Colombi e sparvieri/Parte II/I

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Parte II - Capitolo I

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Parte I - VIII Parte II - II
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I.


Le nozze di Columba erano fissato per la Pentecoste, ma fin dal mese di marzo tutto era pronto.

Molti criticavano questo matrimonio, anzitutto per invidia, perchè lo sposo era un uomo onesto e benestante, eppoi perchè veramente c’erano parecchie cose intorno a cui ridire: lo sposo era vedovo, era straniero, era basso di statura, aveva vent’anni di più di Columba. Quest’ultima poi prima di sposarsi avrebbe dovuto lasciar morire il disgraziato Jorgeddu....

Tutto il santo giorno Banna seduta al sole davanti alla sua porta mentre cuciva le brache di grossa tela per suo marito non parlava che del matrimonio di sua sorella, della casa, del bestiame, dei servi, delle «tancas», dell’orto e del chiuso dello sposo: se qualche donnicciuola maligna accennava a Giorgio Nieddu, ella sospirava tirandosi il lembo del fazzoletto sul viso e non rispondeva. Columba cuciva anche lei, seduta accanto alla porta del cortile o sulla rozza veranda, ma teneva la testa curva immobile corno se lavorasse dormendo. [p. 112 modifica]Un giorno verso il tramonto sentì picchiare alla porta di strada e s’affacciò alla finestra per vedere chi fosse. Una donna alta, pallida, dal profilo aquilino e i grandi occhi neri sormontati da due sopracciglia così folte e mobili che sembravano baffi, guardava in su reggendosi con le mani una «corbula»1) sul capo.

— Zia Martina Appeddu, siete voi? — disse Columba dalla finestra, — adesso vengo.

Scese ed aprì la porta che dopo il fatto ella teneva sempre chiusa a chiave; e la donna, medichessa e cucitrice di costumi, si curvò per entrare col suo canestro, facendosi il segno della croce per non cadere sulla soglia ed evitare così un malaugurio alla sposa.

— Columba, anima mia, tua sorella non c’è?

Vorrei che fosse presente anche lei, per la consegna della roba.

Columba rispose con durezza:

— La roba è mia e non occorre ci sia tutto il mondo per riceverla. Venite di sopra, in camera mia.

Risalì al piano superiore e la donna la seguì. La camera dava sulla veranda ed era vasta, bassa, con un gran letto alto e duro circondato in fondo da un volante di stoffa a quadretti bianchi e rossi; dodici sedie antiche, di noce e di paglia, annerite dal tempo, s’allineavano simmetricamente lungo le pareti tinte con la calce, tre da una parte e tre dall’altra dell’alto cassettone scuro, tre da una parte e tre dall’altra di una lunga cassa nera scolpita.

Un ordine quasi tetro regnava nella vasta camera ch’era stata della madre di Columba e dove ora pareva non abitasse più nessuno.

Zia Martina depose la «corbula» sulla cassa [p. 113 modifica]e levò e scosse la salvietta che la copriva: apparve un mucchio di stoffe nere, verdi e gialle....

— Ecco; e che tu possa indossarla con allegria fino a cento anni, — disse con accento commosso sollevando sulle sue mani scarne la gonna di sposa di Columba, di orbace nero orlata di panno verde; dopo la gonna prese il giubbone di panno giallo soffiandovi su per togliervi qualche pelo e qualche filo; dopo il giubbone il corsettino di velluto verde e di broccato d’oro.

— Nessuno, colomba mia bianca, nessuno avrebbe potuto farteli così. Guardali; non pare che sian cuciti dalle fate? Guarda queste camicie! Non sembran nuvole? Vedi i punti del giubbone? E i soprapunti? Ne hai visti mai degli uguali! Se tu mi assicuri che ne hai veduto degli eguali io mi chiudo la bocca con la stoppa e non la riapro più. Ma che hai, colomba mia? Sei pallida e bianca: non ti senti bene? O sei scontenta della roba?

Columba guardava il corsettino volgendolo e rivolgendolo alla luce, soffiava lievemente sulla peluria finissima della stoffa e pareva scontenta. Una ruga s’ergeva a tratti fra le sue sopracciglia nere; e quando la donna accennò al suo pallore, ella sollevò alquanto gli occhi un po’ torbidi, ma li ribassò tosto e disse con disprezzo: — È già la quarta volta che mi dite che sto poco bene, zia Marti! E che volete farmi la medicina della strega?

— In certi giorni davvero tu sembri stregata. Ma tu non ti sei mai voluta misurare. Sai bene che se le tue braccia si sono accorciate è segno evidente che la strige è passata sul tuo capo e tu ti consumi sotto il suo influsso malefico....

— Lasciamo andare; io non sono stregata, zia Martì! Fate per altri i vostri incantesimi. [p. 114 modifica]— Bada di non ricorrere un giorno o l’altro a questi incantesimi! Allora vedrai che cosa sono. Tua madre, beata, non la pensava così!

— Sì, mi ricordo: ella veniva da voi. E che avete fatto per lei? Nulla!

— Perchè è andata dal dottore! Sono i dottori che ammazzano la gente coi loro veleni. Sì, sì, lo dico a voce alta, — aggiunse sottovoce, — tutte le medicine hanno il veleno, hanno la testa di morto sopra. Negli antichi tempi la gente si curava con le erbe, coi suffumigi, con 1e acque e le preghiere.

— Eppure morivano, zia Martì!

