Il cholera in Barberino di Mugello/Parte prima
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PARTE PRIMA
«Mi son posto a studiare il Cholera senza preoccupazione, avendo a bella posta appartato e chiuso ogni libro su tale argomento, perché l’intelletto si accostasse nudo alla osservazione de’ fatti ... Ho osservato con diligenza prima di giudicare». (Francesco Puccinotti, Annotazioni Cliniche sul Cholera Morbus). |
La sera del sabato 9 Dicembre 1854, in Barberino di Mugello, a’ romori e alle faccende del grosso mercato che suol tenervisi era succeduta la solita quiete, e la gente davasi volentieri a riposare dalle fatiche del giorno, quando una voce esce da una casa, terribile voce, che ripetuta di bocca in bocca agghiaccia il sangue nelle vene a famiglie intere, e vi lascia paura e desolazione. — Il Cholera è in Barberino. — La voce ha fatto in un baleno il giro del paese, e vi pesa sopra come un incubo.
Ma come d’ogni sventura grande, che minacci a un tratto la gente, avviene, che dopo la impressione prima di terrore, lo spirito reagisca incontro al male, dubitando o negandolo, (sia che la mente umana facile all’inganno, dell’inganno si piaccia, sia che creda, orgogliosa com’è di natura, lottare col male e vincerlo, pure rigettandone da se l’idea) così riavutisi gli animi dal primo sbigottimento, a mettere in forse la male arrivata novella, poi a ribatterla con gli argomenti soliti della paura, maledicendo e imprecando gli autori e banditori di essa.
Ma pur troppo la voce era vera! Poichè in quello stesso giorno e nella casa medesima tre persone fossero state colpite da’ medesimi sintomi; poichè il medico stesso l’avesse proclamato altamente, e gli astanti medesimi pur troppo nell’aspetto sollecitamente cadaverico degl’infermi raffigurassero la tanto paventata malattia.
E colla trista parola — cholera — un’altra n’era uscita pur fuora, la quale, se ne’ libri de’ dotti e in seno alle accademie è materia tuttora, e di sana ragione, a controversie, in mezzo alle moltitudini va usata dal medico con tutta prudenza, e messa in armonia colle sante ragioni della umanità e della carità fraterna. — Il male s’attacca. — Questa parola gettata là, non come face che rischiari, ma come una palla incendiaria fra gente atterrita, non è a maravigliare, se sfrenasse gli animi allo spavento, e a quel sentimento, che costringe in una abietta personalità tutti gli affetti.
Tal è il popolo: poichè in esso sieno certe molle, che basta toccare per elevarlo a’ più nobili sacrificii, o per isprofondarlo fino alla brutalità. Facile com’è poi a ragionare più secondo le impressioni de’ sensi, che secondo il giudizio, e’ guarda meno alle parole, che agli atti e modi che le accompagnano. Nel nostro caso (vorrei usare frase più benigna se potessi, ma non posso tacerlo) gli atti e i modi non furono i migliori.
«l’ parlo per ver dire,
Non per odio d’altrui nè per disprezzo.»
Di quì, tanta era la paura, una ferocia anche maggiore dell’ordinario nel primo terzo de’ malati colpiti, di cui appena uno fù salvo: bastava ch’e’ si gettassero in letto, perchè, più il male che la morte temendo, facessero l’animo deliberato e desiderassero di morire e presto, purché cristianamente e in grazia con Dio morissero; di qui, i malati a mala pena assistiti, perchè — tanto, dicevano, erano medicine e fatiche gettate, — coonestando così con parole vane sentimenti non retti; quindi, i cadaveri malamente e scompigliatamente da mascalzoni comprati trasferiti di corsa al cimitero, come se d’immondo carname si trattasse, e non di corpi umani lasciati da un anima immortale.
Queste cose racconto, non coll’intenzione d’accusarne davanti all’opinion pubblica i buoni abitanti di Barberino, i quali pur troppo, quando parole di ragione e di carità fraterna furono dette loro, mostrarono di sentirle, e ammendarono un primo traviamento con opere degne di popolo cristiano e civile. Ma le racconto a insegnamento, che al popolo non è sempre bene dir tutto, che i savii sanno o credon sapere; perchè facilmente ciò che nelle mani loro è un regolo, in man delle moltitudini diventa un flagello. Ma prima di entrare a discorrere della malattia, che brevemente si ma atrocemente perseguitò Barberino, mi giovi dire innanzi alcunché del luogo, sotto il riguardo fisico morale ed igienico.
Siede Barberino di Mugello sulla riva sinistra del torrente Stura, alto sopra il Mediterraneo 452 braccia, quasi nascosto fra poggi e colline ridentissime di vigneti. Una vasta piazza e una lunga e tortuosa via che le fa seguito formano il borgo di Barberino, cui siede a cavaliere sopra conica eminenza l’antico e forte castello, ora deliziosa villa Cattani. Oltrepassato il borgo, lungo l’antica strada acciottolata, che conduce a Màngona, incontransi a dritta e sinistra vari mucchi di case pigionali in gran parte, de’ quali il più grosso e lurido si chiama l’Erede; sinchè arrivata la via, dopo un miglio poco più, a piede dell’ameno colle di Cirignano, piega a sinistra, e diventa erta solitaria e selvosa.
Apposta rammento questa via, perchè pare, che il livido ospite, abbandonato il borgo di Barberino, andasse poi a porre il suo estremo termine sulla vetta di Cirignano, e quindi, siccome persona camminando or avanti or indietro lungo la detta strada, visitasse or questo or quel casolare, saltando sempre a piè pari il villaggio dell’Erede, ove temevamo fosse più allettato a fermarsi e gavazzare.
Un secentista non lascerebbesi qui scappare la bella immagine, e direbbe che il Cholera, il quale è quella gran
«.... fiera colla coda aguzza,
Che passa i monti e rompe muri ed armi,»
Ma questo non è luogo di poesia, e tanto meno di poesia secentistica, e il lettore m’avrà per iscusato.
