Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XIV

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Paradiso
Canto quattordicesimo

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Paradiso - Canto XIII Paradiso - Canto XV
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C A N T O     XIV.

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1 Dal centro al cerchio, e dal cerchio al centro1
     Muovesi l’ acqua in un ritondo vaso,
     Secondo ch’ è percossa fuor e dentro;2
4Ne la mia mente fe subito caso
     Questo ch’ io dico, sì come si tacque
     La gloriosa vita di Tomaso,
7Per la similitudine che nacque
     Del suo parlare e di quel di Beatrice,
     A cui sì cominciar di po’ lui piacque:3
10A costui fa mestieri, e non vel dice4
     Nè co la voce, nè pensando ancora,
     D’un altro vero andare a la radice.
13Diteli se la luce, onde s'infiora
     Vostra sustanzia, rimarrà con voi
     Eternalmente, siccom’ella è ora;
16E se rimane, dite come, poi
     Che serete visibili rifatti,
     Esser potrà ch'a veder non vi noi.5
19Come da più letizia pinti e tratti
     A la fiata quei che vanno a rota,6
     Levan la voce e rallegrano li atti;

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22Cosi all’orazion pronta e devota
     Li santi cerchi mostrar nuova gioia
     Nel torneare e ne la mira nota.7
25Qual si lamenta perchè qui si muoia
     Per viver colassù, non vidde quive
     Lo refrigerio de l’eterna ploia.
28Quell’uno e du’ e tre che sempre vive,
     E regna sempre in tre e due et uno,
     Non circuscritto, e tutto circuscrive,
31Tre volte era cantato da ciascuno
     Di quelli spirti con tal melodia,
     Ch’ad ogni merto saria iusto muno.
34Et io udi’ ne la voce più dia8
     Del minor cerchio una voce modesta,
     Forsi qual fu dell’Angelo a Maria,
37Risponder: Quanto fi’ lunga la festa9
     Di paradiso, tanto il nostro amore
     Sì raggerà dintorno a cotal vesta.10
40La sua chiarezza seguirà l’ardore,11
     L’ardor la visione, e quella tanta,12
     Quant’à di grazia sopra suo valore.
43Come la carne gloriosa e santa
     Fi’ rivestita, la nostra persona
     Più grata fi’ per esser tutta quanta;
46Per che s’ accrescerà ciò che ne dona
     Di gratuito lume il Sommo Bene,
     Lume ch’a lui veder ne condiziona;
49Onde la vision crescer convene,
     Crescer l’ardor che da quella s’accende,
     Crescer lo raggio che da esso vene.

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52Ma siccome carbon che fiamma rende,
     E per vivo candor quella soverchia,
     Sì, che la sua parvensa si difende;
55Così questo fulgor che già ne cerchia,
     Fì vinto in apparenza da la carne,
     Che tutto di’ la terra ricoperchia;
58Nè potrà tanta luce affaticarne:
     Chè li organi del corpo seran forti
     A tutto ciò che potrà dilettarne.
61Tanto mi parver subiti et accorti
     E l’uno e l’altro coro a dicer Amme,
     Che ben mostrar disio dei corpi morti;
64Forsi non pur per lor; ma per le mamme,
     Per li padri, e per li altri che fuor cari,
     Anzi che fusser sempiterne fiamme.
67Et ecco intorno di chiarezza pari
     Nascer un lustro sopra quel che v’era,
     A guisa d’orizonte che rischiari.
70E siccome al salir di prima sera
     Comincian per lo Ciel nove parvenzie,13
     Sicchè la cosa pare e non par vera;14
73Parvemi lì novelle sussistenzie
     Cominciar a veder, e far un giro
     Di fuor da l’altre du’ circunferenzie.
76O vero sfavillar del Santo Spiro,
     Come si fece subito e candente
     Agli occhi miei che vinti nol soffriro!
79Ma Beatrice sì bella e ridente
     Mi si mostrò, che tra quelle vedute
     Si vuol lassar che noi seguie la mente.15

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82Quindi ripreser li occhi miei virtute
     A rilevarsi, e viddimi traslato
     Sol con mia donna in più alta salute.
85Ben m’accors’io che io era più levato,
     Per l’affocato riso de la stella,
     Che mi parea più roggio, che l’usato.
88Con tutto ’l quore e con quella favella,
     Ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto,16
     Qual conveniasi a la grazia novella.
91E non era anco del mio petto esausto
     L’ardor del sacrificio, ch’io cognobbi
     Il solitario stato accetto e fausto:17
94Chè con tanto lucore, e tanto robbi
     M’apparveno splendor dentro a du’ raggi.18
     Ch’io dissi: O Helios, che sì li addobbi!19
97Come distinta di minori e maggi20 21
     Lumi biancheggia tra’ poli del mondo
     Galasia sì, che fa dubbiar ben saggi;22
100Sì costellati facean nel profondo
     Marte quei raggi il venerabil segno,23
     Che fa iunture di quadranti in tondo.24
103Qui vince la memoria mia lo ’ngegno,
     Che ’n quella Croce lampeggiava Cristo;
     Sicch’io non so trovare esemplo degno.
106Ma chi prende sua croce, e segue Cristo,
     Ancor mi scuserà di quel ch’io lasso,
     Vedendo ’n quell’albor balenar Cristo.

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109Di corno in corno e da la cima al basso25
     Si movean lumi, scintillando forte
     Nel congiungersi ’nsieme e nel trapasso.
112Così si veggion qui diritte e torte,
     Veloci e tardi, rinovando vista,
     Le minuzie dei corpi lunghe e corte
115Muoversi per lo raggio, onde si lista
     Tal volta l’ombra, che per sua difesa
     La gente con ingegno et arte acquista.
118E come giga et arpa in tempra tesa
     Di molte corde fan dolce tintinno
     A tal, da cui la nota non è intesa;
121Così da’ lumi che lì m’apparinno26 27
     S’accollie per la Croce una melode,
     Che me rapiva senza intender l’inno.28
124Ben m’accors’io ch’elli era d alte lode:
     Però che a me venia: Risurgi e vinci,
     Com’a colui che non intende et ode.
127Io m’innamorava tanto quinci,
     Che ’nfin a lì non fu alcuna cosa,
     Che me legasse con sì dolci vinci.
130Forsi la mia parola par troppo osa,
     Posponendo ’l piacer delli occhi belli,
     Nei quai mirando, mio disio à posa.
133Ma chi s’avvede che i vivi suggelli
     D’ogni bellezza più fanno più suso,
     E ch’io non m’era lì rivolto a quelli,29

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136Escusar ponimi di quel ch’io m’accuso
     Per iscusarmi, e vedermi dir vero:
     Che ’l piacer santo non è qui dischiuso,
139Perchè si fa, montando, più sincero.


