Il cavalier Giocondo/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera.

Gianfranco e Lisaura da pellegrini, e Nardo.

Nardo. Il padrone è impedito.

Gianfranco.   Vi prego.
Nardo.   Signor sì.
Anderò ad avvisarlo; trattenetevi qui. (parte)
Gianfranco. La solita risposta che i servi soglion dare:
Il padrone è impedito, non gli si può parlare.
Lisaura. Non fan per sostenere dei padroni il decoro;
Ma son gente maligna, voglion tutto per loro.
Gianfranco. Di qua non partiremo, se il Cavalier non viene.
Necessario è il coraggio, e sofferir conviene.

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Lisaura. Chi sa ch’ei non ci faccia un generoso invito?

Questa mane, per dirla, sto bene d’appetito.
Gianfranco. Ed io non istò male.
Lisaura.   Dite, come vogliamo
Regolarci parlando? S’ha da dir chi noi siamo?
Gianfranco. Non so. Vediamo prima che faccia ha il Cavaliere.
Secondo ch’ei ci tratta, ei saprem contenere.
Sarem moglie e marito, se il caso lo permette.
Saprò, quando abbisogni, sognar le favolette.
Il cuor delle persone conosco a prima vista;
E chi l’umor seconda, il credito s’acquista.
Lisaura. Vien gente. Che sia questi della casa il padrone?
Gianfranco. Può essere. M’han detto ch’egli ha del bernardone.

SCENA II.

Fabio e detti.

Fabio. Chi è che ’l padron domanda?

Gianfranco.   Siamo noi, Eccellenza.
Lisaura. Siamo noi che bramiamo di fargli riverenza.
Fabio. Il titolo, figliuoli, indietro ritirate.
Io il padrone non sono.
Gianfranco.   No, signor? perdonate.
Cera avete per altro di nobile e cortese.
Siete voi cavaliere?
Lisaura.   Siete voi del paese?
Fabio. Amici, vi ho capito. Anch’io conosco il mondo;
Sono il mastro di casa del Cavalier Giocondo.
Gianfranco. Signor mastro di casa, la prego in cortesia...
Fabio. Ehi, chi è questa signora? (piano a Gianfranco)
Gianfranco.   È la consorte mia.
Fabio. (Consorte, che vuol dire compagna della sorte,
Non di quelle che debbono durar sino alla morte).
(da sè)

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Lisaura. (Parla piano e mi guarda; che abbia di noi sospetto?)

(da sè)
Fabio. (Che garbata signora! Mi piace quel visetto), (da sè)
Se di me vi degnate, vi fo un cordiale invito.
Gianfranco. Lo gradirà mia moglie.
Fabio.   Vostra moglie! Ho capito.
Lisaura. Gradirò, sì signore, la vostra esibizione;
Ma riverir vorrei, se potessi, il padrone.
Fabio. Quello vi preme; in fatti può spender più di me.
Gianfranco. Abbiamo un interesse col Cavalier.
Fabio.   Non c’è.
Gianfranco. Ha detto il servitore che e’è, ma ch’è impedito.
Fabio. Allor ci sarà stato; or di casa è sortito.
Gianfranco. Fatemi questa grazia. Signor, siamo viandanti.
Ma non siamo impostori, nè poveri birbanti.
Bisogno non abbiamo di pan per isfamarci.
Sotto di queste spoglie per or dobbiam celarci;
Ma ci farem conoscere. Il Cavalier vogliamo.
Abbiam le credenziali; ei saprà chi noi siamo.
Fabio. Saran, già lo provedo, le vostre credenziali,
Patenti per avere l’alloggio agli ospedali;
Un qualche passaporto carpito altrui di mano,
O qualche privilegio per fare il ciarlatano.
Lisaura. (Questi non fa per noi). (da sè)
Gianfranco.   Io non mi scaldo, amico.
Il Cavaliere aspetto.
Fabio.   Egli non c’è, vi dico.
Gianfranco. A pranzo tornerà.
Fabio.   Non torna in tutto il dì.
Gianfranco. Tornerà questa sera. L’aspetteremo qui.
Fabio. Questa è troppa insolenza.
Lisaura.   Via, signor maggiordomo,
Non siate così austero. L’uomo vive dell’uomo.
Siete voi ammogliato?
Fabio.   Nol son, per mia fortuna.

