Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Filli di Sciro/Atto secondo

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Atto secondo

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Filli di Sciro - Atto primo Filli di Sciro - Atto terzo

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ATTO SECONDO SCENA I Oronte, Perindo, Sireno, Ormino.

          
Oron.Costi rimangan gli altri :
          tu mi segui, Perindo, e vegnan teco
          que’ duo vecchi pastori.
          Sir.Vien tosto, Ormin, non odi?
          Orm.Là dove trema il cor, non corre il piede.
          Per.Siam qui, signor: ma vuoi
          tu senza servi gir, senza soldati,
          quinci soletto errando?
          Oron.Per si dolci campagne,
          fra mansuete genti,
          non è d’uopo di gir cinto di squadre.
          Vegno fuor de le tende,
          perché ristori in questi campi ameni
          la dolcezza del ciel gli orror del mare:
          ma non par che de’ campi
          sappia goder chi vuole
          pe’ campi gir con cittadini onori.
          Oh caro praticello,
          oh leggiadro boschetto,
          mira di che bell’ombre
          incontra ? sole i suoi fioretti ammanta!
          Ecco appunto una scena
          pastorale, a cui fanno
          quinci il mar, quindi i colli, e d’ogn’intorno

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          i fior, le piante e l’ombre e l’onde e 'l cielo
          un teatro pomposo. Amici, avanti!
          Qui, dove or cosi dolce
          spira l’aura, posando,
          seguirٍ di que’ figli
          la fortunosa istoria.
          Orm.Deh per pietà, signor, dimmi, viv’egli
          Tirsi il mio figlio? Dimmi
          prima se vive, il resto
          dirailo poi a tuo bell’agio.
          Oron.Udite.
          Posciaché de’ fanciulli
          la turba numerosa ebbi condotta
          avanti al gran signor ne la gran sala,
          ove parea vagir nascente il mondo,
          mentre si fea di lor distinta mostra,
          qui, dove apparian gli altri
          cotai selvatichetti,
          arditi e baldanzosi i vostri figli
          innanzi al re con si leggiadri vezzi
          bamboleggiando ad atteggiar si diero,
          che ’ntenerita pur quella grand’alma
          quasi con un sorriso
          temprٍ ? severo aspetto.
          Indi la man porgendo,
          la man che usata è solo
          a trattar arme e scettri,
          lusingٍ lor le vermigliuzze gote,
          e se non le baciٍ, sen vide almeno
          fin su le labbra il bel desio del core.
          Poscia ver me diss’egli: — Attendi: i’ veggio
          in questi duo bambini alme si belle,
          che a non volgare impresa
          forza è che 'l ciel gli scorga,
          se ne’ sembianti umani
          scrive i suoi fati il cielo, e s’io gí’intendo. -

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          (Ned uom v’è già, ch’a par di lui gí’intenda).
          — Ond’ io non vo’ (soggiunse)
          che fra gli altri fanciulli al gran serraglio
          sian questi due condotti,
          ma fia tua cura, Oronte,
          farli nudrir ad altri studi in corte.—
          io cosi feci, e si mi furon cari,
          che senza figli aver, senz’esser padre,
          provٍ pur il mio core
          per gli altrui figli anch’ei paterno amore.
          Or, mentre che i fanciulli
          crescean con gli anni, in loro
          cresceva innanzi agli anni
          il senno e la beltade.
          Ma tutto è nulla; udite
          meraviglia gentile. Amor fanciullo,
          con lor (cred’io) scherzando,
          si come appunto intra fanciulli avviene,
          per fortuna ferilli,
          e si gli venne fatta
          gran piaga in picciol core. Oh che dolcezza
          era veder duo fanciullini amanti
          trattar lor vezzosissimi amoretti!
          Con lingua ancor di latte balbettando
          sepper chiamar, prima che mamma, amore.
          Cominciavano appena
          a trar l’aure vitali,
          che sapean sospirare
          i sospiri d’amore: aveano appena
          gli occhi aperti a la luce,
          che sapean vagheggiando
          vibrar guardi amorosi.
          Vedevansi talora
          con la man tenerella,
          che mal pur sapea dianzi
          le mamme careggiar de le nudrici,
          G. Bonarelli, Filli di Sciro. ^ 3