  1. v.1. C.A. e sì dal
  2. v. 3. C.A. fuori e
  3. v. 9. C.A. dopo a lui
  4. v. 10. C.A. nol vi dice
  5. v. 18. C.A. che al
  6. v. 20. C.A. Alle fiate
  7. v. 24. C. A. mera nota.
  8. v. 34. C. A. nella luce
  9. v. 37. C. A. fia
  10. v. 39. C. A. d’intorno con tal
  11. v. 40. C. A. seguita
  12. v. 41. C. A. è tanta,
  13. v. 71. C. A. parvenze,
  14. v. 72. C. A. la vista pare
  15. v. 81. C. A. seguir la
  16. v. 89. C. A. fece
  17. v. 93. C. A. Esso litare stato
  18. v. 95. C. A. M’appariro
  19. v. 96. C. A. Elios,
  20. v. 97. C. A. distanti da minori a
  21. v. 97. Maggi, plurale di maggio derivato dal majus latino, fatti due g dal la j. E.
  22. v. 99. C. A. Galassia
  23. v. 101. C. A. rai
  24. v. 102. C. A. fan giunture
  25. v. 109. C. A. e tra la cima e il basso
  26. v. 121. C. A. de’ lumi
  27. v. 121. Apparinno, dalla terza singolare apparì duplicato l’n alla consueta giunta del no. E.
  28. v. 123. C. A. mi rapiva
  29. v. 135. C. A. non era




C O M M E N T O


Dal centro al cerchio ec. Questo è lo xiv canto di questa terzia cantica, nel quale lo nostro autore finge come Beatrice mosse a quelli beati spiriti uno altro dubbio, lo quale dichiarato, finge come si trovasse sallito nel quinto pianeto; cioè Marte. E dividesi questo canto principalmente in due parti: imperò che prima finge come Beatrice mosse lo dubbio e come fu dichiarato: ne la seconda finge come uno altro cerchio di beati spiriti, che erano stati dottori, apparve intorno a li due detti di sopra, e come poi si trovò sallito al pianeto di Marte, et incominciasi la seconda quine: Et ecco intorno ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in quattro parti: imperò che prima con una similitudine occulta dichiara lo movimento della sua mente e lo proponimento del dubbio che fece Beatrice; ne la seconda finge quello che feceno di letizia e di canto quelli serti che erano intorno a lui et a Beatrice, udito lo dubbio mosso da Beatrice, et incominciasi quine: Come da più letizia ec.; ne la terzia parte finge come una di quelle luci del minore cerchio incominciò a solvere lo dubbio mosso, et incominciasi quine: Et io udi’ ne la voce ec.; ne la quarta parte finge come quella luce, procedendo più oltra, compie di solvere lo dubbio, et incominciasi quine: Onde la vision ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo co l’esposizioni letterali, allegoriche e morali.

C. XIV — v. 1-18. In questi sei ternari lo nostro autore finge come Beatrice mosse per lui lo dubbio, che ancora non li era nel pensieri; ma innanti a questo come la mente sua fu cagionata di muoversi a considerare dal centro nel quale era elli e Beatrice, et a la circunferenzia nel quale erano li due serti di sopra, e dalla circunferenzia al centro per li avvicendevili parlari che si facevano ora dai beati spiriti, ora da Beatrice. E per mostrare questo movimento, arreca lo movimento naturale de l’acqua rinchiusa in uno vasello tondo a la considerazione del lettore, acciò che di quinde tragga la similitudine, dicendo: Dal centro: centro è la parte che è in mezzo dal cerchio, al cerchio; cioè a la [p. 426 modifica]circunferenzia del cerchio, e dal cerchio; cioè da la detta circunferenzia al centro; cioè al punto del mezzo, Muovesi l’acqua: l’acqua è corpo continuo liquido, sicchè quando alcuna parte di quella è mossa conviene che muova l’altra, e l’altra l’altra infine a tanto che, indebilendo sempre quella che muove l’una più che l’altra, si viene a parte che co la resistenzia de la sua quiete agguallia lo moto di quella che è mossa, che è sì picculo che quella li può resistere, e così mancando lo moto si viene a quiete, in un ritondo vaso; cioè in una caldaia, Secondo ch’è percossa; cioè l’acqua, fuor e dentro; cioè dalla parte di fuora e da la parte d’entro: imperò che, dimenando la caldaia, l’acqua che fusse a la circunferenzia si moverebbe in verso lo mezzo, e dal mezzo a la circunferenzia tanto che verrebbe a quiete; e così se incominciasse lo movimento dal mezzo o con una mazza o co la mano o con pietra gittatavi dentro. E posto questo dichiaramene di questo movimento naturale dell’acqua, adiunge che così fu mossa la mente sua a considerare lo fiammeggiare di Beatrice che era nel centro con lui, ch’ella faceva nel suo parlare, e lo fiammeggiare de le beate luci che erano nei due serti, che erano intorno a lui ne la circunferenzia che similmente scintillavano; ma più quando parlavano, e però dice: Ne la mia niente; cioè di me Dante, fe subito caso; cioè lo quale avvenire: imperò che, parlando santo Tomaso scintillava, e ragguardava io e considerava lui, e parlando Beatrice ancora scintillava, et io ritornava la mente a considerare lei; e così la mente mia discorreva col pensieri e co la considerazione da lei ai serti, e da serti a lei, e così si moveva, Dal centro al cerchio, e dal cerchio al centro; e però dice: Questo ch’io dico; cioè di muovere così la mia mente; e ben dice subito caso: imperò che altresì tosto fu questo movimento da la mia mente, come fu lo restare del parlare di santo Tomaso e lo incominciare di Beatrice che fu incontenente senza mezzo, e però dice, sì come st tacque, cioè altresì tosto come si tacque, La gloriosa vita di Tomaso; cioè l’anima glorificata, che è in vita perpetua, di santo Tomaso d’Aquino lo quale àe introdutto l’autore a parlare dal decimo canto infine a qui. Per la similitudine; ecco che rende cagione, unde venne che lo subito caso fece lo detto movimento ne la sua mente: imperò che Beatrice ondeggiava di luce ai serti col suo parlare, e li serti a lei, e però dice, che; cioè la qual similitudine del risplendere, nacque; cioè procedè 1, Del suo parlare; cioè di santo Tomaso, e di quel; cioè parlare, di Beatrice; e questo caso subito fece la mente sua sì scorrere da Beatrice ai dottori, e dai dottori a Beatrice. E per questo dà ad intendere allegoricamente che elli considerò che [p. 427 modifica]la santa Scrittura alcuna volta muove li dubbi ai dottori suoi: imperò che per detti, che trovano in essa, si muoveno a dubitare; et clli così mossi per la grazia d’Iddio che è in loro, quelli dubbi co le ragioni ispirate da lo Spirito Santo in loro solveno alcuna volta, et alcuna volta coi detti d’essa santa Scrittura; e questo è muovere lo centro 2 la circunferenzia, e la circunferenzia quel che è in mezzo al centro muovere. E che finga Beatrice muova lo dubbio e non l’autore, significa che questo era dubbio che non potrebbe cadere ne la mente umana per la ragione umana, se non presupposto e saputo prima la determinazione de la santa Scrittura: non potea Dante dubitare del dubbio che si dirà di sotto, se non udito prima quello che dice la santa Scrittura; cioè ch’elli risponderanno più che ’l sole, e che dopo ’l iudicio universale li corpi risuscitati de’ iusti saranno gloriosi risplendenti più che ’l sole. Unde, presupposto questo, nasce lo dubbio; come potrà l’uno beato vedere e cognoscere l’altro fasciato da tanto splendore; e se non lo potrà vedere e cognoscere se non co la mente, dunqua lo corpo non arà perfetta sua beatitudine. E però l’autore àe fatto questa fizione, dicendo così. A cui; cioè a la quale Beatrice, sì; cioè per sì fatto modo, cominciar; cioè a parlare, di po’ lui; cioè dopo santo Tomaso, piacque; cioè ad essa Beatrice. A costui; cioè a Dante; ecco che Beatrice, introdutta a parlare di Dante, parla di lui e dimostra lui, fa mestieri; cioè è bisogno, e non vel dice; cioè elli Dante a voi beati spiriti, Nè co la voce; cioè sua, nè pensando ancora; cioè col pensieri: imperò che in due modi arebbono potuto sapere lo suo dubbio; cioè o s’elli l’avesse manifestato co la sua voce, o se elli l’avesse avuto nel pensieri: imperò che di sopra è stato detto che li beati vedeno in Dio, nel quale riluce ogni cosa, li nostri pensieri, D’un altro vero; cioè oltra quelli che sono dichiarati di sopra, andare a la radice; cioè a la verità che va inanti: imperò che l’uno vero polla dall’altro, sì come l’una erba polla 3 in su la radice dell’altra: e così s’anderebbe dall’uno vero nell’altro, infinchè si verrebbe al primo vero, che è Iddio. Diteli; ecco che muove lo dubbio, dicendo: Diteli; cioè voi beati spiriti, che fuste dottori de la santa Teologia al mondo, a lui, cioè a Dante, se la luce; cioè quello splendore e quella chiarezza, onde; cioè per la quale e de la quale, s’infiora; cioè diventa splendida e bella, Vostra sustanzia; cioè la vostra anima, che è sustanzia di quello splendore, rimarrà con voi Eternalmente; cioè perpetualmente dopo lo iudicio, siccom’ella è ora; cioè essa luce, E se rimane; cioè essa luce con voi sempre, dite come, poi Che serete [p. 428 modifica]visibili rifatti; cioè poi che sarete coniunti col corpo, che allora sarete fatti visibili, Esser potrà ch’a veder non vi noi; cioè come potrà essere che voi, essenti in tanto splendore, possiate vedere fuori di voi; et anco potrà essere che veggiate chi fi’ dentro a tanto splendore che pare non si debbia potere vedere, siccome l’uomo non può vedere dentro da la spera del Sole; anco se l’uomo vi guarda, l’occhio ne riceve offensione.