— Morivano di vecchiaia! Quanti anni aveva Noè? E Giacobbe, ed Elia? Dillo tu, se lo sai. Arrivavano fino ai novecento anni. E dottori non ce n’erano. E certe malattie, inventate da loro, non si conoscevano, o si conoscevano col loro vero nome e si curavano; per esempio, la malattia di quello là.... chi la conosceva?

Con un movimento del capo accennò fuor della veranda verso la casa di Jorgj, e Columba, che continuava ad esaminare i vestiti, sollevò di nuovo gli occhi foschi, ma non rispose.

— Dunque, colomba mia, non sei contenta di questa roba? Non star lì misura e misura. Sai già che ti sta a pennello; sembrerai una immagine dipinta. Parlami adesso di Zuampredu Cannas. Non hai paura di andare ad abitare in un paese straniero?

— Come può esser straniero se là c’è la mia casa?

— E che casa! Ho sentito raccontare che bisogna segnarsi, entrando, tanto è bella. Ma bada che ti cade la camicia, colomba mia d’oro; non lasciar cader nulla: è cattivo augurio. E Remundu Corbu dov’è? Gli dispiacerà lasciarti partire; ma egli è veramente un’aquila e non striderà [p. 115 modifica]certo quando gli porteran via la sua ala; tu piuttosto, Columba mia, tu piangerai.... Cosa ne dici?

Ma invece di rispondere Columba domandò: «— Quanto è il vostro avere? — e aprì il cassettone per prendere i denari.

— Stai per partire, che vuoi pagarmi subito? C’è tempo! — esclamò zia Martina, riprendendo il suo canestro e la salvietta e fingendo di volersene andare.

Allora la fanciulla la prese per il braccio e la ricondusse in cucina.

— No, prima vi darò il caffè. Sedetevi lì, e non movetevi.

Mentre ella preparava il caffè, la donna seduta per terra accanto alla sua corbula, con le gambe incrociate all’araba e le mani composte in grembo sotto la gonna nera che le serviva da mantello, riprese a chiacchierare. Come quasi tutte le donne del paese parlava con accento drammatico esagerando le sue espressioni di meraviglia, di collera, di pietà, mentre sul suo viso jeratico le mobili sopracciglia nere disegnavano ora un cupo sdegno, ora una tenerezza umile e profonda.

Dapprima fu una lunga lauda allo sposo, alle sue ricchezze e alla sua bontà, poi un fiero commento alle critiche dei malevoli, infine un’altra lauda a zio Remundu alla «vecchia aquila» astuta e forte e a Banna e a suo marito.

— Poche donne rassomigliano a Banna tua sorella: buona moglie, buona sorella, non si lascia vincer da nessuno per sveltezza di mani e di lingua. È veramente una donna, quella!

— Ed io che cosa sono, zia Martì? Un uomo? — domandò con ironia Columba, curvandosi davanti alla donna col vassoio in mano; ed ella non aveva finito di parlare che già zia Martina [p. 116 modifica]esprimeva con le sopracciglia sollevate un’ammirazione estatica.

— Tu, Columba mia? Tu non hai bisogno di aprir bocca. Tua madre, nel farti assieme con tua sorella disse: a Banna la lingua, a Columba gli occhi. I tuoi occhi parlano, e basta guardarti per capire chi sei.

Eppure non tutti mi capiscono! — ella disse abbassando le palpebre quasi paurosa che la donna leggesse davvero nei suoi occhi.

Ma zia Martina La fissava sorbendo lentamente il suo caffè.

— Ti voglio raccontare una cosa, giacchè siamo sole, e voglio raccontartela perchè sei di cattivo umore e ti divertirà. Ascoltami. Mia figlia Simona....

— Come sta Simona? — interruppe Columba deponendo il vassoio sopra il forno.

Ma al ricordo della figlia afflitta da un’incurabile malattia di occhi la donna abbassò le palpebre con espressione di rassegnato dolore.

— Non ci vede quasi più; sia fatta la volontà di Dio! Dunque, ieri Simona stava sola a casa quando eccoti chi viene, indovina? No, tu non puoi indovinarlo, colomba mia, perchè tu non ti occupi dei fatti del paese e non sai neppure chi va e chi viene. Dunque devi sapere che questi giorni scorsi è arrivata la sorella del Commissario, per veder il paese e divertirsi. È una ragazza piccola ma ben fatta, che cammina saltellando come una capretta. Ha il vestito stretto come un sacco e un cappello grande come un canestro: buono per il sole d’estate, non dico, ma non per adesso che fa quasi ancora freddo. Bene, s’userà così nelle città, ma i ragazzi qui sono maleducati, non nego, e quando la vedono gridano: oh, oh, s’è messo un canestrone in testa....

— L’ho veduta, — disse Columba per tagliar [p. 117 modifica]corto, aspettando con ansia la storiella promessa dalla donna, sicura che si trattava di Jorgj, — è passata di qui col prete e col fratello.

— Ah, l’hai veduta? Sono forse andati là.... dal malato?

Columba accennò di no.

