Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto III

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Purgatorio
Canto terzo

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Purgatorio - Canto II Purgatorio - Canto IV
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C A N T O     III.

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1Avvegnachè la subitana fuga
     Dispargesse color per la campagna1
     Rivolti al monte ove ragion ne fruga,
4Io mi ristrinsi a la fida compagna:
     E come sare’ sensa lui io corso?2
     Chi m’avria tratto su per la montagna?
7El mi parea da sè stesso rimorso:
     O dignitosa coscienzia e netta,
     Come t’è picciol fallo amaro morso!
10Quando li piedi suoi lassar la fretta,
     Che l'onestade ad ogni atto dismaga,
     La mente mia, che prima era ristretta,
13Lo intento rallargò, sì come vaga,
     E diedi il viso mio incontro al poggio,
     Che inverso il Ciel più alto si dislaga.
16Lo Sol, che dietro fiammeggiava roggio,
     Rotto m’era dinanzi a la figura,
     Che aveva in me de’ suoi raggi l’appoggio.

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19Io mi volsi da lato con paura
     D’esser abbandonato, quando io vidi
     Sol dinanzi da me la terra scura;
22E il mio Conforto: Perchè pur diffidi,
     A dir mi cominciò tutto rivolto,
     Non credi tu me teco, e ch’io te guidi?
25Vesper è già colà, dov’è sepolto
     Lo corpo dentro al quale io faceva ombra:
     Napoli l’à, e di Brandigi è tolto.3
28Ora, se inanzi a me nulla s’aombra,
     Non ti meravilliar più che de’ cieli,
     Che l’uno all’altro raggio non ingombra.
31A sofferir tormenti e caldi e gieli
     Simili corpi la Virtù dispone,
     Che, come fa, non vuol che a noi si sveli.
34Matto chi spera che nostra ragione4
     Possa trascorrer la infinita via,5
     Che tiene una Sustanzia in tre Persone.
37State contenti, umana gente, al quia:6
     Chè, se potuto aveste veder tutto,
     Mestier non era parturir Maria:

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40E disiar vedeste senza frutto7
     Tai, che sarebbe il lor disio quetato,
     Ch’eternalmente è dato lor per lutto:
43Io dico d’Aristotile e di Plato,
     E di molti altri; e qui chinò la fronte,
     E più non disse e rimase turbato.
46Noi devenimmo intanto a piè del monte:
     Quivi trovammo la roccia sì erta,
     Che indarno vi sarien le gambe pronte.
49Tra Lerici e Turbìa la più diserta,
     La più romita costa è una scala,8
     Verso di quella, agevole et aperta.
52Or chi sa da qual man la costa cala,
     Disse il Maestro mio, fermando il passo,
     Sì che possa salir chi va senz’ala?
55E mentre ch’ei, tenendo il viso basso,
     Esaminava del cammin la mente;
     Et io mirava suso intorno al sasso,
58Da man sinistra m’apparì una gente9
     D’anime, che moveano i piè ver noi,
     E non parea: sì venivan lente.
61Leva, diss’io, Maestro, li occhi tuoi:10
     Ecco di qua chi ne darà consillio,
     Se tu da te medesmo aver nol puoi.
64Guardò allora, e con libero pillio11
     Rispuose: Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
     E tu ferma la speme, dolce fillio.
67Ancora era quel popul di lontano,
     Io dico, di po’ i nostri mille passi,
     Quanto un buon gittator traria con mano,12

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70Quando si strinser tutti ai duri massi
     Dell’alta ripa, e stetter fermi e stretti,
     Come a guardar, chi va dubbiando, stassi.
73O ben finiti, o già spiriti eletti,
     Virgilio incominciò, per quella pace
     Ch’io credo che per voi tutti s’aspetti,
76Ditene, dove la montagna giace,
     Sì che possibil sia l’andare in suso:
     Chè perder tempo a chi più sa più spiace.
79Come le pecorelle escon del chiuso
     Ad una, a du’, a tre, e l’altre stanno
     Timidette atterrando l’occhio e il muso;
82E ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
     Addossandosi a lei, s'ella s’arresta,
     Semplici e quete, e lo perchè non sanno;
85Sì viddi io muover, a venir, la testa
     Di quella mandria fortunata allotta,
     Pudica in faccia, e ne l’andare onesta.
88Come color dinanzi vidden rotta
     La luce in terra dal mio destro canto,
     Sì che l’ombra era da me a la grotta,
91Restaro, e trasser sè indietro alquanto,
     E tutte le altre che veniano appresso,13
     Non sapendo perchè, fenno altrettanto.
94Senza vostra dimanda io vi confesso,
     Che questo è corpo uman, che voi vedete,
     Per che il lume del Sole in terra è fesso:
97Non vi meravilliate; ma credete,
     Che non senza virtù che dal Ciel vegna,
     Cerchi di soperchiar questa parete.

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100Così il Maestro; e quella gente degna:
     Tornate, disse, entrate inanzi dunque,
     Coi dossi de le man facendo insegna.
103Et un di lor incominciò: Chiunque
     Tu se’, così andando volge il viso;
     Pon mente, se di là mi vedesti unque.
106Io mi volsi ver lui, e guardail fiso:
     Biondo era e bello, e di gentile aspetto;
     Ma l’un dei cilli un colpo avea diviso.
109Quand’io mi fui umilmente disdetto
     D’averlo visto mai, ei disse: Or vedi;
     E mostrommi una piaga a sommo il petto.
112Poi sorridendo disse: Io son Manfredi
     Nipote di Gostanza imperatrice;
     Und’io ti prego che, quando tu riedi,
115Vadi a mia fillia bella, genitrice
     Dell’onor di Cicilia e di Ragona,14
     E dichi a lei il ver, s’altro si dice.
118Poscia ch’io ebbi rotta la persona
     Di du’ punte mortali, io mi rendei
     Piangendo a Quei che volontier perdona.
121Orribil furon li peccati miei;
     Ma la Bontà infinita à sì gran braccia,15
     Che prende ciò che si rivolge a lei.
124Se il Pastor di Cosenza, che a la caccia
     Di me fu messo per Clemente, allora
     Avesse in Dio ben letta questa faccia,
127L’ossa del corpo mio sariano ancora
     In co del ponte, presso a Benevento,
     Sotto la guardia della grave mora.

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130Or le bagna la pioggia e move il vento
     Di fuor del regno, quasi lungo il Verde,
     Dove le trasmutò al lume spento.
133Per lor maledizion sì non si perde,
     Che non possa tornar l’eterno amore,
     Mentre che la speranza à fior del verde.16
136Ver è che quale in contumacia muore
     Di Santa Chiesa, ancor che al fin si penta,
     Star li convien da questa ripa in fuore
139Per ogni tempo, ch’el fi’ stato, trenta,1718
     In sua presunzion, se tal dicreto19
     Più corto per buon preghi non diventa.
142Vedi oggimai, se tu mi puoi far lieto,
     Revelando a la mia buona Gostanza
     Come m’ài visto, et anco sto divieto:20
145Che qui per quei di là molto s’avanza.