C. XIV — v. 19-33. In questi cinque ternari lo nostro autore finge l’allegrezza grande, che ebbono quelli due serti detti di sopra che erano intorno a Beatrice e Dante, quando udittono lo dubbio proposto da Beatrice, dicendo: Come; ecco che arreca la similitudine dicendo che, come quelli che ballano alcuna volta levano le voci e saltano; così feceno quelli beati spiriti, e però dice: da più letizia; ecco che tocca la cagione, pinti; cioè li ballatori, e tratti; ecco due cagioni, per che si rallegrano li ballatori; o perchè sono pinti dalla letizia passata, o sono tirati da quella che seguita. A la fiata; cioè alcuna volta, quei che vanno a rota; cioè quelli che, vanno a ballo tondo, Levan la voce; cioè cantando più alto, e rallegrano li atti; cioè saltando e facendo lo volto lieto e ridente, Così all’orazion; ecco che adatta la cosa assimigliata, dicendo: Così all’orazion; di Beatrice, cioè ala sua diciaria, pronta: però che subita fu dopo lo fine del parlare di santo Tomaso, e devota, imperò che devotamente fu esposita la sua diciaria, Li santi cerchi; cioè quelli due serti dei santi dottori, de li quali è stato detto di sopra che erano intorno a Beatrice et a Dante, mostrar nuova gioia; cioè mostrorno nuova allegrezza, Nel torneare; cioè nel girare intorno più frequentemente, e ne la mira nota; cioè e nella meravigliosa nota del canto. Qual si lamenta; ecco una moralità: imperò che l’autore pone per suasione che, considerando tanto d’allegrezza quanto elli vedeva in quelli beati spiriti, nessuno si dovrebbe dolere del morire, pensando che tale letizia non si può vedere se non dopo la morte, e però dice: Qual; cioè uomo, si lamenta perchè qui; cioè in questo mondo, nel quale Dante finge che fusse quando questo scrisse, non quando lo vidde, si muoia Per viver colassù; cioè in cielo dove non si può vivere, se prima qui non si muore, non vidde quive; cioè in cielo, dove lo viddi io, Lo refrigerio de l’eterna ploia; cioè de l’eterna città: ploia 4 in francioso è a dire città 5. Quell’uno; cioè Iddio, che è uno Iddio et una sustanzia, e du’; cioè Iddio et uomo in due nature divina et umana, e tre; cioè tre persone in tre [p. 429 modifica]persone, cioè lo Padre e lo Figliuolo e lo Spirito Santo, che; cioè lo quale, sempre vive: imperò che Iddio mai non ebbe principio, nè mai debbo aver fine; anco fu sempre e sempre sarà, sicchè di lui non si può parlare propriamente se non per lo presente, cioè Iddio è sempre, E regna sempre: imperò che tutte le cose sempre regge, che altremcnte verrebbono meno, in tre; cioè in trinità di tre persone; Padre, Figliuolo e Spirito Santo, e due; cioè in due nature umana e divina, et uno; cioè in unità d’uno Iddio una sustanzia, Non circuscritto; cioè non intorneato, nè contenuto d’alcuna cosa, e tutto; cioè ogni cosa, che è creata, circuscrive; cioè intornea e contiene, Tre volte era cantato da ciascuno Di quelli spirti; che erano nei detti due serti, con tal melodia; cioè con tale dolcezza di canto aveano cantato le lode della santa Trinità, Ch’ad ogni merto; cioè che l’omo in questo mondo potesse acquistare, saria iusto muno 6; cioè sarebbe iusto premio: non avessono li omini iusti altro premio, che ’l canto de’beati, screbbe iusto ad ogni loro merito.

C. XIV — v. 34-48. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che uno de’ beati spiriti del primo serto di quelli dottori rispondesse al dubbio detto di sopra mosso da Beatrice, dicendo così: Et io; cioè Dante, udi’ ne la voce più dia; cioè più divina; quasi dica: Amenduni 7 quelli due serti cantavano; ma quello, che era più presso a noi, più altamente perchè in esso àe finto che fussono più eccellenti dottori, e però dice che la voce di costoro era più divina, che quella de li altri. Del minor cerchio; ecco che dichiara di qual fu, una voce modesta; cioè una voce temperata, Forsi qual fu; cioè forse tale era quella voce, cioè sì temperata e sì soave come fu quella, dell’Angelo; cioè Gabriello, a Maria; cioè a la Vergine Maria, quando li disse: Ave, gratia plena: Dominus tecum ec., quando li annunziò la incarnazione del Figliuolo d’Iddio, Risponder; cioè uditti io Dante quella voce modesta di quel minor cerchio rispondere al dubbio le parole che seguitano: Quanto fi’ lunga la festa Di paradiso; cioè quanto durerà la gloria di paradiso, che fia perpetua, tanto il nostro amore; cioè di noi beati, dice lo spirito che parla; e dice lo nostro amore: imperò che l’amore è cagione dello splendore, Sì raggerà; cioè per sì fatto modo risplenderà, dintorno a cotal vesta; quale noi beati spiriti aremo, cioè come noi abbiamo ora pure lo fulgore intorno da noi spiriti; così l’aremo anco intorno ai corpi nostri 8. La sua chiarezza seguirà l’ardore; cioè tanto sarà lo splendore [p. 430 modifica]che noi aremo d’intorno,quanto sarà l’ardore della carità che noi aremo nell’anima, L’ardor la visione; cioè seguirà l’ardore de la carità la visione beatifica; cioè quanto noi vedremo d’Iddio, tanto ameremo; e quanto ameremo, tanto risplenderemo, e quella; cioè visione, tanta; cioè sì grande sarà, Quant’à; cioè quanto à, di grazia; cioè da Dio, sopra suo valore; cioè sopra lo suo merito: imperò che ogni beato arà tanto de la visione beatifica da Dio, quanto fia lo suo merito; e tanto più, quanto Iddio ne vorrà dare per sua grazia, lo quale è tanto cortese che ad ogni uno dona sopra merito, sicchè quanta fi’ la visione, tanto sarà l’ardore della carità; e quanto fia l’ardore della carità, tanto fia lo splendore che raggerà d’intorno ai corpi beati. Come la carne gloriosa e santa; cioè de’ beati, Fi’ rivestita; cioè che ciascuno serà risuscitato, la nostra persona; dice lo Spirito Santo che parla, Più grata fi; cioè più graziosa e più piacente, per esser tutta quanta; ecco che assegna la cagione per che fia più piacente, perchè serà la persona perfetta: ogni cosa perfetta più piace che la imperfetta; e per questo seguita che crescerà in loro lo cognoscimento: imperò che, come l’essere fia più perfetto; così lo cognoscere sarà più perfetto. Per che; cioè per la qual cosa, s’accrescerà; cioè in noi beati, ciò che ne dona Di gratuito lume; cioè d’intelletto, che Iddio ci darà di grazia e che a lui ci farà grati e piacenti, il Sommo Bene; cioè Iddio che è sommo bene, et elli è quello che dona lo lume dello intelletto di sua grazia, per lo quale siamo grati a lui; e dichiara che lume sarà quello, per che l’omo non intenda che sia lume a le cose mondane; ma solamente a le divine, e però dice: Lume; cioè sì fatto, ch’a lui veder; cioè che a vedere lui, cioè lo sommo bene, che è Iddio, ne condiziona; cioè noi fa abili e sofficenti.

