, avuto ardire;
Però ricorro a voi, non perch’io attenda
La vostra man ch’a vendicarne intenda:
xxiii
Perchè, mentre ho la spada, anzi ho la vita
(chè senza quella ancor non manca il core),
Non cercherò d’alcun mortale aita
Per sollevare il mio battuto onore;
Ma sì vi prego io ben per l’infinita
Obbedïenza e per l’integro amore
Ch’io vi porto e portai che dir v’aggrade
S’io seguo al mio dever contrarie strade.
xxiv
Così detto s’assise, e stato alquanto
Il re tacito in sè rispose appresso:
Io non potrei negar che ’l primo vanto,
Tra molti cavalier che mi son presso,
Della vera prodezza, ed altrettanto
D’amore, in voi non ritruovasi spesso;
Ma così altero in questo bello oprare
Che non potete aver signore o pare.
xxv
Non niego io già che quel valor ch’è raro
Drittamente grandezza a i cori apporte;
Ma se ’l gran senno non vi fa riparo
In superba fierezza si trasporte,
Che d’ogni consiglier più amico e caro
A i prudenti sermon chiuggia le porte:
Tal ch’è virtù fra troppi vizi ascosa,
Come intra spine assai selvaggia rosa.
xxvi
E come quella mostra che spavente
Chi coglier la vorria d’aspra puntura,
Così fa quella alla matura gente,
Che quel che giova e nuoce in sen misura.
Io debbo molto a voi, che veramente
Con sollecito cor prendeste cura
Quant’altro cavalier d’ogni mia guerra,
Non di qua men che nella nostra terra;
xxvii
Ma s’anco io vi dicessi, mentirei,
Che non mi aveste in molte parti offeso
In render prima i due, poi render lei
Senza aver pure il mio volere inteso;
Il medesmo che voi fatto n’avrei,
Ma miglior modo e miglior tempo atteso,
Chè fra noi si potea di cosa tale
E sperare e temer gran bene o male.
xxviii
Non il poco veder, ch’assai vedete
Quando vi piace ben le luci aprire,
Ma ’l dispregio di me, la troppa sete
Di troppo in alto e sovra me salire
Fur la cagion per cui voluto avete
Più ’l desio vostro che ragion seguire:
E far certo e palese a tutto il mondo
Che voi sete primiero, io son secondo.
xxix
Ma per questo alto scettro che mi diede
Il re mio padre, Pandragone Utero,
Del quale egli era drittamente erede,
Succedendo al parente Vortimero
Che l’ebbe anch’ei nella medesma sede
Dal vechhio genitor suo Vertigero:
Per questo adunque a Lancilotto giuro
Ch’io farò sì ch’ei non sormonte Arturo;
xxx
Ma ch’ei sommetta il collo al giogo istesso
Come fan quei, che sono eguali a lui,
Nè in oprar, nè in parlar gli sia concesso
In alcun modo d’oltraggiare altrui;
Intenda a governar piano, e rimesso
I guerrieri, i compagni, i cugin sui:
E s’ei si cangerà, cangerò anch’io
Secondo il suo volere, il voler mio.
xxxi
Perchè s’ei fosse quel, ch’esser devrìa,
Non vorria dimostrar’ d’essere ingrato
Ch’oltra gli onor, ch’io gli avea fatti pria,
Che quasi al par di me l’aveva alzato;
Può ben saper, che questa guerra sia
Per rendergli il paese, onde spogliato
Dal perfido Clodasso fu il re Bano,
Che in esilio morì tristo, e lontano.
xxxii
Il medesmo adivenne al re Boorte,
Che fratello onorato era del padre;
E lui picciol fanciul nell’aspra sorte
Nudrì Vivïana, tolto alla sua madre:
Poi il menò giovinetto alla mia corte,
Dopo tante tempeste oscure, ed adre:
Io ’l trattai come figlio; ed or di tutto,
Può giudicare ogni uom qual’esca frutto.
xxxiii
Diceva ancor; ma riguardandol torto,
Qui l’interruppe irato Lancilotto:
Deh fuss’io già co’ miei parenti morto,
Pria che qui ritrovarmi a tal condotto;
Chè del mio bene oprar biasmo riporto,
E chi mi debbe alzar mi spinge sotto;
E son chiamato ingrato da colui,
Ch’a me dee molto, ed io niente a lui.
xxxiv
E che sia ver, qui presso è Galealto,
Il forte re dell’isole lontane.