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Lisaura. Avrete delle amanti.

Fabio.   Sì, ne ho qualcheduna.
Lisaura. Si coltivan le donne talor coi regaletti.
Vo’ per le vostre belle donarvi due fioretti;
Sono fatti in Venezia; sono all’ultima moda:
Godeteli, e lasciate che al mondo ognuno goda.
Gianfranco. Mia moglie è generosa, ed io non men di lei.
Signor mastro di casa, saprò i doveri miei.
Fabio. Amici, dovevate parlar così a drittura.
Con me non l’indovina chi vien con impostura.
Parlerò col padrone di voi con carità;
Con lui sappiate fare, vi beneficherà.
Parlategli di cose grandiose e forestiere;
Credulo facilmente di tutto è il Cavaliere.
Ora lo mando qui. Sta a voi di far pulito.
Poscia ci rivedremo. Addio, moglie e marito.

SCENA III.

Gianfranco, Lisaura; poi il Cavalier Giocondo.

Gianfranco. Navigar ci conviene a seconda del vento:

Secondo le persone, si cambia il portamento.
Lisaura. Spiacemi ch’ei non creda che siam marito e moglie.
Gianfranco. Basta che non ci scacci per or da queste soglie.
A tempo coi fioretti l’avete guadagnato.
Lisaura. Sotto la vostra scuola a vivere ho imparato.
Gianfranco. Questi mi par che sia...
Lisaura.   Il Cavalier mi pare.
Gianfranco. Qualche novella favola ci converrà inventare.
Cavaliere. Chi è qui? Chi mi domanda?
Gianfranco.   Signor.
Cavaliere.   Due pellegrini?
Volete l’elemosina? Tenete due quattrini.
Gianfranco. Vostra Eccellenza sappia...
Cavaliere.   Galantuomo, aspettate.
Vi donerò uno scudo; mi par che ’l meritate.

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Gianfranco. Signor, noi non abbiamo bisogno di danaro.

Il vostro patrocinio per or ci sarà caro;
E questo può giovarci più assai delle monete,
Se udir i casi nostri, signor, vi degnerete.
Cavaliere. (Ricusano il danaro? Che stravaganza è questa?) (da sè)
Buona gente, chi siete?
Gianfranco.   Quella è una donna onesta;
Io sono un galantuomo. Non siam sposati ancora;
Ma il ciel qui n’ha condotti, e di sposarci è l’ora.
Cavaliere. Veniste in casa mia per fare il matrimonio?
Vi posso, se volete, servir di testimonio.
Alloggio vi darò, se alloggio ricercate;
Basta che l’esser vostro saper voi mi facciate.
Lisaura. Signore, l’esser nostro ignobile non è...
Gianfranco. Deh, lasciate la storia tutta narrare a me.
Cavaliere. Lasciate ch’ei la narri, graziosa pellegrina.
Lisaura. Vostra Eccellenza scusi.
Cavaliere.   È civile e bellina.
Gianfranco. Signore, un gran segreto vengo a svelare a voi;
Un prodigio del cielo rileverete in noi.
Schiavo fui fatto in mare da un algerin mercante,
E fui forzato in Tunisi a prendere il turbante.
Feci il corsaro anch’io, girando qua e là,
E poscia di Marocco mi fecero bassà.
A caso nel serraglio, non so dir come, andai;
Vidi quella ragazza, di lei m’innamorai;
Ma disperando altronde poterla conseguire,
Pensai di farla meco da Tunisi fuggire.
Il tempo, il luogo, il modo da noi si concertò;
Or non vi narro il come, un dì vel narrerò.
Bastivi che una notte, sopra una saica uniti,
Siamo con trenta schiavi da Tunisi fuggiti.
Posi nel bastimento tutto l’argento e l’oro:
Abbiam (nessun ci sente), abbiam nosco un tesoro.
In abito succinto andiam di pellegrini,

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Ma una cintura ho piena di doppie e di zecchini.