C. XIV — v. 49-66. In questi sei ternari lo nostro autore finge che quello spirito, ch’elli introdusse a parlare, messe inanti quelle cose che erano necessarie a dichiarare lo dubbio, descendesse a la dichiaragione del dubbio, dicendo così: Onde; ecco che conchiude per quello che è detto di sopra, la vision; cioè per la qual cosa, che è detto di sopra, che crescerà lo lume dello intelletto, la vision; cioè beatifica, crescer convene; cioè mestieri è che cresca: imperò che quanto cresce lo lume dello ’ntelletto, tanto cresce la visione beatifica, e crescendo la vision convien, Crescer l’ardor; cioè l’amore della carità, che; cioè lo quale ardore, da quella; cioè visione, s’accende: imperò che quanto più si cognosce d’Iddio, tanto più s’ama, Crescer lo raggio; cioè lo splendore conviene ancora, che; cioè lo quale raggio, da esso; cioè ardore, vene: imperò che dall’ardore de la carità nasce lo splendore. Ma siccome. Poi ch’à risposto a la prima parte del dubbio, che fu se lo splendore che li fasciava doveva [p. 431 modifica]durare sempre; e, come è stato dimostrato, elli debbe durare non solamente tale quale è; ma eziandio maggiore por la ragione detta, ora risponde a l’altra parte del dubbio, cioè come potrà essere che tanto fulgore non impacci la cognoscenza de l’uno all’altro, dimostrando per similitudine che non impaccierà, e poi anco per ragione, dicendo prima: Ma siccome carbon; cioè di fuoco, che si genera del legno arso, che; cioè lo quale carbone, fiamma rende; cioè fa fiamma, che è lo splendore del fuoco, E per vivo candor; cioè splendore, che à in sè, quella soverchia; cioè avanza la fiamma, cioè lo suo lucore, Sì; cioè per sì fatto modo, che la sua parvensa; cioè la sua apparenzia, si difende; cioè da lo splendore de la fiamma 9: imperò che, benchè sia ne la fiamma, pur si vede lo splendore del carbone distinto e differente da quello de la fiamma, Così; ecco che adatta la similitudine, dicendo: Così questo fulgor; cioè per sì fatto modo, come è stato detto del carbone e de la fiamma, questo nostro splendore, che; cioè lo quale, già; cioè al presente, ne cerchia; cioè noi fascia e circunda, Fi’ vinto in apparenza; cioè nella vista, da la carne: imperò che si vedrà lo fulgor de la carne 10, Che; cioè la qual carne, tutto di’; cioè ogni giorno: imperò che, come ogni di’ ne nasceno; così ogni di’ ne muoiano, la terra ricoperchia: imperò che quando l’omo morto è, si sotterra; et ogni di’ ne muoiano, sicchè ogni di’ la terra ricuopre la carne umana. Nè potrà tanta luce; cioè sì grande luce non potrà, affaticarne; cioè affaticare noi; ecco che risponde a la parte del dubbio, quando disse di sopra: Esser potrà ch’a veder non vi noi; et assegna la cagione, dicendo. Chè; cioè imperò che, li organi; cioè visuali, del corpo; cioè beatificato, seran forti A tutto ciò; cioè a tutto quello, che potrà dilettarne; cioè che potrà dilettar noi, e non pur li visivi organi; ma anco tutti li altri corporali sentimenti. Tanto mi parver subiti et accorti E l’uno e l’altro coro; cioè del serto d’entro e del serto di fuore, a dicer Amme; ecco a che furno subiti et accorti, cioè a dire Amme, dice lo vulgare; ma la Grammatica dice Amen, che tanto viene a dire e così sia; bene à anco altra significazione; ma in questa parte è affirmativo di quel che detto è di sopra. Che ben mostrar disio; dice l’autore: Sì risposeno se no presto, che ben mostrorno quelli beati spiriti che avessono desiderio, dei corpi morti; cioè di ricongiungersi ai corpi loro che erano allora morti. Forsi non pur per lor; dice l’autore: Forse che non avevano questo desiderio per loro, ma per le mamme; cioè per le madri ànno 11 lo desiderio della resurrezione finale, a ciò che abbiano la sua perfezione e, Per li padri; cioè loro 12, [p. 432 modifica]e per li altri; cioè parenti et amici, che fuor cari; cioè che furno amati da loro, Anzi che fusser sempiterne fiamme; cioè innanti che fussono morti e che fussono beati in vita eterna dove sono, come dice l’autore, fingendo coperti di splendore come si cuopre lo carbone della sua fiamma; e però per loro e per tutti coloro, che amorno ne la vita, desideravano che riavessono li corpi, perchè avessono la loro perfezione. E qui finisce la prima lezione di questo canto xiv, et incominciasi la seconda.

Et ecco intorno ec. In questa seconda lezione del canto xiv lo nostro autore finge come si trovò poi con Beatrice sallito al quinto pianeto; cioè Marte, nel quale finge che trovasse quelli beati che combatterno per la fede. E dividesi questa lezione in sei parti: imperò che prima finge che, poichè lo spirito finitte la dichiaragione del dubbio, apparve uno altro serto di beati spiriti, che erano stati dottori in Teologia nel mondo, intorno ai due serti di sopra nominati; ne la seconda finge come si trovò con Beatrice levato al quinto cielo, e come ringraziò Iddio, et incominciasi quine: Quindi ripreser ec .; ne la terzia finge che elli ricognoscesse li beati che in esso trovò di che condizione erano, e come era fatto quel pianeto, et incominciasi quine: E non era anco ec.; ne la quarta si scusa l’autore che elli non può dimostrare per esemplo come era fatto lo segno che trovò nel detto pianeto, et incominciasi quine: Qui vince la memoria ec.; nella quinta parte finge come li apparveno fatti quelli spiriti beati che quine erano, e come cantavano cose alte che da lui non erano intese, et incominciasi quine: Così si veggion ec.; ne la sesta parte si scusa ai lettori, s’elli non parla de la bellezza di Beatrice che non se ne meraviglino, et incominciasi quine: Io m’innamorava ec. Divisa adunqua la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizioni letterali, allegoriche e morali.

