Ezio/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo
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ATTO TERZO

SCENA I

Atrio delle carceri con cancelli di ferro in prospetto, che conducono a diverse prigioni. Guardie a vista su la porta de’ detti cancelli.

Onoria, indi Ezio con catene.

Onoria. Ezio qui venga. È questa gemma il segno
 (alle guardie)
del cesareo volere. Il suo periglio
mi fa piú amante; e la pietá, ch’io sento
nel vederlo infelice,
tal fomento è all’amor, ch’io non so come
si forma nel mio petto
di due diversi affetti un solo affetto.
Eccolo. Oh, come altero,
come lieto s’avanza!
O quell’alma è innocente, o non è vero
che immagine dell’alma è la sembianza.
(esce Ezio da uno de’ cancelli, presso de’ quali restano le guardie)
Ezio. Questi del tuo germano (mostrando le catene)
son, principessa, i doni. Avresti mai
potuto immaginarlo? In pochi istanti
tutto cangiò per me. Cinto d’allori
del giorno al tramontar tu mi vedesti;
e poi co’ lacci intorno
tu mi rivedi all’apparir del giorno.

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Onoria. Ezio, qualunque nasce, alle vicende
della sorte è soggetto. Il primo esempio
dell’incostanza sua, duce, non sei.
L’ingiustizia di lei
tu potresti emendar. Per mia richiesta
Cesare l’ira sua tutta abbandona:
t’ama, ti vuole amico, e ti perdona.
Ezio. E il crederò?
Onoria.  Sí. Né domanda Augusto
altra emenda da te che il suo riposo.
Del tentativo ascoso
scopri la trama, e appieno
libero sei. Può domandar di meno?
Ezio. Non è poca richiesta. Ei vuol ch’io stesso
m’accusi per timore. Ei vuole a prezzo
dell’innocenza mia
generoso apparir. Sa la mia fede,
prova rossor nell'oltraggiarmi a torto:
perciò mi vuole o delinquente o morto.
Onoria. Dunque con tanto fasto
lo sdegno tuo giustificar non déi;
e, se innocente sei, placide, umili
sian le tue scuse. A lui favella in modo
che non possa incolparti,
che non abbia coraggio a condannarti.
Ezio. Onoria, per salvarmi,
ad esser vile io non appresi ancora.
Onoria. Ma sai che corri a morte?
Ezio.  E ben, si mora!
Non è il peggior de’ mali
alfin questo morir: ci toglie almeno
dal commercio de’ rei.
Onoria.  Pensar dovresti
che per la patria tua poco vivesti.
Ezio. Il viver si misura
dall’opre e non dai giorni. Onoria, i vili,

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inutili a ciascuno, a sé mal noti,
cui non scaldò di bella gloria il foco,
vivendo lunga etá, vissero poco.
Ma coloro che vanno
per l'orme ch’io segnai,
vivendo pochi dí, vissero assai.
Onoria. Se di te non hai cura,
abbila almen di me.
Ezio.  Che dici?
Onoria.  Io t’amo:
piú tacerlo non so. Quando mi veggo
a perderti vicina, i torti obblio;
ed è poca difesa
alla mia debolezza il fasto mio.
Ezio. Onoria, e tu sei quella
che umiltá mi consigli? In questa guisa
insuperbir mi fai. Potessi almeno,
come i tuoi pregi ammiro, amarti ancora!
Deh! consenti ch’io mora. Ezio piagato
per altro stral ti viverebbe ingrato.
Onoria. Viva ingrato, mi renda
d’ogni speranza priva,
mi sprezzi pur, mi sia crudel; ma viva.
E se pur la tua vita
abborrisci cosí, perché m’è cara,
cerca almeno una morte
che sia degna di te. Coll’armi in pugno
mori vincendo; onde t’invidi il mondo,
non ti compianga.
Ezio.  O in carcere o fra l'armi,
ad altri insegnerò come si mora.
Farò invidiarmi in questo stato ancora.
          Guarda pria se in questa fronte
     trovi scritto — alcun delitto,
     e dirai che la mia sorte
     desta invidia e non pietá.

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          Bella prova è d’alma forte
     l’esser placida e serena,
     nel soffrir l’ingiusta pena
     d’una colpa che non ha.
          (rientra nelle carceri, accompagnato dalle guardie)

SCENA II

Onoria, poi Valentiniano.