Portai quel che ho potuto, ma si è investito il più
In vini ed uve passe, passando da Corfù.
Ora, signor mio caro, siamo da voi venuti,
Chiedendo protezione pria d’esser conosciuti.
Tornando al suo paese un uom che ha rinnegato,
Puol esser giustamente fermato e gastigato.
Sposar noi ci vorremmo, e non sappiamo il come.
Sentito ho a decantare per tutto il vostro nome.
Si vede che mostrate la gentilezza in faccia.
Eccomi a’ piedi vostri; son nelle vostre braccia.
Cavaliere. Alzatevi. Oh che caso! oh che contento è il mio!
Lisaura. Signore, a’ vostri piedi ecco mi getto anch’io.
Cavaliere. Alzatevi, signora. D’avervi meco io godo;
Di far quel che va fatto, noi penseremo il modo.
Frattanto trattenetevi in questo appartamento;
Avrete in casa mia l’alloggio e il trattamento;
E se mai vi pesasse quella cintura indosso,
Le doppie ed i zecchini nascondere vi posso.
Gianfranco. Sì signor, questa sera ve li consegnerò,
Lisaura. (Come si sia sognate tante bugie non so). (da sè)
Cavaliere. Ho forestieri in casa che abbandonar non devo.
Consolazion più grande sperar io non potevo.
Il nome vostro? (a Gianfranco)
Gianfranco.   Il mio nome nativo fu
Gianfranco, e mi chiamavano in Tunisi Caicù.
Cavaliere. E voi? (a Lisaura)
Lisaura.   E il nome mio fu Lisaura in Toscana,
Nel serraglio di Tunisi chiamata Caicana.
Cavaliere. Signora Caicana, amico Caicù,
Ora con nomi tali non vi chiamate più.
Tornerete Lisaura; Gianfranco tornerete;
In me di vostre nozze il paraninfo avrete.
E sarà gloria mia far noto a tutto il mondo
Che vostro protettore è il Cavalier Giocondo. (parte)

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SCENA IV.

Lisaura e Gianfranco; poi il Marchese.

Gianfranco. Mi son portato bene?

Lisaura.   Davvero, a maraviglia.
Gianfranco. Ingegnosa è la fame, quando davver consiglia.
Marchese. (Pellegrini?) (da sè, osservandoli)
Lisaura.   (Chi è questi?) (piano a Gianfranco)
Gianfranco.   (Parmi averlo veduto).
(a Lisaura)
Marchese. (Colui mi par altrove averlo conosciuto). (da sè)
Lisaura. (Andiam nell’altra stanza). (piano a Gianfranco)
Gianfranco.   Non facciam sospettare.
Marchese. Amico. (a Gianfranco)
Gianfranco.   Vi son servo.
Marchese.   Non credo di fallare.
Favorite di grazia, non siete il pellegrino
Che un dì faceva in piazza l’astrologo a Torino?
Lisaura. (Siam conosciuti).
Gianfranco.   È vero. A voi non vo’ negarlo.
Ma pregovi, signore, per grazia, di celarlo.
Promesso ha il Cavaliere di farmi carità;
Perdo un poco di bene, se l’esser mio si sa.
Potrebbe provvedermi la mia virtude in piazza;
Ma abbandonar non voglio quella buona ragazza.
Marchese. Che roba è?
Gianfranco.   Onestissima.
Lisaura.   Signor, non mi crediate...
Marchese. Saper io non mi curo chi siate o chi non siate.
(a Lisaura)
Ho bisogno di voi. (a Gianfranco)
Gianfranco.   Potete comandarmi.
Col Cavalier vi prego però non rovinarmi.
Marchese. Con lui non parlerò. Basta che voi venghiate
Meco da una signora. Vo’ che l’astrologhiate.