C. XIV — v. 67-81. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che, poichè lo detto spirito ebbe detto e finito la dichiaragione del dubbio mosso di sopra, apparve uno altro serto di beati spiriti intorno ai detti due serti, dicendo cosi: Et ecco intorno; cioè ai detti due cerchi di beati spiriti et a Beatrice et a me, cioè in giro, di chiarezza pari: imperò che tanto era splendido l’uno spirito, quanto l’altro, sì che erano pari in chiarezza; e per questo dà ad intendere che equale era la beatitudine loro, siccome era stata la loro virtù e la loro scienzia nel mondo, Nascer un lustro; cioè uno splendore, sopra quel che v’era; per li due serti de’ beati, che è stato detto di sopra, v’era splendore grandissimo, et oltra a quello n’apparve un altro, A guisa; cioè a similitudine, d’orizonte; già è detto che è orizzonte: è uno cerchio che divide l’emisperio di sotto da quel di sopra, sicchè l’occhio non può vedere più giù: spesse volte veggiamo [p. 433 modifica]che quando l’emisperio nostro rischiara, che prima è stato turbato, che incomincia uno chiarore intorno intorno al nostro orizonte; e però dice, che, cioè lo quale orizonte, rischiari; cioè incominci a schiarare. Et ora induce l’altra similitudine: E siccome al salir di prima sera; cioè quando la sera incomincia la notte a montare suso, et allora si dice sallire la prima sera, Cominciati per lo Ciel nove parvenzie; cioè nuove apparenzie 13 di stelle, che paiano e non paiano; e però dice: Sicchè la cosa; cioè che 14 vede in cielo, pare e non par vera: imperò che l’occhio non la vede bene, ne dubita. Parvemi; cioè parve a me Dante, lì; cioè in quello cielo del Sole, nel quale io era, novelle sussistenzie; cioè nuove sustanzie, cioè spiriti venuti di nuovo, Cominciar a veder; come s’incominciano a vedere la sera le stelle, e far un giro Di fuor da l’altre du’ circunferenzie; cioè intorno alli altri due giri; e così questo era lo terzo, nel quale l’autore vuole dimostrare essere li altri scientifici che sono stati nel mondo di niinor grado, che quelli che sono stati detti di sopra. E quasi ammirando la loro grande luce, dice: O vero sfavillar del Santo Spiro; cioè dello Spirito Santo: imperò che, come è detto di sopra, da la visione nasce l’ardore de la carità, che viene dallo Spirito Santo e da quello procede lo splendore, Come si fece subito e candente: imperò che subito occorseno quelli beati spiriti risplendenti, Agli occhi miei; cioè di me Dante, che; cioè li quali occhi, vinti; cioè da quello splendore, nol soffriro; cioè non potettono sofferire quello splendore però che li sentimenti di Dante non erano di tanta virtù, che potessono sofferire sì fatto splendore! Ma Beatrice sì bella e ridente Mi si mostrò; cioè allora a me Dante, che tra quelle vedute; cioè tra quelli beati spiriti risplendenti, Si vuol lassar; cioè non dirlo com’ella era fatta, come io non dico come erano fatti quelli splendori, perchè li occhi non soffersono di vederli, ben ch’io sofferisse di vedere Beatrice sicchè la sua veduta rende virtute a li occhi miei, come apparrà di sotto, che nol seguie la mente; ecco la cagione, per che 15: imperò che la mente di chi l’udisse nol potrebbe imaginare. E qui è da notare perchè l’autore finge che gli altri splendori abbia potuto sofferire di ragguardare, come appare dei due serti di sopra, e questi del terzo serto che finge di nuovo apparito, no. A che si può rispondere che per questi intendesse tutti quelli scientifici che sono stati fedeli et ànno parlato chiaro, come quelli del primo serto e del secondo; ma sì altamente, che la loro sottigliezza non è stata potuta comprendere col suo intelletto e co la sua ragione; o volliamo [p. 434 modifica]dire che per questi intese quelli che a lui non sono stati noti, e però finge che li occhi non li sofferissono.

C. XIV — v. 82-90. In questi tre ternari lo nostro autore finge come elli si trovò sallito con Beatrice nel pianeto di Marte, nel quale finge che si rappresentino quelli beati spiriti che ànno combattuto per la fede, come si vedrà di sotto, dicendo così: Quindi; cioè da la veduta di Beatrice, cioè poi che io ragguardai Beatrice così bella e ridente, ripreser li occhi miei; cioè da capo presono la ragione e lo intelletto di me Dante, virtute; cioè vigore, A rilevarsi; a comprendere che prima erano calati, disperandosi di poterli comprendere: imperò la santa Teologia, che non viene16 in alcuno senza la grazia d’Iddio, dà vigore d’intendere quello che inanzi l’uomo non arebbe potuto intendere. Ma perchè non era più da stare in questa materia, finge che fatto abile a vedere ne l’aspetto di Beatrice si trovasse levato suso con Beatrice al quinto pianeto di Marte, in che dimostra l’elevazione del suo ingegno levato da la grazia d’Iddio e da l’ordine de la santa Teologia a considerare li beati che ànno combattuto per la fede; e perchè lo combattimento si fa con tre inimici, cioè col mondo, col dimonio e co la carne, però porrà di sotto dei combattitori che ànno vinto questi tre inimici, e però dice: e viddimi; cioè e vidde me Dante, traslato; cioè trasportato, Sol; cioè solo, con mia donna; cioè con Beatrice, in più alta salute; cioè nel corpo del pianeto Marte, dove si rappresentano quelli beati che sono stati di maggiore merito; e però finge che siano più alti et abbiano maggiore gloria. Ben m’accors’io; cioè io Dante ben m’avviddi, che io era più levato; cioè da la terra, ch’io non soleva essere levato quando io era nel Sole, Per l’affocato riso; cioè per l’affocato splendore, de la stella; cioè di Marte17, Che mi parea; cioè a me Dante, più roggio; cioè più rosso, che l’usato; cioè che quello del Sole a che io era usato prima tanto, quanto finge essere stato in esso. Quanto a la lettera è vero che lo splendore di Marte viene più affocato che quello del Sole: imperò che rosseggia, e lo Sole gialleggia; ma quanto all’allegoria, si dè intendere che maggiore ardore di carità, cioè più ardente, è in coloro che combatteno e vinceno li tre inimici detti di sopra, che in coloro che sè esercitano ne le Scritture. E perch’elli dice che s'era levato più che non soleva, debbiamo sapere, secondo che è stato detto18 nelli altri pianeti, che la più bassa lunghezza di [p. 435 modifica]Marte, che è la più alta del Sole, è tremilia volte e novecento sessanta cinque migliaia di miglia, e la più alta lunghezza è ventotto volte mille volte, mille et ottocento quaranta sette migliaia di millia. Et intendesi per questo quanto è distante da la terra, e quanto dista da l’altro pianeto che è di sotto da lui. Et è lo corpo di Marte, cioè lo suo diametro è tanto, quanto lo diametro della terra e la sesta parte di quello, secondo che dice Alfragano cap. xxi e cap. xxii. Con tutto ’l quore e con quella favella, Ch’è una in tutti; cioè co la favella mentale, la quale è una in tutti gli omini, a Dio feci olocausto; cioè sacrificio perfetto, cioè tutto incenso; e questo era quando l’ostia tutta s’ardea e niente se ne mangiava: così vuole dire l’autore che fece orazione a Dio, rendendoli grazie del dono conceduto, tutto ardente di carità d’Iddio. Qual; cioè tale sacrificio quale, conveniasi a la grazia novella; cioè a la grazia di nuovo ricevuta, cioè d’essere levato al pianeto di Marte.

C. XIV — v. 91-102. In questi quattro ternari Io nostro autore finge come era fatto lo pianeto di Marte, nel quale elli si trovò entrato, dicendo. E non era anco del mio petto esausto; cioè non era compiuto e consummato l’ardore della carità del mio petto, dice l’autore, col quale io rendeva grazie a Dio, e però dice: L’ardor del sacrificio; cioè lo fervore col quale io facea lo sacrificio a Dio ne la mia mente, ch’io cognobbi; cioè che io Dante cognobbi, Il solitario stato; cioè lo stato dei santi Padri, che erano stati ne l’eremo a combattere19 col dimonio, accetto; cioè a Dio, e fausto; cioè felice, come fu lo stato di santo Paulo primo eremito, di santo Antone20 e di santo Maccario. Chè; cioè imperò che, con tanto lucore; cioè splendore, e tanto robbi21; cioè e sì rossi, di colore di fuoco, M’aparveno; cioè a me Dante apparittono, splendor; cioè di beati spiriti, dentro a du’ raggi; cioè dentro a due liste raggiose22, le quali finge l’autore che vedesse stare in croce l’una in su l’altra, Ch’io; cioè Dante, dissi; vedendo li spiriti dentro a quelli due raggi sì splendidi: O Helios23; cioè Iddio: Helios in lingua ebrea è a dire Iddio; quasi