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          fatta a l’arti d’amor pronta e sagace,
          lisciarsi il volto, inanellarsi il crine;
          e quando parea lor d’esser più belli,
          corrersi ad abbracciar quasi di furto
          con dolcissimi baci.
          Cosi amoreggiando i pargoletti,
          pargoleggiava Amore.
          Quinci de l’amor loro
          innamorato 'l re, mi disse un giorno:
          — Effetto esser non puٍ d’età si acerba
          un si maturo amore.
          Ei vien dal cielo, e ? cielo
          non opra in vano: è forza
          ch’ei sieno un di consorti.
          io ? vo’, che il cielo il vuole. —
          Ah che troppo alto è ? ciel, né giugner puote
          la mente umana a suo voler lassuso !
          Ammala il gran signor, e già si crede
          vicino al giorno estremo;
          già si dispone a l’ultima partita.
          Né fra le gravi cure ond’in quel punto
          avea ’ngombrato il cor, pose in oblio
          i suo’ diletti amanti,
          che fatti a sé condur: — Figli (lor disse)
          G moro: a me non lice
          di veder voi consorti.
          Troppo maturo i’ son, voi troppo acerbi.
          Sposi vedrovvi almen; di questo nodo
          capace è ben la vostra etade e ? senno.
          Porgetevi le destre, e ? ciel secondi
          di tenerella man fede si pura. —
          Ei, fra lieti e dolenti,
          si dier la mano e si baciar piangendo.
          il re qui trasse intanto
          di sotto a l’origliere un cerchio d’oro,
          intorno a cui scolpite

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          eran note d’Egitto, e per suggello ’
          impressavi di lui la sacra imago.
          Doppio era il cerchio, e ciascheduna parte
          facea, benché divisa, un cerchio intero;
          ma rimanean le note oscure e tronche.
          Il re partillo, ed a’ novelli sposi
          cintone il collo ignudo:
          — Questo sarà (diss’egli)
          del vostro amor memoria,
          ed anco del mio amor fia segno un giorno. —
          Poi si rivolse in altra parte, e credo
          per contenere o per celare il pianto.
          Allor ind’io li tolsi, e’ncontanente
          con le cose più care al mio castello
          condur li fei, temendo
          (o stolta providenza!)
          le stragi e le rapine
          che soglion celebrar l’esequie a’ grandi.
          Sparge la fama intanto
          de la morte del re fallace grido.
          Chi la bramava di leggieri il crede.
          Il re di Smirna il crede,
          e fatto ardito, di repente assale
          i confini di Tracia, indi s’avanza
          fin al castello, e con notturno assalto
          il prende, il preda, il brucia.
          Orm.Ed arser quivi,
          ahi lasso, i nostri figli?
          Oron.Un de’ miei servi,
          che fra l’ombre del sonno
          a’ nemici involossi,
          narrٍ ch’ambiduo vivi
          un soldato di Smirna
          là di mezzo a lo ’ncendio
          li ritolse a le fiamme.
          Orm.E vivon dunque prigionieri in Smirna?

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          Oron.Ne temo. Udite. Arriva
          de l’armi predatrici il suono in corte.
          Il re sol tanto avea di senso e vita,
          che bastٍ per udirlo. Ode l’ingiuria,
          s’adira, e l’ira, il freddo sangue acceso,
          arresta entro del cor l’alma fugace,
          perch’ella sia del suo furor ministra.
          Ma M nemico fellon, com’ebbe udito
          che pur vivea colui,
          la cui oreduta morte
          fatto l’aveva ardito,
          cosi fu vَlto in fuga, e per temprare
          l’ira del re, e per fuggir più scarco,
          ne rimandٍ in Bisanto
          le spoglie co’ prigioni.
          Orm.E i nostri figli?
          Oron.Questi solo mancar, mancar sol questi,
          che solo il re chiedeva; onde più fero
          guerra immortale al re di Smirna indice,
          se non gli rende intatti
          non so s’io deggia dire i servi o i figli.
          Quegli niega d’averli,
          questi creder noi vuole,
          perché vuole i fanciulli o la vendetta.
          Allor si venne a l’armi.
          Si venne allora a l’armi,
          per cui distrutto giace
          il paese di Smirna.
          Onde non è ch’io speri
          di riveder mai più que’ figli altrove,
          ch’andammo invan cercando
          fin sotto a le rovine
          di quel cadente regno.
          Orm.Oh miseri figliuoli!
          Sir.Oh più miseri padri!
          Oron.Miseri e figli e padri,