Onoria. Oh Dio, chi ’l crederebbe! Al fato estremo
egli lieto s’appressa. Io gelo e tremo.
Valentiniano.  E ben, da quel superbo
che ottenesti, o germana?
Onoria.  Io nulla ottenni.
Valentiniano.  Giá lo predissi. Eh! si punisca. Omai
è viltade il riguardo.
Onoria.  E pur non posso
crederlo reo. D’alma innocente è segno
quella sua sicurezza.
Valentiniano.  Anzi è una prova
del suo delitto. Il traditor si fida
nell’aura popolar. Vuo’ che s’uccida.
Onoria. Meglio ci pensa. Ezio è peggior nemico
forse estinto che vivo.
Valentiniano.  E che far deggio?
Onoria. Cerca vie di placarlo: il suo segreto
sveller da lui senza rigor procura.
Valentiniano.  E qual via non tentai?
Onoria.  La piú sicura.
Ezio, per quel ch’io vedo,
è debole in amor: per questa parte
assalirlo conviene. Ei Fulvia adora:
offrila all’amor suo; cedila ancora.
Valentiniano.  Quanto è facile, Onoria,
a consigliare altrui fuor del periglio!

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Onoria. Signor, nel mio consiglio io ti propongo
un esempio a seguir. Sappi che amante
io sono al par di te, né perdo meno:
Fulvia è la fiamma tua; per Ezio io peno.
Valentiniano.  E l’ami?
Onoria.  Sí. Nel consigliarti or vedi
se facile son io, come tu credi.
Valentiniano.  Ma troppo ad eseguir duro consiglio
mi proponi, o germana.
Onoria.  Il tuo coraggio,
la tua virtú faccia arrossir la sorte.
Una donna t’insegna ad esser forte.
Valentiniano.  Oh Dio!
Onoria.  Vinci te stesso. I tuoi vassalli
apprendano qual sia
d’Augusto il cor...
Valentiniano.  Non piú: Fulvia m’invia:
facciasi questo ancor. Se tu sapessi
che sforzo è il mio, quanto il cimento è duro...
Onoria. Dalla mia pena il tuo dolor misuro;
ma soffrilo. Nel duolo
pur è qualche piacer non esser solo.
               Peni tu per un’ingrata,
          un ingrato adoro anch’io;
          è il tuo fato eguale al mio;
          è nemico ad ambi Amor.
               Ma, s’io nacqui sventurata,
          se per te non v’è speranza,
          sia compagna la costanza,
          come è simile il dolor. (parte)

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SCENA III

Valentiniano, indi Varo.

Valentiniano.  Olá! Varo si chiami.
          (una comparsa esce, e parte per eseguire il comando)
 A questo eccesso
della clemenza mia se il reo non cede,
un momento di vita
piú lasciargli non vuo’.
Varo.  Cesare.
Valentiniano.  Ascolta.
Disponi i tuoi piú fidi
di questo loco in su l’oscuro ingresso;
e se al mio fianco appresso
Ezio non è, s’io non gli son di guida,
quando uscir lo vedrai, fa’ che s’uccida.
Varo. Ubbidirò. Ma sai
qual tumulto destò d’Ezio l’arresto?
Valentiniano.  Tutto m’è noto. A questo
giá Massimo provvede.
Varo.  È ver, ma temo...
Valentiniano.  Eh! taci: adempi il cenno, e fa’ che il colpo
cautamente succeda.
Udisti?
Varo.  Intesi. (parte)
Valentiniano.  Il prigionier qui rieda.
 (alle guardie de’ cancelli)
Tacete, o sdegni miei: l’odio sepolto
resti nel cor, non comparisca in volto.
               Con le procelle in seno
          sembri tranquillo il mar;
          e un zeffiro sereno
          col placido spirar
          finga la calma.

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               Ma, se quel cor superbo
          l’istesso ancor sará,
          vi lascio in libertá,
          sdegni dell’alma.

SCENA IV

Massimo e detto.

Massimo. Signor, tutto sedai. D’Ezio la morte
a tuo piacere affretta:
Roma t’applaude; ogni fedel l’aspetta.
Valentiniano.  Ma che vuoi? Mi si dice
che un barbaro, che un empio,
che un incauto son io. Gli esempi altrui
seguitar mi conviene.
Massimo. Come! Perché?
Valentiniano.  T’accheta. Ezio giá viene.

SCENA V

Ezio incatenato esce dai cancelli, e detti.

