Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Appendice/43. Continua l'appendice. Principio d'un'età ottava della storia d'Italia? La guerra d'indipendenza
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43. Continua l’appendice. Principio d’un’etá ottava della storia d’Italia? La guerra d’indipendenza [1848-1849]. — Se non m’inganni quell’illusione troppo frequente che fa a ciascuno parer grandissimi que’ fatti, quelle sventure in che visse, operò o soffrí, io credo che l’anno 1848 sia per rimanere uno de’ piú notevoli nella storia non solamente della gran rivoluzione rappresentativa, ma forse anche di quella che non può non seguire delle nazionalitá europee. Quattro grandi desidèri politici, o, se cosí si vogliano chiamare, idee, scoppiarono insieme qua e lá in Europa, la sconvolsero in quell’anno. 1º Il desiderio della democrazia assoluta, esclusiva, sotto i due nomi poco diversi di «comunismo» e «socialismo». 2º Il desiderio della libertá rappresentativa. 3º Il desiderio delle indipendenze nazionali. 4º Il desiderio delle cosí dette unitá delle nazioni, o riduzioni di esse a un governo solo o centrale. La rivoluzione francese di quell’anno fu prodotta non piú che dal primo e piú stolto di questi desidèri; la germanica, dal quarto e piú vano di essi; l’italiana sola fu l’effetto di quei due che non si debbono dir solamente piú legittimi e piú santi di que’ desidèri o sentimenti, ma principi imperituri dell’esistenza d’ogni nazione civile, i due sentimenti, desidèri, o passioni o principi, della libertá e dell’indipendenza. Sventuratamente l’Italia ebbe a propugnare i due insieme, e sventuratissimamente (dando retta di nuovo a consiglieri scartati negli ultimi anni) ella v’aggiunse il vano desiderio dell’unitá, o sogno settario. Chi vuol arrivare, non può avere che uno scopo solo; due, o peggio tre vie, sono impossibili a seguire. La mente umana non è infinita, anzi è misera; piú misera la mente di un popolo, dov’è la difficoltá di riunir tante menti in una. Napoleone stesso, una delle meno misere fra le menti umane, e mente unica assoluta d’una gran nazione, si vantava di non far mai che una cosa alla volta. Finché l’Italia fará imprese di due o tre scopi alla volta, ella le perderá sempre, quand’anche avesse occasioni piú belle che non quella del ’48, che è difficile, e quand’anche avesse a capo un Napoleone, che non è possibile, senza quell’unitá, la quale non si può (quando si dovesse) cercare senza l’indipendenza; la quale appunto si tratta d’aver prima ed anzi sola.
Tuttavia, a malgrado la sua importanza, l’anno 1848 non rimarrá per le altre nazioni èra di niuna nuova etá.
La democrazia assoluta tentata in Francia, e l’unitá governativa tentata in Germania, sono giá state vinte una volta; e perché quella è assurditá contraria a tutte le presenti e crescenti civiltá, questa vanitá o almeno utilitá non proporzionata a sue difficoltá, elle saranno probabilissimamente vinte altre volte. — Ma, all’incontro, perché due dei tre motori della rivoluzione italiana del ’48, sono, non che conformi, ma necessari a questa medesima universale e cristiana civiltá, perciò non credo debba rimaner dubbio a nessuno, e non rimane almeno a me: questi due scopi continueranno a concitare le menti italiane, a far nuove rivoluzioni, finché non sieno pienamente ottenuti. Dopo il fatale ma grande nostro ’48, non sono piú possibili né i vili ozi del Seicento, né le stentate riforme del Settecento, né le guerre sotterranee, gli scoppi inutili, le sètte inefficaci della prima metá dell’Ottocento; né per conseguenza quella preponderanza straniera che oltre tre secoli durò giá tranquilla con tali servi, poco inquietata da tali nemici. Dopo lo scoppio pur infelice, ma tutto diverso dei precedenti del ’48, rimangono e rimarranno, Dio solo sa quanto, gli stranieri in Italia materialmente, né piú né meno che prima. Ma non sono piú essi che possano dare lo spirito ai fatti, né i nomi alla storia d’Italia; sono, saranno le memorie del ’48; è, sará quella libertá rimasta in risultato e ricompensa degna ai propugnatori veri dell’impresa del ’48. Durerá dieci, cento, mille anni la nuova etá? Si chiamerá essa della libertá e dell’indipendenza conquistate? ovvero della conquista della libertá e dell’indipendenza? ovvero anche (che non credo, e Dio pietoso nol voglia) dell’inutile tentativo alla libertá e all’indipendenza? Io nol so; ma questo so dagli esempi di trentasei secoli noti alla storia, dalle condizioni di questo nostro in tutto il mondo; che le rivoluzioni (non le congiure) di libertá, una volta iniziate, possono retrocedere sí, ma non cessare; che la libertá interna è incompatibile colla servilitá al di fuori; che potrá quindi essere in Italia un’etá forse lunga, forse terribile, forse infelicissima, di lotta tra servi e padroni, ma non piú un’etá di servilitá da una parte, e quindi di preponderanza dall’altra. Sarebbe, cosí Dio non voglia, piú possibile un’etá di servitú, che di servilitá o preponderanza. Questa è finita oramai; incomincia dal 1848 un’etá nuova, che io numero ottava della storia d’Italia, che i posteri battezzeranno essi, secondo che saranno piú o meno buoni della generazione nostra iniziatrice.
Qui giunto, cresce la difficoltá di quest’appendice. Potrei scusarmi di finirla qui. Ma poiché (bene o male) io superai giá quella di parlare dei fatti a cui preser parte gli amici ed avversari miei, io mi proverò a superar pur quella che qui s’aggiunge di parlar de’ fatti in cui ebbi parte anch’io. E supererolla al medesimo modo, solo possibile in questa brevitá, di giudicare sí i fatti, ma non la parte che v’ebbe ciascuno. E faccio e domando quindi per me la medesima riserva, che mi par giustizia. Quand’io loderò o condannerò un fatto in che ebbi parte io, come altri, non vuol dire che io lodi o condanni me. A un fatto moralmente cattivo è cattiva qualunque partecipazione per certo; ma un errore politico, pur rimanendo errore al complesso di quella nazione e di quelle persone che il fecero, può essere, non che scusabile, ma bello e generoso in chi il fece per iscansare errori maggiori. Gli errori del ’48 sono certi, poiché fallimmo l’impresa; ma quali sono? Chi vede gli uni, chi vede gli altri, io ne vedo forse piú che nessuno; e noterolli, anzi non vo incontro all’ingratissima fatica se non per notarli, perché credo possa essere piú utile ciò che tutto il resto del mio volume. Ma il giudicare qual parte abbia avuto ognuno in quegli errori, sarebbe materialmente impossibile qui; e non sarebbe poi anche in opera piú lunga possibile a me. Delle cose a cui si partecipò io credo che sia piú bello, piú franco farsi non giudice, ma piú modestamente avvocato; scrivere non storia, ma memorie. E queste detterò poi, quando io abbia tempo e voglia; ché non credo aver né l’un né l’altra.