Che vi diede in Brettagna tale assalto,
Che le forze di voi rendea già vane:
Volse Dio, che ’l suo core egregio, ed alto,
Pregiò me sol fra l’altre genti strane;
E mi divenne amico sì verace,
Che volse a i preghi miei la vostra pace.
xxxv
E bene ad uopo fu, che d’altra parte
Eran là giunti di Clodasso i figli,
Ch’avean già molte mura a terra sparte,
E molti vostri campi eran vermigli;
Quel ch’io facessi allor con forza, ed arte,
Altri a narrarlo la fatica pigli;
So ben, che l’un con pace, e i due con guerra,
Fei, che non danneggiar la vostra terra.
xxxvi
Or se, scacciati quei, venuto sete
Qui per punirgli, e far sicuro voi,
Con qual cor, con che voce affermerete,
Che guerreggiate per onor di noi?
Desio di gloria, e di vendetta sete,
Non amor del re Bano, o d’altri suoi,
Del quale or vi conosco troppo parco,
V’han qui menato ad espugnare Avarco.
xxxvii
E quando e fosse pur, divotamente
Vi prego, che lassiate omai l’impresa;
Ch’io non intendo voi, nè vostra gente
Adoprar per aita, o per difesa:
Ben’ ho fatto, e farò più che dolente
Con questa man chi m’aggia fatto offesa;
Sì che potreste indietro ritornare,
Se voi per questo sol passaste il mare.
xxxviii
Da voi rifiuto ogni paese, e loco
Già da’ miei per addietro posseduto;
Perch’io prezzo niente, non che poco,
Ricchezze, possession, regno o tributo:
Ogni altra cosa insomma mi par gioco,
Se non quel vero onor, che n’è dovuto,
Dell’istessa virtù, che da noi nasce,
E di cibo immortal gli animi pasce.
xxxix
Lasciatemi pur voi povero,
Co l’arme, e co i pensier, ch’io porto in seno,
Che s’io non potrò far tropp’alto volo,
Nella mia libertà starommi almeno:
E poi che quanto più v’adoro, e colo,
Tanto son più scernito da Gaveno,
E meno il mio servir sempre v’aggrada;
Non intendo per voi cinger più spada.
xl
Cosa che senza colpa io posso fare,
Non essendo tenuto a giuramento,
Nè di cavalleria, nè d’altro affare,
Chè d’ogni nodo libero mi sento;
L’omaggio in vostra man lassai pigliare
Da Boorte, e da gli altri, a cui consento
Quanto mai troveran di tutto il bene
De’ nostri antichi, che Clodasso tiene.
xli
E’ ver che nel mio cor disposto avea,
Di voi sempre seguire in ogni guerra,
Ma dispose altro la fortuna rea,
Che ’l cammin disegnato spesso serra,
Nè desio men di quel che già solea,
Di vedervi felice, e grande in terra:
Dio vi dia pur vittoria, e metta in core
Di pregiare, e inalzar chi merta onore.
xlii
Così detto s’assise: e ’l re sdegnoso
Risponde: Senza fin grazie vi rendo
De i buon ricordi, e del desio bramoso
Di tutto quello, ove la voglia intendo:
Che cerchiate per voi pace, e riposo;
Lasciando me, nessuno affanno prendo
Chè molti altri ho speranza all’onor mio
D’aver più amici; e sovra tutti Dio.
xliii
E non ci sendo voi, penserò avere
D’ogni lite o questïon purgato il campo;
Io qua più in pace non potea tenere,
Nè contro al vostro orgoglio avere scampo;
Se ’l Ciel vi diè d’ogni altro cavaliere
Di forza, e di valor suppremo lampo,
Devreste in guerra usarlo, e tra i nemici,
Non, com’or, ne i consigli, e tra gli amici;
xliv
Nè contr’a me; cui la bontà divina
Ha più degno, ch’a voi, donato loco:
Gitene or dunque, dove più v’inchina
L’alta vostra superbia, e ’l vostro foco,
Chè quel che ’l Cielo in alto mi destina,
Non mi potrà fallir, sia molto, o poco,
Altresì a voi, che ’l Re de la natura
Egualmente di tutti ha dritta cura.