  1. v. 2. C. A. dispergesse
  2. v. 5. senza. Gli antichi usavano sanza, senza e sensa; ma di quest’ultima non abbiamo visto esempi nella prima cantica. Ciò ne persuade vie meglio un’altra fosse la mano del copista della seconda. E.
  3. v. 27. C. A. ed a Brandigi
  4. v. 34. C. A. Matto è chi
  5. v. 35. Da quanto lasciò scritto Vincenzo Gioberti la via è l’ordine della Providenza, è la creazione, accenna spazio, tempo: è il soggetto della filosofia, che vale studio della via divina. Questa infinita via è il cielo cosmico, la dialettica creatrice, ed è infinita: perocché la creazione non à fine. E.
  6. v. 37. State contenti.... al quia. Dichiarando l’Etica d’Aristotile, Bernardo Segni avverte come ogni dottrina s’ acquista con qualche cognizione preesistente; o se e’ non sa da sè stesso i princìpi effettivi, debbe crederli almeno a chi glieli insegna. Quindi è di necessità che chi à da udire la scienza dell’etica sia accostumato, il che vale che debba avere il principio quia. Il perchè delle cose è il secondo membro delle cose; cioè la creazione. Qui il Poeta, giusta il medesimo Filosofo subalpino, sembra mostrare che la mente umana non si può innalzare sul perchè, e investigare il perchè del perchè: conciossiachè al di sopra della creazione non vi abbia più che l’assoluto.
    E.
  7. v. 40. sensa
  8. v. 50. C. A. La più ritta ruina è
  9. v. 58. C. A. n’apparve
  10. v. 61. C. A. dissi al Maestro,
  11. v. 64. C. A. Guardommi
  12. v. 69. Traria dall”infinito trare. E.
  13. v. 92. C. A. E tutti gli altri
  14. v. 116. Ragona, Vive tuttora l’uso di togliere l’a nel principio d’alcune parole. Ragona, Rimino, rena ec. per Aragona, Arimino, arena. E.
  15. v. 122. C. A. Ma la bontà di Dio à
  16. v. 135. la speranza
  17. v. 139. C. A. ch’egli è stato,
  18. v. 139. Fi’, troncamento di fìe, sia, sarà, cavato dal latino fiam, fies ec. E.
  19. v. 140. C. M. decreto
  20. v. 144. C. A. esto

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C O M M E N T O


Avvegnaché la subitana fuga ec. Questo è lo canto terzo de la seconda cantica 1, nello quale lo nostro autore finge come pervenne con Virgilio a la prima grotta del monte; e, come in sul primo balso stando elli giuso a piè de la grotta, quelle anime che erano state negligenti che aveano indugiato la loro penitenzia alquanto, o in fine a la fine, stati contumaci contra la sentenzia del pastore de la chiesa, perchè sono stati scomunicati, per superbia stati alcuno tempo, o vero infine a l’ultimo, in contumacia de la santa chiesa. E di queste anime tratta in questo canto, e perchè questa 2 è più grave che l’altre: imperò che procede da superbia, però finge che sia punito in [p. 58 modifica]luogo più basso che l’altro; e perchè è men grave che la prima che procede da tutti peccati, però finge che sia punita in più alto luogo. E dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima pone come pervenne al monte, e come trova in sul primo balso del monte una grande multitudine d’anime; ne la seconda pone come ne ricognocesse alcuna e parlasse con lei, et è la seconda: Come le pecorelle ec. La prima si divide in 7 parti, perchè prima finge che l’anime dette di sopra, riprese da Catone, tutte si sparseno per la campagna, e ch’elli si ristrinse a Virgilio; ne la seconda finge ch’elli avesse paura d’essere abbandonato da Virgilio, quine: Quando li piedi suoi ec.; ne la terza finge come Virgilio riprese la sua paura, e dichiarollo d’alcuno dubbio, quive: E il mio Conforto ec.; ne la quarta finge che Virgilio riprenda tutti li omini che sono troppo presuntuosi, volendo sapere quello che non è licito a sapere, quive: Matto chi spera ec.; ne la quinta finge come pervenneno a piè del monte, e come apparì loro nuova gente, quive: Noi devenimmo intanto ec.; ne la sesta finge come elli notifica a Virgilio come gente viene, unde si potea avere consillio; e come Virgilio lo conforta che vadino inverso loro, perchè veniano molto piano, quive: Leva, diss’io, Maestro ec.; ne la settima finge come Virgilio incomincia a parlare a quella gente, poi che funno giunti ad essa, quive: O ben finiti, o già spiriti eletti ec. Divisa la lezione, ora è da sponere lo testo coll’allegorie, o vero moralitadi, secondo ’l modo usato.