Dicemmo, gli statuti, la libertá essere stata data a Napoli addí 11 febbraio, a Torino addí 4 marzo, a Firenze addí 17, a Roma addí 14 marzo. — Addí 18 incominciò il sollevamento de’ milanesi; al 19 Carlo Alberto die’ ordine di adunare l’esercito al Ticino. Nella notte del 22 al 23, dopo cinque giornate di sollevamento, inopportunamente fatto, meravigliosamente proseguito e finito, Milano fu libera dai tedeschi. E nel medesimo dí, cinque ore prima che ne giugnesse nuova a Torino, la guerra d’indipendenza era dichiarata dal piccolo re di Piemonte, cioè di quattro milioni e mezzo d’anime, senza un’alleanza, né politica, all’imperator d’Austria, cioè di trentasei milioni, appoggiato dall’alleanza d’Europa dal 1815. Non importa; si gridò in tutta Italia alla tardanza, alla titubanza piemontese. — Addí 25, un primo corpo piemontese entrò in Milano, addí 26 il re partí di Torino, addí 3 aprile entrò in Pavia, e proseguí poi a Crema, con soli venticinquemila uomini contra l’esercito austriaco di settantamila. Questi, fuggenti dalle cittá sollevate, si raccoglievano al campo di Montechiaro. Il re lo minacciò, lo sloggiò piegando a destra, e scendendo il Po. L’operazione era bella, la guerra era portata d’un tratto sul Mincio. Addí 8 aprile, si combatté a Goito, si prese e si passò quel fiume; addí 9 si combatté e si passò a Monzambano, addí 10 ed 11 a Valeggio. Allora la guerra era necessariamente in que’ campi tra Mincio ed Adige, dove, quando non era se non la fortezza di Mantova, Buonaparte giovane e vittorioso dimorò e vinse per otto mesi, dove ora era il terribile quadrilatero di Peschiera, Mantova, Verona e Legnago, apparecchiate, rinforzate e studiate ne’ trentaquattro anni di pace dai sospettosi stranieri, dove ora il re conduceva un esercito nuovo di venticinquemila uomini, contro sessanta o settantamila austriaci. Il grido d’Italia, cioè de’ settari, dei tribuni di piazza, degli oratori di circoli, degli scrittori di giornali, del governo provvisorio di Milano, forse senza eccezioni, e quello stesso dei ministri e consiglieri del re con pochissime eccezioni, era che si passasse attraverso i due fiumi, le quattro fortezze, i sessantamila nemici, per dar la mano a Venezia, Vicenza e l’altre cittá, e si portasse la guerra agli sbocchi, anzi alle cime dell’Alpi da Como a Trieste. Né fa meraviglia che la povera Italia, inesperta di guerra anche piú che di politica, gridasse siffatte stoltezze; sí il può fare che rimangano queste in alcuni libri di uomini anche militari. Quand’anche fosse stata vera, generale ed armata insurrezione in Lombardia e Venezia, sarebbe stata inutilitá, fanciullaggine, correre a dar la mano a’ veneti, perdendo piede in Lombardia, che è la solita perdizione di tutte le guerre d’insurrezione. Ma questo poi non era né poteva essere in Lombardia né in Venezia, non v’essendo armi colá, né potendone dare il Piemonte, che non n’avea, pur troppo, il corredo suo intiero per il proprio esercito; ondeché, chi accusa lombardi e veneti di non essersi levati ad insurrezione armata, è poco meno ingiusto che chi accusa il re di non esser corso a congiungersi (quand’anche fosse stato materialmente possibile) con quell’insurrezione che non esisteva. Il fatto sta che gli eventi tutti di questa guerra dimostrano ora facilissimamente ad insegnamento (che Dio voglia non disperdere) delle generazioni future, che la somma, che il tutto di questa prima, ardita, forse temeraria, generosa guerra d’indipendenza, era, doveva essere, non poteva non essere se non nell’esercito piemontese; che questo doveva dunque serbarsi, salvarsi, mantenersi, accrescersi, aiutarsi, incoraggiarsi, lodarsi, amarsi, e quasi adorarsi unicamente da tutta Italia; e tenersi perciò dal suo capo coraggiosamente, inalterabilmente sulla difensiva, ogni volta che non venisse un’occasione quasi sicura di offensiva; e prendersi questa allora solamente, e finché durasse l’occasione, tornando poi alla difensiva, dando tempo alle popolazioni di procacciarsi armi ed esercitarvisi, ed ai principi italiani di mandar aiuti, ed ai popoli di accorrervi; dando tempo, insomma, a quel tempo che è il piú grande alleato di tutte le guerre d’insurrezione, che era allora il solo nostro. Ma le stolte grida fecero fare una guerra tutta opposta, una guerra in furia, una guerra che volevasi corta e grossa; e questo fu l’errore che perdette tutto, che il perderá, se occorre, altre volte; perché da questo nacquero tutti gli altri, piccoli e grandi, numerosi, di rado interrotti, sempre risorgenti, e finalmente fatali. Né io conto per tale l’aver tentata con poca e piccola artiglieria Peschiera fin dal 13 aprile, Mantova fin dal 19; questo era necessario per tastare il nemico, per vedere se era veramente o no scoraggiato, se appunto si poteva fare o no una guerra tumultuaria, senza o contra regole. Ma la vanità dei due tentativi provò appunto il contrario; e fu errore non vederlo subito, e non chiamare fin d’allora il parco d’assedio, per una guerra che doveva essere evidentemente d’assedi, numerosi, ripetuti, continuati o lasciati, centrali a tutte le operazioni eventuali, alla Buonaparte. Ad ogni modo, fecesi bene, molto bene, ne’ dí seguenti. Arrivava, ordinossi l’esercito di sessantamila uomini piemontesi e de’ ducati; fecesene un corpo di due divisioni sotto Sonnaz a sinistra, uno di due altre sotto Bava a destra, una riserva di una divisione sotto il duca di Savoia. Questo era l’esercito d’operazione; ma alcune migliaia varianti in numero di volontari lombardi guardavan l’Alpi a sinistra, sulla sponda occidentale sul lago di Garda; cinque in seimila toscani arrivavano, furono posti poi a guardia contro a Mantova; diciassettemila pontifici varcavano il basso Po, e invece di unirsi co’ veneziani, e chiamare a sé tutti i veneti per fare un grosso esercito minaccioso da Padova e il Bacchiglione, corsero tutto il Veneto, chiamati da tutte le cittá, inutilmente allora, fatalmente poi; e in ultimo era arrivato un migliaio, e s’aspettavano venticinquemila napoletani. Con tali forze presenti, tali sperate, il re fece passare il Mincio a tutto l’esercito d’operazione, addí 26 e 27, occupò addí 28 e 29 que’ colli che salgono da Valeggio per Somma Campagna e Sona fino alla sponda destra dell’Adige, e quindi si collegano al Montebaldo, alle storiche posizioni di Rivoli e delle Chiuse d’Italia. Cosí investiva Peschiera; ma gli austriaci mostrarono volersi difendere a Pastrengo. Il re ve li assalí addí 30, e li vinse in bella giornata, che sarebbe stata forse piú bella se si fosse spinta per qualche ora di piú. Ad ogni modo su que’ colli era il luogo di fermarsi, di fortificarsi, di radicarsi, per far l’un dopo l’altro l’assedio di Peschiera