Massimo. (Chi mai lo consigliò?)
Ezio.  Dal carcer mio
richiamato, io credei
d’incamminarmi ad un supplizio ingiusto;
ma ne incontro un peggior: rivedo Augusto.
Valentiniano.  (Che audace!) Ezio, fra noi
piú d’odio non si parli. Io vengo amico:
il mio rigor detesto;
e voglio...
Ezio.  Io so che vuoi: m’è noto il resto.
Onoria ti prevenne; il tutto intesi.

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S’altro a dirmi non hai,
torno alla mia prigion; seco parlai.
Valentiniano.  Non potea dirti Onoria
quanto offrirti vogl’io.
Ezio.  Lo so; mel disse:
che la mia libertá, che il primo affetto,
che l’amistá d’Augusto i doni sono.
Valentiniano.  Ma non disse il maggior.

SCENA VI

Fulvia e detti.

Valentiniano.  (accennando Fulvia)   Vedi qual dono.
Ezio. Fulvia!
Massimo.  (Che mai sará! L’alma s’agghiaccia).
Fulvia. Da Fulvia che si vuol?
Valentiniano.  Che ascolti e taccia.
Ti sorprende l’offerta. Ella è sì grande, (ad Ezio)
che crederla non sai, ma temi invano:
la promisi, l’affermo; ecco la mano.
Ezio. A qual prezzo però mi si concede
d’esserne possessor?
Valentiniano.  Poco si chiede.
Tu sei reo per amor: chi visse amante
facilmente ti scusa. Altro non bramo
che un ingenuo parlar. Tutto il disegno
svelami, te ne priego, acciò non viva
Cesare piú co’ suoi timori intorno.
Ezio. Addio, mia vita: alla prigione io torno. (a Fulvia)
Valentiniano.  (E il soffro?)
Fulvia.  (Aimè!)
Valentiniano.  (ad Ezio)  Senti. E lasciar tu vuoi,
ostinato a tacer, Fulvia, che tanto
fedel ti corrisponde?
Parla. (Né meno il traditor risponde.)

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Massimo. (Quanti perigli!)
Valentiniano.  Ezio, m’ascolti? Intendi
che parlo a te? Son tali i detti miei,
che un reo, come tu sei, debba sprezzarli?
Ezio. Quando parli cosí, meco non parli.
Valentiniano.  (Eh! si risolva.) Olá, custodi!
Fulvia.  Ah! prima
lo sdegno tuo contro di me si volga.
 (a Valentiniano)
Valentiniano.  Né puoi tacere? (a Fulvia) Il prigionier si sciolga.
(si tolgono le catene ad Ezio)
Ezio. Come!
Fulvia.  (Che veggio!)
Massimo.  (Oh stelle!)
Valentiniano.  Alfin conosco
che innocente tu sei. Tanta costanza
nel ricusar la sospirata sposa,
no, che un reo non avrebbe. Ezio, mi pento
del mio rigore: emenderanno i doni
le ingiuste offese de’ sospetti miei.
Vanne; Fulvia è giá tua; libero sei.
Fulvia. (Felice me!)
Ezio.  La prima volta è questa
ch’io mi confondo, e con ragion. Chi mai
un monarca rivale a questo segno
generoso sperò? La tua diletta
mi cedi, e non rammenti...
Valentiniano.  Omai t’affretta.
Impaziente attende
Roma di rivederti. A lei ti mostra:
dilegua il suo timor. Tempo non manca
a’ reciprochi segni
d’affetto, d’amistá.
Ezio.  Del fasto mio
or, Cesare, arrossisco; e tanto dono...

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Valentiniano.  Ezio, va’ pur: conoscerai qual sono.
               Ezio. Se la mia vita
          dono è d’Augusto,
          il freddo Scita,
          l’Etiope adusto
          al piè di Cesare
          piegar farò.
               Perché germoglino
          per te gli allori,
          mi vedrai spargere
          nuovi sudori;
          saprò combattere,
          morir saprò. (parte)

SCENA VII

Valentiniano, Fulvia e Massimo.

Valentiniano.  (Va’ pur, te n’avvedrai.)
Massimo.  (Perdo ogni speme.)
Fulvia. Generoso monarca, il ciel ti renda
quella felicitá che rendi a noi.
I benefici tuoi
sempre rammenterò. Lascia che intanto
su quell’augusta mano un bacio imprima.
Valentiniano.  No, Fulvia: attendi prima
che sia compito il dono: ancor non sai
quanto ogni voto avanza,
quanto il dono è maggior di tua speranza.
Massimo. Cesare, che facesti? Ah! questa volta
t’ingannò la pietade.
Valentiniano.  E pur vedrai
che giova la pietá, ch’io non errai.
Ogni cura, ogni téma
terminata sará.
Massimo.  Qual pace acquisti,
se torna in libertá?