[p. 436 modifica]meravigliandosi chiama Iddio, dal quale cognosce che viene tanta grazia; e però dice: che; cioè lo quale Iddio, sì li addobbi; cioè sì li adorni questi spiriti di splendore! Et ora induce una similitudine, dicendo: Come distinta; cioè variata, di minori e maggi Lumi; cioè stelle grandi e piccole, biancheggia tra’ poli del mondo; cioè tra ’l polo artico et antartico, Galasia; questo è uno cerchio in cielo che si chiama cerchio latteo per la sua bianchezza, e di questo fu detto nel canto xvii de la prima cantica: questo cerchio incomincia dal paralello del polo artico,24 e finisce al paralello del polo antartico 25, et alcuna latitudine contiene ne la quale si vedeno stelle: imperò che non è sì condenso che appiatti le stelle et attraversa lo zodiaco, e perchè àe alcuna latitudine e vedonvisi stelle, però assomiglia l’autore le liste che vidde in Marte a Galasia: imperò che in esse vedeva li beati spiriti rilucere come stelle; e per queste stelle che vi si veggono dentro, tenneno alquanti che non fusse cerchio, et anco perchè ogni notte nè d’ogni tempo non si vede, e però dice l’autore, sì; cioè per sì fatto modo biancheggia Galasia, tra’ poli del mondo distinta di maggiori e minori stelle, che fa dubbiar ben saggi; cioè ben saputi Astrolaghi, se si dè contare tra cerchi del cielo: imperò che pare che siano vapori che in quella parte siano levati al cielo. Sì; cioè per sì fatto modo, come Galasia, costellati; cioè pieni di splendori a modo di stelle; li quali splendori erano anime beate, facean nel profondo Marte; cioè nel mezzo del corpo di Marte, quei raggi; cioè quelle due liste raggiose piene di splendori, come detto è, il venerabil segno; cioè de la croce: imperò che quelle due liste raggiose stavano come una croce l’una a traverso dell’altra, Che; cioè lo segno, fa iunture; cioè coniungiture, di quadranti in tondo; chi volesse fare nel tondo quattro iunture di quadranti farebbe una croce nel tondo a questo modo, e così dice che stavano le due liste et in esse li beati a modo di stelle, come è figurato qui.

C. XIV — v. 103-111. In questi tre ternari lo nostro autore finge come in Marte ne le dette due liste vidde li beati spiriti andare scintillando da su in giù e da l’uno corno de la croce all’altro, quando s’aggiungevano insieme e trapassavansi. E finge che in quella croce rappresentava lo combattimento che fece Cristo, quando in su la croce sconfisse lo dimonio, e però dice. Qui; cioè in [p. 437 modifica]questo punto, la memoria mia vince lo ’ngegno: imperò ch’io mi ricordo bene che rappresentava quel segno e quel che vi risplendea; ma lo ingegno non sa, trovare esemplo degno; a manifestare sì grande cosa, quanto fu la croce di Cristo e la passione sua; e però dice: Che ’n quella Croce; cioè che era in Marte, lampeggiava; cioè risplendeva a modo d’uno lampo, Cristo; cioè si rappresentavano li grandi benefi ci che fece Cristo nostro Salvatore a l’umana natura, sostenendo morte e pena gravissima in sul legno della croce per ricomprarla da la servitù del dimonio, sicchè quella fu la vittoria che Cristo acquistò combattendo per noi in sul campo de la croce; e però l’autore nostro volendo parlare dei combattitori per la fede, che si rappresentano in Marte, bene fece incominciando da Cristo: imperò che la vittoria àe dato efficacia a tutti li altri combattitori, Sicch’io; cioè per la qual cosa io Dante, non so trovare esemplo degno; cioè a tanta cosa, quanta fu quella di Cristo, non si può trovare esemplo bastevile; e però se io non esemplifico, m’abbia lo lettore scusato; ma per questo può comprendere, perchè l’autore àe figurato in Marte lo segno della croce. Ma chi prende sua croce; cioè ma colui che piglia la sua battallia e prende a combattere co li detti tre avversari, secondo che dice santo Matteo, cap. x: Si quis vult venire post me, abneget semetipsum, et tollat crucem suam et sequatur me; e però dice: e segue Cristo: imperò che colui, che dà la vita sua per l’amore di Cristo e sostegna ogni pena per amore di lui, colui vedrà di quanta eccellenzia fu la croce di Cristo e scuserà mi se io non ò dato esemplo di quella: imperò che non si trova esemplo che a quella adiunga: imperò ch’ella avanza ogni altra cosa, e però dice: Ancor mi scuserà di quel ch’io lasso; cioè ancora scuserà me d’avere lassato di darne esemplo, Vedendo ’n quell’albor balenar Cristo; cioè vedendo che quelli, che splendette in quello arbor de la croce, fu Cristo che fu Iddio et omo di tanta perfezione, che non è lingua che ’l possa dire nè cuore che ’l possa pensare. Di corno in corno; cioè dal destro al sinistro corno, e da la cima; cioè da la sommità de la croce, al basso; cioè a la parte ima de la croce, Si movean lumi; cioè beati spiriti a modo di lumi rilucenti, scintillando forte; cioè gittando fulgori, Nel congiungersi ’nsieme; cioè quando si coniungevano insieme, e nel trapasso; cioè quando si trapassavano 26 per carità et amore, che avea l’uno in verso l’altro, e gittavano splendore.

C. XIV — v. 112-126. In questi cinque ternari lo nostro autore descrive per una similitudine come erano fatte l’anime, che elli finge che gli apparissono nel corpo di Marte; e quel ch’elli finge [p. 438 modifica]che cantasseno, dicendo: Cosi si veggion; cioè per sì fatto modo andavano li spiriti per quelli rami de la croce, che io dissi di sopra che 27 erano nel corpo di Marte dall’uno corno all’altro, e da giù a su scintillando, quando si scontravano e trapassavano l’uno l’altro come si 28 veggiono, qui; cioè in questo mondo, Le minuzie; cioè le parti minute, questo è vocabulo di Grammatica, e significa quello che detto è, cioè parti minute et indivisibili, dei corpi; cioè delli atomi che si vedono nella spera del Sole, che sono corpi indivisibili; e però conviene che si spogna, Le minuzie dei corpi; cioè le parti minute che sono corpi, che sono indivisibili ne la spera del Sole, lunghe e corte: imperò che quelli bianchi, che noi veggiamo per la spera del Sole, quale pare lungo e quale corto, Muoversi; cioè in qua et in là, per lo raggio; cioè del Sole, diritte e torte: imperò che quale pare vada ritto, e quale pare vada torto, Veloci e tardi: imperò che pare vadino 29 per la spera del Sole, quale veloce e quale tardo, rinovando vista; cioè mutando apparenzia: imperò che quello che prima pareva lungo pare poi corto, e quello che pareva andare ratto pare che vadia 30 poi tardo, e quello che pareva andare ritto pare poi andare torto, e così rinnuova la vista in ogni accidente: imperò che s’intende e converso, onde; cioè per lo quale raggio, si lista; cioè si fa una lista, cioè a modo d’una lista, Tal volta; cioè alcuna volta, l’ombra; cioè lo luogo ombroso; ecco, una casa è ombrosa quando è chiusa, apresi una finestra verso lo Sole, lo raggio del Sole intrato per la finestra fa a modo d’una lista ne l’ombra che è ne la casa, et in quello raggio veggiamo allora quelli bianchi indivisibili, lunghi e tondi, torti e diritti andare per la spera tardi e ratti, che; cioè la quale ombra de la casa, La gente acquista con ingegno et arte: imperò che le case si fanno con ingegno et artificio, per sua difesa: imperò che li omini fanno le case per difendersi dal caldo e dal freddo e dalla pioggia; et è qui da notare quello che diceno li autori dell’atomi che appaiono nei raggi solari. E come giga; questo è uno istrumento musico che fa dolcissimo suono, et arpa; questo è anco uno istrumento musico che fa similmente dolcissimo suono, lo quale si dice che sapesse ben sonare Tristano, in tempra tesa; cioè tirate le sue corde, sicchè abbiano temperanzia e convenienzia, Di molte corde: imperò che sono istrumenti, che ànno molte corde, e tutte convegnono concordevilmente essere temperate, fan dolce tintinno; cioè [p. 439 modifica]dolce suono, dicesi 31 tintinno suono de la sua voce: imperò che fa tin tin A tal; cioè uomo che l’ode, da cui; cioè dal quale, la nota: cioè lo modo e l’arte del canto, non è intesa; cioè che non intende l’artificio e niente di meno à dolcessa del suono. E posta la similitudine, ecco che l’adatta, dicendo: Così; cioè come è detto di sopra de li istrumenti, da’ lumi; cioè di beati spiriti luminosi, che; cioè li quali, lì; cioè in quel luogo, m’apparinno; cioè apparitteno a me Dante, S’accollie per la Croce; cioè per quella croce, che detta è nel corpo di Marte, una melode; cioè una dolcezza di suono, Che; cioè la quale dolcezza, me; cioè Dante, rapiva; cioè cavava fuor di me, senza intender l’inno; cioè senza ch’io intendesse l’inno che cantavano: inno tanto è a dire, quanto loda d’Iddio. Ben m’accors’io; cioè ben m’avviddi io Dante, ch’elli; cioè che quello inno, era d’alte lode; cioè d’altissimo intelletto erano quelle lode, e però finge ch’elli non le intendesse. Però; ecco la cagione, che a me; cioè a me Dante, cioè al mio intelletto, venia; cioè apprendevile et intelligibile questo che seguita, cioè: Risurgi e vinci; questa è parola de la santa Scrittura che si dice di Cristo: imperò che egli risurresse 32 da morte e vinse lo dimonio che aveva vinto l’uomo, e questo bene è intelligibile a lo intelletto umano; ma l’altre cose divine, che furno fatte da Cristo e che in lui sono, et apprendeno e diceno li beati che sono comprensori, non si possano intendere da no’ che siamo viatori. E però debitamente finge lo nostro autore ch’elli non apprendeva se non Risurgi e vinci; ma l’altre cose no, perchè elli era anco viatore, Com’a colui; ecco che arreca la similitudine, dicendo che a lui avveniva come avviene a colui, che non intende et ode; cioè ode la voce; ma non intende le parole, e così dice l’autore che avveniva a lui. Seguita.

