Commedia (Buti)/Purgatorio/Canto IV
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto quarto
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C A N T O IV.
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1Quando per dilettanze, o ver per dollie,
Che alcuna virtù nostra comprenda,
L’anima bene ad essa si raccollie,
4Par che a nulla potenzia più intenda:
E questo è contra quello error, che crede
Che un’anima sovr’altra in noi s’accenda.
7E però quando s’ode cosa, o vede,
Che tegna forte a sè l’anima volta,
Vassene il tempo, e l’om non se n’avvede:
10Chè altra potenzia è quella che l’ascolta,1
Et altra è quella ch’à l’anima intera;
Questa è quasi legata, e quella è sciolta.
13Di ciò ebb’io esperienzia vera,
Udendo quello spirito e ammirando:
Che ben cinquanta gradi sallito era
16Lo Sole, et io non m’era accorto, quando
Venimmo dove quell’anime ad una
Gridaro a noi: Qui è vostro dimando.
19Maggior aperta molte volte impruna
Con una forcatella di suoe spine
L’uom de la villa quando l’uva imbruna,
22Che non era lo calle, onde salline2
Lo Duca mio et io appresso, soli,
Come da noi la schiera si partine.
25Vassi in Salleo, e descendesi in Noli:3
Montasi su in Bismantova e in Cacume
Con esso i piè; ma lì convien ch’om voli;4
28Dico coll’ale snelle e co le piume
Del gran disio dietro a quel Condotto,
Che speranza mi dava e facea lume.5
31Noi sallivam per entro il sasso rotto,
E d’ogni lato noi stringea lo stremo,
E piedi e mani volea il suol di sotto.
34Poichè noi fummo in su l’orlo supremo6
Dell’alta ripa a la scoperta piaggia,
Maestro mio, diss’io, che via faremo?
37Et elli a me: Nessun tuo passo caggia,
Pur su al monte dietro a me acquista,
Fin che n’appaia alcuna scorta saggia.
40Lo sommo era alto che vincea la vista,
E la costa superba più assai,
Che da mezzo quadrante a centro lista.
43Io era lasso, quando cominciai:
O dolce Padre, volgeti e rimira
Com'io rimagno sol, se non ristai.
46Filliuol mio, disse, infin quivi ti tira,
Additandomi un balzo poco in sue,
Che da quel lato il poggio tutto gira.
49Sì mi spronavan le parole sue,
Ch’io mi sforzai, carpando appresso lui,
Tanto che il cinghio sotto i piè mi fue.
52A seder ci ponemmo ivi ambedui
Volti a levante, ond’eravam salliti,
Che suole a riguardar giovar altrui.
55Li occhi prima drizzai ai bassi liti,
Poscia li alzai al Sole, et ammirava
Che da sinistra n’eravam feriti.
58Ben s’avvidde il Poeta che io stava7
Stupido tutto al carro de la luce,
Ove tra noi et Aquilone entrava.
61Ond’elli a me: Se Castor e Polluce
Fossero in compagnia di quello specchio,
Che su e giù del suo lume conduce,
64Tu vedresti il Zodiaco rubecchio
Ancora all’Orse più stretto rotare,
Se non uscisse fuor del cammin vecchio.
67Come ciò sia se il vuoi poter pensare,
Dentro raccolto imagina Sion
Con questo monte in su la terra stare,
70Sì ch’ambedu’ ànno un solo orizzon,
E diversi emisperi, onde la strada,8
Che mal non seppe carreggiar Feton,
73Vedrai come a costui convien che vada
Dall’un, quando a colui dall’altro fianco,
Se lo intelletto tuo ben chiaro bada.
76Certo, diss’io, Maestro mio, unquanco
Non vidd’io chiaro, sì com’io discerno,
Là dove mio ingegno parea manco:
79Chè il mezzo cerchio del moto superno,
Che si chiama Equatore in alcuna arte,
E che sempre riman tra il Sole e il verno,
82Per la ragion che di quinci si parte
Verso settentrion, quanto gli Ebrei
Vedevan lui verso la calda parte.
85Ma, se a te piace, volentier saprei
Quanto avemo ad andar: chè il poggio sale
Più che sallir non posson li occhi miei.
88Et elli a me: Questa montagna è tale,
Che sempre al cominciar di sotto è grave;
E quanto più va su e men fa male.
91Però quand’ella ti parrà soave
Tanto, che su andar ti sia leggiero,
Come assegonda giuso andar per nave,9
94Allor serai al fin desto sentero:
Quivi di riposar l’affanno aspetta;
Più non rispondo, e questo so per vero.
97E com’elli ebbe sua parola detta,
Una voce dappresso sonò: Forse10
Che di sedere in prima avrai distretta.
100Al suon di lei ciascun di noi si torse,
E vedemmo a mancina un gran petrone,
Del qual nè ei, nè io prima s’accorse.
103Là ci traemmo; et ivi eran persone,
Che si stavano all’ombra dietro al sasso,11
Come uom per negligenzia a star si pone.
106Et un di lor, che mi sembiava lasso,
Sedeva et abbracciava le ginocchia,
Tenendo il viso giù tra esse basso.
109O dolce Signor mio, diss’io, adocchia
Colui che mostra sè più negligente,
Che se pigrizia fusse sua sorocchia.12
112Allor si volse a noi, e puose mente,
Movendo il viso pur su per la coscia,
E disse: Or va tu su, che se’ valente.
115Cognobbi allor chi era; e quella angoscia
Che m'avacciava un poco ancor la lena,13
Non m’impedì l’andare a lui, e poscia
118Che a lui fui giunto, alzò la testa a pena,
Dicendo: Ài ben veduto come il Sole
Dall’umero sinistro il carro mena?
121Li atti suoi pigri e le corte parole
Mossen le labbra mie un poco a riso;
Poi cominciai: Belacqua, a me non dole
124Di te omai; ma dimmi, perchè assiso
Qui ritto se’? Attendi tu la scorta,
O pur lo modo usato t’ài ripriso?
127Et elli: O frate, andar in su che porta?
Che non mi lasserebbe ire a’ martiri
L’uccel di Dio, che siede in su la porta.14
130Prima convien che tanto il Ciel m’aggiri
Di fuor da essa, quanto fece in vita,15
Perch’io indugiai al fine i buon sospiri;
133Se orazion in prima non m’aita,
Che surga su di cuor che in grazia viva:
L’altra che val, che in Ciel non è udita?
136E già il Poeta inanzi mi saliva,
E dicea: Vienne omai, vedi ch’è tocco
Meridian dal Sole, e da la riva16
139Cuopre la notte già coi piè Marrocco.
- ↑ v. 10. C. A. che l’è tolta,
- ↑ v. 22. C. A. la calla,
- ↑ v. 25. C. M. Sanleo,
- ↑ v. 27. C. M. ma qui. — C. A. ma qui convien ch’uom
- ↑ v. 30. C. A. ne dava
- ↑ v. 34. C. A. Quando noi
- ↑ v. 58. C. A. Ben s’accorse il
- ↑ v. 71. C. M. onde è la strada,
- ↑ v. 93. C. A. a seconda giù andar
- ↑ v. 98. C. A. da presso gridò:
- ↑ v. 104. C. A. presso al sasso,
- ↑ v. 111. Sorocchia. Presso i nostri primi Scrittori si truova serocchia, sirocchia, sorocchia, dal latino soror. E.