C. III — v. 1-9. In questi primi tre ternari lo nostro autore finge che, ben che l’anime riprese da Catone si spargesseno per la campagna, elli pur si ristrinse a Virgilio, dicendo: Avvegnaché la subitana fuga; de l’anime co le quali io e Virgilio eravamo posti a sedere ad udire cantare Casella la cansone morale ditta di sopra; de la quale fuga fu cagione la reprensione di Catone ditta di sopra, Dispargesse color; cioè l’anime dette di sopra, per la campagna; cioè per la pianura che era inanti al monte, Rivolti al monte; cioè del purgatorio, inverso ’l quale correvano, ove ragion ne fruga; cioè inverso lo quale luogo la ragione solicitava e stimulava che le andasseno: sempre la ragione sollicita che si sodisfaccia a la colpa co la pena; e questa sollicitudine con stimolo era loro per debita pena de la negligenzia avuta nel mondo a venire a lo stato de la penitenzia. E che stiano tanto tempo in questo stimulo, quanto ànno indugiato per li diletti mondani a venire a la penitenzia, è ragionevile e verisimile quanto a quelli che sono passati; ma di quelli del mondo lo veggiamo per esperienza: imperò che continuamente è l’omo ripreso e rimorso da la coscienzia, quando sta nei diletti mondani, e non si dirissa ad acquistare li diletti eterni co l’opere de la penitenzia. Io; cioè Dante, mi ristrinsi a la fida compagna; [p. 59 modifica]cioè a Virgilio, che significa la ragione, come detto è di sopra: quando la sensualità ripresa del fallo si ristringe a la ragione, non può se non ben capitare; e però dice: E come sare’ sensa lui; cioè senza Virgilio, io; cioè Dante, corso? Quasi dica: Male: imperò che mal corre la sensualità sensa la ragione. Chi m’avria tratto; cioè menato e tirato, su per la montagna; del purgatorio? Quasi dica: Niuno, se la ragione da me stata fusse separata. El; cioè Virgilio, mi parea; cioè a me Dante, da sè stesso rimorso; cioè del fallo commesso: imperò che, per stare ad udire lo canto di Casella, avea lassato l’andare al monte: fallo è per diletti mondani esser negligente a la penitenzia, e per cose meno utili lassare le più utili. E benché l’autore finga, secondo la lettera, di Virgilio, elli intende moralmente di sè medesimo, intendendo che la ragione avea avuto rimordimento del tempo perduto in udire cantare e sonare e simili dilettazioni; unde a commendazione di ciò dice, usando esclamazione, colore retorico: O dignitosa coscienzia e netta; che cosa sia coscienzia fu dichiarato per me di sopra nella prima cantica, e dice notevilmente de la coscienzia degna e netta: imperò che quella che è vitoperosa e brutta non à rimordimento dei grandi falli, non che dei picculi, e non si chiama coscienzia; ma ostinazione. E bench’io trattai ne la prima cantica de la coscienzia, aggiungo quivi questa bella moralità, che nell’anima umana Iddio à posto lo libero arbitrio, come signore, e l’intelletto e la ragione, come collaterali e consillieri: àci posto due officiali; cioè la discrezione e la coscienzia: et àci posto du’ familli; la carne e lo spirito, li quali sono grandissimi inimici, e l’uno, cioè la carne, è lusinghieri e bugiardo; e l’altro, cioè lo spirito, aspro e vertieri 3. Quando la carne porta al signore le cose mondane e viziose; e lo signore si vollia consilliare con lo spirito, colla discrezione, co la coscienzia, co la ragione e co l’intelletto e stare al loro consillio, rifiutasi lo rapportamento de la carne, e la cosa 4 sta in pace, e la coscienzia si può chiamare allora insieme scienzia: imperò che s’accorda con tutti. E così quando lo spirito rapporta al signore le cose spirituali et elli l’accetti, ancora ogni cosa sta in pace; ma quando lo signore si lassa ingannare a la carne, e non vuole credere ai suoi officiali e consillieri, lo spirito contasta, la coscienzia grida: Questo non è ben fatto; et allora si chiama contra scienzia: imperò che ella grida: Io so che tu fai quel che non dei, quel che non è del volere de la corte. Ma addiviene alcuna volta che la si fortica con i suoi [p. 60 modifica]amici; cioè col mondo e col dimonio e fanno imprigionare al signore lo spirito e tutti li officiali, e mettenovi uno loro vicario che si chiama ostinazione, e questa tura 5 li orecchi al signore; sì che, ben che la coscienzia gridi e tutta la corte, lo signore non ode. E così diventa l’omo servo del dimonio, perchè in luogo de la coscienzia è venuta l’ostinazione; e però dice: O coscienzia dignitosa; cioè piena di dignità, e netta: imperò che niuno fallo sostiene, non può essere tanto picculo 6, che non gridi contra esso, e però dice: Come t’è picciol fallo amaro morso! Quasi dica: A la degna e netta coscienzia ogni picculo fallo dà grande et amara rimorsione: la rimorsione del peccato è riprender sè medesmo del peccato fatto, e dolersi d’averlo fatto.

C. III— v. 10-24. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, avuta debita rimorsione del fallo commesso, ritornò al proposito; e vedendo pure una ombra inanti a sè, finge ch’avesse paura d’esser abbandonato da Virgilio, e però dice: Quando li piedi suoi; cioè di Virgilio; e per questo s’intende lo desiderio e l’affezione de la ragione di Dante, secondo la moralità, lassar la fretta; di correre al monte, come avea confortato Catone, al quale, secondo la lettera finge Dante che corresse Virgilio, et elli dirieto a lui, come l’altre anime corseno; ma secondo l’allegoria intende dell’affezione dell’animo che viene spesse volte sì ardente, che l’omo corre a la penitenzia senza avere discrezione e considerazione; la quale cosa è mancamento d’onore e del dovere; e però dice: Che; cioè la qual fretta, l’onestade; che s’appartiene al savio: onestà è mantenimento d’onore; lo quale onore è premio in questa vita de la virtù, ad ogni atto dismaga; cioè manca in ogni atto virtuoso o grande o picculo che sia; et è notabile questo; cioè che la fretta manca l’onestà in ogni atto, La mente mia; cioè di me Dante, che prima era ristretta; secondo la lettera, a seguire Virgilio che andava ratto; e secondo l’allegoria, a considerare lo fallo, Lo intento rallargò; cioè rallargò sè a lo intento, cioè a la materia intesa; cioè ritornò alla materia presa a trattare; o volliamo dire: Rallargò lo intento, cioè lo intendimento che s’era ristretto ad avere dolore de la negligenzia commessa, sì come vaga; cioè de la materia incominciata, E diedi il viso mio; cioè lo veder mio, incontro al poggio; cioè incontra ’l monte del purgatorio, considerando la sua altessa e malagevilessa, Che inverso il Ciel più alto si dislaga; cioè da quella parte dove più alsa inverso il cielo. Lo Sol, che dietro fiammeggiava roggio; cioè la spera del Sole che era come fiamma risplendiente 7, Rotto m’era dinanzi; cioè appariva rotta dinansi da me, a la figura; cioè all’ [p. 61 modifica]ombra de la mia figura che si vedeva dinansi, Che aveva: cioè la quale spera avea, in me; cioè Dante, de’ suoi raggi l’appoggio; cioè l’opponizione 8 de’ suoi raggi, che non trapassavano me. Io; cioè Dante, mi volsi da lato; cioè a vedere, se v’era Virgilio, con paura D’esser abbandonato; cioè da Virgilio, perch’io vedeva l’ombra mia, e non la sua, quando io; cioè Dante, vidi Sol dinanzi da me; e non dinansi a Virgilio, la terra scura; cioè per l’ombra mia e non per Virgilio che non facea ombra, perchè non avea se non corpo aereo.

C. III— v. 22-33. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio lo conforta e rende ragione, perchè lo corpo suo non fa ombra, dicendo così: E il mio Conforto; cioè Virgilio, che significa la ragione che sempre conforta la sensualità: Perchè pur diffidi, A dir mi cominciò; cioè a me Dante, tutto rivolto; perchè mellio Dante intendesse, Non credi tu; cioè Dante, me; cioè Virgilio, teco; s’intende, essere, e ch’io te guidi; come io t’abbo guidato in fine a qui? E rende la ragione perchè lo suo corpo non fa ombra, dicendo: Vesper; cioè sera, è già; cioè ora, colà, dov’è sepolto Lo corpo; cioè mio, dentro al quale io faceva ombra; cioè dentro al qual corpo la mia anima incorporata faceva ombra, come fai ora tu, Dante: Napoli l’à; cioè lo corpo mio: però che in Napoli è ora sepulto: Napoli è una città posta in Campagnia che confina con Lucania, tra le quali è termine lo fiume Siler, che prima si chiamava Partenope, e di Brandigi è tolto; dimostra qui Dante che Virgilio morisse a Brandigi ch’è una città di Calavria, e quive fue prima sepulto, poscia fue tolto quinde e portato a Napuli 9, e quivi è ora sepulto. E dice che ora v’era sera: però che Napuli è in questo emisperio, et ellino erano nell’altro, secondo che finge l’autore, et era a loro levato lo sole, sicchè in questo emisperio era tramonto, sicchè ben c’era sera allora. Ora, se inanzi a me nulla s’aombra; cioè se io sono trasparente e non adombro niuna cosa, Non ti meravilliar; tu, Dante, più che de’ cieli; li quali sono corpi trasparenti e diafani, Che l’uno; cioè cielo, all’altro; cioè cielo, raggio non ingombra; cioè non occupa, non impaccia lo raggio 10 del superiore cielo lo inferiore, sì che non passa giuso in fine a la terra, sì come si vede che li raggi de le stelle fisse e de le pianete passano giù e fanno l’operazione loro. Et anco si può intendere del raggio visuale nostro: però che ’l nostro occhio vede infine a l’ottava spera, dove sono le stelle fisse, benchè ci siano sette cieli in mezzo, a similitudine del vetro ch’è penetrato dal nostro raggio visuale; e così li cieli e così li corpi aerei, di che si vesteno l’anime, poi che si parteno dal corpo umano, sono [p. 62 modifica]trasparenti e diafani al raggio del sole e non occupano luogo. A sofferir tormenti e caldi e gieli; ora solve uno dubbio che nasce da quello ch’è ditto; cioè come tali corpi sono passibili di tormenti di caldo e gielo, dicendo: Simili corpi; a quelli che abbiamo avuti di carne ed’ossa, la Virtù; cioè divina, dispone; cioè ordina, Che; cioè la quale Virtù divina, come fa, non vuol che a noi; cioè a noi omini, si sveli; cioè si scuopra e manifesti.