xlv
Poi che ’l re si tacea, più non potendo
Il fido Galealto omai soffrire,
Incominciò: Per quel ch’io veggio, e ’ntendo,
Troppo infiammati son gli sdegni, e l’ire,
Invittissimo re; nè ben comprendo,
Come vi possa l’alma consentire,
Per sì breve cagion di perder tale,
Ch’assai più sol, che tutto il mondo vale.
xlvi
Lassiamo andar che ’l suo patir vi toglia
Di mano ogni vittoria ed ogni spene,
E che ne dee venir disnore e doglia
Alla vostra corona, a gli altri pene,
Perchè l’uom puote aver talvolta voglia
Di convertire in mal l’avuto bene:
Ma qual potrete dir giusta ragione
Che da voi nasca un simil guiderdone?
xlvii
Chi non sa di costui l’alto valore
E ’n servigio di voi le divin’opre,
O ch’egli è senza orecchie o ch’egli è fuore
Di questa vita, e molta terra il cuopre:
Ma quando ei fosse ascoso, al vostro core,
Ch’è il sommo testimonio, ognor si scuopre,
Ognor si mostra l’alta sua virtute,
Che partorì più volte a lui salute.
xlviii
Non è presente ognora a gli occhi vostri
Quel ch’ei fè contr’a me nel gran bisogno?
Ei sol s’oppose a i gravi assalti nostri,
Gli affrenò sol (nè a dirlo mi vergogno):
Chè chi ’l scrivesse, i più famosi inchiostri
Tutti presso di lui parrebber sogno.
Col suo valore il mio furore estinse
E con la sua bontade al fine il vinse.
xlix
Vinsemi veramente la bontade
Ch’or non ha certo, e mai non ebbe pare;
Per lui vi feci io don delle contrade
Vinte prima da’ miei nel vostro mare.
Quando dall’altra parte e in altre strade
Nuovo soggiunse e periglioso affare
De’ figliuoi di Clodasso già discesi,
E ch’avean molti fuochi intorno accesi,
l
Con qual cor, con che amor, con quanto ardire
Si mosse allora il chiaro Lancilotto?
Ritenne i molti che volean fuggire,
Rimise insieme il vostro popol rotto;
Poi come tigre irata che rapire
Si veggia i figli corse a Camelotto,
Ch’era in man de i nemici e ben guardato,
E in men d’un mezzo dì l’ebbe espugnato.
li
Non perdè tempo, che ’l medesmo giorno
Con sollecito passo ancor raggiunse
Gli eserciti nemici, che ritorno
Al mar facean per tema che gli punse:
Fè lor danno infinito e sommo scorno,
Quando non aspettato sopraggiunse;
Fèrsi l’onde vermiglie in un momento
E ’l ciel, la terra e ’l mar n’ebbe spavento.
lii
Non cessò, ch’ei trovò l’alta regina,
La vostra nobilissima consorte,
Fatta per tema come neve o brina,
Che piangea lassa e disïava morte:
Così il buon duce e la virtù divina
La trasser quindi da sì amara sorte,
Ma un punto sol ch’e’ s’indugiava ancora
Era d’ogni speranza in tutto fuora:
liii
Che già in braccio l’avean molti nocchieri
Per portarla dal lito al palischermo.
Ma più ch’e’ fosse mai pronto e leggieri
Fu Lancilotto, e lor non valse schermo;
Molti ne pose morti su’ sentieri,
Gli altri tutti non tennero il piè fermo:
Chi fugge in quella parte, chi s’asconde,
Chi s’attuffò come delfin nell’onde.
liv
Co i legni de i nemici in questa parte,
Volando quasi, discendemmo allora;
E mentre a fabbricar governi e sarte
Stavate inteso nel passaggio ancora,
Vinse otto volte tra congiunte e sparte
Le genti avverse ch’ei trovò di fuora:
Acquistò più paesi, passi e terre
Che ’l miglior non faria con mille guerre.
lv
Egli i monti spianò, largò le porte
E vi fece il cammin dritto e sicuro
Che poteste venir con poche scorte
Senza impaccio trovar di fosso o muro;
Non vi fu alcuno a contrastarvi forte
Se non Avarco, cui fa saldo e duro
Non gente nè vertù ch’ei chiugga in lui,
Ma il diviso voler che trova in vui.
lvi
Fè che ’l gran re d’i Franchi v’ha mandato
Quattro suoi figli e ’l re Sicambro insieme,
Con sì fiorito stuolo e bene ornato
E d’armi e di destrier, ch’ogni uom ne teme:
Chè Lancilotto nel materno lato
Uscendo dal real francesco seme,
Han voluto mostrar che ciò gli invita
Di dare a voi contro a Clodasso aita.
lvii
Or son questi però fatti e servigi
Che si possan così porre in oblio?