addietro, di Verona poi all’innanzi. Delle quattro terribili piazze non erano necessarie a prendersi se non queste due, per portare, non piú stoltamente ma sicurissimamente l’esercito nella Venezia, per far cadere forse ed annullare per certo le altre due. Questo era non solamente precetto, regola d’arte, ma senno o senso volgare o comune. Ma le grida non permettevano senno e regole; volevano, dettavano sregolature, colpi di genio, miracoli. Si tentò uno di questi addí 6 maggio. S’assalí Verona, la gran piazza d’armi d’Austria in Italia, con fanti, cavalli, e pezzi di campagna: riuscí come sogliono tali miracoli; fu respinto l’esercito piemontese da Santa Lucia dove era giunto, fu salvo nel ritirarsi dal bravo duca di Savoia. Allora si ricorse alle regole; e riuscirono a bene. In regola si fecero venir le artiglierie grosse; in regola si camminò per le trincee, si fecero parallele, si costrussero batterie, si aprí il loro fuoco [18 maggio] contro Peschiera, sotto gli ordini del duca di Genova; e in regola si propose una capitolazione, addí 26, ed in regola fu ricusata. Intanto Radetzki, l’insultato, ma ammirabil vecchio di 86 anni, si moveva da Verona addí 27, per far levar l’assedio con bella operazione. Veniva a Mantova [28], assaliva il mattino appresso con quarantamila i cinquemila toscani e pochi napoletani, staccati, od anzi, pur troppo, sacrificati a Curtatone e Montanara; e i toscani mostrarono costí non essere la mancanza di valor naturale, e nemmeno quella della disciplina che impedisca di diventar militare, ma solamente la colpevole trascuranza de’ loro governanti, o forse l’avarizia del paese che non vuole avere esercito per non ispendervi. Ad ogni modo, si fecero uccidere al loro posto, gloriosamente. Né fu forse inutilmente del tutto: ché, fosse Radetzki indugiato da tal resistenza od altro, il fatto sta ch’ei non proseguí in quel giorno, e non giunse se non alla dimane [30] all’attacco disegnato sulla punta della destra piemontese a Goito. Ed ivi con bella e pronta riunione di sue truppe giá stava Carlo Alberto. S’appiccò la battaglia poche ore prima della notte; fu diretta bene, in buona regola, e vinta da Bava. Né era finita del tutto, quando giunse sul campo la nuova della resa di Peschiera, conseguita il medesimo dí. Questa giornata del 30 maggio a Goito fu la piú bella di quella campagna, che fu la piú bella che siasi fatta mai dagli italiani da sette secoli. Quel nome e quella data, ed anzi quei due mesi e mezzo dal 18 marzo al 30 maggio, quella prima metá della campagna del 1848, rimarranno, che che sia per succedere poi, cari e sereni nella memoria degli italiani che vi parteciparono o li videro, ed in quella pure dei posteri. E non giá che non vi fosser fatti di quegli errori che si fan sempre in tutte le guerre, e piú in siffatte subitanee e disapparecchiate; ma perché vi furono piccoli e grandemente riparati.
Ed all’incontro quelli che succedettero furono gravi, non riparati, forse irreparabili. Radetzki, respinto e rotto a Goito, s’era facilmente coperto e rifatto in Mantova. Questo è il vantaggio incommensurabilmente grande, ma nemmen veduto dagl’ignoranti, del guerreggiare tra grosse fortezze proprie; poter esser battuto ma non sconfitto, mentre il nemico in aria è sconfitto appena battuto. E da Mantova Radetzki spingeva vanguardie, ricognizioni, fin all’Oglio. Allora a gridare che si sagrificava Lombardia, Milano, da quelli stessi che pochi giorni addietro pretendevano s’andasse nel Veneto, a Venezia, all’Isonzo. Si die’ lor retta, s’indugiò, si rimase a Goito, vi si raccolser tutte le forze piemontesi per quattro giorni intieri. Finalmente, addí 4 giugno, si volle assalir Radetzki; era scampato nella notte. Si spinse fin sotto Mantova, non si trovò ancora. E allora, ancora eran due cose a fare: ovvero inseguire il nemico tra Mincio ed Adige, od anche oltre Adige, che allora soltanto fu forse possibile; ovvero assalir Verona, la gran Verona che ha forse bisogno d’un esercito a guarnigione ed allora non l’aveva, e cosí forse prenderla, certo minacciarla in modo da richiamarvi in fretta e cosí in disordine l’esercito austriaco. Non si fece né l’un né l’altro, né nulla per sei giorni; e addí 10 fecesi peggio che nulla, quel che non si dovea fare, ciò che era lungi dal vero campo di quelle operazioni, lungi dal vero nemico; si corse alla somma sinistra sull’Alpi, a Rivoli abbandonato. — Intanto Radetzki faceva la piú bella forse delle operazioni sue, trasse profitto della sua stessa rotta. Ritiratosi per Legnago, piombò su Vicenza dove Durando s’era raccolto dopo aver invano tentato d’opporsi alla congiunzione di Nugent con Radetzki. Ora giungeva un secondo gran rinforzo d’oltre a quindicimila sotto Welden per Tirolo. Radetzki chiamò anche questo contra Vicenza. Durando e i suoi e i cittadini resistettero addí 10 gloriosamente, ma inutilmente; capitolarono alla sera. Ed alla medesima sera solamente da Garda, il re si rivolse a marciar contro a Verona. Addí 12, fu concentrato l’esercito a Villafranca; addí 13, fu portato presso alla gran fortezza. Ma vi si seppe il ritorno di Radetzki poc’ore innanzi da Vicenza presa; mancarono alcune intelligenze coll’interno della cittá, si rinunziò all’impresa, si ritrasse nella notte l’esercito, contento di non essere inseguito. — Seguí dal 14 giugno al 13 luglio un mese intiero di ozio, di silenzio, militarmente inconcepibile, inudito, non interrotto che da alcuni colpi di fucile e cannone da Rivoli e la Corona che s’era presa dopo Rivoli. Né fu risoluzione, appiglio a guerra difensiva. Cosí fosse stato! Trincerandosi sui colli tra Valleggio e Bussolengo, aspettandovi i rinforzi di Piemonte e Lombardia che venivano alla sfilata, che furono in un mese d’un venticinquemila uomini, che avrebbon potuto essere fra pochi altri d’oltre a centomila (come fu dimostrato poi al principio del ’49 dall’esserne sorti oltre a cinquantamila nel solo Piemonte esausto), sarebbesi dato quel tempo al tempo, che ridiciamo esser il piú grande aiuto alle guerre nazionali, che avrebbe qui posto alla nazione italiana l’interpellanza, se voleva o no davvero aiutar Piemonte che veniva, indipendente esso, ad aiutarla all’indipendenza. Ma non fu tal risoluzione; furono trenta irresoluzioni di giorno in giorno; non si mosse una zolla di terra sui colli difensivi, poche s’alzarono sulla strada da Verona a Peschiera; non si pensò ad assalir Verona con buona artiglieria, e buona pazienza, in regola, in faccia a sé, dove s’era mal tentata due volte; si pensò assalirla per la manca d’Adige, ficcando l’esercito tra esso e l’Alpi, che era una stoltezza, e non si tentò nemmeno; si pensò, forse piú strano, ad assalir Legnago, forticello piccolo, fiancheggiato