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          ATTO SECONDO
          ma pur felici intanto,
          che ne la lor miseria hanno versato
          lagrime il re, mille e mille altri il sangue.
          Orm.Di Jagrime e di sangue
          oh infelice ristoro !
          Per.(Piangono i vecchierelli, ed al lor pianto
          Oronte ancor si turba.
          Meglio è ch’io nel distolga.) Omai, signore,
          vedi ch’a mezzo cielo il sol si libra
          . per correr più veloce inyer l’occaso,
          e sai che non abbiamo
          scelti i fanciulli ancor, né pur la tromba
          annunziatricé" del tuo arrivo in Sciro,
          sonando, è gita ad assembrargli al tempio.
          Oron.Torniam dunque a le tende: e voi, pastori,
          per altro ombroso calle
          conducetemi al mare; e vi consoli
          1 che, vivi o morti, ovunque sien que’ figli,
          forza è che sien graditi
          o dagli uomini in terra,
          o dagli dèi nel cielo.
          Sir.O pietoso signore,
          te pur consoli il ciel, quanto noi siamo
          inconsolabilmente sconsolati.
          37
          SCENA II
          Serpilla, Celia.
          Serp.Eh Celia!
          Celia.Oimè! di’piano...
          Serp.E che-paventi?
          Celia.Vedi colà mio padre.
          Serp.Egli sen parte,
          né poté udir. Ma ’nvano

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          a me t’ascondi omai: que’tuoi sospiri
          ch’ora spargevi al ciel, mentre credevi
          che sol t’udisse in questo bosco il cielo,
          m’han ridetto il tuo male: e ti consola,
          ch’è mal d’amore, e non di morte, e male
          che fa nascer la gente, e non morire.
          Ma che riguardi? Volgi
          ver me cotesto viso. Ah, ah, se tace
          vergognando la lingua, odo che parla
          rosseggiando la gota;
          e dice in sua favella
          ch’a la fiamma del cor avvampa, anch’ella.
          Deh, s’ami, e perché vuoi
          vergognando celarlo?
          Celi nel cor, né porti
          nella fronte l’amor, chi l’ha rugosa,
          ch’una polita guancia
          è bel teatro, in cui venga dal core
          a far di sé pomposa mostra Amore.
          Amai anch’io ? mio Sirto, e la tua madre
          arse d’Ormino anch’ella.
          Né tacemmo per onta:
          s’ode ancor per le valli
          l’eco dei nostri amori.
          Ama Egeria Felisco, Urinda Armillo,
          Amaranta Licandro, e la tua Clori,
          la bella e saggia Clori,
          Clori, colei che tanto
          sembra d’amor nemica, or, se noi sai,
          vive solo e respira
          mentre d’amor sospira.
          E se pur de’ suo’ amori
          non parla a te, che sorda
          forse d’amor non senti,
          meco perٍ no ? tace.
          Odi quel che men disse

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          un di, mentr’ io sdegnosa ’
          la riprendea di core
          senz’amor dispietato.
          — O Serpilla, Serpilla,
          (mi rispose piangendo)
          senz’amante son io, non senz’amore.
          Amo d’altre contrade
          altro pastore, e tale
          che, benché fors’estinto
          giaccia sotterra, i’ vo’ perٍ che solo
          il cener di quell’ossa
          sia l’esca del mio foco. —
          ¦ O fanciulla gentile,
          felice a cui è dato
          arder sol d’una fiamma!
          Celia.Oh me infelice!
          Serp.Or che ti duole? è forse
          la ’nfedeltل d’un disleale amante
          l’empia cagion del tuo dolore?
          Celia.Ah taci,
          taci, Serpilla, e non voler ch’io scopra
          l’orror de la mia piaga.
          Serp.Or non m’apposi?
          Ah cosi va, figliuola!
          Nel cor de l’uom vedrai
          pullular gli Amoretti
          a guisa di colombi,
          ove mentre che l’uno
          ha l’ale grandi e vola,
          spunta a l’altro la piuma:
          l’un tronfio e pettoruto
          va toneggiando e ruota,
          l’altro col petto ’n terra
          vieti pigolando e serpe:
          nasce l’uno da l’uova
          mentre l’altro si cova.

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          Ma non ten caglia, no: cruda e severa,
          benché tarda talor, sopra gl’infidi
          vien dal ciel la vendetta.
          Non sai ciٍ che Peloro,
          quel Peloro di cui ninfa non vide
          più fido amante in Sciro,
          non sai ciٍ ch’ei dicea?
          La fede è la deità, per cui Amore
          là su tra’ dei s’inciela.
          Senza la fede Amore, egli dicea,
          Amor non è, né dio.
          È spiritel d’inferno,
          che, accese in Flegetonte atre fiammelle,
          finge d’Amor la face,
          e i suoi mentiti ardori
          va d’intorno spirando,
          per la cui scelerata orribil colpa
          colà giù ne lo ’nferno
          (odi giusto castigo)
          da’ quei mostri d’abisso,
          in sembianza de’ suoi traditi amanti,
          l’anima disleal vien tormentata.
          Ma tu più chiaro omai
          deh mi discopri il tuo dolor, che s’io
          non potrٍ dargli aita,
          te n’avrٍ almen pietade.
          Celia.A me che pro?
          Non spero aita e non desio pietade.
          Serp.Non mi tacer almeno
          l’infedel tuo nemico. G sarٍ teco,
          e farem si ch’ei lasci
          o la vita o l’amor, per cui t’offende.
          Celia.La vita, e non l’amore.
          Serp.E vuoi ch’e’ mora?
          Celia.G vo’ ch’e’ mora. E s’altra man non trovo
          del mio giusto desire