— Ebbene, ascoltami. Tu sai che il Commissario e sua sorella stanno da Giuseppa Fiore. Questa qui ha già raccontato alla ragazza, che si chiama Mariana, tutti i fatti del paese, e le ha detto che io e Simona cucivamo i tuoi vestiti da sposa. Ora la ragazza pare che voglia farsi fare un costume, per il carnevale, perchè denari da sprecare ne ha.... eppoi suo fratello, che si chiama anche lui Mariano ed è cavaliere, lui, dicevo, bei soldi dal Comune nostro se ne prende.... Basta, dicevo, la persona che venne ieri da mia figlia era giusto questa donna Mariana. Volle vedere il costume, domandò quanto si può spendere per farne uno, e come sono eseguiti i ricami, le cuciture, i soprapunti. Poi domandò a Simona che male è il suo e cominciò a dire: «Queste malattie si curano facilmente, adesso: bisogna andare a Roma!» A Roma, colomba mia! Come se noi avessimo la pecunia che ha lei. Basta, non parliamone. Poi cominciarono a parlare di malattie, perchè sai che i malati parlano sempre degli altri malati, e Simona, che è un’anima santa, disse: «Io sono disgraziata, ma altri son peggio di me». E così di parola in parola vennero a parlare anche di Jorgj Nieddu: allora la ragazza straniera disse: «Anche questa è una malattia che si cura: bisogna andare a Roma!» E va in pace, tu con Roma, dico io! Simona mia figlia cominciò allora a dire: «Impossibile, impossibile! E la ragazza straniera allora disse: «La malattia di quel meschino è una malattia di nervi e null’altro. So tutta la [p. 118 modifica]sua storia, so che una donna ch’egli amava lo ha calunniato e che perciò egli s’è ammalato di crepacuore».

Columba si morsicava le labbra per non parlare, ma sul suo viso diventato livido gli occhi scintillavano rivelando il suo sdegno.

— Se c’ero io a casa avrei detto poche parole alla sorella del Commissario, — riprese zia Martina, deponendo la tazza per terra, — le avrei detto: «Lei si chiama donna Mariana, vero? Ebbene, donna Mariana, lei è venuta in questo paese per divertirsi, e si diverta dunque, ma non ascolti le storie di Giuseppa Fiore, e prima di parlar di Columba Corbu la vada a guardare in faccia come si guarda il cielo per vedere che tempo fa». Ma io non ero in casa, ti dico, colomba mia, e Simona è un’anima buona e non sa parlare. Solo disse: «Tutta questa roba è appunto di Columba Corbu, è il suo costume da sposa». Allora la ragazza straniera esclamò: «E come mai, dopo aver rovinato un uomo che la amava, ella si può sposare così a cuore allegro?»

Columba balzò in piedi gridando:

— Maledetta sia! Perchè non si ficca nei fatti suoi? Io.... io....

Tacque all’improvviso perchè la figura alta e proterva di sua sorella apparve sulla porta. Banna era vestita a festa perchè tornava da fare una visita e teneva le mani entro le spaccature orlate di velluto della gonna, il cui telo di davanti formava come un piccolo grembiale.

— Siete qui, buona lana? — domandò a zia Martina. Sul suo viso scuro i denti forti e bianchi e gli occhi verdognoli scintillavano. — Avete portato la roba?

— L’ho portata.

Columba s’accorse che Banna benchè [p. 119 modifica]sorridente la guardava con inquietudine, forse indovinando che zia Martina le aveva riferito i pettegolezzi del paese.

— Zia Martina mi diceva che Giuseppa Fiore ha criticato i miei vestiti, non adatti per una ragazza che sposa un vedovo, — disse curvandosi per prender la tazza dal pavimento.

Al nome di Giuseppa Fiore Banna fremette come una puledra frustata: i bottoni d’argento con catenelle che pendevano dal suo corsetto tintinnavano come una sonagliera.

— Ohi, Giuseppa Fiore! S’ella pensasse ai suoi malanni farebbe meglio. Lascia ch’io la veda e le risponderò io....

— Anima mia! — gridò allora la donna spaventata. — Tu non le dirai niente: tu non vorrai rovinarmi, tu non vorrai farmi pentire di venir qui come in una chiesa e di parlare con voi come con Cristo! Giuseppa Fiore è vendicativa.

— Alla forca! Che può farci? Ella vive solo con la speranza di farci del male; ma ella non può farci neanche questo! — disse Banna sputando sulla cenere.

— Voi siete potenti; sì: ma io? Ella ha in casa il Commissario e può tutto contro i poveretti. Può far del male a me, non a voi. Anima mia, non uccidermi.

— E voi fatele un incantesimo che le leghi la lingua e i piedi!

La donna si alzò, si mise la corbula vuota sulla testa e si riavvolse nella gonna.

— Banna, anima mia, se potessi far gli incantesimi non avrei le dita bucate e ribucate dall’ago.

— Andiamo a vedere i vestiti; so che persino la sorella del Commissario ha voluto vederli, tanto son fatti bene, — disse Banna avviandosi con la sua andatura fiera. [p. 120 modifica]La donna, placata, la seguì.

Columba rimase nella cucina, e pareva calma, indifferente, tanto indifferente che neppure i suoi vestiti da sposa la interessavano più: ma all’improvviso, mentre rimetteva a posto il vassoio, si fermò accanto alla porta del cortile come tendendo l’orecchio a una voce lontana, e piano piano il suo viso si curvò sino a sfiorarle il petto, si allungò, parve quello di una vecchia di sessant’anni.

Una specie di allucinazione che da qualche tempo la tormentava le fece vedere Jorgj come glielo descrivevano le sue vicine di casa, steso immobile sul letto, ridotto come uno scheletro. Il cuore le batteva violentemente; gli occhi le si velarono. Fu un attimo; sollevò la testa e si rimise a sfaccendare.

Ma l’idea fissa che da mesi e mesi la divorava non l’abbandonò.

