Giacomo Leopardi/III. 1815: «Saggio sugli errori popolari degli antichi»

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III. 1815: «Saggio sugli errori popolari degli antichi»

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III. 1815: «Saggio sugli errori popolari degli antichi»
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III

1815


«SAGGIO SUGLI ERRORI POPOLARI
DEGLI ANTICHI»

In quest’anno continuò i suoi lavori sopra gli scrittori latini e greci de’ secoli della decadenza, non intermettendo le letture e i soliti esercizii, trascrivere, annotare, interpretare, correggere.

In sei mesi scrisse In Julii Africani Cestos, lavoro che il De Sinner giudica dottissimo. Di quest’opera di Giulio Africano, che tratta di agricoltura, di fisica, di arte militare, di medicina, non restano che pochi frammenti. Era un’altra rovina da disseppellire. E il giovine dottissimo confronta codici, fa il solito commentario De vita et scriptis, e traduce, emenda, annota i primi ventisette capitoli.

Tutta questa dottrina doveva avvezzarlo a cercare nelle quistioni il pensiero altrui, anziché a meditarvi lui. La sua intelligenza era dominata dalla sua dottrina.

Né il gusto era molto sicuro. Metteva in un mazzo grandi e mediocri, Tacito e Frontone, Livio e Dionisio d’Alicarnasso. Il dottissimo latinista ed ellenista, seppellito in quei secoli della decadenza, pieno il capo di forme greche e latine, restitutore di testi, comentatore paziente e minuto, sotto abito antico era un vero figlio del secolo decimottavo, al quale appartenevano ancora tutti, retrivi e liberali. Dice di sé, in una lettera a Pietro Giordani, che a quel tempo aveva pieno il capo delle massime [p. 14 modifica]moderne, sprezzava Omero, Dante e i classici, non pregiava che francesi, e i primi suoi scrittacci originali non furono che traduzioni dal francese.

La Francia era allora nella pubblica opinione «à la tête de la civilisation», per dirla alla francese, e si disputava seriamente quali fossero più grandi scrittori, o i greci o i francesi, Euripide o Racine, Sofocle o Corneille.

Con queste impressioni il suo scrivere era un italiano corrente, venutogli attraverso il francese. Le sue opinioni si accostavano anche a quelle del secolo. Pei giovani ha ragione sempre il secolo che ultimo parla. A sentirlo, Aristotile è il tiranno della ragione, e non bisogna giurare a «in verba magistri», e bisogna pensare col capo suo — ma nol dice questo, col capo suo — , e il mondo è pieno di errori e di superstizioni; e se una riforma universale è cosa ridicola, bisogna pure acconciarsi a questa o a quella riforma.

Fin qui arrivava lui, e ci stavano in generale gli uomini colti. Quelle massime in quella misura così temperata, già fu tempo, erano partecipate anche da’ principi.

Il giovanetto scriveva:

Credere una cosa perché si è udito dirla e perché non si è avuta cura di esaminarla, fa torto all’intelletto dell’uomo. Una tal cecità appartiene a quei tempi d’ignoranza, nei quali si stimava saggio chi obbediva al tiranno della ragione, e chi giurava sulle parole di Aristotele.

Ecco linguaggio di secolo decimottavo. E prima aveva già detto:

Si deridono con ragione i progetti di riforma universale. Frattanto è evidente che v’ha che riformare nel mondo, e fra tutti gli abusi, quelli che riguardano l’educazione sono, dopo quelli che interessano il culto, i più perniciosi.

Sembra un periodo tradotto dal francese, con lieve movenza italiana. Ma il secolo decimottavo nelle sue applicazioni andò [p. 15 modifica]ad un punto, che il giovanetto non poté più seguitarlo. Que’ princípi, ancora astratti, ancora idillici, ricevuti da tutti, e prima dai nobili e dai principi, presero corpo, divennero l’Ottantanove e il Ventuno gennaio, e la Convenzione e i giacobini, e Bonaparte, che orrore! giunse a mettere la mano sino sul papa. Immaginate quale impressione dovettero produrre que’ fatti su di un buon suddito pontificio, qual era il conte padre, e che ambiente si formò in quella casa e in quel paese, e quali potevano essere le opinioni di Giacomo. La Francia «scellerata e nera», come la chiamò in uno di que’ tanti versi giovanili presto cancellati, divenne la grande colpevole, personificata ne’ giacobini, nemici del trono e dell’altare.