dalle due fortezze grosse, e non si tentò; e si pensò finalmente, e pur troppo si tentò e incominciò, l’assedio di Mantova. In quella stagione, non v’era aria cattiva, ond’è probabile che se fosse durato quell’assedio sarebbe finito colla perdizione dell’esercito intiero. Ma se fosse finito colla presa di Mantova, non era fatto nulla, o poco; rimanendo intiera agli austriaci la linea dell’Adige, Legnago, e massime la gran Verona, quella Verona che è la vera ròcca d’Austria, il vero freno d’Italia. Ad ogni modo, addí 13 s’investí la piazza; due divisioni (si noti bene), un ventimila uomini, a destra di Mincio; il resto dell’esercito, un sessantamila uomini, a scaglioni tra Sacca e Marmirolo fino a Rivoli e la Corona; cioè in somma una linea sproporzionatamente lunga, una grossa testa intorno a Mantova, una lunga coda fino all’Alpi. Sorrideva finalmente la fortuna saputa aspettare dal vecchio maresciallo austriaco; colsela, accarezzò, aggravò l’errore nostro, e piombò ardito poi a punirlo. Fin dal 14 spinse a Ferrara un corpo minacciante i ducati. Bava si mosse verso questi; gli austriaci si ritrassero; e Bava, non volendo perder sua mossa, si distrasse a prender Governolo addí 18. Allora, estesa cosí piú che mai ed assottigliata la linea de’ piemontesi, e fermata tutta l’attenzione loro a lor somma destra, Radetzki li fece assalire addí 22 a somma sinistra, alla Corona. I nostri vi si difeser bene, anzi vinsero. Ma Sonnaz, giudicando bene non esser ivi la somma delle cose, ripiegossi quantunque vittorioso verso Peschiera. E di fatti, all’alba dei 23, Radetzki assalí Sona e Somma Campagna, con grandi forze, le prese, ne cacciò i pochi nostri che pur si ritrassero a Peschiera, ed esso spinse sino al Mincio, a Salionze, a Monzambano e Valleggio. Addí 24, Sonnaz rinunciò a raggiungere il grosso dell’esercito nostro per la manca del Mincio, anzi, a difender questo seriamente, mosse per la destra fino a Volta. Radetzki non fece passare se non ricognizioni; e facendo anzi fronte addietro, collocò egli l’esercito suo in quella bella posizione difensiva dei colli da Valleggio a Somma Campagna. Il re intanto avvertito fin dalla mattina innanzi a Marmirolo, aveva levato l’assedio di Mantova, raccoltene tutte le truppe che erano a manca di Mincio, portatele nella notte a Villafranca. Ardita, magnifica mossa, che poté far credere a chi udian da lungi, essere destinato il nome di lui ad accrescer la breve serie de’ grandissimi capitani, esser destinata ed oramai compiuta l’indipendenza italiana. Sventuratamente la mossa fu incompiuta, titubante, era senza disegno; il re lasciò due divisioni a destra del Mincio, due divisioni, ventimila uomini oziosi, mentre andava a combattere il tutto fra Villafranca e Valleggio. E perché il tutto fu dubbio in quel giorno, e perduto di poco al dí seguente con quei ventimila uomini di meno sul campo, certo è, matematicamente certo, che s’egli avesse avuto quel cosí grosso soprappiú, avrebbe vinto invece d’essere appena vinto. Ma, cosí è della guerra; la sorte di lei, il destino delle nazioni v’è deciso da una ispirazione, anzi un pensiero facile; e questo, facile, volgarissimo per sé, era facilitato ancora dall’esempio cosí contrario di Buonaparte su quel medesimo terreno. Qui convien abbassare il capo dinanzi al Dio ispiratore ed acciecatore dei capitani e dei re: qui non piú dir altro che Dio nol volle; me lo perdoni il mio re, immerso ora nel fonte della veritá. — In somma, con quell’esercito peggio che dimezzato dai primi e da quest’ultimo errore, con poco piú che venticinquemila uomini, il re assalí, senza aspettar altri od altro, nella giornata stessa dei 24 gli austriaci su quei colli stessi, che erano stati, che avrebbon dovuto forse essere sempre la sua posizione difensiva inalterabile. E li vinse in quella giornata, quantunque piú numerosi, sia per la difficoltá e il pericolo sempre grande d’un cambiamento di fronte addietro, sia per l’impeto superiore de’ buoni piemontesi. Ma fu un inganno, fu una perfidia di fortuna. Se fosse stato vinto di quel poco che vinse, il re avrebbe probabilmente indugiato l’attacco della domane, raccolte tutte le sue truppe, combattuto con quaranta o cinquantamila uomini invece di poco piú di venti. — Ad ogni modo, addí 25 si rinnovò la battaglia; non ne dirò i casi, gli errori disputabili, disputati, inutilmente disputati; era perduta prima che incominciata. Ognuno dei due eserciti aveva le spalle alla base d’operazioni, al paese nemico; in tal situazione le battaglie son disperate, da ambe le parti, ma sempre svantaggiose a quella che assalita e sorpresa ha difficoltá a raccogliersi, perdute se non s’è saputa vincere prima quella difficoltá. L’esercito piemontese, soldati, ufficiali, generali, principi, vi fece prove di valore, riconosciute poi dal nemico piú generoso che i compatriotti, dall’Europa militare e che stava allora, tutta salvo il resto d’Italia, sotto l’armi. Lo sforzo principale fu del duca di Savoia a difender Custoza; non vi riuscí, non vi potea riuscire; rimasene il nome a quella giornata infausta ed immortale. Se ne ricordi e se ne penta la pigra Italia finché l’abbia fatto dimenticare. Gli errori, le spensieratezze dei capitani, son cose frequenti, solite, da computarsi in tutte le guerre, piú in queste di sollevamento ed indipendenza. Queste non si debbono fare senza computar quelli, senza porsi in grado di vincerle a forza di numero, di pazienza, di perduranza. Senza dar almeno due armate pari all’austriaca ancorata sulle sue quattro fortezze, non vi sará mai probabilitá di vincer questa. Finché l’Italia orientale, centrale e meridionale non potrá, saprá o vorrá aver un esercito secondo, vegnente sul Po ad aiutare il piemontese giunto dall’Alpi occidentali e al Mincio ed all’Adige, se lo tolga di mente, la pigra, o divisa, o disputante Italia, ella non sará probabilissimamente mai liberata da questo, per quanto generoso, ardito, temerario, devoto o sacrificato od anche meglio ordinato egli sia per essere. Quattro milioni e mezzo in armi non bastano a liberare ventitré milioni d’oziosi contro a trentasei milioni di resistenti, se non per un caso, un miracolo, che è viltá sperare. Disse l’Italia che voleva far da sé; ma non fu vero: fece il Piemonte per lei tutta a Custoza. Seppe dire ognuno che una nazione non dee contare su aiuti stranieri; ma ella non dee contare nemmeno su una parte sola, su un quinto di se stessa, non dee diminuire dal cinque all’uno la sua probabilitá d’indipendenza. — Ad ogni modo, questa era ridotta a zero; alla sera dei 25 luglio l’esercito piemontese ritrattosi a Villafranca, si ritrasse nella notte a Goito. Il nemico vittorioso a stento, rispettò la ritirata dei vinti.
