Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni/Libro settimo/10. Continua

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[p. 39 modifica]10. Continua. — Né furono meno numerosi o meno splendidi i poeti. Primo senza contrasto Ludovico Ariosto [1474-1533], un vero incantatore, che toglieva sé e toglie noi al tristo mondo reale per portarci in uno imaginario e tutto ridente; precursore di Walter Scott per le eleganze, di Cervantes, Molière e La Fontaine per quel celiar semplice, non amaro, quel celiar per celiare, che essi quattro intesero sopra ogni altro di qualunque tempo o paese. Né gli mancò il ridere utile, correttor di vizi; scrisse comedie e satire; ma fu minore in queste; la sua natura era indulgente, od anche indifferente. Non accrebbe, è vero, come Dante, il tesoro de’ pensieri nazionali; ma oltre all’utilità letteraria, una morale e politica è forse nelle eleganze che salvano da bassezza, dalla quale le nostre lettere, e massime le facete, non si salvarono sovente. Ad ogni modo, sommo in suo genere, sovrasta alla severità della critica. — E gran celiatore, ma quanto minore! fu il Berni [-1536]. E minori gli altri poeti (prosatori pure), Rucellai [1449-1514], Sannazzaro [1458-1530], Bibbiena [1470-1520], Trissino [1478-1550], Guidiccioni [1480-1541], Molza [1489-1544], Bernardo Tasso [1493-1569], Alamanni [p. 40 modifica][1495-1556], Della Casa [1503-1556], Annibal Caro [1507-1556], oltre quasi tutti quegli altri che nominammo tra’ prosatori, ed altri che non nominiamo di niuna maniera. I quali tutti insieme poetando o rimando in tutto questo tempo, empierono poi que’ Canzonieri o Parnasi o Raccolte, che paiono a molti una delle glorie italiane, perché essi soli sanno almeno divertire. Pare ad altri all’incontro che la poesia non ammetta mediocrità; e che l’inutilità non sia scusabile se non nei sommi. Come donna, e cantante un amor vero e virtuoso, sovrasta forse Vittoria Colonna, moglie del traditore marchese di Pescara [1490-1547]. E sovrasta per infamia Pietro Aretino [1492-1572], prosatore e rimator mediocrissimo, anzi cattivo, e per le cose scritte e per il modo di scriverle, empio, lubrico, piaggiatore e infamatore insieme, che si fece un’entrata, una potenza col vendere or il silenzio, or le adulazioni. È vergogna del secolo che lo sofferse, lodò e pagò e chiamò «divino». — Del resto, avendo detto della storia e della poesia e cosí dei due generi di letteratura in che questo tempo fu grande, non ci rimane spazio a dir di quelli in che fu solamente abbondante. Se ci mettessimo a nominar gli oratori piú o meno retori, perché non aveano a discutere interessi reali dinanzi a un’opinione pubblica potente; i latinisti, meravigliosi se si voglia per li centoni che fecero delle frasi antiche, ma appunto perciò piú o men retori essi ancora; i grammatici di lingua italiana, piú utili senza dubbio, ma timidi ed incerti perché nostra lingua mancò sempre d’un centro d’uso, e poco logici perché poco logico era stato il secolo delle origini, e meno logico era questo; i novellatori, piú o meno imitatori e sconci, come i modelli e il secolo; i moralisti, come il secolo leggeri, attendenti a convenienze e cortigianerie piú che a principi sodi, ed anche meno ai virili e meno ai severi; e gli scrittori che trattarono di filosofia piú letterariamente che scientificamente, e si scostarono da Aristotele per cadere in Platone, ma meno nel Platone vero interprete degli immortali dettami di Socrate, che in un platonismo spurio e intempestivo; se, dico, noi nominassimo tutti coloro che gli esageratori de’ nostri primati ci dan come grandi, noi avremmo a rifare parecchie nomenclature molto piú lunghe [p. 41 modifica]che non le fatte. Ma il vero è, che qui, piú che altrove, è a distinguere tra le grandezze relative e le positive. Che le lettere nostre del Cinquecento sieno state di gran lunga