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SCENA VIII

Varo e detti.

Valentiniano.  Varo, eseguisti?
Varo. Eseguito è il tuo cenno:
Ezio morí.
Fulvia.  Come! Che dici?
Varo. (a Valentiniano)   Al varco
l’attesero i miei fidi: ei venne; e prima
che potesse temerne, il sen trafitto
si vide; sospirò, cadde fra loro.
Massimo. (Oh sorte inaspettata!)
Fulvia.  Oh Dio! mi moro.
  (si appoggia ad una scena, coprendosi il volto)
Valentiniano.  Corri; l’esangue spoglia
nascondi ad ogni sguardo: ignota resti
d’Ezio la morte ad ogni suo seguace.
Varo. Sará legge il tuo cenno. (parte)
Valentiniano.  E Fulvia tace?
Or è tempo che parli. E perché mai
«generoso monarca» or non mi dice?
Fulvia. Ah, tiranno! Io vorrei... Sposo infelice! (come sopra)
Massimo. Un primo sfogo al suo dolore ingiusto
lascia, o signor.

SCENA IX

Onoria e detti.

Onoria.  Liete novelle, Augusto.
Valentiniano.  Che reca Onoria? Il volto suo ridente
felicitá promette.

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Onoria.  Ezio è innocente.
Valentiniano.  Come?
Onoria.  Emilio parlò. L’empio ministro
nelle mie stanze io ritrovai celato,
giá vicino a morir.
Massimo.  (Son disperato.)
Valentiniano.  Nelle tue stanze?
Onoria.  Sí. Da te ferito,
la scorsa notte ivi s’ascose. Intesi
dal labbro suo ch’Ezio è innocente. Augusto
non mentisce chi more.
Valentiniano.  E l’alma rea,
che gli commise il colpo,
almen ti palesò?
Onoria.  Mi disse: — È quella
che a Cesare è piú cara, e che da lui
fu oltraggiata in amor. —
Valentiniano.  Ma il nome?
Onoria.  Emilio
a dirlo si accingea, tutta sui labbri
l’anima fuggitiva egli raccolse;
ma l’estremo sospiro il nome involse.
Valentiniano.  Oh sventura!
Massimo.  (Oh periglio!)
Fulvia. (a Valentiniano)   Or di’, tiranno,
s’era infido il mio sposo,
se fu giusto il punirlo. Or che mi giova
che tu il pianga innocente? Or chi la vita,
empio! gli renderá?
Onoria.  Fulvia, che dici?
Ezio morí?
Fulvia.  Sí, principessa, Ah! fuggi
dal barbaro germano: egli è una fiera
che si pasce di sangue,
e di sangue innocente. Ognun si guardi;
egli ha vinto i rimorsi; orror non sente

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della sua crudeltá, gloria non cura:
pur la tua vita, Onoria, è mal sicura.
Onoria. Ah, inumano! E potesti...
Valentiniano.  Onoria, oh Dio!
non insultarmi: io lo conosco, errai;
ma di pietá son degno
piú che d’accuse. Il mio timor consiglia.
Son questi i miei piú cari: in qual di loro
cercherò il traditor, s’io non gli offesi?
Onoria. Chi mai non offendesti? Il tuo pensiero
il passato raccolga, e non si scordi
di Massimo la sposa, i folli amori,
l’insidiata onestá.
Massimo.  (Come salvarmi?)
Valentiniano.  E dovrò figurarmi
che i benefici miei meno ei rammenti
che un giovanil trasporto?
Onoria.  E ancor non sai
che l’offensore obblia,
ma non l’offeso, i ricevuti oltraggi?
Fulvia. (Ecco il padre in periglio.)
Valentiniano.  Ah! che pur troppo
tu dici il ver; ma che farò?
Onoria.  Consigli
or pretendi da me? Se fosti solo
a fabbricarti il danno,
solo al riparo tuo pensa, o tiranno. (parte)

SCENA X

Valentiniano, Massimo e Fulvia.