«O egli ha rubato davvero, o ha finto di sdegnarsi perchè non mi voleva più e cercava una scusa per abbandonarmi. Il nonno e Banna avevano ragione, — pensava. — Egli non mi voleva bene; no, no; se egli mi avesse voluto bene si sarebbe comportato in altro modo.... mentre io.... io lo amavo al punto che gli avrei perdonato anche se avesse rubato davvero.... Ma egli non poteva soffrirmi.... Io ho aspettato che egli tornasse, dopo l’ultima volta che ci siamo veduti qui, davanti a questo focolare; ed egli invece ha aperto una nuova porta, nella sua stamberga, per non passar più neppure davanti alla mia casa. Che egli dunque se ne stia con la sua miseria e la sua mala sorte, con la sua superbia e la sua cattiveria. Io non voglio più pensare a lui: egli per me è come morto. Ben gli sta, ben gli sta! Lo ha voluto lui. Pensavo a Zuampredu Cannas, io? È stato lui il primo a dirmi che [p. 121 modifica]Zuampredu Cannas pensava a me: e mi suggerì lui di prendermelo.... Ebbene, sì, me lo prendo, e tu muori di rabbia; l’hai voluto tu! Da te io non ho avuto che dispiaceri e umiliazioni. Fin dai primi tempi, quando venivi qui alla notte, io tremavo di paura, e tu ci prendevi gusto!... Poi continuò sempre a farmi dispetti, a contraddire il nonno, a parlar male di Banna, a lasciarmi capire che ella era stata innamorata di lui e che lo perseguitava perchè l’amore s’era cambiato in odio.... Poi.... poi tutto il resto... Sì, sì, egli non mi scriveva mai, quasi che io non sappia leggere, e si rideva delle mie lettere. Egli si rideva di me; egli s’è comportato come s’io fossi una sua nemica. Nemica mi ha voluto e nemica mi tenga.... S’egli è malato la colpa è sua, non mia. Che cosa viene a raccontare quell’altra straniera sfaccendata? Non aveva che fare in casa sua, quella lì, per venirsene qui fra i dirupi a cercare chi non la cerca? Se mi capita sotto le unghie le cavo gli occhi; io non permetto a nessuno di giudicarmi. A nessuno, hai capito Columba Corbu? Neanche tu ti devi giudicale, perchè quello che hai fatto è fatto tutto bene.... »

Il ritorno in cucina delle due donne ruppe il filo dei suoi pensieri. Banna teneva sempre le mani entro le spaccature della gonna e sorrideva, con gli occhi seri e quasi cupi.

— Sorella mia, puoi esser contenta: i tuoi vestiti sembran dipinti.... Li ho messi nella cassa, poichè roba come quella non si lascia buttata qua e là come stracci.

— Io non l’avevo buttata: e d’altronde, sciupata quella potrò farmene ancora. Zuampredu Cannas può darmi denari quanti ne voglio.

Il suo accento era triste e aggressivo: Banna fu per risponderle sul medesimo tono, ma la [p. 122 modifica]presenza di zia Martina e altre ragioni la frenarono. Sospirò anzi, dicendo:

— È ricco sì, beata te; e buono anche!

— E buono anche, — ripetè Columba irritata.

Banna capiva bene che cosa significava quell’accento, e il dubbio che la cucitrice avesse con qualche notizia o con qualche insinuazione messo il disordine nelle idee della sorella si fece certezza.

Ma appunto per questo volle tenersi buona la donna; l’attirò quindi a casa sua con la scusa di farle vedere un corsetto, ma in realtà per impedirle di star oltre con Columba.

Rimasta di nuovo sola questa si rimise a cucire accanto alla porta; ma di momento in momento la sua agitazione cresceva e con l’agitazione la meraviglia di non aver protestato contro zia Martina, la quale probabilmente le aveva riferito i giudizi della straniera per farle dispetto.

Ma forse la fattucchiera è ancora là, da Banna, e continua nelle sue chiacchiere false e maligne. Vinta da un impeto di rabbia Columba butta per terra il drappo che ricama, rovescia il panierino del cucito e balza verso la porta. I ditali e i rocchetti rotolano sul pavimento come fuggendo impauriti dall’aspetto di lei. Ella geme e parole d’ira le escono dalla bocca contratta.

— La straniera malvenuta.... la straniera sfaccendata.... che le importa di me?... E di lei che sappiamo? Sarà lei che avrà ucciso qualcuno.... E la fattucchiera.... e Banna... quella aguzzina.... Adesso, adesso vi dirò....

Aprì la porta, ma non uscì. Margherita la serva del dottore s’avanzava rapida verso di lei e dopo essersi fermata di botto ansando [p. 123 modifica]lievemente, guardò se qualcuno l’ascoltava, poi domandò sottovoce:

— È qui, zia Martina? M’han detto ch’è venuta a portar le vesti. Se c’è chiamatela subito. Presto!... E se è da Banna andiamo là. Andiamo, su!...

Columba la guardò, sorridendo nonostante il suo turbamento.

— Perchè la vuoi? È venuto male al tuo padrone?

— Zitta, che non ti sentano!

— Non c’ò anima viva: le donne sono andate tutte a raccogliere erbe mangerecce. Vivere bisogna, — rispose Columba, che non aveva molta stima delle sue vicine di casa.

Ma in quel momento il mendicante uscì dal suo antro che sembrava una «domo de jana»2) e sedette accanto alla sua porticina bassa circondata di pietre. Il suo viso ispido, i capelli, gli stracci che lo coprivano pur lasciando qua e là vedere le sue membra nerastre, avevano un colore solo come egli si fosso tuffato intero in un bagno di fango: un sacco fermato con una cordicella gli pendeva sulle spalle, e la punta della sua lunga berretta era gonfia, colma di roba. Ogni tanto egli si faceva il segno della croce con una delle medaglie nere che gli pendevano sul petto, e pareva non badasse affatto alle due ragazze; tuttavia la serva non parlò più, e solo con cenni del capo continuò a pregar Columba di accompagnarla in casa di Banna.

