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Donne illustri/Donne illustri/Caterina Bon-Brenzoni

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Caterina Bon - Brenzoni

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Donne illustri - Giustina Renier Michiel Donne illustri - Beatrice Lascari

[p. 170 modifica]CATERINA BON-BRENZONI [p. 171 modifica]








CC ultimo rampollo di antico e illustre lignaggio, la contessa Caterina, unica figlia del conte Alberto Bon e della marchesa Marianna Spolverini, nacque a Verona il dì 28 di ottobre dell’anno 1813. Ella rifece il nome dell’avola paterna, la contessa Caterina Miniscalchi-Bon, gentilissima cultrice di poesia. — Il 27 dicembre 1815 perdè il padre, appena trentenne, e rimase alle cure della madre, che la avviò ai primi passi del sapere; e solo verso i sette anni la commise al chiostro delle suore della Sacra Famiglia in Verona, dove non rimase che venti mesi. La madre ne compì l’educazione del cuore, il padre Angelo Bianchi ne erudì l’intelletto nelle lettere e nella storia; dappoi si esercitò nel [p. 172 modifica] disegno e nella musica, e seppe assai bene di lingua francese. La contessa Vittoria Carminati, sua vicina, autrice di versi non ineleganti, ne indovinò il genio e lo confortò e nutrì di buoni suggerimenti e feconde letture. Ma sebbene l’adolescenza di lei fosse tutta invasa e commossa dallo spirito di poesia, ella non si sognava di dovere in quest’arte fare cose mirabili e venire in fama.

A diciotto anni andò sposa al conte Paolo Brenzoni, fervidissimo amatore delle belle arti ed esperto nella pittura storica. «Era (dice il Messedaglia, sulle cui orme andiamo) un’alta donzella, svelta e castigata della persona, e di rara soavità di aspetto e di voce, invidiata per lo straordinario candore del viso, la perfetta venustà della mano e il volume magnifico delle sue chiome tra bionde e castagne, grave ne’ pensieri quanto semplice e schietta nei portamenti.» Le gioie di madre le furono non prima mostrate che tolte. Dopo un primo figlio, nato immaturo e vissuto un giorno, ebbe un bambino che visse ventun mesi. Ella non si consolò, ma si rassegnò; e in una visita fatta al collegio delle Peschiere in Genova disse con mesta umiltà: «Dio me li tolse forse perchè non avrei saputo bene educarli.»

Il suo istinto poetico cominciò a tentar le sue vie in rime, di cui essa non conosceva alla prima l’artificio e neppure il nome de’ vari metri. A poco a poco si rassicurò, e si aperse con alcuni suoi conoscenti. Fu animata allo studio della Divina Commedia, ed ella vi si pose con tanto ardore, e vi si compiacque tanto, che in breve la seppe tutta quanta.

Allo studio di Dante accoppiò la lettura di Omero nella versione del Monti, di Virgilio, che si doleva non poter gustare pienamente nell’originale, e dell’Ossian del Cesarotti. [p. 173 modifica]

Dello scrivere e del verseggiare, nota il Messedaglia, mai in sua vita conobbe ella altrimenti le regole che per averle sentite e indovinate nei classici; nè mai seppe che fossero arte poetica e prosodia.

Nel 1841 pubblicò il suo primo saggio, l’Armonia a Giorgio Ronconi, e l’altro canto nelle nozze di un’amica, Maria Teresa dei conti Serego-Allighieri con Giovanni Gozzadini, patrizio bolognese.

Un fiero malore, una metrite acutissima, prenunziata da un grave mal d’occhi, troncò i suoi studi l’anno seguente. Corse pericolo della vita. Riebbesi, ma per più mesi non potè muovere il passo, e il florido serto della salute che le splendeva un dì sulle chiome, ahi! fu sfrondato per sempre! — Questa frase poetica del Messedaglia pare che accenni alla perdita dei capelli, vera corona della bellezza; e quel medico che fece tagliare alla Benucci la sua chioma d’oro fu ben maledetto dall’Ariosto.

Scrisse però, prima che la metrite la abbattesse, dei versi al biografo d’Ippolito Pindemonte, conte Bennassù-Montanari in Roma, l’Addio della sposa per altra amica, e un inno Alla Preghiera. Negli anni 1843 e 1844 di nuovo si riebbe e dettò un’ode, La fonte agghiacciata, un carme Ad Elena Bulat, dalmata, madre di un fanciullo sordomuto ch’era in educazione in Verona, ed un’Epistola al consigliere Gaetano Pinali, ad intercedere e accompagnare il dono alla città di una statua di antico scalpello. Ma non continueremo il catalogo delle sue poesie minori.