C. III— v. 34-45. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio riprende li omini presuntuosi di sapere, volenti sapere quel che non è possibile a l’omo di sapere; e però disse l’Apostolo: Non plus sapere quam oportet sapere 11, dicendo così: Matto 12; cioè matto è, chi spera; cioè colui che spera, che nostra ragione; cioè ragione umana, Possa trascorrer; cioè trapassare, la infinita via; cioè di Dio, Che; cioè la quale via, tiene una Sustanzia in tre Persone; cioè la Divinità che è una Sustanzia in tre Persone; cioè nel Padre, nel Filliuolo e ne lo Spirito Santo; e però ben disse l’Apostolo in Epistola ad Romanos: O altitudo divitiarum sapientiae, et scientiae Dei, quam incomprehensibilia sunt iudicia eius, et investigabiles viae eius! E però ben dice l’autore che matto è colui che spera che la ragione umana, che è finita, possa trapassare la via di Dio, che è infinita; e nota che matto è vucabulo grammaticale 13 che viene a dire più cresciuto che non porta l’età; ma l’autore lo pillia come li volgari, che dicano matto chi è stolto. E questa riprensione pone qui l’autore, perchè molti si meravilliano come l’anima separata dal corpo sia passibile di caldo e di gielo e d’altre passioni: con ciò sia cosa ch’ella sia simplice forma, e simplice forma non è passibile, secondo lo Filosofo. Et a questo si risponde che questo è fatto sopra natura: imperò che Dio àe così ordinato, perchè la iustizia abbia lo suo effetto; e benchè per noi non si vegga lo modo, debbiamo tenere che così àe 14 ordinato questo la Virtù divina, e però aggiunge questa notabile sentenzia: State contenti, umana gente; cioè voi omini, al quia; cioè a la ragione, che si rende dell’opere divine 15 non investigabili da voi: imperò che quando si dimanda: Come è possibile questo, vasta 16 a rispondere: Perchè Dio vuole et àe fatto così; et a questa risposta ogni uno à da stare contento. Et assegna la cagione; cioè imperò che lo intelletto umano non è capace d’ ogni cosa: imperò che non è capace de la Divinità, nè di tutte l’opere suoe, benchè [p. 63 modifica]possa essere d’alquante. Chè, se potuto aveste veder tutto; cioè ogni cosa col vostro intelletto, Mestier non era parturir Maria: cioè non era bisogno che il Filliuolo di Dio prendesse carne umana, la quale elli prese ad aprire la porta del cielo, all’umano intelletto per lo peccato d’Adam chiusa; al quale intelletto se fusse Dio stato ignoto, non arebbe l’omo avuto beatitudine; la quale beatitudine 17 è avere notizia di Dio, di tutte le cose, la quale solamente s’ àe dall’anime beate, separate dal corpo, le quali vedendo Dio, vedeno ogni cosa, secondo che dice la Santa Scrittura: Quid est quod non videant, qui videntem omnia vident? — E disiar; cioè desiderare, vedeste; voi, omini, cioè di veder tutto, senza frutto: imperò che in vano fu lo loro desiderio, Tai; cioè sì fatti omini, che sarebbe il lor disio; cioè desiderio, quetato; cioè contento, se fusse stato possibile a l’omo di saper tutto: sì fatti ingegni ebbeno escessivi sopra li altri, Ch’eternalmente è dato lor per lutto. Demostra qui che la pena delli scienziati, ch’elli finge essere nel castello ch’elli finse essere nel limbo, sia solamente lo desiderio del sapere lo quale non si può quetare: imperò che non possano vedere Dio, et in questa pena staranno sempre. Io dico d’Aristotile e di Plato; di questi filosofi fu detto ne la prima cantica, dove si fa menzione di loro; chi vuole notizia di loro, ritrovili quive, E di molti altri; cioè filosofi, che funno di grande sapere e di grande ingegno; e qui chinò la fronte; cioè Virgilio, vergognandosi d’essere stato di quelli, e che sì alti intelletti errasseno in questo che volesseno comprendere le cose spirituali per quel modo, che coinprendeano le cose corporali. E più non disse; cioè Virgilio allora, e rimase turbato; dolendosi di non poter contentare lo suo desiderio. E per questo dà ad intendere, secondo la lettera, che Virgilio fusse di quelli savi omini; e secondo la moralità intende di sè medesimo che anco ebbe quel pensieri, di che ora si duole e pentesene.

C. III— v. 46-60. In questi cinque ternari finge lo nostro autore come elli e Virgilio pervenneno a piè del monte, e come apparì loro nuova gente, dicendo così: Noi; cioè Virgilio et io Dante, devenimmo intanto; cioè mentre che Virgilio disse le parole dette di sopra, a piè del monte; del purgatorio: Quivi trovammo la roccia; cioè la ripa, sì erta; cioè sì ritta, Che indarno vi sarien le gambe pronte: però che non vi si potrebbe montare. E per questo si nota che molti gradi di penitenzia sono sì ardui e malagevili, che eziandio co l’affetto invano s’aggiungerebbeno, et adduce una similitudine a manifestamento dell’erta del monte, dicendo così: Tra Lerici; questa è una terra di Genovesi, che finisce 18 la riviera da levante che è nel [p. 64 modifica]Golfo de la Spezia, e Turbìa; questa è un’altra terra di Genovesi, che finisce la riviera di verso ponente, in verso la Provensa; e tra l’una e l’altra terra sono montagne altissime lungo ’l mare, e chiamasi riviera, et èvi molte coste faticose et alte molto, e però dice: la più diserta; cioè abbandonata per la sua aspressa, La più romita costa; cioè la più dirupata e chiusa, è una scala, Verso di quella; cioè a rispetto di quella del monte del purgatorio, agevole et aperta; che sono adiettivi contrari a quelli di sopra: agevole è contrario alla diserta, aperta è contrario a la romita. Or chi sa da qual man; cioè o da la ritta, o da la manca, la costa cala, Disse il Maestro mio; cioè Virgilio, fermando il passo; per mellio vedere, Sì che possa salir chi va senz’ala, cioè Dante che andava col corpo? E mentre ch’ei; cioè Virgilio, tenendo il viso basso; come fa chi pensa, Esaminava del cammin la mente; cioè considerava ne la mente qual cammino dovesse prendere, Et io; cioè Dante, mirava suso intorno al sasso; che si convenia montare. E ben finge l’autore che la ragione, significata per Virgilio, esaminava la mente del cammino; e la sensualità, significata per lui ragguardava lo sasso; cioè la duressa del sallire all’altessa de la penitenzia. E verisimilmente significa che venisseno da man sinistra: imperò che nel purgatorio non si va se non inverso mano ritta, e però volendo mostrare che venisse verso loro, che stavano ad aspettare e vedere, convenia che venisse la gente di verso mano sinistra di Dante, e però dice: Da man sinistra; allegoricamente finge che lentamente venisse questa gente: imperò che erano stati negligenti a venire a lo stato de la penitenzia, et in contumacia de la santa chiesa, perch’erano vissuti scomunicati; ma a la fine s’erano ricognosciuti, e però finge che venisseno lentamente, m’apparì; a me Dante, una gente D’anime; cioè una generazione d’anime, che moveano i piè ver noi; cioè verso me Dante e Virgilio su per quello primo balso, E non parea; che movesseno li piei: sì venivan lente; cioè sì venivano lentamente, che non parea che si movesseno.