Columba chiuse a chiave la porta e la precedette su per la scaletta di Banna, umida per l’acqua che sgocciolava da una tinozza deposta su una panchetta nel pianerottolo. La serva prese la scodella di sughero dal lungo manico di [p. 124 modifica]legno che serviva per bere e la vuotò avidamente. Bevuto che ebbe si rinfrancò.

— Zia Martina mia, — disse entrando nella cucina attigua, ove le due donne chiacchieravano misteriosamente, — bisogna che veniate subito con me per fare «l’acqua dello spavento» ad una persona....

— Al tuo padrone? — chiesero le donne ridendo.

Poi la cucitrice, per darsi importanza davanti alle sorelle Corbu, si alzò e prese Margherita per le braccia:

— Sei tu che ti sei spaventata; ti si vede dal viso. Che è stato?

La ragazza protestava, asciugandosi la bocca umida col grembiale.

— No, vi giuro sull’anima mia, non sono io. Mi hanno mandato.... è una mia amica. Su, andiamo....

— Sei tu, invece. Tu tremi. Siediti; posso preparare qui l’acqua: più presto la bevi, meglio è.... Datemi un bicchiere di cristallo e un po’ d’acqua di fonte... Io cercherò i sette carboni....

Mentre Columba riempiva il bicchiere, ella si curvò sul focolare e frugando con le dita fra la cenere cercò sette piccole brage spente; intanto Banna si avanzò verso Margherita dicendole con dolcezza:

— Cuoricino mio, che cosa ti hanno fatto? È stato quel matto del tuo padrone?

Allora la serva ancora appoggiata allo stipite dell’uscio nascose il viso sul braccio e scoppiò in pianto. Columba col bicchiere in mano si fermò a guardarla dimenticando le sue pene davanti a quel dolore più violento del suo.

— Che ti ha fatto, dimmi, — insisteva Banna, — anima mia, sei come con tre sorelle.... Parla, parla.... [p. 125 modifica]Zia Martina si sollevò, con lo sette piccole brage spente nel cavo della mano.

— Ti ha chiuso in camera sua.

— No, no.... che dite? Egli è un uomo onesto! — gridò allora Margherita, sollevando il viso lagrimoso. — Egli mi rispetta come una figlia di sette anni....

— Che hai avuto, allora? Bisogna bene che tu me lo dica, per fare lo scongiuro; e se no va e impiccati....

Intanto zia Martina gettava ad una ad una le brage spente entro il bicchiere guardandolo attraverso la luce: l’acqua diventava torbida e grigia e i piccoli carboni risalivano a galla: lo spavento dunque doveva essere stato forte.

— Ebbene, ecco, — singhiozzò Margherita. — egli mi ha fatto vedere uno spirito....

Columba sorrise, Banna rise, la cucitrice si fece ironicamente il segno della croce; ma tutte e tre nonostante la loro apparente incredulità sentirono un brivido. La serva riprese:

— Voi non credete, eppure è vero, come è vero che siamo qui. Egli stava al buio nel suo studio, oggi.... poco fa.... Mi chiama; io entro all’improvviso, sorelle mie care, e vedo lui tutto nero davanti ad una lanterna rossa, e in fondo alla stanza un fantasma bianco.... Non so altro, sorelle mie.... son corsa via urlando, senza sangue nelle vene.... sono corsa da voi, zia Martina mia....

— Ma perchè ti ha fatto questo?

— Non lo so.... non lo so.... Forse perchè non vuole che io creda negli spiriti, nè in Dio nè in Cristo. Egli diceva ieri che gli spiriti non esistono e che se lui vuole può farmi credere d’aver veduto uno spirito mentre non è vero....

— E allora sarà così, mammelucca! — disse zia Martina, guardando sempre il bicchiere [p. 126 modifica]entro cui la cenere si moveva come una nuvoletta. — Perchè ti sei spaventata?

— No, no, vi giuro, lo spirito l’ho veduto. Era lungo, bianco, si moveva: anime mie, cosa volete che fosse?

Ella tremava ancora; non c’era altro rimedio che farle bere l’acqua, e zia Martina deposto il bicchiere per terra vi girò attorno sette volte mormorando le parole di scongiuro:

Unu - unu est Deus,
Duo, - duos su chelu e sa terra,
Tres - sa Trinidade,
Battor - sos battor Vangelos,3)

e così fino a dodici, i dodici apostoli, in nome dei quali ella impose al demonio di allontanarsi e di non spaventare oltre la giovane serva: poi depose il bicchiere sul palmo della mano e così lo porse a Margherita.

La ragazza bevette, soffiando sulla miscela per cacciare in fondo i carboni; tossì perchè la cenere le raschiava la gola, sputò e si sentì più tranquilla.

— E adesso ascoltami, — disse zia Martina riprendendo la sua corbula, — io ti ho fatto l’acqua e benefica ti sia; ma il tuo male non è questo, Margherita mia; il tuo male è qui, in testa; il tuo padrone ti ha attaccato un po’ della sua follia. Egli farà di te quello che il nibbio fa della colomba: ti divorerà. Sentimi, vattene da quella casa! Addio, Banna, addio Columba, statevi bene.

Se ne andò soddisfatta, ma mentre Margherita piangeva di nuovo e Banna la confortava, [p. 127 modifica]columba scese di corsa la scaletta e raggiunse la cucitrice.