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V’insegnerò di lei, e d’un figliuol che ha seco,

Quel che dovete dire. Andiam. Venite meco.
Gianfranco. Ma la compagna mia?
Marchese.   Lasciatela per poco.
La dama è in questa casa; presto facciamo il gioco.
V informerò di tutto ben bene nel cammino,
E voi comparirete bravissimo indovino.
Gianfranco. Signor, da quel ch’io vedo, sarete persuaso.
Che senza tali aiuti noi favelliamo a caso.
Anche la nostra è un’arte che vien dall’impostura;
Che il ver colla menzogna di colorir procura.
Che fa, come tant’altre, i suoi castelli in aria,
Ma è meno fortunata, perch’è men necessaria.
Dì più non vo’ spiegarmi. Chi è astrologo, indovina.
(da se)
Marchese. Non so se dire intenda di legge o medicina.

SCENA V.

Lisaura, poi don Alessandro.

Lisaura. Parte, sola mi lascia, e non mi dice nulla.

È vero ch’io non sono sì timida fanciulla;
Ma il Cavalier, se torna e trovami soletta?
Anch’io saprò narrargli qualch’altra favoletta.
Alessandro. Bellissima Lisaura.
Lisaura.   Oh mio signor, chi vedo?
Alessandro. Voi siete qui?
Lisaura.   Ci sono.
Alessandro.   Sogno? veglio? o travedo?
Lisaura. Si signore, son io; mi avete ritrovata
Alfin, dopo tre anni che mi avete piantata.
Alessandro. Bella, vi chiedo scusa. Confesso il proprio errore:
Noi padroni non siamo talor del nostro cuore.
Veduto ho una bellezza che m’ha colpito il seno:
D’amarla e di seguirla non potei far a meno.

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Lisaura. Questa, don Alessandro, questa è un’azione indegna.

Badar colle fanciulle dee l’uom come s’impegna.
Orfana er’io di padre; voi, per crude! destino...
Alessandro. Ditemi, pellegrina, avete il pellegrino?
Lisaura. Sì, traditor; finora seguiti ho i passi suoi.
Per non tornar a casa, per rintracciar di voi.
Alessandro. Siete sposa?
Lisaura.   Nol sono, senza licenza vostra.
Alessandro. Vi sposerete subito alla presenza nostra.
Lisaura. A me più non pensate?
Alessandro.   Seguo un’altra signora.
Lisaura. E vi siete scordato...
Alessandro.   Me lo ricordo ancora.
Lisaura. E soffrirete adunque lasciarmi in abbandono?
Alessandro. Vorrei e non vorrei... impegnato ora sono.
Servo una viaggiatrice sofistica, impaziente.
Voi foste, per dir vero, graziosa, sofferente.
Basta, risolverò.
Lisaura.   Sentite, ho da informarvi...
Alessandro. La signora m’aspetta; tornerò ad ascoltarvi.
Lisaura. Una parola almeno...
Alessandro.   Per ora non si può.
Madama mi strapazza, se presto a lei non vo.
Lisaura. E voi siete sì buono a tollerar tal pena?
Alessandro. Ah, chi sa ch’io non torni alla prima catena? (parie)
Lisaura. Or che l’ho rinvenuto, non mi tradir, destino.
Sua sarò, se mi vuole, e lascio il pellegrino.

SCENA VI.

Altra camera.

Donna Marianna ed il Marchese.

Marchese. Signora, or non è tempo di tal maliconia.

Per oggi s’ha a pensare a stare in allegria.
Il Cavaliere ha in casa dei forestieri assai:

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Caratteri più belli non ho veduto mai.