Alla domane [26] l’esercito tutto raccolto sulla manca del Mincio vi trovava le sue divisioni lasciatevi senza combatter nulla, e quella di Sonnaz che pur troppo non avea combattuto il dí innanzi. Potevano giovare a difendere la ritirata. Nuovo errore: Sonnaz fu lanciato inutilmente e solo contra Volta: l’assalí a sera, presela, fu respinto nella notte, riassalí rinforzato nel mattino, e fu respinto di nuovo. Il dí appresso [27], il re domandò un armistizio e ritirarsi dietro Oglio; gli fu imposto dietro Adda, lasciando ducati e Peschiera; ricusò, error gravissimo. — Allora s’incominciò la ritirata disordinata, fuga. Allora tornarono in mente a que’ soldati ed ufficiali non solamente, come fu detto, il paese e la dolce famiglia giá abbandonata ed ora pericolante, ma le ingiurie, i rimproveri, le stoltezze gettate loro in faccia da tutta Italia e da casa stessa mentre combattevano e vincevano; questo pensiero, che avrebbe pervertito forse a vendette un vecchio e vittorioso esercito, pervertí a indisciplina il nuovo e vinto piemontese. Ad ogni modo, si corse ad Oglio, e si lasciò dopo poco combattere Cremona; si corse ad Adda, e si lasciò senza combattere. Il re poteva passare il Po a Piacenza; coprirsi di quel fiume e questa cittá, e quindi al bisogno ricoverarsi a quella linea d’Alessandria e Genova che è la nota e sola buona difensiva del Piemonte, ma veniva chiamato dalle grida, dalle supplicazioni de’ milanesi. Cedette a questi, e parve nuovo e grave errore militare. Ma ogni guerra, e questa piú d’ogni altra, dovea cedere pure alle condizioni, ai sentimenti politici; e fu bello al re cedere al sentimento di difendere fino all’ultimo gli alleati, ingenerosi per certo, ma per cui s’era, in somma, incominciata e fatta tutta quella guerra. Addí 3 agosto, veniva il re da Lodi a Milano con venticinquemila uomini al piú, e li collocava fuor delle mura meridionali. Addí 4, v’arriva Radetzki all’incontro con trentacinquemila, cresciuti in breve a quarantamila e piú. La battaglia s’attaccò subito. Tranne pochissimi, i milanesi non fecer nulla; e i piemontesi, piú sdegnati che mai, non combattendo piú che per l’onor dell’armi; e combatterono bene alcune ore, e si ritrasser poi dietro le mura. A notte, il re domandò una capitolazione, Radetzki la concedé; ritirata de’ piemontesi dietro al Ticino, due giorni dati a’ milanesi che volesser seguirli. Ma alla mattina incominciò la prima di quelle tre giornate di sacrilega ingratitudine onde s’infama la storia della nostra impresa di libertá e d’indipendenza, quelle tre giornate che per opera di pochi scellerati hanno sporcato i nomi di tre nobili cittá italiane. Né sará degna l’Italia mai di rinnovare con sufficiente virtú la grande impresa, finché dall’Alpi ai tre mari non venga vergogna vera di quelle macchie d’odio, e non sien lavate con lagrime, o meglio con fatti di pentimento, di concordia e d’amore. Dal mattino di quel dí [5 agosto] si gridò per le vie, per le piazze, dinnanzi al palazzo Greppi, alloggio del re, traditore quel re sacrificatore (piú che mai da ventiquattro ore) di sé, de’ suoi figli, di sua antica dinastia, di suo popolo indipendente, all’indipendenza del popolo lombardo; si fucilò lunghe ore contro la porta e le finestre; si stracciò dal re la capitolazione, si rifece dallo sbigottito municipio, si liberò il re da una compagnia di bersaglieri corsa finalmente contro a quell’attruppaglia; il re si ritrasse a piedi in mezzo alla notte fino al di fuori delle mura, inseguito dalle ingiurie e dalle schioppettate lontane, rattenente la vendetta de’ suoi. Addí 6, egli e i piemontesi erano oltre Ticino, e Radetzki entrava tranquillo a Milano. Addí 9, firmavasi un armistizio inaspettatamente favorevole, a giudizio d’ogn’uomo militare o politico d’allora, e d’ogni scrittore assennato dappoi; e fu gridato tradimento nuovo non piú a Milano solamente, ma in tutta Italia e Torino stesso, e gridatovi per sei mesi quasi infame il nome dell’ufficiale innocente e devoto che aveva dovere di firmarlo. S’intende che nella concitazione delle rivoluzioni tutti i popoli son talor pazzi. Ma chi l’è, o vi dura troppo, del tutto, s’intende che non riesce a compierle bene mai, non riesce a rompere ma a ribattere propri ferri.