Così letterariamente il giovane era francese e secolo decimottavo; politicamente vi si ribellava, e si stringeva alla religione come sola salute contro gli eccessi della filosofia e della ragione.

Tale era Giacomo a diciassett’anni, nel 1815, quando compose il Saggio sugli errori popolari degli antichi. Quel saggio pieno di erudizione conteneva idee «sane», come si diceva allora, e dové parere portento tanta dottrina in così giovane età. Pur non fu potuto pubblicare a Roma, e, mandato il manoscritto all’editore Stella, in Milano, si smarrì, e non fu ritrovato e pubblicato che dopo la morte dell’autore, nel 1846. Sainte-Beuve dice «qu’il présente déja les résultats d’un esprit bien ferme»; Viani lo chiama opera virile; Ranieri ci trova profonda e vasta erudizione, e De Sinner lo chiama «admirandae lectionis et eruditionis opus». Questi elogi non solo valuti ad acquistare molti lettori al libro, rimasto materia archeologica dell’ingegno leopardiano, buona a cercarvi le prime formazioni.

Messi quegli studi, quella biblioteca, quell’educazione, quel gusto, quelle opnioni e quell’ambiente, nessuno stupirà che ne sia uscito quel saggio.

Il giovane discorre tutti gli errori de’ greci e de’ romani, teologici, metafisici e fisici, per dar risalto al beneficio fatto all’umanità dal Cristianesimo che ce ne ha liberati, ancoraché parecchi di quelli errori continuino sotto altre forme presso le [p. 16 modifica]ignoranti moltitudini. E vuol far ben comprendere che la religione, anzi la Chiesa, è il piú sicuro rimedio contro gli errori e le superstizioni, e che la filosofia e la ragione abbandonate a sé danno pessimi frutti. Veduto da Recanati e dalla casa paterna, questo libro ci par cosa naturalissima, come ci pare il libro Dell’antichissima sapienza degl’italiani di Giambattista Vico, veduto dalla solitudine della biblioteca. Ma se lo guardiamo da più vasti orizzonti, quel libro ci farà stupore. Cosa era l’Europa allora? Che movimento c’era ne’ fatti e nelle idee? Quando Leopardi aveva quattordici anni, era il 1812, spedizione di Russia; e quando componeva il Saggio, era il 1815, Waterloo e la Santa Alleanza. E queste lotte e questi avvenimenti politici avevano a loro base un gran mutamento nelle idee, più forte contro Napoleone e il secolo da lui rappresentato, che non furono i battaglioni angloprussiani. Era il risveglio dello spirito e dell’ideale, della giustizia, della libertà, della patria contro un uomo e un secolo personificato nelle matematiche e nei gros bataillons.

C’era in quel movimento d’idee Schiller e Goethe e Fichte e Chateaubriand e la Stäel, e più tardi Hugo e Lamartine. E c’era allora un italiano a Parigi, mescolato in quel gran moto di fatti e d’idee, e caldo il petto di quello spirito nuovo, che pubblica gl’Inni in quell’anno appunto che Leopardi, con in capo la biblioteca, scrive il Saggio sugli errori popolari degli antichi. Medesimo scopo in tutti e due, l’apoteosi della religione. Ma l’una era opera viva e l’altra opera morta. Gl’Inni parvero il segnale di una nuova letteratura e di un nuovo moto d’idee, ebbero edizioni e imitatori: c’era lì dentro passione e ispirazione. Il Saggio è il prodotto dell’ambiente e della tradizione, una tradizione passivamente ricevuta, non ventilata, non assorbita nella propria personalità. Lì era il principio di un mondo nuovo; qui lo strascico di un passato che moriva. Lo scopo del Saggio è la semplice «etiquette», un pretesto, senza che il giovane ne abbia coscienza. È un pretesto che gli offre occasione magnifica di metter fuori quell’immenso materiale di conoscenze condensato nel suo cervello. A dimostrare verità di fatto che tutti sanno, e che nessuno contrasta, ecco una filza di citazioni, una [p. 17 modifica]processione di autori, diversi di valore e di autorità, e messi alla rinfusa l’uno accanto all’altro. La biblioteca a poco a poco gli esce tutta di sotto la penna. In tutta questa erudizione non ci vedo ancora discernimento o profondità, e non «un esprit ferme», e non opera virile, dove non apparisce ancora personalità e originalità, e ci vedo solo quello che ci ha visto De Sinner: «admirandae lectionis et eruditionis opus». Non ci è qui dentro interesse morale, o filosofico o artistico. È una materia trattata con i materiali che aveva, e da que’ materiali esce non altro che un’opera meravigliosa di erudizione.