- ↑ v. 116. C. A. m’avanzava
- ↑ v. 129. C. A. che giace in
- ↑ v. 131. quant’io feci
- ↑ v. 138. C. A. , che alla riva
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C O M M E N T O
Quando per dilettanze ec. Questo è lo quarto canto de la seconda cantica, nel quale lo nostro autore tratta del secondo luogo che finge essere ne la montata del primo balzo del monte del purgatorio, dove si monta con grande fatica; et in questo luogo non finge che trovasse niuno sì, che si dè intendere che questo balzo sia quello delli scomunicati; ma in sul secondo balso finge che stieno li negligenti, li quali sono stati negligenti in tutte le cose sì, che nelli atti virtuosi e ne la penitenzia anco sono stati negligenti; ma pur a la fine, o innanti, si sono riconosciuti, li quali finge l’autore che stiano in balso del monte tanto tempo, quanto sono stati negligenti nel mondo. E perchè questo terso grado di negligenzia procede da accidia 1 carnale che è meno grave che li passati gradi, però finge che sia punita in più alto luogo; e perchè è più grave che li altri gradi che sono a trattare, però finge che sia punita più bassa, sì che veggiamo nel mondo che chi è di questo grado è più vile, che chi è di quelli de’ quali si tratterà, et è meno abominevile 2, che chi è dei gradi dei quali è trattato. E di questo terso luogo incomincia a trattare in questo canto, e dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima finge come sallisseno lo primo balso del monte; ne la seconda finge come quindi sallitte nel secondo balso, e quive trovò l'anime negligenti, nel terso grado del quale è detto di sopra, et incomincia, quive: Ben s’avvidde il Poeta ec. La prima si divide in cinque parti, perchè prima l’autore nostro dichiara uno dubbio de le potenzie dell’anima umana quando è nel corpo, lo quale fu tra li antichi filosofi; e come la via del montare li fu mostrata; ne la seconda descrive lo luogo per lo quale montò suso, quive: Maggior aperta ec.; ne la tersa dimostra la malagevilezza del montare, quive: Noi sallivam ec.; ne la quarta confessa l’autore la stanchità sua e lo conforto che li diede Virgilio, quive: Lo sommo era alto ec.; ne la quinta finge come, monti 3 suso, elli si riposò e meravilliavasi che il sole lo feria da mano sinistra, quive: Si mi spronavan le parole sue ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la sua esposizione testuale et allegorica, o vero morale.
C. IV — v. 1-18. In questi 6 ternari lo nostro autore, presa cagione de la materia, solve uno dubbio che ebbeno certi filosofi; cioè che l’omo avesse quattro anime; cioè vegetativa, sensitiva, imaginativa e ragionevile; e diceano che, quando lo feto è in ventre de la madre et è creato, àe la vegetativa per la quale si notrica e cresce; e come lo corpo è organizzato e compiuto di fare sì, che àe li sentimenti, diceano che sopra venia la sensitiva; e poi quando è nato, sopra viene la imaginativa; e quando è in etade di cognoscere, diceano che sopra venia la ragionevile; e così poneano essere 4 anime; lo quale dubbio l’autore nostro solve in questo principio del canto, dinarrando questa opinione esser falsa et erronea per tanto, che seguitrebbe che l’omo in uno medesimo tempo potesse coll’anima intendere a più cose; la quale cosa veggiamo manifestamente che non è possibile; e però dice: Quando per dilettanze, o ver per dollie; tocca qui l’autore due principali passioni che muoveno l’anima nostra: cioè l’allegressa e dolore che sono cagionate dal presente bene e dal presente male: imperò che ’l bene presente cagiona allegressa, come presente male cagiona dolore; e così lo futuro bene cagiona speransa, e lo futuro malo cagiona paura; e così sono 4 le passioni generali; cioè allegressa e dolore, speranza e timore de le quali tocca l’autore, e come detto è, dicendo: Quando per dilettanze: cioè per diletti, che tanto vale quanto allegresse, o ver per dollie; cioè dolori, Che; cioè le quali, alcuna virtù; cioè potenzia delle nostre potenzie sensitive che sono a cinque sentimenti; cioè vedere, udire, gustare, odorare, e toccare; o vero de la memorativa che sono; apprensiva, imaginativa e retentiva, nostra; cioè dell’anima umana: imperò che l’uomo àe naturalmente le dette virtù, che sono specie de le potenzie dell’anima, che sono tre secondo li Filosofi; cioè vegetativa, sensitiva e ragionevile; e ciascuna di queste àe suoe specie le quali l'autore chiama virtù, comprenda; cioè in se retenna 4, L’anima; cioè la virtù animale che Dio àe posto nell’anima umana, che è una sola che àe tre potenzie ditte di sopra, bene ad essa si raccollie; non mostrando questa sua virtù, se none 5 a quella potenzia che riceve la passione che li è obietta, Par che a nulla potenzia; delle altre dette di sopra, se none a quella a che s’è ricolta, più intenda; la virtù animale abbiente 6 in atto allora quella potenzia sola, E questo è contra quello error, che crede Che un'anima sovr’altra in noi; cioè omini, s’accenda; cioè che come fu detto di sopra, prima sia la vegetativa, poi sopra vegna la sensitiva, poi la imaginativa e poi la ragionevile, che se ciò fusse vero, queste 4 anime in uno istante farebbeno ciascuna sua operazione e non impaccerebbe l’una l’altra; la quale cosa veggiamo manifestamente esser falsa: imperò che in uno istante non possiamo ad una cosa applicare il sentimento, et ad un’altra la imaginazione, etad un’altra la ragione. E di questo è cagione, perchè l’anima è una sola et àe una sola virtù ragionevile operativa, la quale risponde a tutte queste potenzie tutta sì, che in uno istante non risponde se non ad una quanto a lei è bisogno, benché a la vegetativa potenzia sempre, mentre che l’omo vive, questa una anima sempre ministra la sua unica virtù ragionevile, distributa e divisa in parte, quanto li è di bisogno; e questo non la impaccia ad operare in alcuna dell’altre potenzie, come detto è. E però quando s’ode cosa, o vede; questi sono due dei sentimenti più nobili; cioè vedere et udire, e più ànno a servire allo intelletto umano che li altri, Che tegna forte a sè l’anima volta; sì che da tutte l’altre potenzie l’abbia rimossa, Vassene il tempo; in che l’anima esercita quello atto, e l’om non se n’avvede; cioè non s’accorge in quel mezzo del passamento del tempo, se non quando applica a ciò lo pensieri: Chè altra; cioè imperò che altra, potenzia è quella che; cioè la quale potenzia, l’ascolta; cioè intende lei, cioè essa cosa che s’ode o che si vede, Et altra è quella; cioè potenzia, ch’à l’anima intera; cioè che à l’anima in sè a poter operare in tutte le suoe potenzie non distributa, Questa cioè la potenzia che àe l’anima intera, è quasi legata; perchè mai sè non estende in atto a tutte le suoe potenzie sì, che vi torni, è quasi legata, e quella 7 è sciolta; cioè la potenzia. Ma per volere cognoscere le potenzie dell’anima debbiamo sapere che 4 sono le potenzie principali; cioè vegetativa, sensitiva, ragionevile et intellettiva. La vegetativa è quella che vivifica lo corpo, crescelo e nutricalo infine alla morte et incomincia da poi che il seme è concetto nel ventre de la madre, et àe sotto di sè 6 potenzie; cioè appetitiva, o vero attrattiva, l’una quando è lo feto cioè l’attrattiva, e l’appetitiva quando è venuto a luce; la seconda, retentiva di quel che pillia; la tersa, degestiva di quel che ritiene; la quarta, distributiva del digesto a le parte necessarie; la quinta, espulsiva del superfluo; la sesta, genitiva di simile come appare, che s’è stesa per sì fatto modo la natura umana da Adam infine a noi, e da noi inde discendenti si distenderà quanto a Dio piacerà; appresso è nel feto la sensitiva in quanto si stende, muove e sente, la quale mentre ch’è nel ventre de la madre è una; cioè lo senso come la motiva; ma poi che è a luce, è lo senso come la motiva, e le cinque potenzie sensitive per mezzo dei 5 strumenti corporali; cioè potenzia visiva, auditiva, odorativa, gustativa e tattiva; ma compiuto d’organizzare lo feto nel ventre de la madre e l’articulare del cerebro compiuto, l’onnipotente Iddio crea di nulla l’anima umana nel corpo, lo quale 8 pillia et unisce a sè la vegetativa e sensitiva, dando loro perfezione la quale non arebbeno da sè. E fa questa unione per sì fatto modo, che ella è cagione del loro operare e mai non si disfà questa unione; ma anco quando si parte l’anima dal corpo, ne le porta seco benché non abbino più attività niuna, e viene l’anima umana dotata de le infrascritte tre doti, le quali sono più attive quando è separata dal corpo che quando è coniunta. Viene adunque dotata di tre potenzie; cioè memorativa, intellettiva e volitiva; e d’irascibilità, ragione e concupiscenzia: imperò che le prime, quando sono in sua perfezione, chiamanosi così; e, quando mancano de la perfezione, chiamansi al secondo modo; cioè quando la volontà vuole lo bene e rifiuta lo male chiamasi volontà, quando è l’opposito chiamasi concupiscenzia; e la memorativa, quando seguita lo bene e scaccia lo male chiamasi memorativa, e quando fa l’opposito chiamasi irascibilità; e questa memorativa àe tre potenzie; cioè apprensiva, imaginativa e retentiva; e la ragione àe due parti; cioè la inferiore e pratica che àe traffico co le cose mondane, e la superiore e teorica che traffica co le cose celesti, et àe queste potenzie; discursiva, cooperativa, discretiva et iudicativa; e la intellettiva, ch’è lume che inlumina la mente, àe due potenzie; cioè compositiva e divisiva et illumina sempre la ragione l’una parte e l’altra. Chiamansi potenzie, perchè non sono sempre in atto; ma sono in potenzia, che l’anima le può mettere in atto quanto vuole. Di ciò; dice Dante, ebb’io; cioè Dante, esperienzia vera; cioè vera prova che sia vero quello che dico, Udendo quello spirito; cioè lo re Manfredi, che m’avea parlato di sopra, e ammirando; cioè meravilliandomi, Che ben cinquanta gradi sallito era Lo Sole: diceno li Astrologi che ciascuno emisperio è 180 gradi, li quali lo sole passa da la mattina a la sera sì, ch’era passato del di’ poco più del quarto; dico pogo 9 più, perchè più 5 gradi: imperò che ’l quarto serebbe 45 gradi. et io; cioè Dante, non m’era accorto; del passamento del tempo: acconciamente finge qui l’autore esser stato disavveduto del passamento del tempo, perch’elli finge che quive fusseno li negligenti, che aveano perduto lo tempo de la penitenzia, e quive lo ristoravano, quando Venimmo; cioè io Dante e Virgilio, dove; cioè a quel luogo nel quale, quell’anime ad una; cioè insieme, Gridaro a noi; cioè a Virgilio et a me Dante: Qui è vostro dimando; cioè in questo luogo è lo luogo da sallire che voi dimandate.