— Zia Martina, se vedete la straniera ditele da parte mia che non s’immischi più nei fatti miei!

Ma zia Martina pensava ad altro: si fermò un momento sulla porta e disse aggrottando le sopracciglia:

— Testimonie mi siete voi, sorelle Corbu, che Margherita è venuta lei a cercarmi; testimonie mi siete voi.

Gettò un soldo al mendicante e s’allontanò, e mentre nel silenzio della straduccia risuonava la voce monotona dell’uomo che benediva Sant’Elia e Sant’Anna per la limosina avuta, Columba rientrò a casa sua chiudendo a chiave la porta.

L’incidente toccato alla serva del dottore la interessava fino a un certo punto. Ella aveva da pensare ai casi propri, e solo quando poteva sfuggire ogni compagnia e immergersi tutta nei suoi pensieri provava la calma triste di chi non spera più nulla. Ma quel giorno anche questa le sfuggiva. Gira e rigira per la grande casa silenziosa, tornò nella sua camera e sollevò il coperchio della cassa ove Banna aveva deposto i vestiti. Il sole al declino penetrando per l’uscio aperto sulla veranda illuminava la cassa: fra il nero dell’orbace i lembi di scarlatto parevano macchie di sangue e il panno giallo aveva un luccichìo d’oro; una rosellina violacea spiccava su un fondo di velluto verde come sull’erba di un prato. E di nuovo la fidanzata cadde in una specie di doloroso incantesimo: le parve di vedere il malato, ricordò che egli un tempo le diceva:

— Finchè staremo in paese indosserai il costume, per non far dispiacere al nonno; ma se andremo, come spero, a vivere in una città ti [p. 128 modifica]vestirai da signora, col cappello e col velo.... E sarai così graziosa, bruna e sottile come sei... bruna e flessuosa come la fidanzata del «Cantico dei cantici»....

Oh, egli ci teneva, a queste cose. Diceva sempre:

— Il velo rende bello le donne.

Ed ella aveva sognato i vestiti ed i veli che piacevano a lui; poche ore prima nel veder la straniera col suo abito stretto e il velo svolazzante, il ricordo di quei sogni le aveva destato umiliazione e vergogna. Sì, anche vergogna. «Ben ti sta, pazza, — diceva a sè stessa, — tu hai sognato di lasciare il tuo costume, di tradire la tua razza, di far dispiacere al tuo nonno; e tutto questo per un uomo che ti disprezzava. Ben ti sta, ben ti sta! E adesso soffri, tieniti in testa, giorno e notte, il ricordo dell’umiliazione che egli ti ha inflitto abbandonandoti....»

A un tratto lasciò la cassa aperta e si affacciò alla veranda, appoggiando forte i gomiti al legno della balaustrata e ficcandosi le dita fra i capelli sotto il fazzoletto calato sulla fronte.

— È un chiodo.... un chiodo... — mormorò.

Sì, le pareva di aver un chiodo fissato in mozzo alla testa; quel pensiero.... sempre quel pensiero....

Il sole illuminava ancora i tetti delle casupole, ma con un bagliore roseo morente; piccole nuvole gialle e rosse come fiori salivano dietro la chiesa e pareva venissero dalla valle portando fino al villaggio l’odore dei narcisi e delle roso canine. «Egli amava la primavera. Come era allegro, l’anno passato, di quei tempi, quando era tornato in paese per la Pasqua! E adesso? Adesso è là, nella sua tomba di vivente, e non si può muovere: tutta la sua superbia è caduta, come la foglia irta e spinosa del fico d’India quando [p. 129 modifica]l’autunno la fa marcire. Peggio per lui: peggio per lui! La gente dice che i vizi lo hanno corroso», — pensa Columba, tirandosi ancor più il fazzoletto sugli occhi, quasi per non vedere il cortiletto, il ballatoio, le nuvole del tramonto. I vizi? No, ella sa che questo non è vero. Jorgj era un ragazzo onesto; mille volte avrebbe potuto abusare di lei e non lo ha fatto. Era quasi freddo, quando si trovavano soli; le parlava di cose che ella capiva vagamente, come una bambina a cui si spiegano cose da grandi; le raccontava storie d’amore, le recitava poesie di cui alcuni versi risuonavano entro l’anima sua come squilli di campane e gridi di falco, mentre il resto le sembrava il mormorio dolce ma confuso del torrente.

Sì, egli era quasi freddo, quasi timido come l’altro, il vedovo, che ancora non aveva osato baciarla.... Ma il vedovo era timido perchè aveva paura di lei, che non lo amava. Mentre Jorgj.... Jorgj ella lo aveva amato pazzamente, e un uomo non è mai timido con una donna che lo ama....

— Ma era lui che non mi amava; ecco perchè era freddo.... Oh!

Si rialzò, si scosse, chiuse le imposte, chiuse la cassa; le sue labbra ripresero quella linea sdegnosa e crudele che faceva paura al fidanzato vedovo. Il chiodo però continuava a tormentarla: era come un pernio intorno al quale si aggiravano tutti i suoi pensieri.

E anche lei riprese ad aggirarsi per le camere silenziose. Un velo di polvere copriva le casse e i vecchi mobili anneriti dal tempo e dal fumo che dalla cucina saliva infiltrandosi in tutte le stanze. Quella ove dormiva il nonno era ingombra di fucili, di «leppas»4), di bisacce e aveva [p. 130 modifica]un odore di ovile; dal soffitto pendevano grappoli di uva gialla e di pere rossiccie appassite.