C. III— v. 61-72. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli notifica a Virgilio l’avvenimento de la gente, unde si potrà avere consillio; e come Virgilio lo conforta che vadino verso loro, dicendo così: Leva, diss’io; Dante a Virgilio, Maestro, li occhi tuoi; li quali elli avea abbassati, esaminando la mente del cammino: li occhi de la ragione sono la comperazione e discrezione, li quali si denno levare da la ragione a ciò che possa consilliare: Ecco di qua; cioè di verso man sinistra, chi ne darà consillio; cioè al nostro cammino, Se tu da te medesmo aver nol puoi: molte cose sono a che non si può stendere la ragione umana, e massimamente ne le cose spirituali, unde si dè lassare consilliare a la santa chiesa che àe sopra ciò la [p. 65 modifica]sua scienzia; cioè la santa Teologia. Guardò allora; Virgilio, com’io Dante li dissi: la sensualità, che si commette al consillio de la Santa Chiesa, s’avvede dell’aiuto che li può venire mellio, che la ragione, e con libero fillio; cioè con libero volto fatto accorto di quello 19 non s’avvedea, Rispuose; Virgilio a Dante: Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; ecco che dimostra la loro negligenzia, E tu ferma la speme, dolce fillio; ecco che conforta la ragione la sensualità che si fermi ne la sua speransa, che l’aiuto viene da Dio in tal modo che spesse volte la ragione nol sa pensare. Ancora era quel popul; detto di sopra, di lontano; cioè di lungi, Io dico; cioè io Dante, di po’ i nostri mille passi; che eravamo iti verso loro Virgilio et io Dante, Quanto un buon gittator traria; cioè gitterebbe, con mano; cioè una gittata di pietra di buon braccio, Quando si strinser tutti ai duri massi; cioè ai duri scolli, Dell’alta ripa; del monte, e stetter fermi e stretti; inverso ’l monte, per aspettare e vedere Virgilio e Dante, che andavano verso loro, e però dice: Come a guardar, chi va dubbiando, stassi; cioè come da l’opere 20 si sta a guardare chi va dubitando la via, o dubitando di cosa nuova che apparisca, come andavamo Virgilio et io Dante dubitando, che non sapavamo dove andare; et elle se n’avvedevano, perchè andevenivano 21 inverso mano sinistra, che non si può andare di là se non inver mano destra sì, che si fermonno come chi vede cosa nuova; e finge l’autore che erano iti 1000 passi inverso loro; e coloro, quando si li 22 viddeno presso ad una gittata di pietra, si fermonno accostandosi al monte vedendoli andare errando inverso loro, per mostrare ch’elli, uscito de la negligenzia produtta da diletti mondani, errò uno millio; cioè perdette lo tempo quanto a sè che non era colpevile in tale negligenzia, trattando d’essi; per mille passi intendendo l’opera che arebbe dato a spacciarsi de la negligenzia ne la quale fusse stato colpevile; e coloro dubitando s’accostano a la pietra; cioè a Cristo innanti che s’accostino per uno gitto di pietra; cioè tanto quanto vasti a ponere giuso la duressa dell’animo. E questo s’intende allegoricamente di quelli del mondo che, quando vedeno errare coloro che deputano savi, arrenano e fermansi raccomandandosi a Cristo, che l’opere virtuose cacciano da sè l’arrenamento; cioè co la orazione.

C. III— v. 73-78. In questi due ternari lo nostro autore finge come Virgilio dimanda consillio del cammino a quelle anime trovate, dicendo così: O ben finiti, o già spiriti eletti: ben si conveniano cotali adiettivazioni a quelli spiriti: imperò che bene erano finiti, perch’ [p. 66 modifica]erano finiti ne la grazia di Dio; e bene erano eletti a salute eterna, Virgilio incominciò; parlando a quelle anime, per quella pace; cioè eterna, Ch’io credo; cioè io Virgilio, che per voi tutti s’aspetti: imperò che quelli del purgatorio tutti aspettano la gloria di paradiso, Ditene, dove la montagna giace; sicché si possa montare; e però dice: Sì che possibil sia l’andare in suso; inverso la sua altessa: Chè perder tempo a chi più sa più spiace; chi più conosce, più si duole del tempo che si perde: imperò che vede che mai non ritorna e mai non si riquista. E ben finge l’autore che Virgilio, che significa la ragione, sia quello che dimandi u’sia la montata agevile: imperò che mettersi abbandonatamente a le cose faticose de li atti de la penitenzia è mattia. E qui finisce la prima lezione del canto terzio.

Come le pecorelle escon del chiuso ec. Questa è la seconda lezione del canto terzio, ne la quale finge l’autore che ricognoscesse alcuna di quelle anime e parlamentasse con lei; e dividesi questa lezione in 6 parti: imperò che prima, manifestando come quella gente si mosse inverso di loro de la quale fu detto di sopra, fa una similitudine; ne la seconda finge come Virgilio, accorgendosi che l’anime si meravilliavano di Dante, le dichiara che Dante è col corpo, e dimanda de la via, quive: Senza vostra dimanda ec. ne la tersa finge che un’anima di quelle si li dà a cognoscere, quive: Et un di lor incominciò ec.; ne la quarta dichiara quell’anima ancora Dante come ella venne a salute: con ciò sia cosa che fusse scomunicata, quive: Poscia ch’io ebbi ec.; ne la quinta quell’anima manifesta ancora a Dante che importanzia fa la scomunicazione ai passati, quive: Per lor maledizion sì non si perde ec.; ne la sesta conchiude, pregando Dante che lo notifichi ai suoi, sicché l’aiutino co l’orazioni e co le elimosine, quive: Vedi oggimai ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la sposizione litterale et allegorica.