Che ne devreste doppo i fiumi stigi
Esser mai sempre conoscente e pio.
Che ne diran di voi gli uomini ligi?
Che i cavalieri strani, qual son io?
Che speranza avran quelli e questi come
Potran render onore al vostro nome?
lviii
E se pur qui di noi nulla vi cale,
Non vi cal di Colui che tutto vede,
Che ristora e punisce il bene e ’l male
E da cui quanto abbiam nasce e procede?
Ogni impresa ritorna vana e frale
Quando l’ingratitudine è mercede;
Ciò ch’ei fa, ciò ch’ei pensa, a scorno e danno
Al fin gli torna, ed a perpetuo affanno.
lix
Spogliate dunque omai l’ira novella
E rivestite in voi l’antico amore,
Mirate ben ch’a ciò seguir n’appella
Il profitto comune e ’l proprio onore:
Che se l’occasïon, ch’or bionda e bella
Vi presenta la chioma a tal favore,
Tornasse il volto disdegnosa altrove
In van poscia sarian l’umane prove.
lx
Così diss’egli, e ’l buon re Lago il veglio,
Dell’Orcadi signor nel freddo cielo,
Di forza in prima e di prodezza speglio,
Or chiarissimo onor del bianco pelo,
Che da lunge scernendo il ben dal meglio
Del futuro scovrìa mai sempre il velo,
Non per divinità, ma per la vista
Che vecchia pruova ne’ molti anni acquista;
lxi
Egli adunque levato disse: Or come
Non vedete voi lassi apertamente
Che spingete sotterra il vostro nome
E date il pregio alla nemica gente?
Questa barba nevosa e queste chiome
Che devean già molti anni essere spente
E questa vita stanca ancor si serba
Per veder tal di noi rovina acerba?
lxii
Non vi sdegnate, Arturo, a dar credenza
Alle parole mie, che Pandragone
E Vortimero ancor non fur mai senza
Bene approvar la nostra opinïone:
Come che poca avessi esperïenza,
Nè sapessi però render ragione
Di molto più che di cavalli e d’arme,
Ebber sempre diletto d’ascoltarme.
lxiii
Voi, chiaro Lancilotto, che ripieno
Di valor e d’ardir più d’altro estimo,
Sappiate pur ch’anch’io mi tenni almeno
Secondo sempre, e ben sovente il primo,
Nè giamai di timor mi strinse freno,
E ponessemi il Cielo in alto o in imo:
Con Ettor, con Giron, con Febo il Bruno
Combattei spesso, e non cedeva a alcuno;
lxiv
E col vostro re Ban, col re Boorte
Mi ritrovai più d’una volta in pruova:
Vinsi e perdei, come volea la sorte,
Che non sempre l’istessa si ritruova;
E se lor non venia subita morte
Io passava di qua con gente nuova
Per dar soccorso a quei, ma in mezzo il mare
Ebbi d’ambedue lor le nuove amare.
lxv
Questo dich’io perchè sappiate il vero,
Ch’io v’amo e v’amerò qual proprio figlio,
E che vogliate credere al sincero
Mio, prego, ed amorevole consiglio:
Rendete obbedïenza al sommo impero
Del vostro Arturo, e pongasi in essiglio
Ogni altra cosa andata, che sovente
L’uom di tosto crucciar tardi si pente;
lxvi
E ritornivi a mente come voi
Non sète in molte parti a lui simile:
Dio gli ha dato poder sovra di noi
Come al degno pastor sovra l’ovile,
E l’aver riverenza a i signor suoi
Nasce da nobil animo e gentile:
E quanto in voi risplende più il valore,
Tanto più onor vi fia rendergli onore.
lxvii
E voi, famoso re, devreste porre
Ogni perturbazione omai da parte,
Legare i sensi e la ragione sciorre
E rivestire il cor di real arte:
La quale è dolcemente di riporre
Nel cammin dritto chi da lui si parte
E serbare il corruccio all’ultim’ora
Che veggia altrui d’ogni speranza fuora:
lxviii
Chè troppo spaventevole è quell’ira
Ch’accenda chi può far ciò che gli aggrada.