Columba si avvicinò alla parete di fondo e la spinse; un usciolino s’aprì, stridendo lievemente come una corda di violino, e lasciò vedere un andito buio quasi tutto occupato da due casse nere. Da una di queste era sparita la cassettina coi denari. Columba l’aprì e a tastoni vi frugò dentro, come cercandovi ancora il tesoro. Nulla.

Aprì l’altra. Nulla. Si sollevò per guardare sulla sporgenza del muro, infine salì su una scaletta a mano in fondo all’andito, si trovò in una specie di piccolo soppalco che per una botola comunicava con le soffitte bassissime della casa. Ella sollevò la botola e un po’ di luce giallognola rischiarò il luogo misterioso. In un angolo stava una stuoia di giunco, ove forse qualche bandito aveva dormito i suoi sonni agitati; c’erano ferramenta arrugginite, una brocca, un archibugio antico e dentro una nicchia una piccola statua nera di San Francesco e un lumino spento.

Columba sollevò la stuoia, guardò fra i mucchi di oggetti disusati che ingombravano il luogo, poi tirò su la scaletta, l’appoggiò alla botola e fu nella soffitta che comunicava coi tetti.

Così in caso di pericolo e di sorpresa dovevano nascondersi e fuggire i suoi padri divorati dall’odio e dalla sete di vendetta, al tempo delle inimicizie selvaggie sì, ma anche eroiche e grandiose. Adesso i tempi erano cambiati; la gente s’odiava ancora ma giocava d’astuzia e la lingua era la sua arma, la calunnia il suo veleno.

Columba, che un tempo aveva rivelato al suo innamorato tutti i segreti della casa, adesso si aggirava nelle camere, nei nascondigli e nelle soffitte cercando qualche cosa che non riusciva a trovare. Ogni volta che il nonno si assentava [p. 131 modifica]ella cercava, cercava così come un topo affamato, con la speranza di ritrovare in qualche posto il tesoro sparito; sapeva che non lo avrebbe trovato, eppure si ostinava nella ricerca, spinta da un’idea fissa che rasentava la monomania. Usciva dalle sue ricerche piena di polvere, di ragnatele e di ricordi. Ma le sembrava che quei ricordi fossero lontani, che si riferissero alla sua fanciullezza; adesso ella si sentiva vecchia decrepita.

Intanto il sole era tramontato; una striscia cremisi solcava il cielo verdognolo, sopra l’altipiano già quasi nero, e la luna nuova seguita da una stella brillante cadeva come un anello d’argento da cui si fosse staccata la perla.

S’udivano le donnicciuole ritornate dai campi coi loro tovagliuoli colmi di finocchiella e di ramolacci chiacchierare nella strada: qualcuna aveva già acceso il fuoco e il fumo saliva dai tetti rugginosi; altre avevano portato in regalo a Banna una parte della loro raccolta, ricevendo in cambio l’olio per il condimento. Da Columba non osavano andare perchè ella le accoglieva male.

Anche lei accese il fuoco e andò a prendere il pane nella dispensa a pian terreno. Un finestrino munito d’inferriata dava luce alla stanza vasta e nera; sacchi di frumento e d’orzo, cestini di fagiuoli e di pomi di terra, vasi d’olio, centinaia di pezze di formaggio nerastre e grigie la ingombravano: dal soffitto pendevano grappoli di formaggelle giallognole e vesciche di strutto bianche come palle di neve. Entro la tinozza della salamoia galleggiavano nell’acqua che pareva coperta di squame di pesce alcune forme di cacio fresco; altro bianche e dure come il marmo stavano su un tavolo strette fra due ceppi. Nonostante le sue preoccupazioni, [p. 132 modifica]Columba, che s’incaricava di manipolare il formaggio principale rendita della famiglia, appena entrò nella dispensa guardò nella tinozza, accomodò uno dei ceppi, fece un giro anche nei camerini attigui per assicurarsi che tutto era in ordine. La luce moriva nel vano del finestrino e nella penombra della lunghissima stanza che pareva la stiva d’un bastimento gli oggetti prendevano aspetti fantastici; qualche paiuolo di rame rosseggiava fra le olle nere dell’olio, un sacco di farina d’orzo sorgeva bianco, in mezzo a tutto quel nero, come un fantasma panciuto. Columba — che per paura di attaccar fuoco girava alla sera senza lume per tutta la casa trovando a tastoni ogni oggetto — prese dal canestro il pane rotondo sottile, e all’improvviso ricordò la storia di Margherita. Ella non credeva agli spiriti e non aveva paura dei morti nè dei vivi: eppure quella sera provava una certa inquietudine: i paiuoli rossi, il sacco bianco, le olle nere, il luccichio metallico della salamoia, tutte le pareva alquanto strano. E il suo cuore ogni tanto batteva forte senza ragione.

Uscì in fretta dalla dispensa, e rientrata in cucina sentì che le donnicciuole nella strada chiacchieravano strillando più del solito.

— Mi possiate veder cieca se non è vero quello che dico io. L’ho veduto con questi occhi: è già tornato.

— Ma se i trent’anni scadono il giorno di San Francesco? Egli tornerà in paese proprio quel giorno, e i parenti e gli amici gli andranno incontro come in processione.

— Egli è già tornato, vi dico; vuol dire che se i trent’anni precisi non sono passati, per qualche settimana la giustizia non lo molesterà.

Columba capì che parlavano di ziu Innassiu Arras e si affacciò alla porta per ascoltar [p. 133 modifica]meglio. in quel momento il servetta di Jorgj uscì saltellando dal cortile e prese parte alla discussione delle donne.