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          pietosa esecutrice,
          ragion è ben che faccia
          del mio cor la mia man degna vendetta.
          Serp.(O cruda gelosia,
          cosi fa ? tuo veleno
          ch’una fanciulla infieri?
          Ma s’io vo’ raddolcirla,
          convien ch’io la secondi.) Or ti consola,
          che, se fia uopo, io stessa
          andrٍ con queste mani
          a sveller da quel cor l’anima infida.
          Ma dimmi, a che più ? taci?
          chi è quel disleal? come t’offese?
          Celia.Dirolti, or ch’io discerno
          conforme al mio desire il tuo talento;
          ma ve’ che non ti cangi.
          Serp.Mi vedrai ben più tosto
          l’alma cangiar che ? core.
          Celia.E sia chi che si voglia,
          nulla pietà ten prenda.
          Serp.Contra me stessa ancor sarei crudele,
          quand’ io fossi infedele.
          Celia.Or odi, ed a te dico
          quel ch’a’ secreti boschi ancor non dissi.
          Come avrٍ lingua a dirlo?
          Ah mal la lingua affreno,
          s’io non affreno il core! Ecco, Serpilla,
          ecco quel disleale, ecco quell’empio.
          Qui dentro è ? mio nemico; i’ son colei,
          io son colei che ’n seno
          lo ’nfido Amor, lo spiritel d’inferno,
          con doppia fiamma accolsi.
          Serp.(Deh, costei si ritrova
          duo be’ amoretti al seno;
          tardٍ, ma ? fe’ gemello.)
          O giustizia d’Amor! E’ non potea

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          contra cotesto tuo
          si ribellante core
          far uno strale solo
          degna d’Amor vendetta?
          Ma dimmi, io te ne priego,
          chi son cotesti amanti ?
          Celia.Che più debbo tacerti?
          Conosci Aminta e Niso?
          Serp.Quei che già per tuo scampo
          furon feriti a morte?
          Celia.Quegli appunto.
          Serp.Ma come
          nel tuo si forte petto in un momento
          poté far doppie le ferite Amore?
          Celia.Meraviglie n’udrai.
          Amor, che trovٍ sempre
          contra gli strali suoi forte il mio petto,
          per le ferite altrui,
          per l’altrui seno aperto
          si fé’ strada al mio core.
          Allor ch’essi feriti
          stavan colà morendo,
          tutto del sangue lor coperto Amore,
          e prese di pietà sembianze ed armi,
          sotto le ’nfinte spoglie il traditore
          venne a ferirmi il core.
          Allor presi a disdegno il cane e l’arco,
          il mar, la terra e ? cielo;
          pace per me non era,
          se non quanto là presso
          a’ feriti pastori
          stava con lor languendo.
          Quivi con le mie mani i’ rasciugava
          a le smarrite fronti
          l’agghiacciato sudor, con le mie mani
          curava le ferite.

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          Oh per me troppo crude
          feritrici ferite!
          Ben talor mi riscossi,
          fra me dicendo: — O Celia,
          or che nuovi sospiri,
          che non usato ardore
          ti si ravvolge al sen? Ma, pazzerella,
          (fra mio cor io dicea) quest’è pietade,
          ben dovuta pietà; non la conosci?
          Duolti d’aver pietade
          di chi per te si muore? — *
          Cosi, mentre credeami
          pietosa e non amante,
          lusingando i’ nudriva
          il mio fero nemico
          mal conosciuto ardore.
          Ben poscia il riconobbi.
          Oh tarda conoscenza! allor ch’amanti
          conobbi lor, conobbi
          me stessa ancor amante.
          Al lume del lor fuoco
          lo ’ncendio mio conobbi.
          Serp.E da ciascun di loro
          se’ dunque riamata?
          Oh quinci assai più lieve
          si fa la tua sciagura! Ed in che guisa
          ten se’tu pur accorta?
          Celia.E questo anco dirٍ. Per mille segni
          già mi pareva udir entro me stessa
          de l’amor loro un mormorar segreto,
          e ? cor mei ridicea; ma non so come,
          giovandomi lo ’nganno, i’ noi credea.
          Pur egli avvenne un di che mentre Aminta,
          per l’acerbo dolor de la sua piaga
          senz’ora di riposo
          traea le notti e i giorni, io per pietade