Ma passiamo dai generosi errori militari agli ingenerosi e piú numerosi errori civili, che si stavano facendo intanto in tutta Italia. — In Milano e Lombardia, per cui principalmente e cosí vicino si combatteva, non è vero che cadesse ogni ardor militare dopo le cinque giornate. Sorsero numerosi volontari che combatteron sull’Alpi o tra le file piemontesi, o raccolti in quelle divisioni lasciate inoperose a Mantova. In quattro mesi, e disarmati, sarebbesi difficilmente potuto far piú; forse sarebbesi potuto meglio, rinunciando ad avere esercito proprio, riducendosi a supplir le file diradate dei battaglioni di guerra, ingrossando le rade dei depositi piemontesi. Ma questo e tutti gli altri errori vennero da quello altro che si suol chiamare col nome nuovo di «municipalismo», ma che comprende in sé i due vizi antichi, vergognosi, capitali e sempre fatali, della superbia e dell’invidia, superbia d’ogni menomo merito, invidia degli stessi piú evidenti benefattori. Milano impazzita di sue cinque giornate, trattò in grida, in atti, in fatti, i piemontesi accorsi due dí dopo, non come liberatori che erano stati forse veramente minacciando giá dal Ticino, e non come almeno aiuti necessari, ma come tardivi, inutili, usurpatori di vittoria di giá compiuta e sicura; trattò il re, com’ebbe a dire egli stesso, a quel modo che la repubblica francese del 1792 trattava i suoi generali. Il governo provvisorio presieduto da quel Casati che come podestá avea giá fatta la lunga e bella guerra legale, ma raccolto, com’è naturale, d’ogni frazione, d’ogni tinta del partito liberale, dalle corti alle sètte, dai semplici riformisti ai repubblicani rossi o comunisti, diviso, discorde in sé, fu impotentissimo a dominar le discordie dell’opinione, della stampa, delle sètte, de’ circoli, della piazza. Credette comporle con questo mezzo termine: proporre al voto universale la fusione (parola nuova o male applicata e che rimane infausta) di Lombardia a Piemonte, con questo patto orgoglioso che del nome, delle memorie, delle leggi, dello statuto stesso del vecchio e or ora rinnovato Piemonte non rimanesse, salvo la casa di Savoia, nulla di conservato se non sancito e rifatto da una Costituente lombardo-piemontese. E Piemonte, re, Camere, principi, ministri, grandi, popolani, intendenti o non intendenti, ripugnanti o non ripugnanti a quello stoltissimo fra gli errori di qualunque rivoluzione incipiente, tutti s’affrettarono d’accettare, per non turbare la guerra d’indipendenza, dico dell’indipendenza non piemontese, ma lombarda. E nota che tutto ciò si faceva a mezzo maggio, tra le due vittorie piemontesi di Pastrengo e Goito. — Non dico altro. Nemmeno le condizioni aggiunte, la coda di quella fusione parimente imposta, parimente accettata. A petto di questo furon nulla tutti gli altri errori d’allora, quello stesso errore del governo di rifiutar l’offerta fatta dallo Schnitzer, inviato austriaco, di lasciar libera Lombardia fino all’Adige; questo almeno si potrá scusare per la prudenza, o almeno per il non dividersi dalla compagna Venezia. L’errore sconoscente della Costituente non fu superato se non dalla piú sconoscente infamia della giornata del 5 agosto, che termina la breve e fatal serie dei fatti di Lombardia libera, ricomincia quella dei suoi dolori. Rispettiamoli e passiamo. — Venezia essa pure incominciò con un errore grave, ma forse scusabile, e certamente breve, e piú che compensato poi dalla sua perdurante, magnifica difesa. Male o bene, tutto vi fu effetto delle sue condizioni peculiari, non solamente locali, ma anche politiche. La servitú di Milano, antica giá di oltre a tre secoli, dal 1535 in poi, era stata quasi interrotta da quindici o diciotto anni di apparente indipendenza; e rinnovata da trentaquattro anni, era stata grave sí, ma pure splendida fino a un certo punto, e quasi adulata talora, fino agli ultimi anni e mesi; e quindi Milano, forse piú profondamente, certo piú anticamente avvilito, era meno umiliato anche prima delle insuperbienti cinque giornate. All’incontro, Venezia non era serva che da cinquanta anni di umiliazioni e patimenti continui, materiali, sentiti da tutti, grandi e popolo insieme; quindi meno avvilita forse, ella si mostrò certo piú umile, piú modesta, piú arrendevole, piú intendente la necessitá dei tempi e luoghi. S’aggiunse la fortuna d’aver cacciati gli stranieri facilmente fin dal 24 marzo, colle sole minacce, quasi senza sangue, e cosí quasi senza causa o pretesto d’insuperbire. Ébbene un’altra: che gli uomini principali i quali iniziarono la sua rivoluzione, furono meno discordi; ed uno di essi, il Manin, crebbe in breve sopra gli altri, e sopra se stesso; seppe e poté farvisi duce e quasi dittatore. Ma questa fortuna o saviezza fu figlia dell’altre; essendo gran saviezza nelle rivoluzioni saper farsi o lasciarsi fare un buon duce. Ad ogni modo, appena liberatasi Venezia, si costituí in repubblica, ma di San Marco, piú che alla francese, od a modo de’ carbonari o della Giovine Italia; e quanti di costoro accorsero, il Manin seppe annientarli e scostarli, od anche cacciarli; e appena si parlò di fusioni, ella pure Venezia seppe aderirvi, e con Milano primamente quantunque non repubblicana, e con Piemonte quantunque monarchico. E s’armò, che è sempre il piú difficile e piú proficuo, per terra e per mare, assoggettando sue truppe ad ufficiali piemontesi, sue navi all’ammiraglio genovese, senza pettegolezzi di memorie antiche o di gelosie nuove. Né esercitonne colle sue antiche province, e talor soffrinne da esse; che se fossero state parimente savie, avrebbero inteso di poter, non che governarsi, ma difendersi molto meglio facendo capo grosso grossissimo a Venezia e Padova, che non ognuna da sé. E fatta finalmente la fusione con Piemonte, ed accettati i commissari piemontesi pochi dí prima della rotta di Custoza, Venezia e Manin restituirono sí la repubblica e San Marco, ma non che eccedere in stoltezze repubblicane ne’ mesi successivi, continuarono anzi crebbero in prudenza civile e militare, e cosí si fecer degni di soffrir poi quel magnifico assedio dell’anno appresso che ha rivendicato oramai il nome di lei dalle vergogne degli ultimi anni di sua libertá, da quelle di sua caduta, da quelle di sua servitú. Da ultimo, forse il nome di Venezia s’è fatto nel ’48 il primo fra quelli delle cittá italiane. E sia che ella debba tal gloria a Manin, od anzi questi la sua a Venezia, certo pure il nome di lui rimane il primo fra quelli degli uomini politici italiani di quell’anno. — Piacenza, Parma, Reggio, Modena, operarono sole saviamente e generosamente, operando subito, unanimamente e senza condizioni politiche le loro unioni con Piemonte. Fa meraviglia, e quasi dicevo tenerezza, vedere in mezzo a quello scatenamento di superbie e d’invidie, la semplicitá delle parole, l’esposizione dei veri e materiali interessi municipali con che quelle cittá dichiararono le loro unioni, e fa senza meraviglia pur tenerezza ricordare la fraternitá vera e di fatti, non di false parole, dei prodi loro co’ nostri, su’ nostri campi di battaglia. Francamente, nobilmente grati essi allora a noi, s’abbiano la rimeritata gratitudine nostra.