La popolazione di Barberino ascende secondo gli ultimi computi a 2,300 abitanti, i quali vi vivono ammassati piuttostochè nò, e a 10,000 quella dell’intero comune. La mortalità suol valutarsi pel borgo a 60 in circa per anno.
Il suolo della comunità è in gran parte di natura calcarea, e ridente della più vaga e felice cultura.
Quanto al clima, posto com’è Barberino in angusta valle aperta solo a mezzogiorno, e in riva ad un fiume, in mezzo ad un terreno irrigato da copia grande di torrenti rivi e fossati, i subiti cambiamenti di temperatura, che «nelle ore vespertine vi succedono per la natura alpina del paese, lo rendono facilmente umido e soggetto alle nebbie.» Le quali, dice il Repetti nel Dizionario Geografico della Toscana, «sogliono comparire e ammassarsi nel fondo della valle sul tramontare del sole, e di lì spandersi per i colli, e sulle pendici inferiori dell'Appennino, fino alle prime ore del giorno novello, tutte le volte che un vento secco non sopraggiunga a dissiparle, o un vento umido e un’aria agitata a convertire le stesse nebbie in pioggia.»
L’aria poi, sebbene respirisi pura e salubre nelle sovrastanti colline, non credo sia perfettamente tale in seno del borgo, ove molti e aperti a benefizio di natura sono i fomiti di emanazioni miasmatiche, e deboli naturalmente le correnti amosferiche; le quali scendendo da’ monti vicini, passano per così dire alte sul capo al paese, e tengono l’aria repressa e stagnante, anzichè agitarla e rinnuovarla. Io mi rammento di certe sere, in cui mi trovava a diporto sulla collina di Vigesimo, o per le amene alture del Tignano, nell’era che da ogni abitato s’alzano quelle colonne di fumo, che ricordano una mensa frugale e lo scarso ristoro d’un povero focolare. Il tramontano, impetuoso qual suole scendere giù da' gioghi della Futa, pervenuto a ridosso del paese, lo accavalciava da un poggio all’altro, risospingendo in basso que’ globi vaporosi, i quali investivano ed involvevano da tutte parti il paese di Barberino, che al mio ritorno trovava come affumicato.
Il popolo di Barberino, come quello in genere di questa felice contrada Mugellana, è buono, docile, festoso, cortese, molto inchinato alle pratiche religiose, aborrente da intemperanze. Vicino com’è ad una città commerciante come Prato, e sur una delle grandi vie che allacciano Firenze e Livorno con Bologna e l’alta Italia, potrebbe avvantaggiare di molto le sue condizioni economiche, se veramente non fosse desiderabile, non dirò l'attività, ma uno spirito più industre e intraprendente. Ne’ tempi andati vi fioriva il mestiere di cardare e tessere rozze lane, il che dette luogo allo spiritoso ingegno del loro poeta Corsini di dire:
« . . . . . . . . . . . Barberinesi
Lasciate un po’ di slappolar le lane,
E di comporre ingiusti e giusti pesi
Alle povere donne paesane.»
Ora le mani delle donne occupansi, forse più pulitamente ma meno lucrosamente, nell’intrecciar la paglia: mentre gli uomini attendono o a’ comuni mestieri, o alle faccende rurali, o al trasporto delle merci, o a raccor legna pe’ boschi vicini.
La povertà esiste certo in Barberino, massime nelle annate presenti; pure, comunemente parlando, non vi si rivela con tale degradamene ne’ corpi e negli animi, da parere come altrove piuttosto cancrena, che piaga della società.
So, che da qualcuno si disse il Mugello la Beozia della Toscana; ma non so, se un paese che ha dato alle arti Giotto di Bondone e l’Angelico, alle lettere Giovanni della Casa, alle scienze quel sereno ingegno del Cocchi, e modernamente il Nestore della Toscana scienza chirurgica il Prof. Pietro Betti, un paese, da cui vuolsi traesse origine la famiglia Medicea, infame si per delitti, ma grande ancora per forte volere e sapienti opere, debba noverarsi fra quelli, cui natura fu avara d’ingegno.
Il temperamento prevalente ne’ corpi mi sembra, nelle donne massimamente, il venoso e venoso linfatico, misto talvolta ad alcun che d’idroemico: e dico nelle donne massimamente, perchè negli uomini le abitudini del faticare maggiore e all’aperto, rendendo il sangue un poco più ossigenato, lo allontanano alquanto dalla schietta venosità. Notevole nelle donne parmi la fecondità, come si può rilevare dalla media numerica delle famiglie, la quale spicca fra le più alte della Toscana1. Nella pianta maschile poi singolare veramente mi sembra l’attitudine a crescere nello spazio e nel tempo; vo’ dire, che non infrequenti sono gli esempii di longevità, ed anche avanzata; come pochi anni sono, il così detto Mengone, o per antitesi, Bambino di Barberino, facea maravigliare i mercati e le fiere vicine di sua colossale statura2.
Mi si dirà: questa è un’eccezione. La natura, rispondo, non opera a caso: guardate fra’ maschi, tra’ braccianti massimamente, e vedrete quà e là una tendenza a svolgere grosse e grandi corporature.
I quali fatti, oltre all’avere una ragione nel vivere temperato de’ paesani, l’hanno anche nelle condizioni fisiologiche degli organismi e nella indole del clima. I longevi difatti non si trovano così agevolmente ne’ luoghi d’aria pura e libera, come sugli alti monti, ma ne’ piani e nelle vallate, ove il lavoro di ossigenazione o di combustione vitale essendo ne’ corpi più lento, prevalendo l’abito venoso o linfatico, sembra, che anche la materia combustibile per così dire si consumi più adagio e più tardi. Così la fecondità sembra un privilegio piuttosto de’ luoghi umidi e poco ventilati: così la venienza e pesantezza delle corporature valligiane e pianigiane contrasta colla magrezza e snellezza degli abitanti luoghi montani ed aprici, veramente perchè la imperfetta ossigenazione, non arrivando mai ne’ primi a ben consumare i materiali organici, questi si accumulano nel vivente medesimo, fino ad agevolare anche la generazione di nuovi viventi3.