superiori a quelle contemporanee e straniere, è indubitabile; ma che elle rimangano superiori od anche eguali alle straniere piú moderne, e che perciò elle debbano imitarsi ora di preferenza o per la loro eccellenza o per dover nostro di nazionalità, ciò non è vero e non può essere; perché non può essere che i secoli progrediti non abbiano prodotte letterature migliori e piu imitabili, che i secoli piú addietro; perché il nostro primato di tempo esclude appunto il primato di eccellenza; e perché poi, quanto a nazionalità ella non consiste nel non ammirar né imitar se non le cose giá nazionali, ma anzi a far nazionali quelle buone che non sono. Se Alfieri e Manzoni avessero cosí inteso il dovere di nazionalitá, essi non avrebbero aggiunto la tragedia e il romanzo ai tesori vecchi delle lettere italiane. — Né in filosofia materiale si progredí guari allora in Italia. Questo è il tempo di Copernico polacco [1473-1543]; e dicesi che la teoria di lui non fosse anche prima di lui sconosciuta in Italia; ma il fatto sta che gli astronomi d’Italia furono allora poco piú che astrologi, e son famosi quelli di tutti i principotti italiani e di Caterina Medici ed altri, che infettaron l’Europa di lor ciurmerie. Ed anche costoro vi ci diedero e lasciarono cattivo nome. La medicina fu forse delle scienze naturali quella che fece piú veri progressi. Eustachio Rudio [prima del 1587], il Colombo [-1577] e il Cesalpini [1519-1603] ed altri, insegnarono piú o meno fin d’allora in Italia la circolazione del sangue. Harvey, inglese, la dimostrò piú ampiamente, e divolgò poi [1619], e cosí n’ha gloria. Dicono i nostri: ingiustamente. Ma io non entrerei in siffatte dispute, quand’anche n’avessi luogo. Quasi tutte le grandi invenzioni furono fatte a poco a poco, cioè da parecchi in parecchi tempi e luoghi: ondeché la storia sincera di ciascuna può bensí riuscir piacevole ed utile elucubrazione a meglio intendere lo spirito umano, ed istradarlo ad invenzioni ulteriori; ma appunto non può forse esser fatta tale storia sincera, se non ismettendo le pretese personali, municipali e nazionali. Le quali poi chi rialza per farne una gloria, [p. 42 modifica]mi sembra farsi per lo piú una grande illusione. Le glorie disputabili non sogliono essere vere glorie; le due parole implicano contraddizione; le certe sole rimangon vere e grandi. — Certe poi sono quelle dei viaggiatori italiani che seguirono Colombo. Amerigo Vespucci fiorentino [1441-1512 o 1516] toccò forse al continente americano prima che Colombo; e sia per ciò, sia perché fece primo alcune mappe delle nuove terre scoperte, ebbe l’immeritato e vano onore di dar loro il nome. Intanto Giovanni Cabotto veneziano e suo figliuolo Sebastiano [nato a Bristol 1467] scoprirono per Inghilterra, e Giovanni Verrazzani fiorentino per Francia, l’America settentrionale. Ma questi furono gli ultimi grandi scopritori e navigatori italiani. La gloria di compiere le scoperte passò d’allora in poi agli stranieri; e cosí ne passò ad essi tutto l’utile. Delle terre date alla civiltà da Colombo, Amerigo, due Cabotti e Verrazzani, non un palmo rimase all’Italia, non una colonia, non un commercio. Questo è forse il segno piú evidente della decadenza italiana, dell’esser passata a un tratto in ozio l’antica operosità di lei. Non basta dire, le scoperte d’America e del Capo, togliendo il commercio al Mediterraneo, lo tolsero all’Italia; bisogna dire, tolto il commercio al Mediterraneo, Italia oziosa non seppe seguirlo nelle nuove vie; e bisogna aggiungere, quand’anche il commercio riprendesse la via antica del Mediterraneo, questo commercio, queste vie, questo Mediterraneo non saranno per nulla dell’Italia, se ella rimane, com’è, oziosa o poco operosa, meno operosa in somma che le nazioni contemporanee. Il mondo è di chi sel prende; cioè degli operosi, cioè di chi opera per sé, cioè degli indipendenti.