C. III— v. 79-93. In questi cinque ternari finge l’autore, che poi che Virgilio ebbe fatto la sua dimanda a quelle anime, elle si partitteno del luogo dove s’erano rinchiuse e venneno verso loro; e fa una similitudine, dicendo: Come le pecorelle escon del chiuso; cioè quive dove sono state la notte per salvamento da’ lupi: bene assimillia quelle anime a le pecorelle, perchè l’anima separata dal corpo è simplice come le pecore, Ad una, a du’, a tre; insieme, e l’altre stanno Timidette atterrando; cioè tenendo giuso verso la terra, l’occhio e il muso; loro, E ciò che fa la prima; cioè pecora, e l’altre; cioè pecore, fanno, Addossandosi a lei; cioè gittandosili addosso, s’ella s’arresta; cioè che non vada più oltra, Semplici e quete; cioè con simplicità si li gittano addosso e sensa fare romore, e lo perchè; faccino così, non sanno; esse pecore; ; cioè così come le pecorelle, viddi io; Dante, muover, a venir, la testa; di quella congregazione [p. 67 modifica]dell’anime ditte di sopra, Di quella mandria; cioè congregazione: come la mandra è rauno di pecore; così quello era rauno d’anime, fortunata; cioè felice, perchè è in stato di salute, allotta; cioè che Virgilio ebbe dette loro le parole ditte di sopra, Pudica in faccia; cioè vergognosa co la faccia bassa verso terra, e ne l’andare onesta; cioè andando piano, come richiede l’onestà. Come color dinanzi; di quelle anime, vidden rotta; per l’ombra che facea lo mio corpo, La luce; cioè del sole, in terra dal mio destro canto; cioè da mano ritta venia lo sole a Dante. E questo dice, per mostrare ch’elli erano iti a drieto, andando verso mano sinistra per parlare co le ditte anime, che l’andare suo prima era verso mano ritta, come finto è di sopra: imperò che, descendendo ne lo inferno, sempre finse che andasseno verso mano sinistra; e così, montando verso ’l purgatorio, sempre finge che vada verso mano ritta, perchè la via ritta è quella de le virtù e la manca è quella dei vizi; e s’elli fusse ito verso man ritta come andava prima verso l’oriente, la luce del raggio del sole sarebbe venuta del sinistro canto. Et è anco da notare che ne lo inferno finse che andasse col sole di po' le spalle; così nel purgatorio col sole sempre inanti: e come girava lo sole; così giravano lo monte, andando sempre lo sole inanti: e quando lo sole tramontava, si riposavano, juxta verba Evangelii: Ambulate, dum lucem habetis. — Sì che l’ombra; cioè del mio corpo al raggio del sole, era da me; cioè Dante, a la grotta; del monte, Restaro; allora le ditte anime che veniano inansi, vedendo questo, e trasser sè indietro alquanto; quasi per meravillia e dubbitando, E tutte le altre; anime, che veniano appresso; a quelle dinansi, Non sapendo perchè; cioè la cagione, fenno altrettanto; cioè di restarsi e tirarsi a rieto. E qui può essere questa allegoria; che le persone del mondo che s’apparrechiano all’atto de la penitenzia come pilliano umiltà; così simplicità e timidità: e meravilliansi, vedendo uno omo carnale per la via de la carnalità andare all’aparecchiamento de la penitenzia, come andava Dante: e stanno sì fatte persone ad obedienzia di chi le guida sì, che quel che vedeno fare a la guida, fanno ancora ellino.

C. III— v. 94-102. In questi tre ternari lo nostro autore fìnge come Virgilio, avvedendosi de la cagione de l’ammirazione di quelle anime, le certifica; e come certificate insegnano la via, dicendo così: Senza vostra dimanda; ecco che non aspetta Virgilio che dimandino; ma elli solve lo dubbio, dicendo: io; cioè Virgilio, vi confesso, Che questo è corpo; dinotando Dante, uman; cioè d’omo, che voi vedete; rompere lo sole; e però dice: Per che il lume del Sole in terra è fesso; cioè per l’ombra sua: Non vi meravilliate; voi, anime, ma credete; certamente, Che non senza virtù che dal Ciel vegna; cioè non sensa grazia cooperante e perficiente che viene da Dio, [p. 68 modifica]Cerchi di soperchiar questa parete; cioè di montare questo monte de la penitenzia e del purgatorio. Così il Maestro; cioè così disse loro Virgilio; e quella gente degna; cioè l’anime che dette sono di sopra, che eran degne fatte de la grazia di Dio: Tornate, disse; ecco che li ammonisce del tornare verso l’oriente, et andare verso mano ritta in verso ’l sole, entrate inanzi dunque; e così convenia che andasseno, poi che tornavano a rieto; et anco finge questo l’autore, per mostrare ch’elli doveano montare suso; ma quelle anime rimanere, Coi dossi de le man facendo insegna: cioè demostrazione che tornasseno a rieto. Et è qui notabile che a così fatta dubitazione è convenevile che la ragione risponda sensa essere dimandata, volendo prendere consillio da sì fatte persone, acciochè dichiarate del loro dubbio consillino; e così àe finto qui l’autore, mostrando come, dichiarato che lo suo andare così era per la grazia di Dio, elle subitamente consillionno che andasseno innanti. Ma è qui da considerare che l’autore finge che andasseno allato a la grotta, e quelle anime sul basso 23, per mostrare ch’elli non era di loro condizione: imperò che non era mai stato scomunicato; e però fingerà di sotto che, montato quel primo balzo, non vi si restasse; ma subito passò al secondo balso; cioè al terso luogo dei negligenti de la tersa specie.