Il Saggio è scritto nell’italiano corrente di quel tempo, prima che sorgesse il purismo. Vi troviamo «rimarco» con tutti i suoi figli e nipoti, il «piano» o l’«idea» di un’opera, e la meditazione «toccante», e il «trasporto» d’amore, vocaboli, modi e costrutti, e gallicismi con molta volgarità e con poca proprietà. Manca spesso la connessione grammaticale com’è nel francese, e manca talora anche la connessione logica, con un prima e un poi arbitrario, come viene in mente.

Manca all’espressione semplicità e schiettezza, anzi, a ostentazione di sentimenti fittizii, ha pure talora un lusso di vecchie metafore. Valga a esempio la conchiusione. Vuol dire che la religione caccia l’errore e apre la via del vero alla ragione. E non lo dice già in questo modo semplice. Vuol mostrarsi appassionato, e ti fa un’apostrofe alla religione e conchiude così:

Tu hai fulminato l’errore, tu hai assicurata alla ragione e alla veritá una sede che non perderanno giammai. Tu vivrai sempre, e l’errore non vivrà mai teco. Quando esso ci assalirà, quando coprendoci gli occhi con una mano tenebrosa minaccerà di sprofondarci negli abissi oscuri che l’ignoranza spalanca avanti ai nostri piedi, noi ci volgeremo a te, e troveremo la verità sotto il tuo manto. L’errore fuggirà come il lupo della montagna inseguito dal pastore, e la tua mano ci condurrà alla salvezza.

Sono metafore, paragoni, frasi trovate belle e fatte nell’uso corrente, volgari e insieme grottesche. [p. 18 modifica]
Questo Saggio ha grande importanza nella storia di Leopardi, perché prima e piena rivelazione del suo animo. L’erudito abitava in ispirito tra greci e romani, fuori del mondo vivo contemporaneo. Qui ti sta innanzi con le sue opinioni religiose e col suo gusto letterario.

Egli è ancora il prodotto spontaneo e inconscio della natura e dell’educazione, come siamo tutti, più o meno, in quella età. E quantunque declami contro il tiranno Aristotile, predichi il libero esame, si vede che il suo spirito non ha acquistata ancora la sua indipendenza nelle opinioni e nella forma dello scrivere. Pure, il secolo decimottavo c’era per qualche cosa in quest’ambiente, e te ne accorgi qui, dove è visibile un certo ardore di riforma, un desiderio del nuovo, una smania battagliera; parla sempre lui, e non ha a fronte contraddittori, e corre l’aringo tutto solo, vociferando e minacciando.

In quest’anno Gioacchino Murat, levato lo stendardo dell’indipendenza italiana, e trovato scarso riscontro ne’ cittadini, cadeva tra gli urli e le contumelie della reazione. Tra queste voci sentiamo pur quella del piccolo Giacomo in una orazione scavata e pubblicata testé dal Cugnoni. Nel Saggio vediamo le sue opinioni religiose; qui par fuori l’ambiente politico, del quale il giovanetto era una eco appassionata e presuntuosa. Voleva rifare Demostene e Marco Tullio, immaginando negl’italiani un uditorio ateniese o romano. Nell’orazione si vede il frasario della reazione europea, mescolato con generalità cavate dal suo repertorio classico. Assale i vinti con ogni maniera d’ingiuria; e i vinti sono Napoleone, il nemico di Europa, Gioacchino, carnefice, tiranno, ladrone, e il popolo francese, vile e ribelle, degno della vendetta dell’universo. Le contumelie contro i vinti rispondono alle glorificazioni eccessive de’ vincitori. La lingua è barbara; lo stile è gonfio; l’impressione è fredda. Non trovi un solo punto, che mostri moto di spirito o di cuore.