Godiamoli, signora, fintanto che stan qui.
A voi ed al figliuolo voi penserete un dì.
Marianna. Dite bene, Marchese. Ma voi, per quel ch’io so,
Partirete domani.
Marchese.   Domani io me n’andrò.
Marianna. Ed io resterò priva del più sincero amico.
Marchese. Voi sarete, signora, libera d’un intrico.
Qualche volta, pur troppo, so che molesto io sono;
Se troppo m’ho avanzato, vi domando perdono.
Marianna. Caro Marchese mio, restate un giorno solo.
Marchese. La compagnia non bastavi dell’amato figliuolo?
Marianna. Voi volete su questo pungermi ad ogni patto.
Rinaldin finalmente che cosa mai vi ha fatto?
Disse con imprudenza quelle parole, è vero.
Ma disse quel che intese a dir da uno staffiero.
Don Pedro non sa fare col povero ragazzo;
A ogni picciola cosa gl’investe uno strapazzo.
Coreggerlo dovrebbe se manca al suo dovere:
Ma ricordarsi alfine, che nato è cavaliere.
Marchese. La nascita, signora, non fa gli uomini buoni;
Il sangue più purgato deturpano le azioni.
Se il vostro Rinaldino un dì riuscisse male,
A lui che valerebbe la gloria del natale?
Marianna. Temete voi che ei possa far cattiva riuscita?
Marchese. Ottimo riuscirà, se i genitori imita.
Marianna. Il padre suo fu saggio, ma io ho scarso talento.
Marchese. La genitrice imiti, e ognun sarà contento.
Marianna. M’adulate. Marchese.
Marchese.   Parlo col cuor sincero.
Marianna. Se doman voi partite, dirò che non è vero.
Marchese. Resterò, se v’aggrada.
Marianna.   Sì? lo poss’io sperare?

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SCENA VII.

Nardo e detti.

Nardo. Signori, un pellegrino fa forza per entrare.

Marianna. Chi è? che vuol costui?
Nardo.   Non so; so che il padrone
Se lo ha alloggiato in casa, e n’ha buona opinione.
Per me tai pellegrini li prendo per birbanti.
Marchese. Sentiam che cosa vuole.
Marianna.   Fatel venire avanti.
Nardo. Costor dai loro viaggi ricavano buon frutto:
Acquistano coraggio, e cacciansi per tutto. (parte)

SCENA VIII.

Il Marchese, donna Marianna, poi Gianfranco.

Marianna. Che mai vorrà?

Marchese.   Vedremo.
Marianna.   Mi presagisce il cuore
Qualche novella trista.
Marchese.   Questo è un vano timore.
Gianfranco. Riverente m’inchino.
Marchese.   Oh signor, vi saluto.
Marianna. Lo conoscete voi?
Marchese.   Più volte l’ho veduto:
In Roma ed in Venezia, a Napoli, a Turino.
Egli, donna Marianna, è un perfetto indovino.
Gianfranco. Bontà vostra, signore; son uno a cui ha dato
Qualche talento il cielo, qualche buon lume il fato:
L’astrologia ch’io vanto, pochissimo è fondata,
Ma l’ho nell’alma impressa con una forza innata.
Spigner talor mi sento a dir, non so da chi:
Non so perchè m’intesi a strascinar fin qui.
Perdono vi domando all’umile mio zelo;
Credo che qualche cosa voglia svelarvi il cielo.
Marianna. (Che sia qualche impostore?) (piano al Marchese)

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Marchese.   (Esser potrebbe tale.)