C. III — v. 103-117. In questi cinque ternari lo nostro autore fìnge come una di quelle anime lo incitò a parlare seco, dicendo: Et un di lor; cioè dell’anime dette di sopra, incominciò; a parlare, dicendo: Chiunque Tu se’; disse a Dante, così andando; sensa arrestare, volge il viso; tuo verso me, Pon mente, se di là; cioè nel mondo, mi vedesti unque; cioè mai; cioè guarda, se mi ricognosci. Io; cioè Dante, mi volsi ver lui; cioè verso l’anima che avea sì parlato, e guardail fiso; per ricognoscerlo, e descrive le suoe fattesse: Biondo era e bello; quello spirito, e di gentile aspetto; cioè di gentile apparenzia, Ma l’un dei cilli un colpo avea diviso; cioè avea fesso l’uno cillio delli occhi per uno colpo che avea avuto nel mondo. Quand’io; cioè Dante, mi fui umilmente disdetto; cioè d’averlo cognosciuto; e però dice: D’averlo visto mai, ei disse; cioè quello spirito a me Dante: Or vedi; E mostrommi una piaga a sommo il petto; la quale avea avuta nel mondo, quando fu morto nella battallia. Poi sorridendo; questo dice l’autore, perchè l’anime passate si fanno beffe de le cose del mondo, disse: Io son Manfredi; ecco che si nomina. Questo fu lo re Manfredi di Sicilia filliuolo de lo imperadore Federigo secondo, e non fu legittimo, e fu male in concordia co la chiesa, sì che ’l papa lo scomunicò e mandò contra a lui lo cardinale Cosense 24, lo quale giurò che convenia che lo cacciasse del regno, e [p. 69 modifica]così fece: imperò che, accordatosi con Carlo fratello del re Lodovico di Francia duca d’Angiò e conte di Provensa, coronatolo re di Cicilia co la sua forsa, lo sconfisse a Ceparo l’ultimo di’ di febraio nel 1265 25, dove fu ferito e morto lo re Manfredi come fu detto di sopra ne la prima comedia nel canto xxviii; e sotterrato a Benevento nel sepolcro regale ne fe cavare l’ossa suoe di notte e fecele gittar fuor del regno. Nipote di Gostanza imperatrice. Questa Gostansa imperadrice fu filliuola del re Tancredi di Sicilia e mollie de lo imperadore Arrigo v, padre de lo imperadore Federigo secondo, padre del re Manfredi di Sicilia, sicché ben viene nipote de la detta Gostansa. Per questa Gostansa venne lo regno di Sicilia a lo imperadore Arrigo primo: imperò ch’elli 26, preso lo regno e Tancredi e la madre sua la reina Margarita, ne menò seco ne la Magna, e così venne poi lo detto regno a lo imperadore Federico, padre di Manfredi, e poi a Manfredi; e però finge l’autore ch’elli si nominasse nipote di Gostansa, per mostrare come lo regno di Sicilia era disceso a lui 27. Und’io; cioè Manfredi, ti prego; cioè te Dante, che, quando tu riedi; cioè al mondo, Vadi a mia fillia bella; la quale ebbe nome Gostansa ancora, o vero Agostansa, genitrice Dell’onor di Cicilia; perchè fu madre di don Federigo re di Sicilia, e di Ragona; dice, perchè fu anco madre di don Iacopo re di Ragona, E dichi a lei il ver; cioè come m’ài veduto in stato di salute, s’altro si dice; questo dice: imperò che molti diceano che era dannato, perch’era morto scomunicato.

C. III — v. 118-132. In questi cinque ternari finge l’autore che lo re Manfredi dichiari a lui lo modo de la morte sua, dicendo: Poscia ch’io; cioè Manfredi, ebbi rotta la persona; ne la batallia che si fe a Ceparo, Di du’ punte mortali; cioè di du’ ferite mortali; l’una nel cillio e l’altra al sommo del petto, come ditto fu di sopra, Io; cioè Manfredi, mi rendei Piangendo; per contrizione, a Quei che volontier perdona; cioè a Dio. Orribil furon li peccati miei; ecco che s’accusa grande peccatore; Ma la Bontà infinita; cioè Dio, à sì gran braccia; queste sono la misericordia sua infinita e la iustizia, [p. 70 modifica]Che; cioè la quale Bontà, prende ciò che si rivolge a lei; cioè chiunque si rivolge a Dio dimandando perdono, Dio 28 l’abbraccia perdonandoli et accettandolo ne la grazia sua e stringendolo a sè: imperò che El col braccio de la misericordia perdona, e col braccio de la iustizia rimerita lo buon volere. Se il Pastor di Cosenza; cioè lo cardinale detto di sopra 29, legato contra lo detto re Manfredi, che a la caccia Di me fu messo; cioè a perseguitarmi 30,per Clemente; cioè per papa Clemente quarto, allora; che io fu’ morto, Avesse in Dio ben letta questa faccia; cioè dove si tratta ne la Santa Scrittura, dicente: Misericordia Dei plena est terra; et in molti altri luoghi de la misericordia sua, L’ossa del corpo mio sariano ancora In co; cioè in capo, del ponte; che è sopra il fiume Calore, presso a Benevento; questo dice perchè ’l ponte e lo fiume è presso a Benevento, che è una città posta nel regno di Napoli e di Sicilia; cioè tra Campania e Pullia; e fu chiamata la città e la contrada anticamente Sannio, Sotto la guardia della grave mora; par che in sul capo del ponte per guardia fusse fatta una grande torre et uno grande edificio con una chiesa; e sotto quive ne la ditta chiesa era lo sepulcro del re Manfredi; lo quale edificio l’autore chiama mora; chiesicciuola, quasi dimoransa e fermezza 31. E questo dice, perchè su quel ponte sono due bellissime e grandissime torri in su ogni capo; una a guardia del passo, e sotto l’una è l’una chiesicciuola, come detto è. Or le bagna la pioggia; dell’aire le mie ossa, e move il vento: però che funno fatte cavare del sepulcro per lo ditto legato, perchè giurato avea di cacciarmi del regno, sicché 32 non potendomene cacciar vivo, me ne cacciò morto, e fece gittare le mie ossa fuora del regno, presso a la fine; e però dice: Di fuor del regno; sopra ditto, quasi lungo il Verde 33: lo fiume chiamato Verde è uno fiume ch’entra in uno altro fiume, che si chiama Tronto tra Ascoli e Bari, Dove le trasmutò; cioè fece trasmutare lo detto legato, al lume spento; cioè di notte, o pur di di’, sensa niuno onore di torchi e di lumi, sì come scomunicato.