C. IV— v. 19-30. In questi quattro ternari lo nostro autore descrive lo primo sallimento 10 del monte del purgatorio, dimostrando la sua malagevilessa che finge esser mostrata a lui et a Virgilio da quella escomunicata gente negligente, che finse di sopra essere in sul primo balso del monte del purgatorio, li quali vissero scomunicati. E per questo allegoricamente dimostra che la vita altrui è maestra a chi à cognosciuto; e però finge che costoro, ch’erano stati negligenti 11, insegnasseno a lui a montare, lo quale dimostra quanto sia stretto e faticoso, dicendo: Maggior aperta; cioè maggior callare, molte volte impruna; cioè chiude coi pruni, Con una forcatella di suoe spine; cioè con poghe spine, quanto ne può pilliare con una piccula forca, L’uom de la villa; cioè lo villano, quando l’uva imbruna; cioè annerisce che è matura, e però chiude lo callare de la vigna perchè nolli 12 sia mangiata l’uva. Che non era lo calle 13, onde salline Lo Duca mio; cioè Virgilio, et io; cioè Dante, appresso; a lui, soli; perchè nessuno di coloro, che negligenti erano stati per li diletti mondani, venne con esso noi perchè non poteano montare, perchè non aveano compiuto de la negligenzia loro ancora la penitenzia, Come da noi la schiera; di quelle anime scomunicate, si partine; cioè s’andò via, aggirando lo primo balso dello monte, a suo cammino. E per mostrare la malagevilessa del balso, mostra questa via esser più malagevile che quattro altre montate che sono nel mondo, dicendo: Vassi in Salleo; questo Salleo è una città che è in Monte Feltro, posta in su uno monte molto alto et aspro da montare, e descendesi in Noli; questo Noli è una villa nel contado de Genova, di lungi da Genova per l millia, posta in luogo bassissimo, Montasi su in Bismantova; benché sia molto malagevile: Bismantua è una montagna nel contado di Reggio, in su la quale è gran fatica a montare, e in Cacume; cioè in una montagna altissima in Campagna che si chiama Cacume; e niente di meno con tutto che i luoghi detti siano faticosi, vassi ad essi, Con esso i piè; che sono strumento del corpo umano da poter montare e scendere; e per questo vuole dare ad intendere che a le virtù attive vastano 14, ma lì convien ch’om; cioè che l’omo, voli; a montare lo primo balso del purgatorio: però che il primo del montamento de la penitenzia è molto malagevile, Dico coll’ale snelle e co le piume Del gran disio; cioè del grande amore. Ecco che l’autore dimostra lo intelletto allegorico ch’elli ebbe nel testo, l’ale snelle s’intendeno acconce a volare leggieri, e significano la fede e speranza, e le piume significano le loro specie le quali produce la carità e l’amore che l’anima àe a Dio; o volliamo intendere che queste ale siano l’opere attive e contemplante, virtuose; e le piume le loro specie co le quali gravate 15 da la carità, l’omo si leva a l’altessa de la penitenzia, dietro a quel Condotto 16; cioè di rieto a quella Guida, cioè Virgilio che significa la ragione superiore, Che speranza mi dava; cioè a me Dante di poter sallire, secondo la lettera, quel balso; et allegoricamente, lo primo grado de la penitenzia che è così malagevile, e facea lume; cioè che illuminava la mia sensualità, che cognoscesse la sua perfezione.
C. IV — v. 31-39. In questi tre ternari lo nostro autore dimostra la via che tenneno poi che funno salliti, et anco dimostra la malagevilessa del sallire, dicendo: Noi; cioè Virgilio et io Dante, sallivam per entro il sasso rotto; e per questo mostra che la via fusse fatta per forsa, per mostrare che la penitenzia è dura; ma la sua duressa si vince co la continuansa e rompesi, E d’ogni lato noi stringea lo stremo; e per questo dimostra che, come la penitenzia è dura; così è anco stretta, E piedi e mani volea il suol di sotto; e per questo mostra che sia alta e malagevile da montare sì, che richiede piedi e mani; cioè l’affezioni e l’opere: la penitenzia è dura, è stretta et è alta e richiede l’affezioni e le opere, lo intrare a la penitenzia à le suoe malagevilesse, com’è stato detto di sopra; ma lo cominciare a montare n’à più: imperò che dice santo Agustino: Angusta via est, quœ ducit ad vitam; et tamen per eam, nisi dilatato corde, non curritur; e questo àe dimostrato l’autore per lo testo. Poiché noi; cioè io Dante e Virgilio, fummo in su l’orlo supremo; montati già lo primo grado che era duro, stretto et alto, Dell’alta ripa; cioè del primo balso del monte, a la scoperta piaggia; che era piaggia infine a l’altro balso, Maestro mio, diss’io, che via faremo? Finge l’autore che, poi ch’elli ebbe montato lo primo balso del monte che è lo secondo grado de la penitenzia dei negligenti scomunicati 17, passando le cose dure, strette et alte, trovasi in su la piaggia in su lo stato da dovere anco montare; ma non sa, se la sensualità non si consillia co la ragione e però addimanda consillio a Virgilio. Et elli; cioè Virgilio, a me; cioè a me Dante, rispuose, s’intende: Nessun tuo passo caggia; cioè non ponere niuno passo in basso; cioè non descendere punto de la vita virtuosa incominciata, Pur su al monte dietro a me acquista; cioè monta pur su ai gradi più alti et a l’opere più virtuose di rieto a la ragione, Fin che n’appaia alcuna scorta saggia; cioè alcuna guida che sappia la via: non vasta la ragione a guidare l’anima per li gradi della penitenzia, convienvi essere ancora la grazia inluminante, cooperante e perficiente di Dio.
C. IV — v. 40-48. In questi tre ternari l’autore nostro dimostra la sua defezione e lo conforto che li diede Virgilio, dicendo: Lo sommo; cioè del monte tutto, era alto; per sì fatto modo, che vincea la vista; cioè che li occhi non poteano tanto vedere, E la costa; cioè la montata ritta di quel monte, superba; cioè ritta, più assai; e fa una comparazione, dicendo, Che da mezzo quadrante a centro lista: quadrante è una quarta parte di uno tondo piano, et anco de la metà d’uno tondo che fusse spartito. Chi menasse una linea perpendicularmente dal mezzo del quadrante al centro del cerchio farebbe una linea molto ritta; ma anco era più ritta la costa del ditto balzo del monte, unde considera che la prima è alta, la seconda più alta, la tersa assai più alta; dunqua era, come la tersa, la montata di quel balso secondo: imperò che la linea mezza tra piano e ritto non è molto erta; e però dice che quella era più erta assai, Io; cioè Dante, era lasso; cioè stanco, quando cominciai; a parlare, s’intende: O dolce Padre; dice Dante a Virgilio, volgeti e rimira Com’io rimagno sol, se non ristai; cioè rimanea le sensualità sola ne la fatica de la penitenzia, se la ragione non l’avesse confortato: la ragione spesse volte tira tanto, che la sensualità non può tanto andare. Filliuol mio, disse; Virgilio a Dante, infin quivi ti tira; cioè sforzati in fin quie, Additandomi: cioè mostrandomi col dito, un balzo poco in sue; cioè non sì alto, come quella altessa avea veduto di tutto il monte prima, Che da quel lato; unde era Dante e Virgilio, il poggio tutto gira; questo dice, perchè quel balso non girava se non da quello lato lo monte, perchè v’erano valloni e piaggie, come apparrà di sotto, e coste et erte, come ànno li monti nostri.