[p. 44 modifica]

          potei tanto di tregua
          impetrar dal mio pianto,
          che cantando i’ tentai
          al sonno rinvitar gli occhi dolenti:
          quand’ei ver me vibrando
          con un sospiro un guardo: — O Celia, e’ disse,
          s’io non ti veggio, i’ moro;
          e s’io ti veggio, vuoi
          ch’i’ dorma avanti al sol degli occhi tuoi? —
          Quindi tutta sorpresa,
          da lui ratto fuggendo,
          corsi là dove Niso
          a sé mi richiamava.
          Quivi da la sua piaga,
          mentr’ io la rilegava,
          un rampollo di sangue,
          non so come, spicciando,
          venne a tingermi il seno.
          Allor diss’egli : — O Celia,
          deh non aver a sdegno
          ch’a te corra il mio sangue!
          Vedi, tu se’l mio core, e quand’uom more,
          sen corre il sangue al core. —
          Cosi d’ambidue loro
          l’amoroso talento
          mi fu noto ad un punto:
          ed io, che fin allora
          mai più non ebbi udita
          voce d’amor senz’ ira,
          punsi il mio core, e volli
          destare’ncontra lor gli usati sdegni;
          ma, lassa, io non potei!
          Sentii che mal mio grado
          quell’amorose voci
          fer entro del mio core
          un rimbombo amoroso.

[p. 45 modifica]

          Repente ind’io fuggii, ma perٍ tardi,
          quantunque anco repente.
          Allor fuggii, né fia mai più ch’io voglia
          che giungan gli occhi ove sospira il core.
          Ma s’io fuggo gli amanti,
          non perٍ fuggo Amore:
          ei mi segue a la traccia
          de le cadenti lagrime,
          e tra’ più scuri orrori, ov’ad ogni altro
          sovente io mi nascondo,
          non so, credo ch’ei forse
          mi conosca a la voce
          degli alti miei sospiri.
          Ma per fuggir Amore andronne a morte.
          Serpilla, omai che tardi?
          Deh vieni, e di tua mano
          svelli da questo cor l’anima infida.
          Serp.Oh misera fanciulla!
          Deh, Celia, figlia mia, Celia, rasciuga
          il pianto, e ti consoli
          che se la piaga duol, tosto risana.
          Duolti per doppio amor esser infida?
          Amane un solo, e sia vendicatrice
          d’infedeltà la fede.
          Celia.Il tuo consiglio è vano:
          la mia piaga è insanabile.
          Ch’io n’ami un solo? e quale,
          oimè, fia ch’io disami?
          Serp.Ama solo dei due
          quel che più ? merta: è ? merto
          degna ragion d’amore.
          Celia.Ma tant’oltre i’ non veggio:
          par a questi occhi miei che ? merto loro,
          là dove ogni altro avanza,
          pari fra lor s’adegui.
          Serp.Ama solo cui prima

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          tu prendesti ad amare: è ben il tempo
          privilegio d’amore.
          Celia.Ad un tempo, ad un parto
          nacquero e si fer grandi
          i miei gemelli amori.
          Serp.,Ama solo dei due
          ’Iquel che più t’ama: amore
          al fin legge è d’amore.
          Celia.Io con ugual misura
          sparger per mia cagion gli ho visti entrambo
          le lagrime, i sospiri,
          anzi i singulti e ? sangue.
          Serp.Forza è pur che talora
          l’amoroso pensiero
          in questa parte ? ’? quella
          ondeggiando trabocchi:
          segui chi vince, ed ama
          ove più ? cor s’inchina.
          Celia.In van, ti dico, in vano
          tenti rimedio ov’il contende il cielo.
          Egli è ben ver che, mentre
          fra’ miei scuri pensieri
          vo pur talora fuor di me stessa errando,
          par che quasi di furto
          or Aminta ora Niso
          a sé ciascun mi tragga;
          ma appena i’ dico allora:
          — Son tua,—che di repente
          sorge l’altro, e mostrando
          per mia cagion anch’egli
          squarciato il petto e i panni,
          a forza di pietà me gli ritoglie.
          Cosi ’n perpetua guerra,
          alternando fra loro
          brevissime vittorie,
          non so cui dar la palma,