— L’ho veduto anch’io, sì! Stava seduto accanto al fuoco, col cappuccio in testa e la «tasca» sulle spalle.

— Segno che doveva ripartire. Ebbene, Mariazoseppa Conzu, vuoi scommettere nove reali che fino al giorno di San Francesco egli non rientrerà definitivamente a casa sua?

— Anch’io penso così, — disse il servetto; e avvicinandosi a Columba le domandò sottovoce: — Che cosa volete?

— Chi ti ha chiamato? Vattene, — ella disse con voce irata.

Ma egli la guardava sollevando il viso verso di lei e i suoi occhioni scintillavano nella penombra del crepuscolo come due brage fra la cenere.

— Mi pareva che mi aveste chiamato. E tornato vostro nonno?

— Che t’importa?

— Vado a comprare una candela per il mio padrone, — egli proseguì imperturbabile, sapendo per esperienza che Columba avrebbe finito con l’ascoltarlo. — Non ne abbiamo più. La cassa è vuota; non c’è più nulla; ma forse fra giorni avremo molti denari....

Columba non disse nulla: guardava in fondo alla viuzza se vedeva arrivare il nonno e fingeva di dare ascolto alle donne che continuavano a discutere.

— Sì, bisogna che vendiamo la casa....

— A chi? — ella domandò quasi involontariamente.

— Al dottore, zia mia! Egli la vuol comprare per prendersi il gusto di litigare poi con Rosalia Nieddu, la matrigna del mio padrone, che canta [p. 134 modifica]sempre lassù come un gufo: ma se ziu Jorgeddu morrà, essa non canterà più, penso io. E voi che ne pensate?

— Egli non morrà.

— Come, non morrà? Così vorremmo diventar ricchi, zia mia! Egli morrà e presto. Che direste voi se capitasse questo: che egli morisse il giorno che vi sposate?

— Taci, stupido!

— Sarebbe una cosa curiosa, penso io. Ah, sì, egli è bianco come un morto; adesso mangia poco e quasi non dorme più. Prima almeno mangiava; adesso nulla. Dormicchia di giorno, e la notte legge. Quante candele consuma, zia mia! Sì, io glielo dico sempre: voi siete uno sprecone. E poi gli dico: e come facciamo che soldi non ne abbiamo più?... Egli legge nel suo libro e dice che Dio aiuta anche gli uccelli; ma è preoccupato, ve lo dico io! Sì, gli uccelli hanno le ali, e lui non ha neanche le gambe. E non vuol nulla da nessuno, a costo di crepare. Solo dice che domani prenderà i soldi dal dottore, per la casa.

— E finiti quelli? — domandò Columba senza guardarlo.

— Dice che Dio lo farà o guarire o morire. Io penso che morrà....

— Il prete non è più venuto?

— Non è più venuto nessuno. Solo.... ebbene, ve lo dico in confidenza, l’altro giorno è venuto ziu Arras. È entrato dalla parte di là e il mio padrone è stato contento di questa visita. Quello che han detto non lo so perchè mi hanno mandato fuori; e anche se lo sapessi non lo riferirei perchè non sono uno spione, io. Io vedo le cose e taccio, e non posso vedere la gente chiacchierona. E neppure la gente sorniona posso vedere, come quello lì, vedete. (Accennò al mendicante, [p. 135 modifica]che stava seduto sulle pietre davanti alla sua porticina e baciava di tanto in tanto le sue medaglie). Anche quello viene, dalla parte di là, e si mette davanti alla porta perchè zio Jorgj lo veda e lo chiami: finge di non sentire, ma poi si avanza, piano, piano, entra, si mette a sedere e sospira. «Perchè sospirate? gli dico io, che una palla vi sfiori la bisaccia; andatevene, che siete più ricco di noi». Zio Jorgj non vuole, che gli parli così, e sta a guardarselo come un oggetto raro. Bell’oggetto! Quando va via io passo la scopa dov’egli s’è seduto. Bene; sapete cosa e successo? L’altro giorno Dionisi Oro gemeva; il mio padrone lo ha interrogato, e lui finalmente disse che l’esattore deve metter all’asta la sua tana perchè non ha pagato l’imposta: novanta centesimi, e con le spese una lira e nove reali, sì, proprio tanto. Ebbene, e quello stupido del mio padrone non mi ha fatto aprir la cassa per darglieli? Ah, sì, allora gridai, così si fanno volare i denari? E a noi chi ci aiuta poi? Il corvo? E il mio padrone mi diceva: ficcati nei fatti tuoi, Pretu! Ma io cacciai via Dionisi, e lo rincorsi gridando: guai a te se prendi il denaro, ladrone! Egli scappò via spaventato.

Ma Columba non gli dava più retta e guardava in fondo alla strada.

— Ziu Remundu arriva, — annunziò Pretu correndo via rapidamente col suo soldo stretto nel pugno.

Mentre la sua agile figurina spariva sull’alto della viuzza, verso lo sfondo lucido dell’orizzonte, dallo sfondo cinereo della strada campestre saliva la figura nera di ziu Remundu. Era a cavallo, seduto fra due grandi bisaccie colme: un odore di erba e di latte cagliato si spandeva al suo passaggio.


Note

  1. Cesto di asfodelo.
  2. Casa di Jana (piccola fata).
  3. Uno - uno è Dio, — Due - due il cielo e la terra, — Tre - la Trinità, — Quattro, - i quattro Vangeli, ecc.
  4. Grossi coltelli.