C. IV — v. 49-57. In questi tre ternari lo nostro autore finge come confortato da Virgilio si sforzò tanto, che sallitte di rieto a lui in sul secondo balso, che in sul primo non ristette punto; e questo finge, perchè il primo era solo deputato di scomunicati del numero dei quali non era elli, e però finge che non vi si restasse. E di questi fu detto di sopra che mostronno loro la via a montare su, che bene la sapeano come loro luogo sì, che non n’avea a dir più, dicendo così: Sì mi spronavan; cioè sì mi sollicitavano come il cavallo si sollicita co li sproni, le parole sue; cioè di Virgilio, Ch’io; cioè Dante, mi sforzai; d’andar su, carpando; cioè andando boccone, appresso lui; cioè a Virgilio, Tanto; s’intende mi sforzai, che il cinghio; del secondo balso, sotto i piè mi fue; cioè ch’io vi montai suso. A seder ci ponemmo ivi; in quel luogo, ambedui; cioè Virgilio et io Dante, Volti a levante; cioè inverso l’orto del sole, ch’era in quello emisperio dov’è nel nostro emisperio l’occaso, ond’eravam salliti; Virgilio et io Dante. E questo dice: però che come ne lo inferno finse sempre andare verso l’occaso del sole e girare, sì che il sole li venia di rieto, benché di là non vi fusse sole; ma tenebre, et in verso mano sinistra; sempre finge che qui vada verso mano destra e verso l’orto del sole, girando per sì fatto modo lo monte che sempre la spera del sole si vedea inanti, in fin che venia a l’occaso e la notte stava; e come lo sole si levava, girava dall’altro lato lo monte andando in verso l’oriente, e come girava lo sole, così girava lo monte et andava col sole inanti in verso l’occaso, e così girava lo di’ tutto il monte. Che; cioè lo quale orto del sole, suole a riguardar giovar altrui; cioè l’omo si suole confortare, ragguardando in verso l’oriente. Li occhi prima drizzai; io Dante, ai bassi liti; del mare, Poscia li alzai al Sole; li occhi miei, dice Dante, et ammirava; cioè io mi meravigliava, Che da sinistra; cioè da mano manca, n’eravam feriti; cioè mi facea meravillia che ’l raggio del sole ci percoteva da mano manca: con ciò sia cosa che chi fusse nel nostro emisperio e stesse col volto verso oriente, lo raggio del sole vedrebbe quando s’alzasse verso la mano destra e farebbe ombra verso la sinistra, e quive era lo contrario sicché di ciò si meravilliava; ma di questo si renderà ragione ne la seguente lezione. Et allegoricamente, per farsi agevile la preparazione all’atto de la penitenzia, ragguardava col pensieri l’amaritudine di questo mondo, et appresso lo nascimento de la Grazia Divina significata per lo sole, e maravilliavasi che il sole feriva lo sinistro lato; cioè la grazia di Dio percotea lo suo cuore; la quale cosa non soleva essere. Seguita la seconda lezione.
Ben s’avvidde il Poeta ec. Questa è la seconda lezione del iv
canto ne la quale l’autore dichiara alcuno punto d’Astrologia; e fa
menzione de la tersa specie dei pigri e negligenti, stati nel mondo
all’atto de la penitenzia, perchè sono stati negligenti naturalmente
per loro tristessa d’animo in tutte le cose; ma pure a la fine si sono
ricognosciuti e morti ne la obedienzia de la Santa Chiesa. E di questa negligenzia portano pena quive, indugiato tanto d’andare a purgare l’altre peccata, quanto sono stati negligenti nel mondo. E dividesi questa lezione in 7 parti, perchè prima finge che Virgilio li solva lo dubbio ch’elli avea del sole che li dava dal lato manco; ne la seconda l’autore dimostra sè esser dichiarato, e dimanda de la lunghessa et altessa del monte, quive: Certo, diss’io, ec.; ne la tersa finge come Virgilio lo dichiara de la via; e come elli sentì un’anima di quelle che v’erano in quel secondo balso rispondere per costa, quive: Et elli a me: ec.: ne la quarta fìnge come, incitato dal parlare, andò a vedere chi era e trovò gente assai, quive: Al suon di lei ec.; ne la quinta finge che una di quelle anime li parlasse e come le 18 ricognove, quive: Allor si volse ec.; ne la sesta finge come quella anima li risponde a la riprensione che Dante li avea fatta, quive: Et elli: O frate; ne la settima finge che Virgilio solliciti del cammino, montando al terso balso, mostrando lo corso del tempo, quive: E già il Poeta inanzi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere l’esposizione del testo co l’allegorie, o vero moralitadi.
C. IV— v. 58-75. In questi sei ternari lo nostro autore finge che Virgilio s’avidde del suo dubbio, e che elli liel dichiarò, dicendo così: Ben s’avidde il Poeta; cioè Virgilio, e non sensa cagione lo chiama qui Poeta; cioè per dimostrare che in questo seguitò la poesi di Virgilio dove elli nel 1.° 19 de la sua Georgica dice: Quinque tenent cœlum zonœ, e massime quando dice, Hic vertex nobis semper sublimis; at illum Sub pedibus Styx atra videt, manesque profundi ..... Illic, ut perhibent, aut intempesta silet nox Semper, et oblenta densantur nocte tenebrœ; Aut redit a nobis Aurora, diemque reducit; Nosque ubi primus equis oriens afflavit anhelis, Illic sera rubens accendit lumina Vesper. E perchè Virgilio puose qui questa sentenzia dell’altro emisperio, però lo chiama Poeta, perchè elli lo seguita come poeta; et è qui da notare che alcuna volta l’autore lo chiama Virgilio, quand’ei lo pillia per la ragione poetica; alcuna volta Poeta, quando seguita la sua poesi secondo la lettera come avale; alcuna volta Maestro, quando seguita lo suo modo del fingere; et alcuna volta Duce o per simili vocabuli, quando lo pone per la ragione .... E chiamalo qui Poeta, perchè lo induce a rispondere secondo la poesi, in quanto dice di Castor e Polluce e di tre altre finzioni poetiche oltra la sua, come appar nel testo. E perchè qui l’autore àe fatto menzione di tre finzioni poetiche, mosterrò 20 brevemente unde venne questo errore et unde ebbe principio; e perciò debbiamo sapere che Giove terso, che fu lo primo 21 filliuolo di Saturno re di Creta, fu ricchissimo re e larghissimo e cupido di fama e con questo molto lussurioso; e per aver fama incominciò ad essere benefico alli omini scientifici, dando grandissime provigioni, unde costoro incominciorno a dire che era lo loro iddio, e l’uno a prova dell’altro più lo magnificava, intanto che lo finseno iddio dell’universo. E per fare verisimile la sua finzione, incomincionno a fingere che Saturno era stato iddio e così tutta la sua origine, e ciò che era stato fatto per li altri 22 Giovi che erano stati innanti a lui o per lui umanamente, incomincionno ad attribuire a lui, e finge fatto sopra natura, come appare in queste tre finzioni; cioè di Leda, di Calistone e di Fetonte. E per vedere questo debbiamo sapere che Leda fu filliuola di uno re di Grecia, lo quale per allevare virtuosa, come fu nata, la fe notricare in una torre che avea in mare, comandando le nutrici che mai nolli dicessero se non cose oneste. Cresciuta costei, la fama andò per la Grecia de la sua bellessa; unde Giove fatto inamorato di lei andò a questa torre con una nave che si chiamava Ciecino e portava per insegna lo detto uccello; e tanto seppe ben parlare ch’elli fu lassato intrare a lei, e rapittela quinde, e tanto la tenne che n’ebbe 2 parti, e due femine ad uno parto, e 2 maschi ad un altro parto; e poi la rendette al padre e maritolla a Tindaro. Ecco questa verità fatta umanamente; li poeti per mostrare Giove iddio, la coperseno con finzione dicendo che v’era volato in specie di cecino, perchè v’era ito co la nave Cecino e perchè col bel parlare avea ingannato le guardie e la fanciulla; e per dare colore a la finzione che fusse fatta sopra natura, disseno che stette co lei in specie di ciecino e che ella parturitte du’ uova e l’altre cose che seguitano. E simile si può dire di Calistone, lo quale ingannò in specie