La qualità stessa del vitto, vegetabile e feculaceo in gran parte nella classe più numerosa della popolazione, sembra contribuire ad aumentare e confermare ne’ corpi le dette abitudini.
L’indole poi delle malattie dominanti nel territorio Barberinese, la quale s’accomuna con quelle di tutta la vallata Mugellana, s’attiene manifestamente con la qualità del clima e de’ temperamenti. Difatti lo Zuccagni Orlandini nell’Atlante Geografico della Toscana, alla tavola illustrativa del Mugello ne fa sapere, come le verminazioni, i gastricismi, (forse meglio nomerebbonsi febbri con stato gastrico) e le intermittenti ne’ luoghi più bassi, sieno fra le malattie che tengono il campo. Lo stesso mi confermava a voce l’Ecc.mo D. Giovanni Guidotti, che vi ha da molti anni pratica estesissima. L’egregio D. Vitale Bugiani, il quale pure vi fu anni molti medico-chirurgo condotto, mi scrive, come in estate vedesse sempre predominare singolarmente le sinoche gastriche e le coliti, e nell’inverno le pleuriti e pneumoniti reumatiche e le eresipele.
Ora chi non sa, come le affezioni de’ visceri addominali prediligono appunto i temperamenti, ne’ quali una soverchia venosità dà luogo alla pletora addominale, e quindi proclività alle congestioni, ed ai viziamenti delle secrezioni? Chi non sa, come la generazione degli entozoi avvenga più facilmente negli organismi non costituiti nella integrità organico-vitale, siccome i corpi venosi, e come le risipole svolgansi d’ordinario, anzichè per vera plasticità o pletora, per inala elaborazione della crasi sanguigna? L’attinenza poi delle febbri intermittenti e delle flogosi reumatiche con i climi umidi non abbisogna di dimostrazione.
Gli stessi D. Bogiani e Guidotti mi fanno sapere, come nell’anno 1846 e 47 travagliasse il paese una endemia di febbri tifoidee; come nel 52 comparisse alla campagna la miliare, la quale andò spesseggiando via via negli anni susseguenti, finchè nella estate decorsa fecesi comunissima.
Entriamo ora nelle case. Brutta materia mi si para dinanzi; ma io promisi a me stesso dir tutta la verità: e l’affetto che oramai mi lega ad un paese, con cui divisi pericoli e dolori, non mi costringerà mai a tacerla.
Chi dicesse, in un paese come Barberino a poche miglia da Firenze, in seno d’una florida e vaga provincia, traversato da una via frequentatissima, una parte non piccola delle case manca del benefizio delle latrine e di serbatoi chiusi per le acque immonde; chi dicesse che, eccettuate le famiglie più agiate, il rimanente della popolazione, o per necessità o per mal’uso, va a deporre il superfluo peso del ventre per i vicoli o nel greto del fiume, o per pudore aspetta il favor delle tenebre per gettarlo dalla finestra ad infiorare la piazza e la via; chi dicesse, non esser famiglia, nè di poveri solamente, che nel cortile, ne’ terreni, ne’ pianerottoli, a’ lati dell’uscio sotto le finestre non abbia il suo deposito d’immondizie, facilmente alimentato dalla pubblica profusione; chi dicesse gli animali immondi, quasi tenuti a vita comune in molte case, direbbe cosa incredibile, ma vera e sventuratamente vera.
Ora chi meraviglierà, se il Cholera, «questo Edile tremendo», come l’ha detto un carissimo ingegno4, «che con draconiana severità punisce di morte ogni mancanza commessa nella privata e pubblica igiene», prescegliesse fra tutti i luoghi del Mugello a visitare Barberino? Ben è vero, che cosiffatte abitudini nemiche a salute e indegne di civiltà non sono da rimproverarsi ad esso soltanto, ma a quasi tutto il Mugello, tranne qualche eccezione: ma è vero anche, che negli altri luoghi la più aperta e felice situazione topografica fa sì, che l’aere, contaminato dalla mano degli uomini, viene più agevolmente depurato dalla provvidente natura, mediante il libero soffio de’ venti.
Nè io quì, per sistematica caparbietà, incorrerò in un primo peccato di storica malafede, trapassando in silenzio, che Barberino, sopra tutti gli altri luoghi del Mugello, si trova in più frequenti ed estese relazioni con Prato e la bassa pianura Fiorentina, luoghi tutti dove la malattia infieriva terribilmente, primachè apparisse in Barberino. Anzi mi giovi quì fare, come suol dirsi, la mia professione di fede, sul modo di originarsi del morbo cholerico, libera e schietta come nella mente mi ragiona.
La mia è opinione tutta nuova, o almeno nessuno sin qui ch’io mi sappia, ha avuto il coraggio o la modestia di annunziarla pubblicamente. Ai molti forse parrà strana, ridicola, imbecille: ma essa mi viene dalla coscienza. In poche parole la formulo. — Io non ho opinione nessuna, ma intendo a farmela — .
No: per quanto io abbia animo inclinato a venerare l’autorità, io non giurerò mai nelle parole del maestro, le quali in fallo di cose sperimentali e d’osservazione, se procacciano delle opinioni, non arrivano mai a formare una convinzione. E dovendo giurare anche nell’autorità de’ maestri miei, non saprei davvero da qual parte volgermi, o converrebbe mi dimezzassi l’anima; tali e così venerati sono per me i nomi, che sostengono le due opposte sentenze nella nostra Toscana.