C. III — v. 133-141. In questi tre ternari finge l’autore nostro che ’l re Manfredi una bella dichiaragione li facci di quelli che muoiano scomunicati, dicendo così: Per lor maledizion; cioè dei prelati de la Santa Chiesa; cioè per loro scomunicazioni, sì non si [p. 71 modifica]perde; cioè per si fatto modo, Che non possa tornar l’eterno amore; cioè che l’omo non possa tornare ne la grazia di Dio, Mentre che la speranza à fior del verde; cioè mentre che l’omo vive, e che tanto quanto l’omo vive, può l’omo sperare, poi non più. E qui è da notare che importa la scomunicazione a coloro che sono scomunicati, e la dichiaragione che qui l’autore ne pone. A che debbiamo sapere che, chi è scomunicato dal papa o da’ soi vicari di maggiore scomunicazione, è fuora de la congregazione dei fideli cristiani, sicché nulla orazione che si faccia per la Santa Chiesa e per li catolici, non inchiude lui; et è fuora de la grazia di Dio, mentre che sta lo scomunicato in sì fatta ribellione, e morendo in essa sarebbe dannato allo inferno; ma se ritorna a l’obedienzia innanti che muoia, ritorna ne la grazia di Dio. Et avendo proposito di ritornare e volendo; ma non potendo, sopravvenendo la morte, anco è tanto la misericordia di Dio che lo riceve ne la sua grazia; e se questo proposito e questa volontà fusse nota ai pastori, ancora elli lo rimetterebbeno; ma perchè non è loro noto lo pentimento, lo tegnano scomunicato e vietano la sepultura in sacrato. L’autore nostro finge che questo pentimento fusse nel re Manfredi quando venne a la morte, per mostrare questa sentenzia e dichiaragione sopra questo dubbio, la quale è verissima: ma se lo re Manfredi ebbe questa contrizione a la fine, questo non sa se non Dio. E per mostrare che come Dio è misericordioso; così è iusto, adiunge l’autore nostro una bella finzione; cioè che di tal negligenzia, cioè d’indugiare lo ritornare a l’obedienzia de la Santa Chiesa, li peccatori siano puniti andando intorno al mondo del purgatorio per ogni tempo, che è durata la negligenzia, trenta, innansi che possa andare a purgarsi 34 le suoa peccata; e però dice: Ver è che quale in contumacia; cioè in superbia et in dispregio d’obedienzia, muore Di Santa Chiesa; cioè quanto a l’atto estrinseco, non quanto a la disponizione 35 intrinseca dell’animo, non tornando ai comandamenti de la Chiesa attualmente, a la quale ciascuno cristiano dè fidelmente obedire, Quia sententia pastoris iusta, vel iniusta, timenda est.— ancor che al fin si penta; cioè benché al fine suo si penta, non ritornato co l’atto di fuora a l’obedienzia de la Santa Chiesa, ma sì coll’animo: imperò che l’atto esteriore per la brevità del tempo esser non vi può, che la morte lo impaccia, Star li convien da questa ripa in fuore; cioè fuori da questa ripa del monte del purgatorio; e dimostra la ripa che inchiude lo purgatorio che venia supra loro assai in su, Per ogni tempo, ch’el fi’ stato, trenta, In sua presunzion; cioè in sua superbia, non ritornando a l’obedienzia, per uno di’ che vi fi’ stato, trenta [p. 72 modifica]di’ starà inanti che salli al monte del purgatorio; e così per uno mese trenta mesi, e per uno anno trenta anni. Questa è finzione dell’autore; e che lo movesse a ciò non abbo trovato, se non quello che scrive santo Gregorio nel suo dialogo del suo monaco nominato Iusto, ch’è stato scomunicato perchè avea avuto propio tre 36 figliuoli, pentutosene ne la morte e privato del colloquio de’ monaci fu sotterrato fuora del cimiterio de’ monaci; e di po’ 30 di’, avuto santo Gregorio che questi era per questo peccato gravemente tormentato per revelazione, comandò al proposto del monastero che 30 giorni facesse dire messe nel monasterio, e celebrare lo divino sacramento per l’anima di questo monaco. Fatto questo, et infine dei 30 di’ apparve lo ditto monaco in visione al fratello che era medico, dicendoli che infine a quive era stato gravemente tormentato e che quel di’ ch’era compiute le 30 messe era stato ricomunicato, unde forsi quinci cavò Dante questa finzione, e per questo adiunge quel che seguita; e così dice lo re Manfredi: Io sono per stare qui tanti trigesimi d’anni, quanti stetti anni scomunicato, s’io non sono aiutato co le messe e co le orazioni; e però dice: se tal dicreto; cioè tale iudicio di Dio, Più corto per buon preghi non diventa; e per questo dimostra, che per l’orazioni de’ vivi si scorcia la pena a quelli del purgatorio, non che non s’osservi però la iustizia di Dio: imperò che Dio fa patire la pena in uno picculo tempo, che dovrebbe lo peccatore sostenere in grande tempo.

C. III — v. 142-145. In questo ternario e versetto lo nostro autore finge che lo re Manfredi l’imponesse che portasse novelle di lui a la filliuola sì, che pregasse per lui, dicendo: Vedi oggimai; tu, Dante, se tu mi puoi far lieto; et aggiunge lo modo, Revelando a la mia buona Gostanza; cioè a la mia filliuola, madre del re di Sicilia e del re di Ragona, come fu ditto di sopra, Come m’ài visto; in questo luogo, et anco sto divieto; che non è compiuto lo tempo de la penitenzia de la negligenzia dell’esser ritornato a l’obedienzia de la Santa Chiesa, per la quale dovea stare per ogni anno trenta, come detto fu di sopra, e così tutti quelli di quella gente ne la quale elli era; e rende la ragione 37 perchè vuole che ’l dica, dicendo: Chè qui; cioè in purgatorio, per quei di là; cioè per quelli del mondo, molto s’avanza; cioè molto s’acquista per le loro buone orazioni e sante operazioni. E qui finisce il canto iii de la secunda cantica.

Note

  1. C. M. della seconda commedia,
  2. C. M. questi è più grave
  3. C. M. veritieri - I nostri antichi usavano talora di fognare l’i, come in santà, verta, umiltà per sanità, verità, umiltà. Guido Guinicelli à in una sua canzone «Va, dì a madonna esto motto vertiero»; e Bandino Padovano in un sonetto «Leal Guittone, nome non verteri». E.
  4. C. M. e la corte sta
  5. C. M. tura e serra li
  6. C. M. piccolo,
  7. C. M. risplendente
  8. C. M. l’opposizione
  9. C. M. Napoli
  10. da - raggio - a - visuale - manca nel C. M.
  11. Nolite sapere plusquam oporteat sapere,
  12. C. M. Matto è, cioè stolto è, chi spera;
  13. Grammaticale; appartenenti alla filologia o letteratura. E.
  14. C. M. è ordinato
  15. C. M. divine investigabili
  16. Vasta; basta, che si trova non di rado presso gli antichi per l’affinità delle due consonanti b e v. Quindi voce e boce. E.
  17. - la quale beatitudine - Correzione, secondo il Cod. M.
  18. C. M. de’ Genovesi, che finisce con la riviera
  19. L’ellissi del relativo che non è infrequente presso i Classici, ed aggiunge una certa grazia al parlare. Qui è da supplire - di quello, di che non s’avvedea. E.
  20. C. M. come dalle persone si sta
  21. C. M. elle se n’avvedevano, perchè andavano
  22. C. M. se li videno
  23. C. M. anime in sul balso, per mostrare
  24. C. M. cardinale Conscense, il quale
  25. Anche Ricordano Malispini racconta come la battaglia di Benevento fu in venerdì’ l’ultimo di’ di febbrajo del 1265; ma secondo altri Storici sarebbe seguita nel 1267 addi’ 26 dello stesso mese. E.
  26. C. M. ch’elli, presa la ditta Gostanza per donna, cavata del monastero di Palermo, dove ella era fatta monaca e consecrata, prese lo regno, e Tancredi filliuolo del re Tancredi, e la madre
  27. C. M. a lui; e finge che non lo ricognoscesse, perchè non lo vidde nel mondo, e però finge che avesse le ferite: imperocché la fama liel rappresentava così, che altramente non l’avea cognosciuto, se non per fama: chè non è da credere che l’anime tegnano le ferite che ànno avuto li corpi nel mondo. Und’io;
  28. C. M. Dio lo riceve perdonandoli
  29. Questo legato era di casa i Pignatelli. E.
  30. C. M. a seguitarmi,
  31. C. M. dimoranza e fermezza.
  32. C. M. sicché attenne la promessa sua e ’l giuramento lo cardinale di Cosensa almeno ne l’ossa, si che non potendomene
  33. C. M. il Verde, cioè lungo il fiume chiamato Verde. Questo Verde è uno fiume — [Il fiume Verde chiamasi eziandio Marino]. E.
  34. C. M. purgare li suoi peccati;
  35. C. M. disposizione
  36. C. M. proprio tre fiorini, pentutosene
  37. C. M. cagione
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