Del Piemonte, centro e base d’operazioni militari e politiche di tutta quell’alta Italia (onde giá prendevasi prematuramente e cosí forse risibilmente il nome al nuovo regno), del Piemonte sarebbe per ciò a dir forse piú lungamente; ma ne dirò tanto meno quanto piú vi sono interessato. Il meglio del Piemonte, i nostri figli, i nostri prodi, non erano in Piemonte. Torino deserta era piú magnifica, che non sia per esser mai affollata. Nobili e plebei, liberali vecchi e nuovi e non liberali, militari in attivitá o giá in ritiro o ancora alle scuole, pregavano, supplicavano per un posto qualunque, o partivano senza posto, all’esercito. Un vecchio colonnello in ritiro portò lo schioppo, e con frutto, per tutta la campagna. Sette fratelli Brunetta fecero le due. Undici d’un nome e d’un sangue vi si trovarono il dí di Pastrengo. Chiusa l’universitá, gli studenti diventati bersaglieri. Un giovinotto quasi fanciullo lascia la famiglia e il palazzo, va bersagliare dinanzi Peschiera, ha una palla nel cappello, gli par bella cosa, corre a Torino a mostrarlo alla madre ed ai compagni, e torna bersagliare a Pastrengo. All’accademia militare giá spoglia de’ corsi superiori, si sollevano quelli de’ corsi inferiori, che avean diciotto anni, pretendendo che non la scienza ma l’etá dava diritto a combattere; e non fatti ufficiali, partono sottoufficiali. Nella guardia nazionale di Torino servono volontari i fanciulli di quattordici anni. Chi per l’Italia, chi per il Piemonte, chi per il re e casa Savoia, chi per nessuno, per battersi. Questo, e questo solo, si chiama spirito militare; questo auguro all’Italia; che non so se abbia piú o meno merito, so bene che serve alla patria piú che la passione, nobilissima sí, ma, come ogni passione, fugace, della patria stessa. In men d’un mese l’esercito fu portato da venticinque a cinquantamila uomini e piú, l’artiglieria da quarantotto pezzi a centododici, oltre del parco d’assedio, oltre i depositi, le riserve, ed una coscrizione nuova chiamata. Se s’avessero avuti ufficiali bastanti, o si fosser potuti far tali tutti i sottoufficiali, si sarebbe avuto un esercito come quello di otto mesi appresso.
Non tutte le province, per vero dire, forniron uomini in pari proporzioni. Non nominerò quelle che meno; sí quelle che piú, il Piemonte antico e l’antichissima Savoia. Spoglia di truppe, ed assalita questa ne’ primi dí d’aprile da una mano di canaglia francese che chiamavan se stessi «feroci», si sollevarono da sé i buoni savoiardi e se ne liberarono. Da diciassette o diciottomila combattenti ebbe sempre, e de’ migliori: oltremontani di sito e di lingua, furono i veri fratelli d’Italia, piú che tanti che si cantavan tali. In Torino era reggente il principe di Carignano, fremente armi come i suoi cugini, obbediente al posto assegnatogli dal suo re. Il ministero, formato, con tutti que’ primi costituzionali, di uomini d’ogni tinta liberale epperciò eterogenei, non si divise perciò, rimase unito dal sentimento comune della indipendenza; finché non furono adunate le Camere addí 9 maggio. Né in queste stesse si urtarono guari le parti, da principio, finché durò al campo la vittoria. Ma venuti gli indugi, gli errori dopo Goito, venner le accuse, giuste in parte, ingiustissime ed anche piú inopportune nelle loro esagerazioni, contro all’esercito; ed intanto poi la domanda de’ genovesi di distruggere (in mezzo alla guerra!) due de’ loro forti; e poi, dopo la fusione lombarda unanimemente pronunciata, quella coda della Consulta legislativa staccata, che i lombardi vollero fino all’adunarsi della comune Costituente; allora si divisero naturalmente ma miseramente e Camera e ministero; e fu cresciuta la confusione dalle iterate demissioni di questo e gl’indugi a formarne un altro, e finalmente dalle sconfitte dell’esercito. Due gravi, diversi, anzi opposti, rimproveri furono fatti allora e poi alla diplomazia piemontese; dall’una parte, di non avere conchiusa una confederazione o almeno una lega italiana domandata da Roma e Toscana; dall’altra, di non aver conchiusa la pace colla linea dell’Adige offerta da Schnitzer a Milano e da Himmelauer a Londra. Ma, quanto alla lega, i documenti posteriori e le narrazioni stesse fattene in senso contrario dimostrano che tali negoziati non servirono quando furon fatti, non avrebbero servito, se fatti prima, se non (come succede in ogni negoziato senza base niuna possibile), se non a divider piú. E quanto alla linea d’Adige, io concedo facilmente che il non accettarla fu error sommo per il Piemonte certamente, ed anche per l’Italia; ma fu di quegli errori che non era forse possibile non fare allora, che il non farli non avrebbe servito a salvar le sconfitte, e che ad ogni modo furono, come tutto il resto, generositá, lealtá, o se si voglia pazzie piemontesi, compensate come abbiamo giá veduto. Piú reale e nocivo errore fu forse l’avere, colle riunioni accelerate e le parole imprudenti ufficiali, spaventato l’Italia media e meridionale. — Tutto ciò in quel settentrione, che solo veramente, proporzionatamente a sue forze, epperciò degnamente, guerreggiò o almeno soffrí per l’indipendenza. Della restante Italia giá dicemmo quant’è bello a dire, quanto fecero per quella causa i pochi toscani, pontifici e napoletani, tanto piú lodevoli essi quanto piú pochi, quanto piú è bello essere operoso e prode in patrie inerti. Poche parole aggiugneremo su’ loro errori fatali e crescenti.