di Diana, e parturitte Arcade, e che Iuno mollie di Giove la convertisse in orsa. Fu la verità ch’ella la scacciò e lo filliuolo Arcade, sicché viveano nelle selve come li orsi; e che Arcade la volesse uccidere fu che arrecandosi a vergogna 23 quello che la madre avea fatto, tentò d’ucciderla; ma Giove, sentendolo, lo disperse ancora. E così fingeno li poeti per mostrare che Giove era iddio che lo mutasse in orsacchino, e ponesseli in cielo; lo picciolo al corno, e lo grande al carro. E così avendo guerra coi Titani, perchè ’l sole, che era di loro, si partitte da loro e fu con Giove, lo Giove lo costituitte governatore del suo regno. E li poeti finseno che li desse a reggere lo carro del sole; perchè Fetonte filliuolo del sole, contrastando con Epafo filliuolo di Giove, volse tenere l’officio e la dignità del padre, Giove lo fe uccidere. E però fingeno li poeti che Giove lo fulminasse volendo reggere lo carro del padre, o perchè vi commise qualche difetto. E così di tutte l’altre fizioni 23. che io; cioè Dante, stava, Stupido tutto al carro de la luce; cioè meravilliandomi, non sapendo la cagione, stava attento a ragguardare lo carro del sole, Ove tra noi; cioè tra me e Virgilio che eravamo nell’altro emisperio sotto, o vero poco di là dall’Equatore cerchio, verso l’antartico polo, et Aquilone; cioè lo nostro settentrione, entrava; cioè lo carro del sole: come a noi che siamo in questo emisperio sempre sta di verso il mezo di’, e noi rimagnamo sempre verso la tramontana; così a Dante et a Virgilio ch’erano nell’altro emisperio veniva lo carro del sole da la parte de la tramontana nostra, et ellino erano al lato dell’Equatore che è più oltra tanto, quanto lo nostro artico è di qua dell’Equatore. E questo finge, per mostrare che l’altro emisperio in ogni cosa stia contrario a questo nostro, considerato che quello polo si chiama antartico. Dante si meravilliava che il sole entrava tra lui e la parte nostra settentrionale; e lui imaginava ch’el si era nell’altro emisperio di là da la torrida zona verso l’antartico, sicché la via del sole era tra lui e nostro polo artico; e però finge che Virgilio lo dichiara, dicendo: Ond’elli; cioè Virgilio disse, s’intende, a me; Dante: Se Castor e Polluce; cioè se quel segno che si chiama Gemini, che fingeno li poeti di certi che siano due fratelli, filliuoli di Leda e di Giove quando Leda stette con Giove apparito a lei in specie di cecino, ingravidò e parturitte due uova, e de l’uno nacque Elena primo Clitennestra e dell’altro Polluce e Castore, li quali funno valentissimi omini e feceno molte grandi e belle cose nel mondo siccome singularissimi omini; per la quale cosa fingeno li poeti che fusseno translati in cielo e posti in quel segno che si chiama Gemini, ch’è lo terso segno di po’ Ariete che è primo del Zodiaco. Lo quale Ariete è allato l’Equatore et incomincia quinde, e poi è Tauro in verso settentrione, e poi Gemini più presso a settentrione che Tauro, e poi Cancro lo quale incomincia dal tropico estivale dove finisce Gemini, di po’ Cancro li altri segni; cioè Leo e Vergine si cominciano ad accostare in verso l’Equatore, l’uno più che l’altro in fine a Libra che di sotto all’Equatore incomincia come Ariete, di sopra per opposito e finisce al Tropico estivale o vero artico; e poi l’uno segno di po’ l’altro s’accostano verso lo Tropico antartico infine a Sagittario che finisce al Tropico iemale, o vero antartico, e quive incomincia Capricorno e poi Aquario, e poi Pesci finisce a l’Equatore dove incomincia Ariete. E per questi segni che sono nel zodiaco, come si dimostra ne la spera meridionale 24 de’ poli, va lo sole ogni di’ uno grado; et ogni segno è 30 gradi sicché in 30 di’ è fuora del segno; e, come dichiarato fu ne la prima cantica, lo sole è più basso che 'l zodiaco assai, e però si dè intendere ch’elli va sotto lo zodiaco sotto li detti segni; e però dice l’autore che Virgilio li dicea: Se Castor e Polluce, che fanno quel segno che si chiama Gemini, Fossero in compagnia di quello specchio; cioè del sole; cioè che ’l sole fusse sotto Gemini, com’era allora sotto Ariete, Che; cioè lo quale specchio del sole, su; cioè l’emisperio di sopra, e giù; cioè l’emisperio di sotto, del suo lume conduce: imperò che l’uno emisperio e l’altro illumina col suo lume. Et altri ci dà altra esponizione, dicendo che su e giù significano li pianeti di sopra al sole; cioè Saturno, Giove e Marte; e li tre di sotto al sole; cioè Venus, Mercurio e la Luna, Tu; cioè Dante, vedresti il Zodiaco; cioè lo cerchio dei segni del quale è detto di sopra, rubecchio 25 Ancora all’Orse; cioè al polo artico dove sono le due Orse; cioè la maggiore e la minore, più stretto rotare; cioè fare sua revoluzione che tu non vedi avale, perch’è in segno più rimoto; cioè in Ariete che è più rimoto dal polo artico che Gemini. Et in questo luogo è da notare la finzione di Calistone d’Arcadia e d’Arcade suo filliuolo, che mutati in Orsa funno translati al polo artico, Se non uscisse fuor del cammin vecchio; cioè quello ch’io detto. Come ciò sia se il vuoi poter pensare; tu, Dante, Dentro; ne la mente tua, raccolto; sicché non applichi la fantasia a le cose di fuora, imagina Sion; cioè lo monte di Gerusalemme chiamato Sion, in sul quale era la città di Gerusalem, Con questo monte; cioè del purgatorio, in su la terra stare; per opposito s’intende, sicché l’uno; cioè Sion è nel nostro emisperio, e lo monte del purgatorio è nell’altro emisperio, l’uno contra all’altro, Sì ch’ambedu’; cioè per sì fatto modo che l’uno sia opposito all’altro: cioè Gerusalem in verso lo polo artico, e il monte del purgatorio in verso l’antartico, dove finge essere l’isula come la quarta che finge che appaia di qua; e però dice ambedu’; cioè Sion e il monte del purgatorio, ànno un solo orizzon: orison è lo cerchio lineare che divide l’uno emisperio dell’altro; e perchè secondo siti de la terra sono diversi orisonti, per mostrare che amburo abbiano uno medesimo sito, però dice che amburo abbiano uno orison, E diversi emisperi: l’emisperio è mezza spera del cielo, questi due monti ànno divisi 26 emisperi: imperò che l’uno àe l’una metà del cielo di sopra, e l’altro l’altra apposita, sicché come la quarta abitabile è verso lo nostro artico; così l’isula del purgatorio sia verso lo loro antartico, onde la strada;cioè la via del sole, Che mal non seppe carreggiar Feton; cioè male, perchè non seppe guidare lo carro del sole Feton suo filliuolo, perchè male lie ne colse: imperò che fu fulminato e morittene. Di questa finzione fu ditto ne lo xvii canto de la prima cantica: questa strada è quella via che descrive ogni di’ lo rotamento del sole, lo quale non esce mai da la linea eclittica per la quale sempre va per lo mezzo del zodiaco lo sole; e questa via àe ogni di’ mutamento, secondo che ogni di’ passa uno grado, et altro cerchio fa l’uno di’ che l’altro, secondo la revoluzione del primo movibile. Vedrai; tu, Dante, se tu imagini quel che fu detto di sopra, come a costui; cioè a costui che iera 27 nel nostro emisperio, convien che vada Dall’un, cioè canto; cioè del ritto, quando a colui; che serà nell’altro emisperio, dall’altro fianco; cioè del manco la luce del sole e così a quelli che ’l nostro emisperio abita, stando volto verso l’oriente lo lato manco è ritto tramontana, e l’ombra cade in verso tramontana; et a colui che abitasse l’altro emisperio, ragguardando verso oriente che è opposito al nostro oriente verrebbe lo raggio del sole da mano manca e cadrebbe l’ombra in verso l’antartico, che sarebbe a mano ritta; e così viene per opposito all’uno e l’altro l’ombra, secondo l’emisperio, Se lo intelletto tuo ben chiaro bada; cioè ragguarda chiaramente la verità.