Chi non guarda al principio, indarno tira
Il fren da poi che mal ritruova strada;
Rare volte cadrà chi fiso mira
Il cammin che dee far, nè ad altro bada,
E chi più tien nelle sue forze speme
Più truova intoppo che l’abbatte e preme.
lxix
Non ha tanto fallito che non merte
Lancilotto da voi largo perdono:
Chè spesso prende l’uom per vere e certe
Le cose che incertissime poi sono;
Pensò che voi gradiste quelle offerte
Ch’ei fè de’ prigionieri, e ch’esso dono
Non vi devesse offendere: or che sente
Avvenirne il contrario, si ripente.
lxx
Ricordatevi poi ch’un tal guerriero
Non si truova talor dopo molti anni,
E chi l’ha, no ’l dee perder di leggiero,
Ma ben servarlo a simiglianti affanni.
Egli ha molto giovato al vostro impero,
E molti a tutti noi schivati danni:
Egli, è pur sempre (e tutto il mondo sallo)
Stato del vostro campo argine e vallo.
lxxi
Al buon vecchio reale il grande Arturo
Tal feo risposta, e molto meno irato:
Ben vegg’io quanto sia saggio e maturo
L’alto consiglio che da voi n’è dato,
Ottimo re dell’Orcadi, e vi giuro
Che la forza e l’onor m’han qui menato,
Ch’io l’ho mai sempre col medesmo amore
Che si deve un figliuol portato in core.
lxxii
Ma con qual degnità soffrir poss’io
E gli oltraggi e gli scherni ch’e’ mi face?
Chi l’adorasse pur qual proprio Dio
A pena seco aver potrebbe pace;
Sempre sprezza e contrasta al parer mio,
E di maggior tenermi gli dispiace:
Di nessun più gli cale, ogni uomo sdegna
Quest’anima d’orgoglio e d’ira pregna.
lxxiii
Qui Lancilotto, lui mirando torto,
Sdegnato più che mai così dicea:
Voi mi vedrete pria sotterra morto
Che seguirvi mai più com’io solea.
Per altro nuovo mare, in altro porto
Mi condurrà la mia fortuna rea,
E la ragion mi fa sperar ch’un giorno
Bramerete anco indarno il mio ritorno.
lxxiv
Finite le parole, volse il piede
Verso il suo padiglion, poco lontano;
E Galealto pio ripien di fede
Il seguitava sol, tacito e piano.
Vòta lasciò di sè la real sede
Arturo, e seco ogni altro capitano;
Poi ripien di pensier, turbato e bruno
Al proprio albergo ritornò ciascuno.
lxxv
Posesi Lancilotto lungo il rio,
Lontan da tutti i suoi, doglioso e solo;
E d’uccider Gaveno ora ha disio
E di dare al suo re perpetuo duolo,
Or dove il porterà suo destin rio
Di prender brama un disperato volo:
E mentre questo e quel danna ed appruova
Viviana innanzi a gli occhi si ritruova.
lxxvi
Alla qual cominciò: Cara e gioconda
Più ch’essa madre ch’io non vidi mai,
Chi v’ha menato qui sopra quest’onda
A contemplar le mie vergogne e i guai
Ond’oggi sì gran numero m’abbonda
Che per mille oltra me sariano assai?
Or son gli onori, or son le palme queste
Che tante volte già mi prediceste:
lxxvii
Ch’io devea sovr’ogni altro tanti pregi
Aver vivendo, e dopo morte poi
Uscirebber di me tanti alti regi
Adorati da i Galli e ’ vicin suoi
Ch’eterni serveriano i manti e i fregi
D’ogni real virtù sopra gli eroi,
Il famoso Francesco, il grande Enrico
Ch’avanzerebbe ogni valore antico?
lxxviii
Ben contrario è il principio, se Gaveno
Ha pure avuto ardir d’oltraggio dirme:
Nè voll’io rintuzzar l’empio veleno,
Pensando contr’a tal troppo avvilirme.