Se non fosse dell’inerzia militare, di che io credo colpevoli principe, popolo e grandi, volgo, governanti e governati, tutti quanti in Toscana, questa sarebbe il paese del mondo piú fatto a civiltá e libertá. Il ministero Ridolfi formato in marzo, il parlamento adunatosi in giugno, furono forse i men divisi, i piú civili, i migliori in tutto che sieno stati a quella grand’epoca iniziatrice. Se non che, come succede pur troppo soventi in tutti i paesi di governi rappresentativi, le parti a cui non s’era dato adito al ministero ed alle Camere, furono tanto piú vive e dannose fuori. Liberali estremi, o come allor si disse alla francese, «rossi», repubblicani e settari fecero capo in Livorno. Il ministero tranquillo nel parlamento, ebbe a pugnar colla piazza di Livorno e suoi rimbombi a Firenze. Né tuttavia scoppiava tuttociò, finché le vittorie piemontesi tenner fermi i governi italiani. — Cosí in Roma sotto il ministero Antonelli [nominato li 10 marzo], ma per pochi giorni appena. Ché incominciò a turbarsi l’animo di Pio IX per li tumulti, anche piú anticivili che antireligiosi, contro ai gesuiti le cui case fu ridotto a far chiudere egli stesso [30 marzo]. E si turbò piú che mai per il proclama con che Durando invitava quasi a crociata l’esercito pontificio [5 aprile]. E dicesi si turbasse per le temute ambizioni del Piemonte e per il suo indugio a trattar la confederazione; ma quelle furono posteriori ne’ lor segni, e questa avrebbe cresciuti anziché scemati i suoi scrupoli di guerreggiare. E il fatto sta che questi furono effetto principalmente delle voci che venivano d’Austria, anzi di Germania tutta, che que’ vescovi, que’ cleri, que’ cattolici si alienassero da lui parteggiante, guerreggiante contro essi per Italia, si separassero dalla Santa Sede, facessero scismi. Erano voci, timori esagerati, ma naturali. Cosí fu da Alessandro III e Gregorio VII in qua, e sará sempre; epperciò, sempre il dissi e sempre il ridirò, i papi non possono esser duci a niuna impresa d’indipendenza nostra: fattine duci l’abbandonano, il loro dovere di papi superando il loro dovere di principi italiani, e la fa loro abbandonare; e abbandonandola come duci, la rovinano. Quando, all’incontro, si saprá fare senz’essi, essi avranno anche come papi le medesime ragioni a non mettervisi contro, che ebbero a non mettersi contro a’ nostri nemici; lasceranno fare, tollereranno dapprima, e se ne contenteranno poi, indipendenti essi allora piú che mai, o indipendenti allora soltanto veramente. Ad ogni modo, tutti questi scontenti, scrupoli, timori, troppo naturalmente incitati dalla parte austriaca o retrograda, troppo stoltamente dalla liberale, scoppiarono all’ultimo in una allocuzione concistoriale del 29 aprile, nella quale Pio IX respingeva da sé ogni partecipazione alla guerra, e tanto piú la presidenza della confederazione o lega, ch’egli chiamava «una cotal nuova repubblica degli universi popoli d’Italia»1. E da quel giorno fu tolta di mezzo la forza principale della causa d’Italia, tolta ogni forza alla parte moderata, che s’appoggiava al concorso dei principi, e di questo sopra tutti. Il primo effetto fu la caduta del ministero Antonelli, e la formazione d’un nuovo [4 maggio] che fu presieduto dal cardinal Soglia, ma prese nome ed andamento dal Mamiani. Il papa scrisse e mandò un legato all’imperator d’Austria per la pace, ma inutilmente. Adunaronsi le Camere, o come si disser lá i due Consigli [5 giugno]. E subito ad ogni tratto, ad ogni fatto, per ogni piccola parola del discorso del governo, degli indirizzi delle Camere, delle orazioni dei deputati, fu un dividersi, un disputare, un non intendersi, un inasprirsi a vicenda, senza paragone maggiore che negli altri parlamenti. Era naturale, i membri del parlamento e parecchi de’ ministri stessi volevan ridurre al nulla, o come si disse «cacciar nelle nubi» il principe ecclesiastico, molto piú che non si volesse od osasse fare allora de’ principi laici; e il papa si credeva anche piú degli altri in dovere di non soffrire tale spogliazione. Tuttavia, nemmeno a Roma nulla scoppiò finché durò la fortuna piemontese. — Non cosí nella caldissima, anzi infocata Napoli. Dove, appena dato lo statuto, eransi giá succeduti due ministeri presieduti dal Serracapriola e dal Cariati, quando venute le notizie della guerra incominciata da’ piemontesi, il popolo la chiese, il re la dichiarò e fece un altro ministero presieduto da Carlo Troya [7 aprile]. Partirono alcuni volontari primamente condotti dalla principessa Triulzi-Belgioioso, poi il decimo reggimento che per via di Toscana andò ad unirsi all’esercito piemontese e vi combatté bene; poi per le Marche fino a Bologna un esercito capitanato da Guglielmo Pepe, e partí a un tempo l’armata di mare per l’Adriatico. Ma erasi adunato intanto il parlamento siciliano addí 26 marzo; e nominatosi reggente dell’isola Ruggiero Settimo, e decretata la separazione dell’isola dal Regno e la decadenza di casa Borbone da quella corona separata, si apparecchiarono e serbaron l’armi ed armati miseramente non all’indipendenza vera e nazionale d’Italia, ma, profanando il nome, a quella che s’osò chiamare indipendenza d’una provincia italiana: era diminuzione dell’unione esistente, era disunione perpetrata allora appunto che si andava proclamando l’unitá. E quando la flotta napoletana passò lo stretto per l’Adriatico, Messina le tirò contro. Né erano piú savi a Napoli. Appressandosi la convocazione del parlamento per il dí 15 maggio, non che riunirsi, come altrove, i partiti in quella speranza, in quell’effettuazione dello statuto, fosse opera delle sètte piú potenti lá che altrove, o degli emissari repubblicani francesi, o diffidenza ed odio al re, o che che sia, il fatto sta che giá gridavasi non voler Camera dei pari eletta dal re, non lo statuto qual era, non giuramento a questo senza riserva. Disputossene, fra re, ministri, deputati, pari, guardia nazionale e popolo, ne’ giorni precedenti a quello della convocazione. Nella sera de’ 14 incominciarono barricate all’incontro del palazzo regio e delle truppe che stavanvi a guardia. A mezza mattina dei 15, eran cresciute le barricate e guardie. Popolo di qua, truppe in battaglia di lá, non potevano restare oziose gran tempo. Parte un colpo: s’appiglia la zuffa, la battaglia, il macello, il saccheggio, ogni nefanditá di guerra cittadina. Le truppe rimangono vittoriose; il re muta ministero; Cariati presidente del nuovo; si sciolgon le Camere senza essersi legalmente aperte; i deputati perseveranti in lor aula, son cacciati da’ soldati; un proclama ripromette lo statuto; i repubblicani fuggono a Calabria, e vi levano guerra civile. Il re richiama l’esercito da Bologna, dismettendo Pepe. Questi con pochi disobbedisce, e vanno a Venezia. Statella sottentratogli, riconduce il resto in disordine. E cosí i pontifici di Durando abbandonati da un esercito intiero su cui contavano, furono perduti; cosí l’esercito piemontese perdette tra questi e quelli i trentamila uomini che formavano tutta la sua destra: cosí la guerra d’indipendenza, infiacchita giá il 29 aprile dalla allocuzione del papa, fu perduta intieramente il 15 maggio, mentre i piemontesi pur combattevano, morivano e vincevano per lei a Pastrengo ed a Goito. Noi non celammo gli errori che trasser questi da tali vittorie alla sconfitta di Custoza. Ma siffatti errori, al paragone, sono piccoli, sono di quelli che si fanno in ogni guerra, anche condotta da’ migliori capitani. Questi sono gli errori grossi, che causarono que’ piccoli, ed impedirono di rimediare a’ piccoli; questi, quelli che due mesi prima di Custoza avean giá perduta la guerra d’indipendenza. E con lei la parte moderata, la parte soda, sana, virtuosa, devota d’Italia.