Sicuro, certi che credon d’avere in tutto e per tutto i segreti di natura, perchè da lungo tempo hanno imparate a mente alcune di quelle parole, che in medicina dicono e non dicon nulla, sorrideranno un sorriso di compassione o di dispregio sulla crassa e invereconda ignoranza d’un medico, che a trentun’anno non sa rispondervi se il cholera sia o no epidemico, sia o no contagioso. M’incresce il così dilungarmi, a parlare di me e del mio modo di sentire: ma io non spaccio, come si vede, opinioni per venderle o imporle altrui, chè sarebbe stolta superbia: sì bene fo le mie confessioni ingenue davanti al pubblico, e ho speranza, che non potendo contendere con altri d’ingegno e sapere, contenderò almeno di sincerità. Io ebbi la debolezza d’averla un’opinione in proposito, e dirò francamente com’io tenessi forte per la epidemicità, ma per la sola epidemicità; dissi debolezza, perchè non avendo conosciuto sino allora il cholera che su’ libri, venuto alla questione che tiene tuttora divisa la medica famiglia, per una di quelle spinte che la mente riceve senza sapere talvolta di dove, io presi in uggia e poscia in vero odio sin la parola contagio. E una volta preso l’andare, leggendo e ascoltando non badava e non credea, che a chi osteggiava la parola e il concetto.
Ma quando disgraziatamente mi trovai in mezzo al cholera qui in Prato, quando il capo onorevole della magistratura sanitaria in Toscana m’inviava a curare i cholerosi in Barberino di Mugello, m’avvidi allora, che conveniva mi rifacessi da capo, e che per adempire con coscienza nella pratica l’ufficio di medico, per corrispondere alla fiducia di cui era onorato, mi spogliassi d’ogni preconcetto anteriore, per apprendere unicamente da’ fatti rettamente ed accuratamente osservati la verità.
Io dunque (mi preme schiarirlo bene) non ho disertato l’antica opinione per vendermi alla opposta: nè meno mi son ricreduto, perchè credessi falsa quella e vera questa, prese così esclusivamente. Solo volli spogliarmi d’ogni preconcetto, per non incorrere nel facile rischio di vedere quello solamente avevo in testa di vedere. Io dissi a me stesso: occhio a’ fatti soltanto; dichiariamo la mente vacante di qualunque opinione, per conferirne a suo tempo il posto a quella, che l’osservazione e la esperienza con maggior numero di voti mi dichiareranno per vera.
Lo spirito umano inclina naturalmente a indagare e congetturare addentro l’essenza delle cose, e ad apprendere come vero o rivelazione di natura, quello ch’è pura finzione o trovato d’immaginativa. A questo errore il trae primamente un amore istintivo per la verità, si che questa appare anche dove non è, indi una certa satisfazione dell’amor proprio nel rivestire de’ nostri concetti la nudità de’ fatti, e finalmente il trovarsi agevolata e abbreviata sull’ali della congettura la via nojosa della disamina.
Ma sventuratamente la scuola de’ fatti è lunga e difficile, la vita breve, molta la baldanza e irrequietezza giovanile, che ne spinge, raunate appena poche osservazioni, ad emettere anche noi le nostre sentenze, come se veramente la scienza stesse lì ad aspettarle a braccia aperte. E così, sbagliata una volta in gioventù la via maestra dell’apprendere, che è quella del diligente studio e del retto esaminare, l’intelletto facilmente si abbandona al facile dommatizzare, al ragionare sulle parole anzichè sulle idee, e ad altre vanità della scienza che pajon persona.
Noi giovani, mi si permetta in ultimo dire anche questo, abbiamo troppa fretta a finire il compito, e a metterci in riga di dotti e saputi, e ci pare ufficio troppo umile quello di andare raccogliendo i fatti, che sono parte men nobile si, ma integrante dell’edificio scientifico. Non sappiamo o non vogliam sapere, che noi siamo i manuali che dobbiamo recar le pietre, e che la parte d’architetto, riserbata agli uomini provati da tempo per ingegno dottrina e sperienza, a noi non si addice. Nè certamente intendo dire, che i giovenili ingegni, come quelli che più degli altri sentonsi ala forte a salire, debbano rampicare perpetuamente in un cieco e materiale empirismo, che è schiavitù degli intelletti, morte delle scienze, e fa d’ogni arte un mestiere. No: l’età de’ forti affetti e delle aspirazioni sublimi, l’età che più di tutte sente la libertà del pensiero, e meno di tutte sa adulare e mentire, la giovanezza è la più degna di levarsi alla contemplazione de’ veri ideali dell’umano sapere. Ma dico, che a noi massimamente conviene coltivar di buon’ora lo spirito di osservazione, il quale non è mica la stupida intuizione delle cose, ma è ginnastica intellettuale, che educa le facoltà tutte della mente a quella forza ed agilità, che le rende poi atte a’ liberi voli, è falce che sfronda gli errori dall’albero delle scienze, è lampada che guida il genio alle più grandi scoperte, e fa soffermare il Newton colpito in capo d’un pomo al lume di luna, e Galileo dinanzi all’oscillar d’una lampada, e il Redi sur un serpentello a due teste.
Facendomi dunque a descrivere l’origine e l’andamento della malattia cholerica in Barberino, non farò che ritrarre fedelmente quanto occhio vide e orecchio ascoltò; senza badare se tal fatto o talaltro comoderà più all’una che all’altra opinione; sarò parco quanto mai dir si possa in conclusioni, si che la verità emerga di per se libera e pura, anziché infrascata dalle mie parole: sicuro, che nella pochezza dell’ingegno mio avrò operato il meglio a pro della scienza, e quanto la coscienza mi richiedeva; sicuro, che co’ fatti quali figli ingenui e innocenti di natura nessuno vorrà prendersela; e sodisfatto abbastanza, se potranno quadrare da materiale buono e sicuro a coloro, che soli per potenza di mente e profondità di studii hanno diritto a edificare.