Massimo. Cesare, alla mia fede
troppo ingrato sei tu, se ne sospetti.
Valentiniano.  Ah! che d’Onoria ai detti
dal mio sonno io mi desto:

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Massimo, di scolparti il tempo è questo.
Finché il reo non si trova,
il reo ti crederò.
Massimo.  Perché? Qual fallo?
Sol perché Onoria il dice?
Che ingiustizia è la tua!
Fulvia.  (Padre infelice!)
Valentiniano.  Giusto è il timor. Disse morendo Emilio
che il traditor m’è caro,
ch’io l’offesi in amor: tutto conviene,
Massimo, a te. Se tu innocente sei,
pensa a provarlo: assicurarmi intanto
di te vogl’io.
Fulvia.  (M’assista il ciel!)
Valentiniano.  Qual altro
insidiar mi potea?
Olá!
Fulvia.  Barbaro, ascolta: io son la rea.
Io commisi ad Emilio
la morte tua. Quella son io, che tanto
cara ti fui per mia fatal sventura.
Io, perfido! son quella
che oltraggiasti in amor, quando ad Onoria
offristi il mio consorte. Ah! se nemici
non eran gli astri a’ desidèri miei,
vendicata sarei,
regnerebbe il mio sposo; il mondo e Roma
non gemerebbe oppressa
da un cor tiranno e da una destra imbelle.
Oh sognate speranze! oh avverse stelle!
Massimo. (Ingegnosa pietade!)
Valentiniano.  Io mi confondo.
Fulvia. (Il genitor si salvi, e pèra il mondo.)
Valentiniano.  Tradimento sí reo pensar potesti?
eseguirlo, vantarlo?
Fulvia.  Ezio innocente

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morí per colpa mia: non vuo’ che mora
innocente, per Fulvia, il padre ancora.
Valentiniano.  Massimo è fido almeno.
Massimo.  Adesso, Augusto,
colpevole son io. Se quell’indegna
tanto obbliar la fedeltá poteo,
nell’error della figlia il padre è reo.
Puniscimi, assicura
i giorni tuoi col mio morir. Potrebbe
il naturale affetto,
che per la prole in ogni petto eccede,
del padre un dí contaminar la fede.
Valentiniano.  A suo piacer la sorte
di me disponga: io m’abbandono a lei.
Son stanco di temer. Se tanto affanno
la vita ha da costar, no, non la curo:
nelle dubbiezze estreme
per mancanza di speme io m’assicuro.
               Per tutto il timore
          perigli m’addita.
          Si perda la vita,
          finisca il martire;
          è meglio morire,
          che viver cosí.
               La vita mi spiace,
          se il fato nemico
          la speme, la pace,
          l’amante, l’amico
          mi toglie in un dí. (parte)

SCENA XI

Massimo e Fulvia.

Massimo. Parti una volta. Io per te vivo, o figlia,
io respiro per te. Con quanta forza

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celai finor la tenerezza! Ah! lascia,
mia speme, mio sostegno,
cara difesa mia, che alfin t’abbracci.
 (vuole abbracciar Fulvia)
Fulvia. Vanne, padre crudel!
Massimo.  Perché mi scacci?
Fulvia. Tutte le mie sventure
io riconosco in te. Basta ch’io seppi,
per salvarti, accusarmi.
Vanne; non rammentarmi
quanto per te perdei,
qual son io per tua colpa, e qual tu sei.
Massimo. E contrastar pretendi
al grato genitor questo d’affetto
testimonio verace?
Vieni... (vuole abbracciarla)
Fulvia.  Ma per pietá lasciami in pace.
Se grato esser mi vuoi, stringi quel ferro:
svenami, o genitor. Questa mercede
col pianto in su le ciglia
al padre, che salvò, chiede una figlia.
          Massimo. Tergi le ingiuste lagrime;
     dilegua il tuo martiro,
     ché, s’io per te respiro,
     tu regnerai per me.
          Di raddolcirti io spero
     questo penoso affanno
     col dono d’un impero,
     col sangue d’un tiranno,
     che delle nostre ingiurie
     punito ancor non è. (parte)
     

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SCENA XII

Fulvia.

Misera! dove son? L’aure del Tebro
son queste ch’io respiro?
Per le strade m’aggiro
di Tebe e d’Argo; o dalle greche sponde,
di tragedie feconde,
vennero a questi lidi
le domestiche furie
della prole di Cadmo e degli Atridi?
Lá d’un monarca ingiusto
l’ingrata crudeltá m’empie d’orrore:
d’un padre traditore
qua la colpa m’agghiaccia;
e lo sposo innocente ho sempre in faccia.
Oh immagini funeste!
oh memorie! oh martiro!
Ed io parlo, infelice, ed io respiro?
          Ah! non son io che parlo,
     è il barbaro dolore,
     che mi divide il core,
     che delirar mi fa.
          Non cura il ciel tiranno
     l’affanno — in cui mi vedo:
     un fulmine gli chiedo,
     e un fulmine non ha. (parte)

SCENA XIII

Campidoglio antico, con popolo.