Sentiam che sappia dire. Sentirlo non è male).
(piano a donna Marianna)
Marianna. Ben, che vi pare, amico, di me poter predire?
Gianfranco. Favorite la mano. Lasciatevi servire.
Marianna. (Gliela do?) (al Marchese)
Marchese.   Si può farlo.
Marianna.   Ecco la mano, amico.
Gianfranco. Prima dico il passato, poi l’avvenir predico.
Con poca buona voglia vi siete maritata:
Con poco dispiacere poi vedova restata.
Vecchio il primo consorte passato all’altro mondo,
Vi fa desiderare più giovane il secondo;
E mostra questo segno dei critici nel ruolo.
Che voi non lo trovate per causa del figliuolo.
Marianna. È uno stregon costui.
Marchese.   Certo; fa maraviglia.
Gianfranco. Lasciate, mia signora, vi guardi tra le ciglia.
Vuò parlarvi in segreto.
Marianna.   Marchese, con licenza.
Marchese. Fate, fate, signora. (Si porta in eccellenza).
Gianfranco. Siete amorosa: è vero? all’imeneo inclinata.
(donna Marianna fa cenno col capo due volte di sì)
Ma nelle cose vostre siete un poco ostinata.
È vero? Confessate. So tutto, e non bisogna
Dell’astrologo in faccia negare per vergogna.
È vero?
Marianna. Sì, tacete. Ehi, chi è di là?
Nardo.   Signora.
Marianna. Venga qui Rinaldino. (Nardo parte)
Gianfranco.   Non ho finito ancora.
Voi siete innamorata del vostro unico figlio;
Ma questo vi minaccia, signora, un gran periglio.
Temo che l’amor vostro non l’abbia a rovinare,
E ch’ei vi maledica.

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Marianna.   (Ohimè! mi fa tremare). (da sè)

Marchese. Va ben, donna Marianna.
Marianna.   Bene, bene. Seguite.
Gianfranco. Vedo che voi avrete per lui una gran lite;
Perchè gettando in viaggi i capitali sui...
Marianna. Ecco qui mio figliuolo. Strologate un po’ lui.

SCENA IX.

Rinaldino e detti.

Gianfranco. Ohimè, che cosa vedo? Ohimè, signora mia!

Che cosa mi predice la sua fisonomia!
Questi sarà col tempo un pessimo ragazzo.
Se non gli rimediate.
Rinaldino.   Chi è questa bestia? Un pazzo?
Marianna. È un astrologo, figlio, lasciatelo parlare.
Gianfranco. Egli ha una bella mente, capace d’imparare;
Ma vedo, che perdendo il tempo malamente,
Sarà un ignorantello.
Rinaldino.   Asino, non sai niente.
Marianna. Compatitelo. (a Gianfranco)
Gianfranco.   Io vedo, se voi non lo chiudete
Per tempo in un collegio, che voi lo perderete.
È un ragazzo insolente.
Rinaldino.   Prendi questa guanciata.
Affè, se fosse astrologo, l’avrebbe indovinata.
Marchese. Vedete? (a donna Marianna)
Marianna.   Ragazzaccio! (a Rinaldino)
Gianfranco.   Soffro, perchè mi manda
Quell’astro a favellarvi, che agli uomini comanda.
Per altro, basta, basta. Un’altra cosa in petto
Sento per voi, e dirvela io deggio a mio dispetto.
(a donna Marianna)
Se avete a maritarvi, quest’è il consiglio mio.
Un M, un F, un S. Più non vi parlo. Addio.

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Rinaldino. Se torna in queste stanze quell’astrologo indegno,

Lo voglio astrologare con un pezzo di legno. (parte)
Marchese. E ben, donna Marianna?
Marianna.   Sono affatto stordita.
Marchese. Un uomo a lui simile non conobbi in mia vita.
Marianna. È un gran fare, è un gran dire, è un gran saper davvero:
M’ha detto cento cose, e quel che ha detto, è vero.
Marchese. Ma Rinaldino poi l’ha ben ricompensato.
Voglia il ciel non sia vero quel che ha profetizzato.
Marianna. Non crederei, ma certo m’ha posto in gran timore.
Marchese. Fate, donna Marianna, quel che vi dice il cuore;
Ma pensateci bene.
Marianna.   E quel che nel partire
Di tre lettere disse, chi mai lo può capire?
Marchese. Un M, un F, un S, me lo ricordo, e poi?
Marianna. Aspettate, Marchese; che nome avete voi?
Marchese. Ferdinando.
Marianna.   Di Sana. Marchese Ferdinando
Di Sana, le tre lettere si van verificando.
Marchese. La fallerà senz’altro, signora, l’indovino.
Fino che avrete accanto sì bravo flgliuolino.
Marianna. L’astrologo m’ha messo in troppa confusione;
Converrà poi ch’io faccia qualche risoluzione.
Marchese. Pensateci. Per altro la predizione è oscura.
A buon vedervi. (Oprare lasciar vo’ la natura).
(da sè, e parte)
Marianna. Il Marchese mi lascia, chi può saper perchè?
Pare che innamorato anch’egli sia di me.
L’astrologo l’ha detto. L’astrologo predice,
Che per il mio figliuolo poss’essere infelice.
Ah, converrà che alfine s’eviti un gran periglio:
Supererò la pena. Mi staccherò dal figlio. (parte)

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SCENA X.