Intanto siami lecito qui esprimere non un mio giudizio, ma un presentimento, cui spero, per la bontà sua almeno, ogni discreto vorrà fare buon viso. Chi si avvisasse, che alla fine de’ conti ognuna delle due parti potrebbe aver ragione; e che poste giù le animosità e le controversie,
- «Venti contrarii alla vita serena
Il 9 Decembre 1854, alle ore dieci antimeridiane in un casamento situato a mezzo del borgo di Barberino, un tal Massimiliano Agresti d’anni 26, maniscalco e raccoglitore di legna, dopo aver faticato e bevuta molta acquavite, cade in lipotimia, e quindi è preso da fenomeni cholerici5. Nello stesso casamento verso le 5 pomeridiane dello stesso giorno, una certa Ajazzi Filomena trecciajuola d’anni 25, nel preparare da cena, vede repentinamente de’ fantasmi, e spaurita getta degli urli. Portata in letto, le si presentano i sintomi del cholera, ma d’una gravezza maggiore che nell’Agresti. Di questa donna si tiene per certo, esser tornata di pochi dì da Pistoja, ove una sorella morì di cholera, della quale prese e vesti gli abiti. La relazione si limita a dire, che l’Ajazzi avea più volle confabulato coll’Agresti. Era la mezzanotte di quel giorno infausto per Barberino, e nella stessa sventurata abitazione un Vignolini Domenico boscajuolo viene assalito, ma più fieramente che gli altri due, da cholera. Nel giorno, dice la relazione, s’era affaticato molto, e la sera avea mangiato in gran copia pulenda dolce. Il giorno 10 corse muto di casi, e funestato soltanto dalla morte del Vignolini, che visse solamente quindici ore. L’11 moriva l’Ajazzi Filomena, e pareva giorno che volesse chiudersi senza nuove vittime; gli abitanti stessi s’erano riavuti alquanto dal primo spavento, e andavano a riposare quella sera con migliori augurii, quando il terribile male nella notte torna a battere al medesimo casamento. Una Rosa Mocali d’anni 45, un bambino di anni tre sono assaliti da cholera veemente. Il bambino non ebbe prodromi di sorta, la donna era soggetta da qualche giorno a diarrea e dolori ventrali. Anche di questa la relazione sul conto de’ contatti si limita a dire, che era pigionale nello stesso casamento: ma io so, che cotesta donna rimase esterrefatta nel veder trasportare giù per le scale il cadavere, se non erro, dell’Ajazzi. In quella notte ma in altro luogo ammalava pure l’Eufrosina Borsoni, la quale, diarroica da qualche giorno, non ebbe contatti diretti di sorta; sì bene li ebbe un suo figlio, che fu a visitare qualche choleroso.
Ma qual’era questo casamento, che il cholera avea visitalo per il primo e con ferocia così insistente? Sebbene esternamente di decente aspetto, e di buona costruzione internamente, pure molte famiglie e povere vi viveano dentro ammassate: l’entratura e le scale a comune, sudice quanto più dir si possa. Ma ciò di cui non posso tacere è un cortile quasi interno, ove tutte le immondizie e tutte le acque putride venivano riversate dagli inquilini ad ingrassare i depositi di concime, che ogni famiglia per una riprovevole industria s'andava accumulando. Ho veduta cotesta corte nel suo stato di verginità. (perchè il municipio di Barberino serbò tutto intatto fino al mio arrivo) e non saprei a qual cosa di più malsano paragonarla. Il D. Guidotti poi aggiunge una osservazione preziosissima, ed è, che nessuno de’ molti pigionali che abitavano cotesto casamento andò esente da coliche diarree e vomiti.
In faccia a cotesto casamento un altro pure ne esiste e più ampio, ricovero anch’esso a molte famiglie pigionali e certamente non comode. Ivi è macelleria, ammazzatojo, stalle, e un cortile nel di dietro, ove trovammo ammassato, precisamente sotto le finestre, tanto concime, che venuti all’opera di trasportarlo via a carrate, apparve piuttosto che un semplice deposito una vera miniera.
Ora sembrò, che il cholera la mattina del 12, dopo aver colpita nella prima casa una sesta vittima la Geltrude Venturi d’anni 33 e diarroica da varii giorni, attraversasse la strada, ed entrasse a imperversare nella detta casa di faccia, più specialmente nella sventurata famiglia Braccesi, in cui prima un vecchio d’anni 68, poi il figlio che gli era stato dattorno e soffriva già diarrea, e finalmente la moglie del figlio ammalarono gravemente. Questa donna che ebbi in cura poi per quattro giorni, soggetta già a gastralgie ed allattante un suo bambino, mi raccontava essere stata presa da grande spavento, in vedere il suocero malato e così stranamente sfigurato.
Tutte le più accurate ricerche fatte starebbero ad escludere ogni comunicazione di robe o di persone fra gli abitanti dell’una e dell’altra casa. La narrazione però del D. Guidotti crede conveniente avvertire, come il vecchio Braccesi sensale di mestiere avesse continuamente contatto con mercanti Pratesi; sebbene per parte mia creda conveniente aggiungere, come nessuno de’ nostri mercanti, che usano al mercato di Barberino, avesse avuto o cholerosi in famiglia, o contatti sospetti. Il giorno 12 ammalava pure un Antonio Vignolini, ch’era sceso da Monte Carelli, quattro miglia lontano da Barberino, per assistere il padre, e ne avea lavate le biancherie.
Sfogata così la sua prima ira in coteste due case, per ritornarvi ne’ giorni appresso a colpirvi nell’una un figlio della Mocali d’anni 12 (14 Dicembre) nell’altra una Carpini (20 detto), il cholera nello stesso giorno 13 assalì una Calamini serva in casa de’ Signori Brunetti, donna d’anni 64, debole e malsana, soggetta da qualche giorno a diarrea. La relazione dice al solito di questa, che avea confabulato con persone de’ due noti casamenti, l’uno attiguo e l’altro di faccia, ed avea veduto morti di cholera: io seppi poi da’ Signori Brunetti medesimi, che ne era rimasta spaventata straordinariamente. Il 14 ammalava un Mugelli d’anni 48, lavorante nella detta casa Brunetti, che avea assistito la Calamini; e di questo dicesi, che andava soggetto a coliche frequenti e a flussi diarroici, aumentatisi negli ultimi giorni.
Era la sera dello stesso giorno, e il cholera passato il ponte della Stura, andava a stabilirsi nella fila di case appartenenti alla cura di Vigesimo. Ivi ammalò gravissimamente una Alessandra Borsoni ne’ Messeri, che avea assistito, sebbene presa da violenta paura, la madre Eufrosina morta il giorno avanti. Pietosamente un cognato della inferma ricovrava nella sua casa posta all’altro estremo del borgo la famiglia di questa infelice.