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          ma lascio ad ambidue,
          povera preda ed infelice, il core.
          Serp.Or cotesto è un furor; in tale stato
          non puٍ durar lunga stagione un core.
          Soffri, Clelia, e fia breve
          il tuo soffrir; brev’ora
          saprà mostrarti a cui donar la palma:
          ad Aminta od a Niso
          tutta al fin ti darai,
          e ne fia saggio consigliere il tempo.
          Celia.Ed io, perché non giunga
          l’ora giammai di si ’nfelice tempo,
          non vo’ dar tempo al tempo;
          vo’ prevenir con la mia morte il tempo.
          Serp.M’hai vinta; i’ mi ti rendo.
          E che vuoi più ch’io dica?
          S’esser non puoi fedele,
          ha per te fatta il cielo
          l’infedeltà innocente.
          Altra fuga i’ non trovo:
          amarne un sol non vuoi, amagli entrambo.
          E fa buon cor: vedrai
          de l’altre in questi campi
          che san portar più d’un bambin nel seno.
          Ecco appunto Nerea, colei che mentre
          trovٍ chi le credesse,
          ebbe sempre d’amori
          piene le mani e ? grembo:
          e si vien seco Aminta.
          Celia.O tu mi segui,
          o ti rimani: i’ parto.
          (E pur convien ch’io vada,
          quasi notturno augel, fuggendo il sole.)
          Serp.Deh torna, o Celia, ascolta! —
          Né torna, né risponde.
          Meglio fia ch’io la segua.

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          SCENA III
          Nerea, Aminta.
          Ner.E vuoi dunque ch’io parli
          d’amor a Celia, e che per Niso i’ parli?
          Malagevole impresa
          parlar d’amor a cor disamorato
          per forestiero amante !
          Amin.O mia gentil Nerea,
          per te nulla è d’amore
          malagevole impresa,
          per te, che volger sai com’a te pare
          tutto d’Amor lo ’mpero.
          Ner.Ahi, tempo ne fu ben, cortese Aminta,
          allor quand’io portava
          ne le labbra le rose, nel crin l’oro!
          Ma, la beltà sfiorita,
          ogni altra forza è gita.
          Amin.Quel ch’a tuo pro con la beltà valevi,
          a pro d’altrui or con lo ’ngegno il vali.
          Nel crine, ov’era l’oro,
          ha sparto il senno Amore, e ne le labbra,
          ove fiorian le rose, ha posto il mèle
          1 di dolci parolette, onde tu vai,
          qual più ’ngegnosa pecchia,
          entro a’ favi del core
          portando il mèi d’Amore.
          Ner.Oh vera si, ma ingrata somiglianzà!
          Pecchia son io, ch’ad altrui porto il mèle:
          io ? porto, ed altri il gode.
          Ma cosi vuole Amore,
          Amor ch’a nulla età perdona, e vuole
          che chi giovane in sé provٍ gli ardori,
          vecchio altrui li ministri,

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          ATTO SECONDO
          acciٍ ch’ad ogni tempo ogni uomo il serva
          per esca o per focile,
          per mantice o per fiamma.
          Oh che tenero core
          nelle cose d’Amor mi die natura!
          In somma io non sostenni,
          né sosterrٍ giammai,
          d’amorosa bisogna
          esser pregata o ripregata indarno.
          Aminta, eccomi presta:
          farٍ quanto richiedi.
          Ma ve’, figliuolo, oh quanto
          più lietamente udrei cotesti prieghi
          che per altrui mi porgi,
          se per te li porgessi !
          Insensato garzَn (forz’è ch’io ? dica,
          ancor ch’ai vento i’ parli),
          come senz’onta, come
          senza sdegno, senz’ ira
          di te stesso, vedrai
          ch’un pastor peregrino,
          un che l’altr’ieri appena
          giunse in queste contrade,
          un che qui non è stato
          se non con gli occhi avvolti
          infra gli orror d’una vicina morte,
          abbia perٍ saputo
          vagheggiar e bramar quella beltade,
          cui tu, che se’ pur nato
          con lei, con lei nudrito,
          né pur anco mirasti?
          Amin.Ah non son cieco!
          Ner.Tu se’ ben losco almeno,
          che losco e torto mira
          chi la beltà mirata
          non sa mandar dirittamente al core.
          G. Bonarëlli, Filli di Sciro.