C. XIV — v. 127-139. In questi quattro ternari et uno versetto lo nostro autore manifesta lo piacere ch’elli finge che avesse, quando uditte li canti detti di sopra, dicendo: Io; cioè Dante, m’innamorava tanto quinci; cioè da questo canto, che io udiva da quelli beati spiriti, Che ’nfin a lì; cioè che infine a quello luogo di tutti quelli, ne’ quali io era stato, non fu alcuna cosa; di tanta consolazione e di tanto piacere; e però adiunge: Che; cioè la quale, me legasse; cioè me Dante tenesse stretto a sè, con sì dolci vinci; cioè con sì dolci legami. Veramente nulla cosa è che tanto leghi l’omo a Dio, quanto la meditazione de la passione di Cristo; e sia di tanta dolcezza, di quanta è quella; imperò che in essa si comprende lo smisurato amore che Iddio ebbe a l’umana natura, quando diede lo suo figliuolo a tanta pena per ricomperare quella. E chi è quelli che, vedendosi [p. 440 modifica]amare, non s’innamori? Forsi la mia parola; dice l’autore: Forsi ch’io paio parlare troppo eccessivamente; e però dice: par troppo osa; cioè troppo alta, cioè che nessuna cosa infine a qui m’avesse legato con più dolci legami che la meditazione de la croce di Cristo; et assegna la cagione per che, dicendo: Posponendo ’l piacer delli occhi belli; cioè imperò che nel mio dire io pospongno lo piacere dei belli occhi di Beatrice, dicendo che nessuna cosa infine a qui m’avea legato con più dolci legami, che quella meditazione 33 che detta è, Nei quai; cioè nei quali occhi, mirando; cioè io Dante, mio disio; cioè mio desiderio, à posa: imperò che, ragguardando amenduni l’intelletti de la santa Teologia, lo desiderio di Dante e d’ogni intelligente uomo si quieta. Ma chi; cioè ma colui lo quale, s’avvede; cioè cognosce e comprende, che i vivi suggelli; chiama li pianeti suggelli vivi, servando quello che àe detto di sopra, che Iddio impronta de la sua virtù in essi; et essi improntano ne le cose di sotto; e dice vivi, perchè si muoveno et ànno continua operazione, D’ogni bellezza; ecco di che suggelli 34, cioè informativi, cioè d’ogni bellezza, cioè d’ogni virtù: imperò niuna cosa propriamente si può dire bella, se non la virtù: imperò che bello tanto è a dire, quanto piacente; e nessuna cosa perfettamente piace, se non la virtù, più fanno; cioè maggiore efficacia ànno ne l’operare, più suso; cioè quanto sono più suso; ecco la cagione, per che nessuna cosa infine a qui l’avea più innamorato che questa: imperò che la virtù di Marte, che è più suso che li altri quattro pianeti, più l’avea mosso: imperò che egli è di maggiore efficacia che li altri; e questo è ragionevile: imperò che quanto li pianeti s’accostano più al cielo, maggiore impressione riceveno da lui. E perchè di questo nasce una tacita obiezione che si può fare; cioè s’è così, dunqua Beatrice che era montata insin quine, dovea essere di maggior bellezza che non era stata infine a quine e doveva piacere di più che mai? A che 35 elli risponde, dicendo: Elli è vero quello che tu di’; ma io non l’aveva anco ragguardata poi che io era intrato in Marte, sicchè sta vero lo mio dire, e però dice: E chi s’avvede ch’io; cioè che io Dante, non m’era lì; cioè non m’era in quello luogo, cioè Marte, rivolto a quelli; cioè a li occhi di Beatrice: imperò ch’elli aveva considerato lo pianeto Marte, secondo la dottrina de l’Astrologia, che dice che Marte àe a dare influenzia di fortezza contra le passioni infine a quel punto, e non aveva considerato ancora lo stato de’ santi martiri che ebbono fortezza 36 contro tutte le passioni secondo la santa [p. 441 modifica]Teologia, e però dice che non sera anco rivolto alli occhi della santa Teologia; e chi pensa questo ch’io dico, Escusar pommi; cioè puote escusare me Dante, di quel ch’io m’accuso; cioè io m’accuso ch’io non m’era rivolto a li occhi di Beatrice; e perchè cioè? Perch’io mi voglio scusare di quello ch’io dissi; cioè che infine a quine cosa nessuna m’era più piaciuta, che ’l canto detto di sopra; e perchè mi può scusare? Perch’elli si può avvedere ch’io non m’era ancora rivolto a li occhi di Beatrice; e perchè m’accuso io di questo? Per iscusarmi; cioè per iscusare me di quel ch’io dissi, cioè che nessuna cosa infine a qui ve m’era più piaciuta che ’l canto di quelli beati spiriti, e non aveva eccettato Beatrice, e vedermi dir vero; cioè colui che s’avvedeva 37 di quello ch’io dico, cioè che non ò finto in nessuna parte che, poichè io montai in Marte, io ragguardasse li occhi di Beatrice. E però bene era vera la mia parola, che nessuna cosa m’avea sì legato come lo piacere del detto canto infine a quine: imperò che, se io avesse ragguardato lei, ella mi sarebbe più piaciuta. Ma qui nasce uno altro dubbio, cioè: Dante l’avea ragguardata nelli altri pianeti, dunqua come dice che infine a qui non fu mai cosa che sì lo innamorasse: con ciò sia cosa che nè predetti luoghi abbi detto sè delli occhi di Beatrice essere eccessivamente innamorato? A che si dè rispondere che la materia, di che ora l’autore àe incominciato a trattare, eccede tutte l’altre trattate infine a qui, o secondo l’Astrologia, o secondo la Teologia; ma questa trattata, secondo la Teologia, avanza sè medesima, trattata secondo l’Astrologia e tutte l’altre; ma secondo questo modo non l’avea anco trattata nè considerata. Chè ’l piacer santo; ecco che assegna la cagione, per che chi considera et avvedesi di quel che detto è, può vedere me Dante dire lo vero quando io dissi che nessuna cosa m’era più piaciuta che quella melodia infine a qui, dicendo: Chè ’l piacer santo; cioè imperò che ’l piacer santo, cioè de la santa Teologia, non è qui dischiuso; cioè non è quinci eccettato, cioè da questo pianeto Marte, benchè da questo grande piacere e maggiore di tutti, che io dissi me avere avuto nel canto, ch’io uditti in Marte, non s’inchiuda: imperò che, bench’io dicesse generalmente, nessuna cosa si debbe intendere de le cose udite, non de le vedute; e se volesse 38 de le vedute ancora, non s’intenderebbe di Beatrice: imperò ch’io noll’aveva anco veduta; che se io l’avesse veduta, poich’entrammo in Marte, arei eccettato lei o detto di lei; et ecco la cagione: Perchè si fa, montando, più sincero; ecco la cagione, poichè non è dischiuso lo piacere de la santa Teologia dal mio parlare: [p. 442 modifica]imperò che lì avanza ogni cosa: imperò che, montando, si fa più puro e chiaro. Quanto più altamente si considera la santa Teologia, più pura e chiara è, e quanto più tratta d’alta materia. E perchè lo nostro autore finge che in Marte si rappresentino coloro che ànno sostenuto martirio per l’amore d’Iddio e per 39 la santa fede, debbiamo sapere che, secondo che dice Albumasar, nel trattato settimo, differenzia nona, lo pianeto Marte àe questa natura e queste significazioni che diremo di sotto, de le quali quali sono buone e quali rie, benchè per rispetto d’Iddio e de l’universo tutte sono buone. La natura sua è calda, ingnea, secca, collerica, di sapore amaro e significa iovanezza, fortezza et acuità d’animo, caldi, fuochi et arsioni et ogni subito avvenimento, re potente, consuli, duci e cavalieri e compagnie di reggimento, appetito di loda e di memoria del suo nome, sottilliezza et istrumenti di battaglie, ladronecci e macchinamenti e spargimento di parenti per li ladronecci e talliamenti di vie, ardimento et iracondia, lo illicito avere per lo licito, martìri e prigionie, flagelli e legamenti, angosce, fugga, rubbamenti, pilliamento di servi, timori, contenzioni, iniure, acuità d’animo, impietà, incostanzia, pochezza di providenzia, celerità et anticipazione ne le cose, mala eloquenzia e ferocità di parlare, sozezza di parole, incontinenzia di lingua, dimostramento d’amore, ornamento d’abito, protervità e callidità di parole, avaccianza di risposta e penitenzia subita di quella, poganza di religione, infideltà di promissione, multitudine di bugie e di sussurrazioni, callidità e speriuri, macchinamenti et opere rie, poghezza di bene, guastamento di bene, moltitudine di pensieri ne le cose, instabilità e mutamento di consiglio ne le cose da uno essere ad uno altro, avaccianza di ritornamento, poghezza di vergogna, moltitudine di fatica e di molestia, peregrinazioni, solitario essere, mala compagnia, fornicazione e bruttezza di coito, derisione in pigrizia, movimento nel parto de le femine, e perdizione di quelle nel concipimento, accisione 40 di feto ne la matrice e sciupamenti, mezzi fratelli, procreazioni di bestie e di loro medicine, pastori di pecore, curazioni di ferite, magisteri di ferro et operazione di quello, circuncisioni di fanciulli, effusioni di sepulcri et espoliazioni di morti. Di tutte le dette cose àe a dare influenzia Marte, e però finge l’autore che quelli beati, che ànno sostenuto martirio per l’amore d’Iddio e per la fede, si rappresentino in Marte, perchè la loda di tale influenzia s’attribuisci a Marte. E qui finisce lo canto xiv, et incominciasi lo xv canto.