C.IV — v. 76-87. In questi quattro ternari lo nostro autore, per dimostrare ch’elli abbia bene inteso quello che prima mostrava di non avere inteso, induce la ragione de la Strologia, dicendo: Certo, diss’io; cioè Dante, Maestro mio, unquanco Non vidd’io chiaro; come a noi ora lo sole dè ferire dal lato manco, sì com’io discerno; cioè cognosco ora la ragione, Là dove mio ingegno parea manco; cioè parea defettuoso, non parendo che potesse conprendere come era che il sole ferisse loro dal lato sinistro, stando verso l’oriente dell’altro emisperio; la qual cosa che intenda ora chiaramente lo dimostra per ragione astrologica, dicendo: Chè; cioè imperò che, il mezzo cerchio; cioè l’equinoziale lo quale chiama mezzo, o perchè dall’uno e dall’altro emisperio non si vede se non mezzo, o perchè veramente sta in mezzo tra du’ poli; cioè artico et antartico, li quali diceno li Astrologi essere fissi et immovibili, e che in su essi lo primo mobile si gira dall’oriente in verso l’occidente e tirasi di rieto l’viii spera, dove è lo zodiaco e sono le stelle fisse e tutti li pianeti che sono di sotto ad esso; cioè Sarturno, Iupiter, Mars, lo Sole, Venus, Mercurio e la Luna; sicché in 24 ore fa ogni cosa una volta circuire lo cielo e volversi sotto sopra. E niente di meno l’ottava spera si volge contrario motu in 100 anni uno grado; e tutti li pianeti similmente si volgeno con contrario movimento, e qual compie sua revoluzione in poco tempo e qual in assai, come la Luna in 20 di’ o poco più, e lo Sole in uno anno, e così delli altri. E diceno li Astrologi che questa revoluzione si fa in su du’ poli mobili che esceno da’ poli immobili detti di sopra; e perchè tutta la distanzia dall’uno polo all’altro si dice essere 180 gradi, o parti che si chiamino, lo cerchio equinoziale è distante dell’uno polo 90 gradi e 90 dall’altro, e però dice lo mezzo cerchio, perch’elli è in mezzo tra l’uno polo e l’altro; et anco divide lo zodiaco in 2 mezzi, del moto superno; dice a dare ad intendere lo diritto movimento del cielo, lo quale cagiona lo primo mobile; cioè la nona spera la quale si muove in su li poli due; cioè artico et antartico, in 24 ore una revoluzione tirandosi di rieto tutti li altri cieli di sotto, come detto è. Che; cioè lo quale cerchio mezzo, si chiama Equatore: imperò che li Astrologi chiamano l’equinoziale Equatore: però che pareggia lo di’ co la notte e la notte col di’; et altri lo chiamano Equonoziale 28 per quella medesma cagione, in alcuna arte; cioè nell’Astrologia. Lo Trattato de la Spera dice che tra l’uno polo e l’altro sono 5 cerchi paralelli; cioè equidistanti sì, che ’l primo è intorno al polo artico e chiamasi paralello artico, e quello spazio dice Virgilio che è la zona fredda 29 che non s’abita sotto per lo troppo freddo; e da quello cerchio poi è un altro cerchio equidistante che si chiama tropico estivale: imperò che infine a quello viene lo Sole quando esce di Gemini et entra in Cancro, e quello spazio che è tra ’l detto cerchio e l’altro del polo è detto da’ Poeti zona temperata, e sotto quella ben si può abitare. E poi è lo terzo cerchio che si chiama Equinoziale, o vero Equatore: imperò che, quando lo Sole è quie, è pari lo di’ co la notte, che è in principio d’Ariete quando lo Sole s’accosta a noi; et è in principio di Libra, quando lo Sole si diparte da noi, sicché poiché è intrato in Ariete è pareggiata la notte col di’, che tutta via è mancata infine a quel punto; e, quive diventata pari, incomincia poi a crescer lo di’ e mancare la notte infine che viene al tropico estivale che fa la state a noi, e lo maggior di’ che sia in tutto l’anno; e poi come discende, così manca lo di’ e cresce la notte, infine a l’Equatore al segno di Libra, dove pareggia lo di’ co la notte e poi discende ai segni meridiani et australi, infine che viene al tropico iemale; dove, mancati li di’ e cresciute tuttevia 30 le notti, fa la maggior notte che sia, et allora lo Sole entra in Capricorno e poi ritorna anco a l’Equatore, mancando le notti e crescenti li di’, infine che ritorna al segno d’Ariete dov’è pari lo di’ co la notte, e ritorna a Cancro poi dov’è lo maggior di’ che sia, et è a noi la state, et a quelli che sono all’altro tropico è allora lo verno. E così per opposito, quando lo Sole è in Capricorno, è quive la state et a noi è lo verno; e così veggiamo che sempre l’Equatore è in mezzo tra ’l Sole e’l verno; cioè tra la state e ’l verno: imperò che la presenzia del Sole fa la state, e la sua assenzia fa lo verno; e tutta questa zona, che tiene dall’uno tropico all’altro che v’è in mezzo l’Equatore, chiamano li Poeti torrida; e diceno che di sotto è inabitabile per lo troppo caldo. E così dal tropico di Capricorno infine all’altro paralello è zona temperata, e sarebbe di sotto abitabile se non che l’occeano cuopre ogni cosa: però ch’ell’è dall’altro emisperio e poi è l’altro paralello intorno all’altro polo antartico; e questa diceno li Poeti anco essere zona fredda e di sotto inabitabile per lo troppo freddo; ma, come detto è, di sotto 31 non v’è abitazione perchè ogni cosa è acqua. E perchè l’autore finge che di là in quell’altro emisperio sia l’isula col monte del purgatorio nel colmo di quella abitabile, che finge che sia verso lo polo antartico, come la nostra è verso lo polo artico, però finge che quive era lo Sole da sinistra come a noi è a destra; e quando a noi è di’, di là è notte; e quando a noi è la state, colà è ’l verno, e così per opposito ogni cosa: imperò che ciò che è dall’Equatore in qua è per contrario a quello che è dall’Equatore in là, et e contrario. E; cioè quello, che sempre riman; cioè lo cerchio Equatore, tra il Sole e il verno: imperò che se ’l Sole e di qua noi abbiamo la state, e di là lo verno; e se lo Sole è di là, di là è la state e di qua è lo verno, sì che sempre è l’Equatore in mezzo: però che divide per lo mezzo ancora li segni del zodiaco: imperò che sei ne sono di qua; cioè Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo; e di là, Libra, Scorpio, Sagittario, Capricornus, Aquarius e Pisces, Per la ragion; ecco che assegna la ragione, che di quinci; cioè da questo tropico antartico, si parte; cioè lo Sole, Verso settentrion; cioè andando per lo segno 32 settentrionale, lo quale si chiama tropico; cioè conversivo: imperò che ’l Sole in Cancro s’incomincia dall’altra banda del zodiaco a convertere a rieto in verso l’Equatore per questi segni; cioè Cancer, Leo, Virgo; e poi se ne va per li australi segni; cioè Libra, Scorpio, Sagittario, nel quale s’accosta al tropico iemale o vero australe, o vuoi antartico; e poi incomincia a ritornare all’Equatore per questi segni; Capricornus, Aquarius, Pisces; e però dice: quanto gli Ebrei; cioè tanto, quanto li Ebrei che sono popoli così presso all’Equatore, come fusse di là Dante, quando era nell’altro emisperio di verso il polo antartico: imperò che sono li popoli di Gerusalem; e Gerusalemme si dice essere in sul mezzo colmo de la terra, come Dante finge che sia di là lo purgatorio, Vedevan; cioè quando erano nel diserto, lui; cioè lo Sole, verso la calda parte; cioè di là dall’Equatore verso il tropico antartico. E perchè di là dell’Equatore si dice lo mezzo di’ essere e la parte calda, secondo li vulgari; benché a la verità la parte calda sia tra l’uno tropico e l’altro, nel mezzo dei quali è l’Equatore come detto è di sopra, però disse l’autore verso la parte calda. E qui tocca la storia de la Bibbia; cioè quando lo populo d’Isdrael passò per lo diserto d’Egitto in terra di promissione, dove dice la Santa Scrittura che Dio opponeva la colonna de la nebbia in verso lo incendio del Sole, e la colonna del fuoco a levare le tenebre de la notte; e per notare questo indusse l’autore questa ragione, sicché per questo dà ad intendere così la ragione, che mi fa avvedere di quel ch’io mi meravilliava, è questa; è che il Sole tanto va di là dall’Equatore verso settentrione, quanto va di là dall’Equatore verso l’antartico. Poi esce di questa materia, dicendo: Ma, se a te; cioè a te Virgilio, piace, volentier saprei; io Dante, Quanto avemo ad andar; ecco che si mostra disideroso di sapere lo fine del cammino; et assegna la cagione cioè la dificultà, dicendo: chè; cioè imperò che, il poggio; cioè del monte del purgatorio, sale; cioè va in alto, Più che sallir non posson li occhi miei; cioè più ch’io non posso comprendere co la vista corporale. E per questo si conferma quel che fu detto di sopra, che la sensualità e lo senso umano non si può stendere a considerare l’altessa de la penitenzia.