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          Per te, per te, Aminta,
          o mal tuo grado avventurato Aminta,
          per te (ma tu noi sai, ma tu noi curi),
          per te nacque dal cielo
          la bellissima Celia.
          Tu noi mi credi? Mira
          quegli occhi suoi lucenti,
          questi occhi tuoi sereni :
          tai ve gli ha dati Amor, perché tra voi
          di vostre alme bellezze
          sien bei vagheggiatori.
          Quelle sue chiome intorte,
          questi increspati crini
          sembran pur nati solo
          per annodar tra voi più forte il core.
          Quella guancia pienotta,
          cotest’ancor lanuginosa gota
          son fatte a riposar G una su l’altra
          le fatiche amorose.
          La sua vermiglia bocca,
          le tue rosate labbra
          invitansi a carpir bocca da bocca
          quelle purpuree fragole,
          che ’n su le vostre labbra Amor matura.
          Ma quel suo bianco seno,
          non vedi come acerbo e tumidetto
          sfida ai sospir d’Amore
          cotesto forte e rilevato petto?
          Codardo, e tu la sfida anco ricusi?
          scortese, e tu lo ’nvito anco rifiuti?
          empio, contrasti al fato anco d’Amore?
          Amin.Oimè lasso!
          Ner.E che dici?
          Amin.Io nulla dico, oimè, sospiro appena.
          Ner.Tu sospiri? Ma donde
          il tuo fallito cor, nudo d’amore,

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          toglie’? presto i sospiri? ed a che fine?
          per parer forse sospirando amante?
          Ma che dico io? non sono,
          non son sospiri i tuoi:
          chi d’amor non sospira,
          sbadiglia, e non sospira.
          Amin.Oimè, se i miei sospiri,
          troppo veri sospiri,
          questi che ’n larga vena
          m’escon dal cor, ned io li cerco altronde,
          gissen fuori mostrando
          quel che ’n sé chiude il petto,
          Nerea, Nerea, vedrian fors’anco i sassi
          che questo cor, cui, nudo
          d’amor, fallito appelli,
          ei n’è perٍ di fiamme
          si riccamente adorno,
          che senz’aita altrui
          puٍ ben aver in sé donde sospiri.
          Ner.Odi novello Aminta,
          di grembo alla sua Silvia
          venuto or ora in Sciro !
          Ve’ come ben s’adatta
          a favellar d’amore!
          Petto, cor, fiamme, amor, sospiri, omei,
          queste son tutte voci
          d’amoroso linguaggio:
          cosí parlan gli amanti
          là nel regno d’Amore.
          Ma tu, quando giammai
          fost’in quelle contrade?
          ov’imparasti la natia favella?
          Amin.Colà nel mezzo appunto
          del bel regno d’Amore.
          Quivi pur io fui tratto, e si m’aggrada
          l’aer di quel paese,

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          che, bench’io per me’l veggia
          nubiloso e tonante,
          ^ altro ciel non mi piace.
          Ner.Ma tu mi parli in guisa,
          e si bene accompagni
          co’ sospiri le voci,
          con le voci i sembianti,
          ch’omai ti crederei
          da vero innamorato.
          Amin.Con amor non si finge.
          Da vero un tempo i’ l’ho fuggito; or quando
          ei m’ha pur giunto, ed io da vero il seguo.
          Ner.Oh possanza infinita,
          contra di cui non vai fuga né schermo!
          Or sia lodato Amore, Amor che diede
          al marmo del tuo cor sensi di vita.
          Ma non vorrai tu dirmi
          chi sia colei, cui scelse
          per degna scorta a si grand’opra Amore?
          Amin.Troppo fin qui n’ho detto:
          ma il lagrimar del core
          fa sdrucciolar la lingua.
          È tempo omai ch’io taccia.
          Ner.A me tacere? Or a tua voglia taci,
          che se pur io son quella,
          quella che volger sa come a lei piace
          tutto d’Amor lo ’mpero,
          vorrai fors’anco un di che per tu’ aita
          io le tue fiamme ascolti,
          e quanto or tu se’ muto,
          io sarٍ sorda allora.
          Amin.Parliam d’altro, Nerea; parliam di Niso:
          a pro di lui t’adopra; io per me nulla
          bramo, spero né cheggio.
          Ner.Oh che rustico amante!
          Se ’n cor selvaggio amor alligna, sente
          del selvatico anch’ei. Guata che amore!

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          amor senza desio, senza speranza!
          Ma sia com’a te piace:
          per Niso adoprerommi ;
          e se puote in amor ingegno od arte,
          farٍ ne’ suoi contenti
          che tu pentito del tuo error t’avveggia.
          Allor che tu vedrai
          la freddissima Celia,
          quella massa di neve,
          per opra di mia mano
          (e fia de la mia mano opra vulgنre),
          allor che la vedrai
          arder tutta d’amore, e ’n questi campi,
          in questi propri campi
          che con l’errante piede
          cacciatrice indefessa or va stampando,
          allor che la vedrai
          in braccio al suo bel Niso infra l’erbette,
          cacciatrice di fere
          fatta preda d’Amore,
          che fia, lasso, di te? So ben ch’allora
          tu mi verrai d’intorno, e lusinghevole:
          — O Nerea (mi dirai), Nerea, aita! —
          Ma certo in van, perch’io
          ridendo schernirٍ le tue lusinghe.
          Amin.E speri, oimè, con Celia,
          e con Celia per Niso,
          speri forse cotanto?
          Ner.Il mio potere inforsi?
          Con Celia, e con ogni altra
          d’amor più dispietata;
          per Niso, e per ogni altro
          d’amor più sfortunato,
          si ch’io spero cotanto.
          Farٍ Celia di Niso.
          Amin.(Oimè, son morto!)
          Ner.E tua farٍ qual’altra