Pure, se guardiamo per entro alle fila non mal connesse di questo lavoro, si vedrà che il giovane oratore della Santa Alleanza non ha un linguaggio tale, di cui la reazione si potesse chiamar contenta. Mira a convincere la parte liberale, più che [p. 19 modifica]a glorificare i princìpi legittimisti. Spesso ti parla di libertà, con un odio verso i tiranni. A sentirlo:

l’Europa unita, in nome de’ sacri diritti delle nazioni, giura di non deporre le armi, finché non abbia schiacciata l’idra antica, e ingiuriosa all’uman genere della tirannia... Tiranni! esecrazione dei popoli, orrore dei posteri, abbominio dei secoli! tremate...

Così tuona quel giovinotto, in nome di una libertà, di cui gli giunge il grido da Tacito e da Cicerone. — Non troppo zelo — , potevano dirgli i retrivi, campioni della Santa Alleanza. Ammette la legittimità col suo diritto divino, come cosa fuori di discussione e di esame, a quel modo che ammetteva il Vangelo e il Catechismo. Ma accanto alla legittimità trovi il diritto e la libertà de’ popoli e il buon governo, come condizione della sua durata. Non condanna assolutamente l’impresa della unificazione italiana; la crede solo poco opportuna, non conforme alla prudenza e alla saviezza, e promettitrice di nuova tirannia e di nuovo servaggio alla Francia, venendo da uomo francese e tiranno. Crede l’Italia unita e indipendente fattrice di grandezza e di gloria, e ricorda le gesta de’ romani. Ma il borghese di Recanati si ribella a quelle storie eroiche, descrivendo con belle amplificazioni i mali che ne venivano, e preferisce la quietudine e la prosperità di quegli staterelli italiani, dove fiorivano le arti e le scienze, l’agricoltura e il commercio.

Come si vede, c’è nell’ambiente morale del giovine una certa mescolanza di vecchio e di nuovo, di classico, di biblico e di contemporaneo; e, quantunque gridi contro la Rivoluzione francese, c’è nel suo spirito una stoffa rivoluzionaria in formazione, aggregata a tutto il resto, che nel Saggio è voce di riforma e di libero esame, e qui si esprime come moderazione e attenuamento di tutto ciò che in casa e a scuola aveva trovato di assoluto e di eccessivo. Il demonio è entrato, malgrado la guardia del padre, e si fa valere in mezzo a tutti quegli elementi ereditarii, scolastici, locali, divenuti materia abituale e monotona. Ciò che è in lui più attivo è il demonio nella sua forma piú innocente, [p. 20 modifica]che s’insinua in quella materia, e la mescola e l’intorbida e le scema coesione e consistenza.

Né questo gli viene già da un ambiente europeo, come fu il caso del Manzoni. Egli ignora Chateaubriand, Fichte, Schlegel, Stäel, De Maistre, tutto quel gran moto ideale, da cui era uscito il nuovo secolo. Egli ignora anche Voltaire e Rousseau, i grandi colpevoli del secolo decimottavo, ch’egli maledice per abitudine e per imitazione. Pure, c’era l’aria infetta, che aveva portata l’epidemia fino nella sua piccola provincia; per là era passata la rivoluzione e ci aveva lasciato un nuovo clima morale, sì che gli uomini più pacifici e più abbarbicati al passato usavano senz’avvedersene il suo linguaggio, e la stessa reazione per combattere Napoleone prendeva aria di liberalismo cristianizzato, e predicava libertà ed eguaglianza, e declamava contro la tirannide. Questo spiega la naturale e spontanea elaborazione di tali idee nello spirito semplice del giovinetto.

In questo tempo egli doveva aver concepita una grande opinione di sé. Le sue infinite conoscenze, la sua perizia non ordinaria delle lingue classiche, gli elogi che gli venivano da Roma e di uomini celebri, il successo clamoroso delle sue recitazioni pubbliche generavano in lui la credenza d’essere già un piccolo grand’uomo. Entrava nella vita con aria di maestro, disposto a far la lezione a tutti, e guai al primo che gli capiti sotto! Nella sua presunzione si sentiva lieto, contento di sé, e guardava sicuro nell’avvenire.