Parlai col re, che mi pensava almeno
Che per ragion devesse favorirme;
E ’l trovai sì contrario e tanto ingrato
Che ’n meraviglia estrema son restato.
lxxix
Così diceva, allor che sospirando
Fece la donna a lui risposta tale:
caro figliuol, così vi chiam’io quando
Sempre amor vi portai di madre eguale,
Io vi trovai d’ogni ventura in bando
Vicino al lago, il nido mio natale,
Con la misera madre, a cui vi tolsi
Nato d’un anno, e meco vi raccolsi;
lxxx
Ove con somma e vera caritade
Vi nutrii fra gli studi e ’ buon costumi
Quai d’anno in anno richiedea l’etade,
Ma in dura vita e ne i selvaggi Dumi,
Inviandovi al Ciel per l’erte strade
E di gloria mostrando i veri lumi
Or con saggi ricordi, or con essempi
Di quei miglior de i più lodati tempi:
lxxxi
Nè gran fatica fu; perchè le stelle,
Com’io ben conosceva, v’inchinaro
Alle imprese lodate, altere e belle,
A mostrarvi fra gli altri unico e chiaro;
Benchè alcune di lor contrarie e felle
Spesso qualche sventura minacciaro:
Che ’l corso di virtù non dura troppo
Che non trove in cammin più d’uno intoppo.
lxxxii
Ma questo è quel ch’al gran valore aggrada,
Che senza affaticar non prezza onore.
Ora adunque, figliuol, per tale strada
Del terzo lustro vi condussi fuore:
Dièvi la lancia allor, cinsi la spada
- ben servate del Ciel le felici ore -,
Posi sopra il destrier, menàvi in corte
D’Arturo a seguitar la vostra sorte:
lxxxiii
Di cui doler non vi devreste certo,
Cominciando a guardar con occhio sano
Pria Melianso, da ciascun deserto,
Quando voi sol con giovinetta mano
Ardiste di sferrarlo, e dire aperto
A qualunque uom che fosse ivi o lontano,
Ch’amar dicesse gli inimici suoi,
Che voi l’uccidereste, od esso voi:
lxxxiv
Per cui ve ne seguir battaglie tante,
E di tutte la palma riportaste.
Indi soletto e cavaliero errante
La dolorosa guardia conquistaste:
Per la qual mille volte e mille avante
Furo in van da i miglior rotte mille aste;
Ciò fu vostra virtù, ma la fortuna
Pur guidata da Dio con lei s’aduna.
lxxxv
L’uno e l’altro gigante a Camelotto,
Che facea la Brettagna mal sicura,
Fu nell’estremo fin per voi condotto,
E disciolto il terren d’aspra paura;
Poi liberaste Arturo, ch’era sotto
Chiavi serrato e fra incantate mura
Di Camilla spietata ed impudica,
Con gran vostro periglio e più fatica.
lxxxvi
Molte poi gravi imprese in sì pochi anni
Al fin traeste, ch’io devrei contare:
Però che ’l rimembrar’ gli andati affanni
Suole il presente duol men duro fare,
Tanto più quanto son d’onte e di danni
Nudi, e vestiti di vittorie chiare;
Ma questo basti assai per farvi accorto
Che ’l troppo lamentar sarebbe torto.
lxxxvii
Prendete dolcemente adunque in grado
Il presente dispregio che vi viene,
Chè mal si può d’onor trovare il guado
Senza spesso trovar chi il piè ritiene.
L’assenzio in terra è molto, il mèle è rado,
Corto sempre il gioir, lunghe le pene;
Ma i buon contro a fortuna innalzin l’alma
Come contro all’incarco invitta palma.
lxxxviii
Così disse Viviana, ed ei risponde:
Non m’affligge il pensier, madre pietosa,
Percossa o forza delle mortali onde
Nè tempesta che surga atra e noiosa:
Ma il veder sol che quella parte, d’onde
Sperava ogni mio ben, mi venga odïosa,
E quel ch’io servi’ già con tanto zelo
Mi spinga al centro, com’io l’alzo al cielo.
lxxxix
Ma tal prenderò volo, e sì lontano,
Che ’l nome ingrato non m’offenda il core,
Ove in Dio porto speme, e ’n questa mano,
Di poterne ritrar più largo onore,
Come trasposta in un terreno strano
Suol la pianta portar frutto migliore:
E perchè non si può destare in noi
L’indomita virtù de i primi eroi?