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          brama il tuo amor, se G amor tuo mi scopri.
          Amin.Celia fatta di Niso,
          altro non ho ch’io brami.
          Ner.Ma tu perché ti lagni? Or che se’ a tempo,
          il mio soccorso impetra.
          Amin.(E sarà dunque Celia, oimè, di Niso?)
          Ner.(Egli sen turba. Certo
          costui m’inganna, ed altro
          brama di quel ch’e’ chiede.
          Io ? vo’ tentar, che raro
          nasconder puٍ se stessa alma turbata.)
          Omai che più ti duole?
          Celia sarà di Niso,
          cosi come richiedi. Egli è ben vero
          che, con minor fatica,
          ella saria d’Aminta,
          s’Aminta, come Niso,
          a quella fiamma ardesse.
          So ben io quel ch’io dico:
          ma non si deon ridir si di leggiero
          i segreti pensier de le fanciulle
          a cui di lor non cale.
          Amin.Odi: non mi tentar, per Niso i’ parlo;
          per Niso i’ vo’ che parli.
          Ner.(Già crolla, e cadrà tosto.)
          Cosi farٍ: ma quando
          costei pur si trovasse
          inesorabilmente
          contra Niso ostinata,
          allor non mi concedi,
          che per te la ritenti?
          Non ogni donna è contr’ogni uom crudele.
          Amin.(Costei mi smuove il cor, né posso aitarlo.)
          Ma che diria poi Niso?
          Ner.— Aminta fece
          più per me che per lui, ed io mi godo

[p. 55 modifica]

          che sien fortuna sua le mie sciagure. —
          Ecco quel ch’ei diría. Ma tu che pensi?
          A che grattar il capo,
          se ? prurito è nel core?
          Amin.Mercé, mercé, son vinto!
          Or m’ascolta, o Nerea. (Ah taci, taci,
          troppo tenero amante,
          poco fedele amico !
          Meglio fia ch’io mi parta.)
          Io vo, Nerea: tu ? mio desire udisti.
          Parlo di Niso, intendi?
          SCENA IV
          Nerea.
          O nulla mai d’amore intesi, o certo
          arde per Celia Aminta.
          Ma che parla e’ di Niso?
          Forse è follia d’amante:
          s’infinge forse, e vuole
          col finto amor di Niso
          tentar di fede il cor de la sua ninfa.
          O giovanetto incauto,
          tentar di fé con nuovi amor le donne?
          fidar l’esca a le fiamme?
          creder le piume al vento? Ah tu non sai
          quanti io n’abbia veduti a cotai prove
          pentiti andar piangendo!
          O fors’anco è pietà d’amico, forse
          è ver che Niso anch’egli
          arde per Celia, e ? sempliciotto Aminta
          parla per lui, né sa che ’n sua ragione
          amici Amor non cura.
          Ma sia che vuoisi; giovi

[p. 56 modifica]

          credergli amanti entrambe»,
          per aver doppie l’armi, ond’io più forte
          il duro sen de la crudele assalga.
          Andrٍ movendo al cor de la fanciulla
          ambedue queste fiamme,
          perch’una almen s’apprenda.
          Dipingerٍ pietosa agli occhi suoi
          per sua cagion ambo condotti a morte,
          e le dirٍ da parte
          e del padre e d’Amore
          che ’n sua man n’è la scelta.
          Pazzarella, se vuoi
          ne la copia d’amanti
          impoverir d’amore!
          Deh, s’io potessi!... Cangia,
          cangia meco fortuna,
          ninfa crudele e bella, e tu ti prendi
          il mio ’nfocato core, o tu mi presta
          il tuo dorato crine.
          Son troppo fieri mostri
          con la chioma di neve un cor di foco,
          o con la chioma d’oro un cor di ferro.
          Ma vado or ora a ritrovarla, e certo
          la vincerٍ costei,
          che raro avvien al fin che donna bella,
          ardendo altri per lei, non arda anch’ella.