Poldino Messeri di 4 anni era il più gajo robusto e sano bambino che fosse mai, era la gioja l’orgoglio l’affetto primo della povera madre. Il 16 in un momento di quiete di sue atroci sofferenze la si ricorda del figlio, e chiede istantemente di rivederlo: non lo bacerà, nol toccherà, ma vuol rivederlo. Gli astanti in prima tennero fermo: ma chi potrebbe a lungo opporsi ad una madre, che chiede vedere il suo prediletto? Il bambino venne, più che la prudenza potè l’amore materno... il bacio fu dato! Il giorno dopo il bambino era fulminato da cholera... dopo venti ore era cadavere... Questo fatto è tale da far pensare seriamente i miscredenti nel contagio: noi vi torneremo più tardi.
Ma nella casa attigua alla Messeri ammalano dipoi lo stesso di 17 al primo piano un Pieraccioli e al secondo un Biechi Ferdinando, amendue senza diarrea prodromica, amendue senza ch’io possa accagionare contatti di sorta. Disgraziatissima famiglia de’ Biechi fu questa, perchè il male non si contentò di questo giovane d’anni 14, ma colpì la madre, colpì un altro giovane d’anni 17, e tutti e tre per patimenti fierissimi condusse ad una morte. Qui la miseria appariva veramente grandissima: squallide e nere le muraglie, e infestate continuo di fumo le stanze, miserabili giacigli coperti appena di pochi stracci per letto, penuria di tutto, fuorché di pazienza ne’ miseri che ammalavano, e ne’ più miseri che rimanevano; e nel di dietro i soliti ammassi di materie putrescibili, le cui pestifere emanazioni salivano fino alle finestre.
Il cholera intanto era tornato a vagare, ma senza veruna ragion di contatti pel borgo di Barberino, aggredendo quà e là una Baldini serva, un Parrini fornajo e cacciatore, miserabilissimo, una Poggiali stata già pellagrosa. tutti e tre diarroici da alcuni giorni; e fulminando senza nessuni prodromi Catani Luisa, che morì in poco più di trenta ore; quando il 20 vengono ad avvisarmi, scoppiato un caso di cholera a Cirignano.
Giace Cirignano un miglio a tramontano di Barberino, sur un ameno colle vestito a vigne e uliveti bagnato a’ piedi da’ torrenti Lora e Stura, sulla destra della via che conduce a Mangona. Una sola casa esiste sulla vetta del colle allato alla chiesa: ivi una Guasti Faustina moglie d’un muratore s’è ammalata nella notte di cholera. La situazione appartata ed aprica, la comodità e politezza di questa famiglia mi fanno sollecito ad indagare, il come possa essersi originata la malattia. La donna, salvo una febbre tifoidea or sono sette anni, è vissuta sempre sana, otto giorni indietro ebbe una lipotimia, e qualche conato al vomito: dopo tre giorni sciolsesi il corpo in diarrea biancastra. La donna s’era commossa a gran paura al primo annunzio del cholera in Barberino, e più si commosse quando seppe, che il marito era andato a visitare un malato di cholera, e l’avea voluto vedere anche morto. Fatto sta, che il marito fu preso da diarrea e vomiti biancastri soltanto, e da grave adinamia; nella donna svolsesi dopo sei giorni il cholera in tutta la sua violenza: anzi posso dire, che questo fosse il malato più grave che io conducessi a salvamento.
Il 22 il cholera riavvicinavasi minaccioso a Barberino, assalendo, in una stessa mattina e nello stesso casolare, Teresa Boni d’anni 14 trecciajuola e Domenico Calamai di 59, merciajo girovago o barullo, come dicono a Barberino, e a pochi passi distante Ajazzi Giuseppe d’anni 15 calzolajo. In tutti questi non furono contatti di sorta nè di robe o persone nè fra loro o con altri: contatti furonvi bensì fra essi e i congiunti che ammalaron dopo. Nella Teresa Boni mancò ogni causa occasionale, mancò la diarrea prodromica: grandissima però la miseria, scura angusta lurida fetente l’abitazione. Il Calamai, soggetto spesso per ragion di mestiere all’intemperie amosferica, era uomo che trasmodava in ogni cosa, e lo chiamavano di soprannome Gastigo: invocava da un pezzo il cholera per se e per altri ricchi del paese, e il cholera, dopo una gran mangiata di castagne ch’e’ fece, venne pur troppo a trovar lui, e in due giorni lo condusse al sepolcro. Così l’Ajazzi s’era empito lo stomaco il giorno avanti di minestra col cavolo e di cotenne di majale.
Ora alla Boni Teresa tenne dietro il padre, poscia la madre, e tutti guarirono; al Calamai tenne dietro il cognato d’anni 70, indi la moglie soggetta a gastralgie e coliche, e tutti perirono: all’Ajazzi giovane sano e robusto morto il 23 tenne dietro il fratello d’anni 21, ma di abito gracilissimo e di aspetto quasi fanciullesco, e guariva. In tutti questi ammalatisi consecutivamente mancarono precedentemente cause dietetiche ed occasionali, non mancò però, se si eccettui la sola Calamai, la diarrea prodromica.
Erano gli ultimi di Dicembre, e il cholera andava qui e li serpeggiando specialmente per la detta strada fuori del borgo, non più cogliendo famiglie intere, ma individui6, quando il primo dell’anno tornava minaccioso in Barberino, assalendo fierissimamente una Guasti Luisa e un Gregorio Strada. Il fatto è così singolare, che merita veramente, sia raccontato da me con ogni particolarità.