C. IV — v. 88-99. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Virgilio li rispuose a la sua dimanda; e come un’anima di quelle che erano quive, diede per costa a la risposta di Virgilio, dicendo così: Et elli; cioè Virgilio, a me; cioè Dante disse, s’intende: Questa montagna; cioè del purgatorio, secondo la lettera; ma, secondo l’allegoria, de la penitenzia, è tale; cioè è sì fatta, Che sempre al cominciar di sotto; cioè a montare suso: ogni via che va ad alto è faticosa, e però dice: è grave; e così la via de la penitenzia è faticosa dal primo grado, E quanto più va su; dice de la via del monte del purgatorio; ma intende de la via de la penitenzia, che quanto l’omo più monta di grado in grado, meno l’incresce; e però dice: e men fa male; cioè a chi su monta sempre la via de la virtù diletta più l’uno grado che l’altro; e quanto più si monta, più cresce lo diletto. Però quand’ella ti parrà soave; cioè delettevile e dolce questa sallita, Tanto, che su andar ti sia leggiero; cioè che ti paia lieve e non faticoso, Come assegonda; cioè com’è prospera, o come è agevile, giuso; cioè ver lo chino dell’acque, andar per nave; cioè andare per una piatta o scafa, che per li Fiorentini si chiama nave: a la china del fiume si va senza fatica tanta, con quanta si va a l’in su; e però ben dice facendo la similitudine che, quando lo montare li fi’ leggero come è leggero a la piatta o a la scafa andare a la china dell’acqua; o volliamo intendere pur dell’acqua; cioè come andare per nave giù ad acqua segonda; cioè ad acqua seguitante lo corso de la nave e non contastante col suo corso, Allor serai al fin d’esto sentero; cioè allora serai all’ultimo grado de la penitenzia e della virtù: però che allora arà l’abito de la penitenzia, come dice lo Filosofo: Signum generati habitus est in opere delectatio; e quando l’omo à l’abito, può dire che sia al fine de la sua apprensione. Quivi; cioè a quel fine, di riposar l’affanno aspetta; tu, Dante: imperò che ogni operante al fine riposa l’affanno suo. Più non rispondo; dice Virgilio, e questo so per vero. Bene adiunge questa sentenzia, che la ragione sa per vero che mai lo desiderio dell’operante non è quietato, in fin a tanto che non viene al fine de la sua operazione. E com’elli; cioè Virgilio, ebbe sua parola detta; cioè com’ebbe finito lo suo parlare, Una voce dappresso; cioè de l’anime che erano quive presso, sonò; cioè disse queste parole per costa: Forse Che di sedere in prima avrai distretta; cioè forsi che in prima avrai disagio di sedere, che tu ti riposi.
C. IV — v. 100-111. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come elli e Virgilio s’accorseno di quell’anima che diede per costa al loro ragionare, dicendo come s’appressorno e viddeno loro condizione. Dice cusì: Al suon di lei; cioè di quell’anima ch’avea così detto, come appare di sopra, ciascun di noi; cioè di me Dante e Virgilio, si torse; in verso il lato, E vedemmo a mancina un gran petrone; perchè quive era gente che era occupata da negligenzia d’andare a la penitenzia, però finge che sia a mano sinistra, perch’elli non fu di loro condizione; et andare a loro, quanto a lui, era perder lo tempo, e però finge che fusse a mano sinistra; e perchè in loro era duressa, però finge che fusseno sotto uno grande petrone, Del qual; cioè petrone, nè ei; cioè Virgilio, nè io; cioè Dante, prima s’accorse; cioè innanti che udissimo la voce. Là ci traemmo; cioè Virgilio et io, et ivi; cioè quive, eran persone; che prima noll’avavamo vedute, Che si stavano all’ombra: chi è negligente è freddo della grazia di Dio, e però finge l’autore che si stia all’ombra, dietro al sasso; cioè per farsi riparo del sole; et allegoricamente per farsi con la duressa del cuore riparo da la grazia di Dio, e però adiunge: Come uom per negligenzia a star si pone; questa è la similitudine propia a la intenzione. Et un di lor; cioè di quelle persone ch’erano di rieto al sasso, che mi sembiava lasso; cioè mi parea stanco, Sedeva et abbracciava le ginocchia; ecco l’atto dei negligenti che abbracciano e stringeno l’affetto, a ciò che non vegna loro vollia di fare, Tenendo il viso; cioè la ragione e lo intelletto, giù tra esse; cioè tra le ginocchia, che significano li affetti inferiori, basso; cioè inchinato: chè la ragione e lo intelletto sta inchinato giù a li afetti mondani in coloro che sono negligenti a le virtù. E per mostrare la condizione loro, adiunge: O dolce Signor mio, diss’io; dice Dante a Virgilio, adocchia; cioè guarda coll’occhio, Colui; ecco che li mostra una di quelle anime, che mostra sè più negligente; nelli atti suoi, Che se pigrizia fusse sua sorocchia; e per questo ben mostra come nelli atti dimostravano quant’era stata la pigressa loro.
C. IV — v. 112-126. In questi cinque ternari finge lo nostro autore come venne a parlamentare con una di quelle anime che stavano di po’ il petrone, dicendo come prima ella mosse le parole in questa forma: Allor; cioè quando io dicea le parole dette di sopra, si volse a noi; cioè a Virgilio et a me quelli che di sopra avea dato per costa, e puose mente; verso noi, Movendo il viso pur su per la coscia; cioè non alsando lo capo e dimenandolo come chi fa scherno d’altrui, e così facea elli di Dante; e parlando come parlano li pigri; e così finge, per mostrare la condizione di quelli del mondo, che in purgatorio è carità, come detto è, e questo non repugna però a la carità, E disse: Or va tu su, che se’valente; cioè quell’anima parlò in sì fatta forma a Dante, beffeggiandolo. Cognobbi allor; io Dante, chi era; colui che avea cusì parlato, e quella angoscia; che io avea preso per lo montare, dice Dante, Che m’avacciava un poco ancor la lena; cioè l’anelito del pulmone, Non m’impedì l’andare a lui; cioè non mi impacciò ch’io non andasse 33 a lui, bench’io fusse stanco, e poscia Che a lui fui giunto; io Dante, alzò la testa a pena; cioè quella anima che parlato avea alzò lo capo con malagevilessa; et in questo si nota ancora la sua negligenzia, Dicendo; a Dante: Ai ben veduto; tu, Dante, come il Sole Dall’umero sinistro il carro mena? Questo dice, perchè Dante se n’era meravilliato, come appare di sopra; e parla qui beffeggiando Dante. Li atti suoi pigri; li quali sono contati di sopra, e le corte parole: imperò che costui parlava molto breve, Mossen le labbra mie un poco a riso; ecco che qui si nota lo ridere del savio che dè essere con modestia, Poi cominciai; io Dante a parlare, dicendo in questa forma: Belacqua; questi fu così chiamato in questa vita e fu molto negligente in tutte le cose e così nell’atto de la penitenzia; ma pur al fine si pentì; e però ebbe remissione de la colpa; ma non de la pena. E finge l’autore che di questa negligenzia elli e l’altre anime che vi sono, facciano penitenzia in fine a tanto in quello luogo, quanto sono stati negligenti in questa vita, e poi vadano a purgarsi, a me; cioè Dante, non dole Di te omai; cioè in giù mai, perchè veggo che se’ in stato di grazia; ma dimmi; cioè a me Dante, perchè assiso; cioè fermato, Qui ritto se’; cioè in questo luogo, che tu non vai più suso? Attendi; cioè aspetti, tu la scorta; cioè guida che ti guidi, O pur lo modo usato; de la tua negligenzia, t’ài ripriso 34; cioè t’ài ripilliato, lo quale tu solevi avere nel mondo?