Madama di Bignè, don Alessandro.

Madama. Era ben meglio assai, pria ch’esser qui alloggiati,

Che tutti all’osteria se ne fossimo andati.
A ber la cioccolata andammo alla bottega,
Ed ora per il pranzo s’aspetta, e invan si prega.
Alessandro. Il Conte andò a vedere se il pranzo è preparato.
Madama. Mezz’ora è ch’è partito, e ancor non è tornato.
Alessandro. Son tre minuti appena.
Madama.   Di tre minuti il più,
Se fosser bastonate, sapreste quando fu.
Alessandro. Madama gentilissima!
Madama.   Quand’aspetto, sto in pene.
Venga la rabbia al Conte.
Alessandro.   Madama, egli sen viene.

SCENA XI.

Il Conte e detti.

Madama. E ben, quando si desina?

Conte.   M’han detto con maniera,
Che si fa un pasto solo, e mangiasi la sera.
Madama. Usano così tutti in questo bel paese?
Conte. Il Cavaliere intende di farla alla francese.
Madama. Per me son italiana. Ho fame, e vo’ mangiare.
Qualcun di voi ci pensi. Andatene a trovare.
Conte. Come?
Madama.   In qualche maniera.
Alessandro.   Madama, io non saprei.
Madama. Voglio mangiar, vi dico. A voi, signori miei.
Conte. Volete che si compri? È azion da malcreati.
Volete che domandi? Ci diranno affamati.
Madama. Dicano quel che vogliono i cavalier, le dame.
Io non ci penso un fico. Vo’ mangiar quand’ho fame.

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Conte. Insegnateci il modo.

Alessandro.   Dite voi, madamina.
Madama. Faccian così, signori, che vadano in cucina: (caricandoli)
Taglino un po’ di pane, lo bagnino col1 brodo;
(nella stessa maniera)
Un pollastro, un piccione, almeno un uovo sodo.
(scaldandosi)
Bisogno di mangiare ha lo stomaco mio.
Poi a pranzar s’aspetti, che aspetterò ancor io.
Conte. A voi, don Alessandro.
Alessandro.   Le commissioni sue
Son dirette al cognato.
Madama.   Al diavol tutti due.
Ehi, chi è di là?
Conte.   Fermate. Anderò io, signora.
Madama. Presto, signor flemmatico. Che non si aspetti un’ora.
Conte. Gran pazienza ci vuole. (parte)
Madama.   Intanto voi potete
Far preparar la tavola.
Alessandro.   Tutto quel che volete.
(vuol partire)
Madama. I servitor! pensate, non sogliono aver fretta.
Meglio è tirare innanzi codesta tavoletta.
Presto, don Alessandro.
Alessandro.   V’obbedirò anche in questo.
Madama. La tavola e la sedia.
Alessandro.   Anche la sedia?
Madama. Presto.
Alessandro.   Una cosa alla volta.
Madama.   Chiamerò un servitore.
Ehi, chi è di là?
Nardo.   Madama.
Madama.   Servite quel signore.

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Alessandro. La sedia e ’l tavolino, ov’ella vuol, portate.