Note

  1. Procedè; naturale piegatura dall’infinito procedere. E.
  2. C. M. muovere dal centro al cerchio e dal cerchio al centro quel che vi è in mezzo. E che
  3. C. M. polla e nasce dalla radice
  4. Ploia. piova, pioggia, non potrebb’essere dal latino pluvia? E.
  5. C M. città; refrigerio è mitigamento delle passioni e ristoramento. Quell’
  6. Muno; proveniente dal nominativo munus. E.
  7. C. M. dica: Amburo quelli serti cantavano quelle lode che sono dette di sopra della santa Trinità dolcemente et altamente; ma
  8. C. M. nostri quando saranno risuscitati. E questa voce che induce l’autore qui a parlare fu la voce del Maestro delle Sentenzie al lettore come dice qui ora l’autore, e da lui la cavò siccome io credo. La
  9. C. M. fiamma sì che non li tolle la vista; imperò
  10. C. M. carne, benchè sia circondato da questo, Che
  11. C. M. aveano
  12. C. M. loro desideravano la resurrezione finale e
  13. C. M. apparenzie et immagini che fanno le stelle secondo la loro situazione che
  14. C. M. cioè la imagine che si vede
  15. C. M. per che, dice che si vuole lasciare Beatrice tra quelli splendori, e non dice quanta era la sua bellezza e la sua letizia: imperò che la
  16. C. M. che la santa Teologia che non si manifesta in
  17. C. M. Marte. Riso è segno di letizia, e qui si pone per lo splendore: e se lo testo dice viso s’intende apparenzie: Marte è di colore di fuoco, come lo Sole è di colore d’oro. Che
  18. C. M. detto delli altri pianeti raccontati di sopra ch’è la più bassa lunghezza di Marte, che è la più alta dal Sole, è trentamilia volte mille e novecento sessantacinque migliaia di millia. E la più alta lunghezza è vinti otto volte mille volte mille, et ottocento quarantasette migliaia di millia: e questa è la più bassa lungezza di Giove. E per questo s’intende quanto è distante dalla terra è quanto lo diametro della terra e la sesta parte più, secondo che dice Alfagrano cap. xxi, e cap. xxii. Con tutto che l’autore finge d’essere salito così presto, lo cammino fu lunghissimo; ma si dè intender secondo la mente che in un attimo si leva fine a Dio. Con
  19. C. M. colla carne e col
  20. Antone; Antonio come testimone e testimonio. E.
  21. Robbi; rossi, dal latino rubeus. E.
  22. Raggioso; avente raggi, pieno di raggi. E.
  23. El ed Eli nomi sono di Dio, donde i Greci formarono Ἥλιος, che significa Sole, stimato deità. E.
  24. C. M. artico dal sito dove Gemini tocca lo Zodiaco, e
  25. C. M. antartico al sito dove è Sagittario, e quine tocca lo Zodiaco, et
  26. C. M. trapassavano e questo faceano per
  27. C. M. che rappresentati a me nel
  28. C. M. si vedeano in Marte quelli beati spiriti; Così si veggion qui;
  29. Vadino, oggi meglio vadano; quantunque gli antichi e spezialmente i cinquecentisti per uniformità usurpassero più spesso la prima desinenza. E.
  30. Vadia, inflessione tuttora viva nel popolo toscano. E.
  31. C. M. cioè fanno dolce suono; chiamasi tintinno lo suono
  32. Risurresse, come rinviensi talora negli antichi dal resurrexit latino. E.
  33. C. M. che la meditazione della croce di Cristo, Nei
  34. C. M. di che sono suggelli informativi,
  35. C. M. Dunque come disse di sopra l’autore che nessuna cosa l’avea così innamorato come quella che avea veduto. A che
  36. C. M. fortezza e vittoria contra
  37. C. M. che s’avvederà
  38. C. M. volesse intendere de le
  39. C. M. e ànno combattuto per la
  40. C. M. aborsione di feto
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