xc
Il cangiar di paese mi porria,
Come di molti s’è parlato e scritto,
Cangiar in buona la fortuna ria
E ’n lieto ritornar lo stato afflitto:
Non è oggi per me chiusa la via
De’ neri Garamanti e dell’Egitto
O de’ luoghi più là verso l’aurora
Più ch’a Bacco ed Alcide fosse allora.
xci
Mentre così parlava, gli risponde
Sorridendo la donna in tai parole:
Non della Luna i Monti o del Nil l’onde
O qual di Giove la tebana prole,
Là ’ve più ch’a noi qui tardo s’asconde
O più tosto e più bel si mostra il sole
O dove scalda più, convien cercare,
Volendovi co i merti eterno fare:
xcii
Perchè in questo paese e ’n questo loco,
In queste nostre parti ime e palustri
V’è dato ad esser tal, che parran gioco
Quante altre antiche furo opere illustri;
Stancheransi le penne, e verrà fioco
Per voi più d’un poeta, e gli anni e i lustri
E i secoli infiniti non potranno
Fare al gran nome vostro ingiuria o danno;
xciii
E crediatemi certo, ch’io non dico
Cosa che non mi sia ben manifesta:
Però che intera di Merlino antico
La divina scïenza oggi mi resta;
Che nel tempo ch’ei fu mio caro amico
Udì cortese la preghiera onesta
Ch’io gli fei di chiarirmi l’arti oscure
Di preveder le cose a noi future.
xciv
E pria che ciò avenisse, gli avea detto
Ch’io d’aver un figliuol bramava molto,
Ma che sopra il mortal fosse perfetto,
Di virtù colmo e d’ogni vizio sciolto,
Che si chiamasse il cavaliero eletto
Ove il Cielo ogni bene avesse accolto.
Femmi risposta: - Donna, a non mentire,
Di voi non debbe prole rïuscire.
xcv
Ma vi apprenderò il modo onde potrete
Averne un che fia tal, ch’appunto nacque
Il passato anno: a cui le stelle liete
Prometton quanto onore in uom mai giacque;
In tal modo, in tal tempo il troverete -;
E mi fè ben vedere il luogo e l’acque
Là ’v’io v’accolsi, e l’incantato lago
In cui soletta d’abitar m’appago.
xcvi
Nè mancò tutto quel di farmi poi,
Che v’è avvenuto e vi avverrebbe, chiaro,
Affermando: - Ei sarà mai sempre a voi
Come del ventre stesso amato e caro,
E de’ pregi divin, de i merti suoi
Fia ’l vostro cor più che di vita avaro -.
Così dicea sovente, e non trovai
Che d’un momento sol fallisse mai.
xcvii
Desïando esso poi di sposa averme,
Non mi piacque accordarmi alle sue voglie,
Che poi ch’uscir di me non devea germe
Volli sola restar fra le mie soglie;
Ma perchè di me semplice ed inerme
Non riportasse al fin vittoria e spoglie
Uom ch’era armato d’immortal sapere,
Mi convenne al mio stato provvedere;
xcviii
E ’n questo convenente gli promessi
Ch’ei mi facesse un loco fabbricare
Il qual serrato eternemente stessi,
Nè forza o ingegno vi potesse oprare:
Ma che ’l modo d’aprirlo io sola avessi,
Lontana o presso ch’io ’l bramassi fare,
Perch’aveva un nemico ch’io temea
Che non mi conducesse a morte rea;
xcix
E ch’ancor mi mostrasse il modo e l’arte
D’antiveder, qual ei, ciò ch’esser deve:
Che s’io mi ritrovassi in qualche parte
Senza l’aita sua, mi fosse leve
Per la virtù di sue celesti carte
Esaminar mia sorte o lieta o greve,
Schivando accorta ogni mortale inganno
Che mi potesse far vergogna o danno.