Nel 1846 di nuovo ammalò fieramente di morbillo; risanò, ma ne ritenne una ricorrente neuralgia alla faccia; e poco [p. 174 modifica] appresso un guizzo improvviso, che pareva dipendere da un’intermittenza al cuore, le lasciava requie ben di rado; e finalmente si scoperse una glandola al seno verso l’ascella sinistra: di che dovette sottoporsi al ferro chirurgico. Non diede un lamento. E compiuta che fu l’operazione, volle che si ritentasse la piaga a levar il sospetto che nessuna pur tenue propagine di male vi avesse radice. Questo fu il giorno 17 di marzo del 1848. Noi facciamo questa nosografia perchè si ammiri la costanza di un’anima femminile, che non lasciava per le sue sofferenze nè di essere buona e amabile, nè di studiare, nè di scrivere.

Essa si mise più di proposito alla lettura della Bibbia, che avea già prefissa meta a’ suoi studi. Ne tradusse e imitò salmi, episodi, e ideò di cavarne qualche breve poema, dal che poi si tolse. E siccome quella a cui le stelle e i fiori del campo eran pari diletto, scrisse alcuni Stornelli, e il Tigri ne fu mosso a intitolarle i suoi Canti Toscani; se non che la dedica la trovò già morta.

La conoscenza ch’ella fece nel 1849 di Mary Somerville, un Arago femmina, la sollevò ai Cieli. Lesse e meditò il libro della Connessione delle sciente fisiche, scritto con senno virile da quella gran donna, e ne trasse ispirazione e fila al più bello de’ suoi carmi, I Cieli. Lo scrisse nel 1851, e fu pubblicato nel 1853. Aveva ideato dall’altra opera di Geografia fisica della Somerville trarre un altro carme, La Terra, ma non potè incarnare il suo disegno. Bene nel mezzo tempo compose il canto di Dante e Beatrice, del quale disse un nostro amico nella Rivista Contemporanea (1836): [p. 175 modifica] «Crediamo che non spiacerebbe allo sdegnoso Allighieri quel racconto de’ suoi amori, fatto ad ora ad ora con le stesse parole della Vita Nuova, ridotte, come e’ direbbe, a testura musaica, se già è possibile essere più poetico o non esser meno che quella prosa stupenda, uscita dalla segreta camera del suo cuore e tutta umida di quelle lagrime che egli a certi pietosi istanti del suo amore versava. Anzi, gli parrebbe che tra coloro, i quali, senza che egli se ne accorgesse, lo stavano mirando mentre pingeva quell’angiolo, un austero sembiante di donna si piegasse per lui a pietà, e cercasse anch’ella dal canto suo a descriverlo in rima.»

Erasi proposta una serie di canti da illustratele grandezze e gli eroismi della donna. Pensava a scrivere Isabella e Colombo, Giuseppina Buonaparte, Le suore di carità, ecc. Non s’è visto che la sua Elisabetta d’Ungheria, pubblicata postuma, perchè già pronta alla stampa. Dell’altre cose inedite ella prescrisse che non si mandasse fuori più nulla.

Allo scorcio di settembre del 1856 la riprese il male che l’aveva assalita nel 1842, e il 1° ottobre la trasse alla sua acerba fine. — Il Messedaglia la descrive così:

«Quando il sacerdote cominciò a recitare le ultime preci, ella lo invitò a dirle più piano perchè intendeva ripeterle seco stessa e rispondervi. Come s’avvide del cero acceso «A me, disse, quel cero; è il simbolo della fede.» Fuvvi un istante di silenzio.... Volgendosi al sacerdote e movendo a stento la parola: «E quanta manca?» richiese serena, e come se il tardar le pesasse. La voce le venne meno a poco a poco; ma ancora era in sè, e accennava, e coll’atto delle mani e degli occhi pareva salutasse. Poveretta! fra le più [p. 176 modifica] fervide preci al Signore aveva sempre posto quella d’essere serbata in conoscenza di sè all’ultim’ora.... Poveretta! era esaudita fino nell’ultimo istante.... Batteva l’ora quinta del pomeriggio.... Ella inclinò dolcemente il capo, e senza agonia spirò.»