Madama. Ad affrettar il Conte, don Alessandro, andate.
Alessandro. Obbedisco. (parte)
Madama.   Da bravo. (a don Alessandro) Il tavolino qui.
(al servitore)
La sedia.
Nardo.   Ove la vuole?
Madama.   Mammalucco. Così?
(mette la sedia al tavolino)
Conte. Son qui.
Madama.   Dov’è la zuppa?
Conte.   Un poco di pazienza.
Sono andati a pigliare il pan nella credenza.
Il brodo non bolliva; han caricato il foco.
Vi daran qualche cosa, me l’ha promesso il cuoco.
Madama. Ho inteso: a rivederci almen da qui ad un’ora.
Dov’è don Alessandro? Chiamatelo in malora.
Conte. Don Alessandro assiste...
Madama.   Andatelo a chiamare.
Conte. Lo chiamerò, signora. (parte)
Madama.   Venite a parecchiare.
(a Nardo, il qual parte)
Per dir la verità, sto bene a casa mia.
Mi fan voltar lo stomaco i cibi d’osteria:
In casa de’ privati non si può comandare.
Principia ad annoiarmi il gusto del viaggiare.
Alessandro. Eccomi a’ cenni vostri.
Madama.   Via, mi lasciate sola?
Che fa il cuoco in cucina?
Alessandro.   Salta, galoppa e vola.
Madama. E non si vede ancora.
Alessandro.   Parmi sentir l’odore.
Madama. Eccolo.
Eh! la posata mi porta il servitore.
Nardo. (Viene colla tovaglia e il resto per apparecchiare.)

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Madama. Via, da bravo.

Nardo.   Son lesto.
Madama.   Il Conte non vien più.
Andatelo a chiamare. (a don Alessandro)
Alessandro.   Corro. (parte)
Madama.   Vacci ancor tu.
Nardo. (Con questo vacci, vacci, or gli risponderei).
Madama. Affè, sono più lesti i servitori miei.
Li pago bene, è vero; ma fan quel che gli tocca;
E sanno quel ch’io voglio, prima che apra la bocca.
Conte. Son qui, che comandate?
Madama.   Il cuoco non vien mai.
Conte. Che bagnava la zuppa or ora lo lasciai.
Madama. Don Alessandro?
Conte.   È seco, che sta sollecitando.
Verrà ancor lui, signora, verrà co’ piatti.
Madama.   E quando?
Conte. Eccoli.
Madama.   Via, spicciatevi2.
Alessandro.   Ho io sollecitato?
Nardo. (Mette in tavola la zuppa e un piatto con un pollastro.)
Madama. Il cuoco nobilissimo venir non s’è degnato?
Conte. Lavora per la cena.
Alessandro.   Fa bellissimi piatti.
Madama. Questa zuppa per altro è buona per i gatti.
Non ne voglio.
Conte.   Mangiate quel pollo accomodato.
Madama. Nel capo ha delle penne, e sa di riscaldato.
Nardo. Per far presto, signora.
Madama.   Trinciate questo pollo.
Badate che ha de’ peli, non gli toccate il collo.
Alessandro. Cercherò di servirvi.
Madama.   Tanto vi vuole?

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Alessandro.   Egli è

Poco cotto, Madama.
Madama.   Via, via; farò da me.
Bastami un’ala sola. Che cuoco da fagiani!
Mandami un pollo in tavola buono da dare ai cani.
C’è altro?
Nardo.   No, per ora. Vuole un po’ di salame?
Madama. Andate ad imparare a trattar colle dame! (s’alza)
Don Alessandro, andiamo.
Alessandro.   Dove?
Madama.   Dove voglio io.
Venga, se vuol venire, signor cognato mio.
Conte. Ma può sapersi dove?
Madama.   Se avessi mio marito.
Saprebbe ei la maniera di trarmi l’appetito.
Andiamo a passeggiare, andiam di qua e di là:
Intanto verrà sera; un giorno passerà.
Se faccio un altro viaggo, io voglio a mio piacere
Meco condurre il cuoco, condurre il credenziere;
E voglio, quand’ho fame, ancor su una montagna
Far tavola e cucina, in mezzo alla campagna.
Non so trovare al mondo altro piacer che questo:
Quel che mi viene in capo, far dove sono, e presto.

Fine dell’Atto Terzo.

  1. Zatta: nel.
  2. Pilteri: spicciatemi