C. IV — v. 127-135. In questi tre ternari finge lo nostro autore come Belacqua, del quale fu detto di sopra, risponde a la dimanda sua e dichiara la pena di coloro che sono quive, dicendo: Et elli; cioè Belacqua disse a me Dante, s’intende: O frate: sempre finge l’autore che nel purgatorio e nel paradiso s’usino per l’anime che vi sono vocabuli di carità, e però finge che quell’anima dica a lui: O frate, ch’è nome di carità, andar in su che porta? Quasi dica: Nulla; e per questo mostra che non si può fare contra l’ordine posto da Dio. Che non mi lasserebbe ire a’ martiri; cioè a sostenere pena de’miei peccati, secondo l’ordine de la Divina Iustizia, nel purgatorio, L’uccel di Dio; cioè l’angiulo di Dio lo quale chiama uccello, perchè è alato, che siede in su la porta; cioè del purgatorio, de la quale si dirà nel processo. Prima convien che tanto il ciel m’aggiri Di fuor da essa; cioè porta del purgatorio, di fuor de la quale conviene stare tanto tempo, secondo la finzione dell’autore, quanto l’uomo àe indugiato la sua penitenzia in questa vita: lo girare del cielo è lo passamento del tempo, quanto fece in vita; cioè quanto m’aggiroe lo cielo, mentre ch’io vissi, Perch’io indugiai; cioè perch’io, Belacqua, penai, al fine i buon sospiri; cioè li pentimenti e rimordimenti de la penitenzia, che inducono sospiri, Se orazion in prima non m’aita; ecco che manifesta l’aiuto che possano avere quelli del purgatorio; cioè l’orazione dei santi omini, e però dice: Che surga su di cuor; cioè che si levi in su a Dio dal cuore: imperò che si dice: Si cor non orat, in vanum lingua laborat — , che in grazia viva; cioè di Dio: imperò che chi non è ne la grazia di Dio, non è esaudito. L’altra; cioè orazione di chi non è in grazia, che val; quasi dica: Nulla, che 35 in ciel non è udita? — Non exaudit Deus preces peccatorum.
C. IV— v. 136-139. In questo ultimo ternario e versetto lo nostro autore finge come Virgilio lo solicita del cammino, montando su al terso balso, ammonendolo del passamento del tempo, dicendo così: E già il Poeta; cioè Virgilio, inanzi mi saliva; cioè al quarto luogo che è lo terso balso, dove si purgano de la negligenzia coloro che sono stati bellicosi, e per l’opere de l’arme ànno indugiato la penitenzia in fine a la morte accidentale, e meschiam co loro li morti per morte violenta per qualunqua altra cagione. Se l’uomo vuole essere bene guidato, sempre dè lassare la ragione andare inansi e guidare la sensualità; e però finge che il poeta, cioè Virgilio che significa la ragione, salliva inansi a lui che significa la sensualità. E dicea; a me Dante Virgilio: Vienne omai; ecco che ’l sollicita et ammoniscelo del passamento del tempo, dicendo: vedi ch’è tocco; cioè toccato, Meridian; lo cerchio che si chiama meridiano lo quale è diverso, secondo li luoghi diversi de la terra, quive dove l’omo abita: imperò che quando lo sole viene alto sì che veglia per ritto noi, allora è meridiano a noi: imperò che allora è mezzo di’ a punto; e questo si comprende al quadrante, quando l’ombra de lo stecco del centro viene per mezzo il quadrante dirittamente. E perchè in quello emisperio, dove finge l’autore che fusseno, già lo sole era al mezzo di’, però dice: Vedi che è toccato lo cerchio meridiano, dal Sole; perchè già è quive, e da la riva; cioè e dall’occidente nostro, s’intende: imperò che quinde si leva lo sole a chi è in quello emisperio, e così la notte; e perchè vi è lo mare oceano, entra ne la terra, però dice e da la riva; cioè del mare oceano ch’è ne l’occaso, Cuopre la notte; che ne viene, descendendo di quell’altro emisperio e montando suso nel nostro; ma avale discende et è già coi piè; suoi a Marrocco, e però dice: già coi piè Marrocco; cioè che già vi s' incomincia ad approssimare co’ piedi: Marrocco è uno regno posto ne le parti occidentali vicino a la Spagna ne la parte de l’Africa; e però si dice lo re di Marrocco, sopra ’l quale regno la notte era allora coi piedi: imperò che allora incominciava quive a comparire, e sopra Gerusalem era allora mezza notte et era profonda quive la notte, quando nell’altro emisperio era mezzo di’. E qui finisce lo canto quarto et incomincia lo quinto.
Note
- ↑ C. M. da accidia naturale che è
- ↑ C. M. meno abondevile, che
- ↑ C. M. come giunti suso, — Il nostro codice à - monti suso - che dee valere montati, come cerco per cercato, tramonto per tramontato. E.
- ↑ C. M. in sè riceva, L’anima;
- ↑ None; non, aggiuntovi l’e per istrascico di pronunzia, siccome più innanzi quie, sue, in vece di qui, su. E.
- ↑ Abbiente, participio presente cavato da abbiere che, in cambio di avere, odesi in alcuni luoghi del Valdarno. E.
- ↑ C. M. e quella; a che attualmente ascolta, è sciolta; cioè libera ad operare quello atto che opera particulare. Di ciò; dice Dante.
- ↑ C. M. la quale piglia
- ↑ C. M. poco
- ↑ Sallimento, sallita, sallire trovasi non di rado presso gli Antichi. E.
- ↑ C. M. a montare lo monte; cioè a pigliare lo stato della penitenzia, dicendo:
- ↑ C. M. non li sia
- ↑ C. M. lo calle; cioè lo callare: questa è la determinazione del comparativo, unde saline; cioè salitte, Lo Duca
- ↑ C. M. vastano le operazioni corporali; ma a la penitenzia volliano essere le attive e contemplative, ma qui convien
- ↑ C. M. colle quali generate dalla carità
- ↑ Condotto è il conductus dell’età di mezzo, significante guardia di sicuranza, di custodia e difesa. Giovanni Villani, Lib. vii, c. 24 «II detto maliscalco rendendosi di soperchio sicuro di sua gente, non volle più condotto da’ Fiorentini». E.
- ↑ C. M. scomunicati, pilliando le cose
- ↑ C. M. lo ricognove,
- ↑ C. M. nel secondo della sua
- ↑ C. M. mostrerò
- ↑ C. M. lo decimo filliuolo
- ↑ C. M. altri due Giovi
- ↑ 23,0 23,1 Col Magliab. si è supplito da - a vergogna - fino a - che io;
- ↑ C. M. spera materiale de’ poli
- ↑ C. M. rubecchio, cioè rosso, Ancora
- ↑ C. M. diversi emisperi:
- ↑ era, ieri, iera, ec. adoperarono gli antichi nostri, premesso l’i ad era, eri, imitando gli antichi Francesi i quali scrissero iere, ieres ec. E.
- ↑ C. M. Equinoziale
- ↑ C. M. zona frigida che
- ↑ Tuttevia. Questa congiunzione, composta dell’articolo universale tutto e del nome via, mostra come codesto in antico venisse adoperato con la medesima desinenza in ambidue i numeri, come fiata, pera e cotali. E.
- ↑ C. M. di sopra non v’è
- ↑ C. M. per li segni settentrionali; cioè Aries, Taurus, Gemini inverso il tropico settentrionale, lo quale
- ↑ Andasse, fusse prime persone dell’imperfetto del congiuntivo, conformi alla desinenza latina, e sempre vive nel popolo toscano. E.
- ↑ I participi passati, oggi terminati in eso, come acceso, inteso, preso ed altrettali, cadevano presso gli antichi in iso, perche foggiati sopra alcuni particìpi latini de’ bassi tempi « Si ..... prisa et temptata fuerit » Legg. Alamann. c. 22. E.
- ↑ Altrimenti - che non è in cielo udita?