Ella fece un nobilissimo testamento non compito ancora il suo trentasettesimo anno. Provveduto convenevolmente alla sua buona madre, lasciò un quarto delle sue facoltà al marito; il resto da costituirsi in perpetuo in capitali fruttanti a sussidio dei poveri di Verona.

Il conte Paolo Brenzoni, suo marito, le ha elevato un piccolo, ma elegantissimo monumento sopra una collina nella sua tenuta di Sant’Ambrogio in Val Policella, ove ha innalzato dai fondamenti un istituto di educazione per quegli scalpellini che lavorano ai ricchi marmi di quelle cave. Questa scuola ha già cominciato a dare ottimi frutti, e all’ultima esposizione lassù furono ammirati bellissimi lavori che provano come quei poveri operai possano diventare artisti, e forse qualcuno per questa opera si farà grande, come è già avvenuto del Fraccaroli, per cura specialmente del padre Cesari.

A saggio del poetare della Bon-Brenzoni diamo la fine di un suo carme al Manzoni (1855), dove si duole del suo silenzio:


Or da lunghi anni la tua Musa tace....
Come? Perchè? deh! se trovar può scusa
l’audace inchiesta presso il cor gentile,
Dimm perchè sì lungamente hai tolto

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A noi d’udirti la dolcezza, hai tolto
Tanti allori al tuo crin? — Forse il desio
Che il cor ti punse sin dagli anni primi
Inesaudito cadde?... Ah no! Tu ’l sai,
Che questa, «ospizio delle Muse antico»,
Patria sì cara, de* suoi vati al sacro
Drappel t’aggiunse in fin d’allor che presi
Dal nome tuo gli auspicii avventurati
L’Itala poesia spiegò le penne
Pei non tocchi sentier che Tu le apristi,
Quando Te salutar l’Alpi ed il mare
Signor dei canti dell’età novella.
Deh, non celarti a Te medesmo, e il caro
Vanto d’esser conforto a tanta madre
Deh non t’invidiar! — Perchè ti taci?
Se t’agitano il petto occulti affanni,
Ah Tu ’l sai ch’è il dolor nostro retaggio,
E che la mano del Signor s’aggreva
Sui più cari sovente, e ch’Ei misura
Col soccorso l’angoscia! — E Tu l’hai detto,
Tu di Cristo nudrito all’alta scola!...
Perchè ti taci? — del silenzio lungo
L’ineffabil cagion (deh! Tu perdona)
Dall’alta anima tua tralucer parmi.
Che sì eccelso, cred’io, ponesti il segno
A cui tu pensi erger si debba il canto,
Che agl’impeti del core, agli ardimenti
Del pensier,’ sempre t’avverrà che torni
Dissimil troppo la parola.... allora
Tu l’arcano rapir dei lor linguaggi
Agli spirti vorresti: allor d’innanzi

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Forse l’inopia delle umane posse
Acerba, qual non mai, t’appare — e tanto
Questo terren ingombro allor ti pesa,
Che mai più intenso non si vibra e ardente
Ai soggiorni immortali il tuo sospiro!
Oh gli affanni sublimi! Oh i dubbii santi!
Oh i tormenti del Genio! — Il volo ei spinge
Fino al concesso all’uom limite estremo,
Poi s’inabissa umiliato e vinto
Innanzi all’infinito ove s’appunta
Il suo desir! Oh fin ch’ei giunga al regno
«Che solo amore e luce ha per confine»
Il Genio parli! e agli uomini disveli
Del Ver la luce, e non invano ei porti
Il suggello di Dio sulla sua fronte! —
Spirto gentil, Dio ti guidò suir erta,
E la cima toccasti; oh ti rammenta
Che in questi giorni, più che in altri mai,
Accettevol sarà, più del più puro
Incenso, e qual degl’innocenti il prego,
Quella parola che ai fratelli in petto
L’eco del Vero ridestar s’attenti,
E susciti virtù spente e rinnovi
I cor nel dubbio estinti, e ne favelli
Di glorie non bugiarde, e ne ricordi
L’altezza nostra, che a vil fin non caggia....
Parla! nol sai? Le vie di Dio son molte!


Il Manzoni non ebbe il carme da lei; nè forse lo lesse; come che sia non avrebbe rotto quel silenzio, che risuona della sua gloria.