c
Amore oprando in lui sì come suole
Mai sempre usare in ogni suo seguace,
Fè che Merlino, il qual sapea del sole
Tutti i segreti e d’ogni errante face,
Non conobbe esser false le parole:
Ma stimando il mio dir certo e verace
Fabbricò il loco, e diemmi la dottrina
Per cui si scorge la virtù divina;
ci
Onde agevol mi fu quasi in quell’ora,
Mostrando far di quello albergo pruova,
Di serrarl’ ivi, dove ancor dimora,
E ’n cui l’alto saver nulla gli giova:
E di trarl’ indi mi ritiene ancora
L’antica ingiuria e la temenza nuova,
Chè ’l Ciel mi mostra che s’ei fosse sciolto
Mi saria con la vita ogni ben tolto.
cii
Vedeva ancor che ’l gran valor di voi
Devea nel tempo mortalmente odïare,
Non sperand’ei giamai ch’alcun de’ suoi
Potesse a pari altezza sormontare:
Nè pensava io possenti ambedue noi
D’alla sua gran dottrina contrastare,
Chè la spada non val contr’a quell’arte,
Ed io so molto men che le sue carte.
ciii
Così merta perdon la rotta fede
E ’l mio duro voler che sembra ingrato:
Chè l’altrui mal, che per suo ben procede,
Sovente ha tra’ miglior perdon trovato.
Or per tornare a voi, d’onore erede
V’ha fatto il Ciel, che sempre sia lodato:
E ciò fia in questo loco, in questa terra,
In questo tempo istesso, in questa guerra.
civ
Pregovi or dunque, o mio famoso figlio,
Che senza altro pensar qui vi restiate,
E che nel mio materno util consiglio
(qual conviensi a ragion) speranza aggiate:
Che vedrete in tal pena e ’n tal periglio
Le genti altere che vi furo ingrate,
E ’n così sanguinoso e largo strazio,
Che vi farà pietoso, non che sazio.
cv
Nel fin delle parole, il gran guerriero
Tutto cangiato in cor rispose tale:
Perch’ogni vostro detto amico e vero
Sempre ho trovato, e con gli effetti eguale,
Vi credo interamente: e s’all’impero
D’Arturo annunzia il Ciel futuro male,
Voglio obbedirvi, e qui restar da parte
Senza ferro vestir, nè seguir Marte;
cvi
S’io no ’l vedessi al fine in tale stato
Che l’onore e ’l dever forza mi fesse,
Ch’al non fallire in ciò pur m’han legato
Di chiara nobiltà le leggi istesse.
Ma da necessitade in più d’un lato
Lui vedrò prima e le sue genti oppresse:
Non per conforto mio, chè nobil petto
Non può dell’altrui mal prender diletto;
cvii
Ma perchè tutto il mondo ed egli impari
A non esser ingrato a chi ben serve,
A non mai dispregiar gli amici rari,
L’empie lingue onorando e le proterve;
Nè sotto un giogo fare andar di pari
Leoni arditi e timidette cerve,
Ma saggiamente e con ragion disporre,
Poi secondo il dever levare e porre.
cviii
E perchè suol la gregge e ’l vile armento
Dormir con guardia di fossato o muro,
E ’l feroce leon senza spavento
Aperto in mezzo i boschi star sicuro,
Non vo’ che cinga il nostro alloggiamento
Cosa che renda il passo angusto o duro:
Meco la guerra avrà, non con la soglia,
Che di quindi scacciarmi avesse voglia.
cix
Così detto, spianar gli argini e i valli
E riempier i fossi feo d’intorno,
Quanto lo spazio tiene ove i cavalli
E gli altri suoi guerrier facean soggiorno:
Comandando a i compagni ed a i vassalli
Che non vestisser arme notte o giorno,
Se contro a lor non si vedea l’assalto;
Ed a suoi fè ’l medesmo Galealto.
cx
Così tutto ordinato, già Viviana,
D’averlo ritenuto assai contenta
Da lui disparve, e gìo poco lontana,
Sotto il suo lago, a’ primi studi intenta;
Ed ei con Galealto, dell’umana
Miseria ragionando, si lamenta,
Poi conchiudon fra lor che l’uom lodato
Dee queto stare a quanto il Ciel gli ha dato.
cxi
Ma perchè già inchinava all’occidente
Febo, menendo il giorno in altra parte,
Prendè ristoro omai tutta la gente
Tra le semplici mense a terra sparte;
Sotto l’albergo poi, che rozzamente
Di frondi è fatto con salvatic’arte,
Si ripon lassa sopra giunchi e paglia,
In fin che ’l nuovo dì nell’alba saglia.