Il 29 Dicembre, vale a dire 21 giorno dall’apparizione del cholera, e cinque giorni soltanto dalla sua scomparsa, fu il giorno riserbato dalla provvidenza del cielo all’apertura del desiderato Lazzeretto in Barberino. Mancando i desiderati inservienti di S. Maria nuova, dimandati da me a bella posta, fu di mestieri giovarsi pel momento di quelli si offersero in paese: e furono un figlio della Guasti, e una figlia dello Strada. Ma arrivati il 31 gl’inservienti Fiorentini, quelli furono licenziati e rimandati colle debite cautele in seno delle proprie famiglie. Or bene: era la mezzanotte fra l’anno 1854 e 55, quando alla Guasti ed allo Strada scioglievasi il corpo in diarrea e vomito profusissimi, e quindi succedevano tutti i fenomeni del cholera il più grave: lo Strada moriva in poco più di ventiquattro ore, la Guasti dopo quattro giorni. Ben è vero, che lo Strada era vecchio di 86 anni ernioso da ambe le parti, soggetto spesso a diarree; la Guasti era donna da lungo tempo gravata di molte afflizioni, viveasene continuamente ritirata in casa... Ma che perciò? perchè il cholera, che taceva da qualche giorno entro Barberino, venne ad assalire unicamente fra le tante queste due famiglie, che avean mandato ognuna un assistente al Lazzeretto, e ad assalirle quasi nella stessa ora, e senza veruna causa manifesta?
Il due Gennajo avvenne un solo caso, e il tre un altro, che fu l’ultimo e fulminante, in un Ciolli Michele vecchio quasi ottuagenario. Ambedue ebbero diarrea prodromica; non ebbero, per quanto potessi indagare, contatti di veruna specie.
Riassumendo adunque la istorica narrazione del cholera in Barberino, diremo, che esso durò dal nove Dicembre 1854 al tre Gennajo 1855, se si voglia prendere per termine l’ultimo caso, o sino al sedici dello stesso mese, se si consideri la chiusura del Lazzeretto. Spaziò pel borgo di Barberino, ed arrivò d’un salto fino alla vetta di Cirignano, donde ridiscese a Barberino, trattenendosi a gavazzare quà e là per la strada di Mangona, senza mai deviare a dritta o a sinistra. Colpì 45 persone, di cui 25 uomini e il resto donne, attinenti tutti, tranne forse tre o quattro alla classe povera e bracciante; a quelle classi appunto, ove le cure igieniche tra per impotenza o maluso non sono osservate: colpì sul principio non sparsamente, ma a mucchi, dove facili perciò furono i contatti, e dove l’accumulo d’immondizie, l’ammassamento di persone, la miseria e tuttociò che questa ha seco d’infesto all’umana salute, era di richiamo e pascolo al male. Tenne andamento irregolare, poichè eruppe violentissimo, e continuò poi, non scendendo per gradi a mitezza, ma con vicenda varia di benignità e di virulenza. Micidialissimo mostrossi nella prima metà, nella quale neppure un settimo de’ malati fu salvo: il che devesi non solo alla violenza del male, maggiore sovente ne’ primi casi, ma anche allo spavento e alla costernazione grande, allo sfiduciamento degli infermi, e alla trascuranza d’ogni igienico provvedimento.
Già accennava, come in que’ primi giorni di spavento e di desolazione, la umanità fosse costretta a velarsi la faccia, e come l’autorità municipale mal provvedesse a ciò che consiglia la comune salute, cosicchè dovere del medico non era solo curare gl’infermi, ma conveniva rifarsi, per quanto era dato, dalla cura morale ed igienica di tutto il paese.
Per la prima io solo non mi sentiva da tanto. Il medico nato delle anime è il sacerdote, il sacerdote, intendo, che sa informare pensieri parole e opere al modello evangelico. Mi rammentava dell’egregio Pievano Nesi, che fu una delle glorie del clero Toscano, e sarà nome sempre caro a’ Barberinesi; e confortato di buona speranza, mi recai dal superiore Ecclesiastico, raccomandando a lui, che dall’altare parlasse al popolo in nome della religione parole di conforto e di cristiano coraggio e carità. Il parroco parlò, e la sua voce fu intesa: io medesimo dettai, come il cuore ispiravatl poche parole, che affisse pubblicamente furono lette non senza frutto. Pregai a fare lo stesso anche il capo del municipio; ma rimase semplice preghiera! Bene si associò meco il Delegato di Governo in Scarperia Avvocato Giorgio Frati a visitare personalmente gli infermi più gravi, commiserandoli ed animandoli col linguaggio dell’affetto e della autorità.
Nè fia discaro, se mi dilungo qui un poco dal subietto principale, sciogliendo il debito della mia povera lode co’ buoni ecclesiastici di Barberino, Albertini Berli e Comucci, e col parroco di Vigesimo Toccafondi, giovane egregio di cuore e di mente, e caro di modi, il quale comecchè in più ristretto campo esercitò come gli altri degnamente il ministero evangelico. Tanto più commendevoli, ch’essi partecipavano in sommo grado del comune spavento, eppure mostraronsi sempre al loro posto fermi ed intrepidi; tanto più commendevoli, che il coraggio era per essi non un abito indurato ne’ pericoli, ma virtù tutta nuova, che doveano conquistare, a forza di vincer se stessi ogni momento. lo nominava e lodava di tutto cuore questi degni ministri di Dio: io non vitupererò e neanche nominerò un altro parroco ben noto, vicino di Barberino, il quale con coraggio e costanza pari a quella che i suoi confratelli misero in ben fare, si rifiutò di assistere un povero giovanetto di anni dodici ammalatosi fuori della propria casa; non io vitupererò, perchè non avrei parole sufficienti; e neanche lo nominerò, perchè l’infamia sua non si spanda, ma rimanga tutta presso di lui.
Ma le parole, e più delle parole i nobili esempi degli altri ecclesiastici e dell’autorità politica, non tardarono a produrre lor frutto in mezzo a un popolo buono, e di docile tempra, com’io diceva. Infatti gli animi smarriti di paura, ritrovarono i forti sentimenti di carità: gl’infermi consolati di sollecitudini affetto e speranze, rianimaronsi nella fiducia di guarire, cominciarono a creder meno nella necessità di morir di quel male; i cadaveri non più da mani mercenarie e alla rinfusa furono trasferiti al cimitero, ma ne’ modi che decenza e religione comanda. La pubblica carità, sollecitata dalla commissione sanitaria, accorse in sollievo delle private sventure: nè in Barberino solo, ma per tutti i villaggi del comune si apersero collette, si elemosinò nelle chiese a favore delle povere famiglie colpite dal male; il soldo dell’onesto bracciante come la moneta del possidente e del ricco contribuiva alla pietosa opera; il municipio sovveniva i malati di medicamenti carne fuoco coperture ed altro. È somma lode poi del popolo di Barberino, che non vi allignasse veruno di que’ pregiudizii feroci contro a’ medici e alla medicina, che pur troppo fecero piangere altrove la ragione e la umanità.