Massimo senza manto, con séguito; poi Varo.

Massimo. Inorridisci, o Roma:
d’Attila lo spavento, il duce invitto,
il tuo liberator cadde trafitto.

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E chi l’uccise? Ah! l’omicida ingiusto
fu l’invidia d’Augusto. Ecco in qual guisa
premia un tiranno. Or che fará di noi
chi tanto merto opprime? Ah! vendicate,
romani, il vostro eroe. La gloria antica
rammentatevi omai: da un giogo indegno
liberate la patria, e difendete
dai vicini perigli
l’onor, la vita, le consorti e i figli. (in atto di partire)
Varo. Massimo, ferma! E qual desio ribelle,
qual furor ti consiglia?
Massimo. Varo, t’accheta, o al mio pensier t’appiglia.
Chi vuol salva la patria,
stringa il ferro e mi segua. (tutti snudan la spada)
 (accennando il Campidoglio) Ecco il sentiero,
onde avrá libertá Roma e l’impero.
 (parte, seguito da tutti, verso il Campidoglio)
Varo. Che indegno! Egli la morte
d’un innocente affretta,
e poi Roma solleva alla vendetta.
Va’ pur: forse il disegno
a chi lo meditò sará funesto:
va’, traditor... Ma qual tumulto è questo?
 (s’ode brevissimo strepito di trombe e timpani)
          Giá risonar d’intorno
     al Campidoglio io sento
     di cento voci e cento
     lo strepito guerrier.
          Che fo? Si vada, e sia
     stimolo all’alma mia
     il debito d’amico,
     di suddito il dover. (parte)

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SCENA XIV

Si vedono scendere dal Campidoglio, combattendo, le guardie imperiali coi sollevati. Siegue zuffa, la quale terminata, esce Valentiniano senza manto, con ispada rotta, difendendosi da due congiurati; e poi Massimo colla spada alla mano, indi Fulvia.

Valentiniano.  Ah, traditori! Amico, (a Massimo)
soccorri il tuo signor.
Massimo.  Fermate! Io voglio
il tiranno svenar.
Fulvia. (si frappone)   Padre, che fai?
Massimo. Punisco un empio.
Valentiniano.  È questa
di Massimo la fede?
Massimo.  Assai finora
finsi con te. Se il mio comando Emilio
mal eseguí, per questa man cadrai.
Valentiniano.  Ah, iniquo!
Fulvia.  Al sen d’Augusto
non passerá quel ferro,
se me di vita il genitor non priva.
Massimo. Cesare morirá.

SCENA ULTIMA

Ezio e Varo con ispade nude, popolo e soldati; indi Onoria e detti.

Ezio e Varo.  Cesare viva.
Fulvia. Ezio!
Valentiniano.  Che veggo!
Massimo.  Oh sorte! (getta la spada)
Onoria.  È salvo Augusto?
Valentiniano.  Vedi chi mi salvò! (accenna Ezio)

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Onoria. (ad Ezio)   Duce, qual nume
ebbe cura di te?
Ezio.  Di Varo amico
il zelo e fa pietá.
Valentiniano.  Come?
Varo.  Eseguita
finsi di lui la morte: io t’ingannai;
ma in Ezio il tuo liberator serbai.
Fulvia. Provvida infedeltá!
Ezio.  Permette il cielo
che tu debba i tuoi giorni,
Cesare, a questa mano,
che credesti infedel. Vivi: io non curo
maggior trionfo; e, se ti resta ancora
per me qualche dubbiezza in mente accolta,
eccomi prigioniero un’altra volta.
Valentiniano.  Anima grande, eguale
solamente a te stessa! In questo seno
della mia tenerezza,
del pentimento mio ricevi un pegno:
eccoti la tua sposa. Onoria al nodo
d’Attila si prepari: io so che lieta
la tua man generosa a Fulvia cede.
Onoria. È poco il sacrifizio a tanta fede.
Ezio. Oh contento!
Fulvia.  Oh piacer!
Ezio.  Concedi, Augusto,
la salvezza di Varo,
di Massimo la vita ai nostri prieghi.
Valentiniano.  A tanto intercessor nulla si nieghi.
          Coro. Della vita nel dubbio cammino
     si smarrisce l’umano pensier.
          L’innocenza è quell’astro divino,
     che rischiara fra l’ombre il sentier.