Nè io passerò inonorato il fatto seguente, che ridonda in onore anche di tutto il paese; tanto più degno d’elogio, che la persona cui appartiene non sa a quest’ora, e forse nol saprà mai, d’avere operato una di quelle azioni, che Dio solo può premiare e in una vita migliore della presente. Una povera donna Luisa Poli moglie d’un Braccesi non aveva di buono fra le sue masserizie, che un letto di piume, ch’ella s’avea messo insieme adagio adagio colla propria industria. Ammalatisi in uno stesso giorno tre della infelice famiglia Braccesi, ella fu sollecita a prestare il suo letto colle coperture alla cognata rimastane senza, condannandosi così a dormire per un mese circa sulla nuda terra, esposta a tutti i rigori della stagione. Veramente cotesta povera e semplice donna fece il più grande atto di generosità che mai si possa, perchè diede tutto quello che avea; testimone il vangelo di Cristo.
Dissi pure, che il paese intero abbisognava d’una cura igienica. L’igiene nella vita fisica de’ popoli risponde a ciò, che è l’educazione nella vita loro morale e intellettiva, la quale come ha per iscopo supremo addirizzare gli animi alla virtù, e allontanare ogni causa o pericolo di errore, così questa mira ad assecurare i corpi dalle umane infermità, non solo informando a robustezza la fibra e convalidando le forze organico-vitali, ma removendo da essi ogni sinistra influenza. Temperate gli animi alla virtù, e avrete molti delitti di meno; temperate i corpi a salute, e avrete di meno molle malattie. E veramente non si sa intendere, perchè, dove veramente l’arte nostra è sicura nel consiglio, potente nell’operare, nessuno consulti il medico o gli dia retta; mentre tutti poi fanno il lamentio grande, perchè la medicina non sana tutti i malati e tutte le malattie: come se la natura avesse ceduto a’ medici le chiavi della morte e della vita, e noi le volgessimo soavemente serrando e disserrando. Ora siccome risparmiare delitti alla società è opera certamente più salutare e benedetta del punirli, così lo studiarsi, che un popolo intero non ammali, avanza di gran lunga in merito il curare qualche malato.
Sventuratamente in Barberino conveniva, come si suol dire, rifarsi dalla granata e spazzare. Sordida la via principale, sebbene selciata di recente; sordidissime, senza agevole scolo e bruttamente insozzate lungo i muri le anguste vie traverse; in certi angoli riposti poi ammassi di macerie e di letame da non si dire. Nelle case lo spettacolo era anche peggiore, e già toccai de’ depositi d’immondizie accumulati per ogni dove, delle stalle che molte sono in Barberino, stivate di concime, degli animali immondi ricovrati a dovizia, e di altri fomiti di emanazioni infeste. In compagnia dell’attivissimo Sig. Francesco Baroni priore del Municipio, e del capoposto della Gendarmeria, volli veder tutto e visitar tutto, e ovunque fu provveduta nettezza, ovunque furono lasciati ordini severi, e raccomandate abitudini più civili. Visite di commestibili e di bevande non erano state fatte da un pezzo in Barberino, ed una volli se ne eseguisse in pieno mercato. E siccome i sospetti principali cadevano su’ rivenditori di liquidi spiritosi, di tutte le bibite fu preso saggio, e commessane l’analisi chimica al Signor Piero Ajazzi Farmacista peritissimo, che ogni città si pregerebbe dir suo. Fortunatamente la risposta fu, che di quella sorta bevande avea da inquietarsi più la coscenza de’ rivenditori che la pubblica salute; tanta parte vi avea presa l’elemento acqueo per le lor mani. Nè era certamente provvedere alla corporale salute, nè il miglior modo (salvo errore) di tesoreggiar per l’eterna, quello ammassare il minuto popolo nella chiesa di Barberino nelle ore mattutine, e il trascinarlo poi dietro a processione, assoggettando così i corpi a respirare aria corrotta, e a trapassare più volte d’una ad altra temperatura. Ed a ciò pure fu rimediato.
Ma quello, che ne’ morbi popolari appare ed è veramente provvedimento massimo, è un ricovero aperto a’ malati poveri, che sono appunto i più estesamente e intensamente colpiti; provvedimento che domandai d’urgenza al Regio Delegato e ai Gonfaloniere, convenuti la mattina del 15 in Barberino. Senza entrare in particolari, de’ molti. locali visitati a bella posta uno solo parve riunire sopra gli altri le buone condizioni igieniche, e l’autorità politica e municipale convennero in uno stesso sentire: tale era la villa Guadagni, così detta della Torre, situata un miglio circa a mezzogiorno di Barberino. Bella magnifica solitaria s’inalza la villa della Torre sul dorso d’agevole e amena collina, ricinta alle falde da’ torrenti Lora e Stura: certo nè più tranquillo arridente ed appartato riposo alla languente umanità sarebbesi potuto trovare! Era una tepida e serena giornata, quando ci recammo a visitarla; l’aria e la luce inondava a torrenti per le ampie aperture, e si diffondea per gli anditi e le sale spaziose: il sole, sarebbe arrivato co’ suoi raggi fino sul letticciuolo del povero choleroso, a attepidirne le membra, e confortar l’anima del desiderio e della speranza di vita. Noi facevamo i nostri conti a fidanza su quella villa, perchè sendo da molto tempo disabitata, spoglia d’ogni mobilia, non ad altro serbata che a far bella vista di se, credevamo, una volta che il bene pubblico la domandava alla generosità d’un cavaliere, sarebbe stata prima concessa che chiesta. Ma non fu vero: l’umanità può avere le sue ragioni, e anche certi cavalieri o marchesi hanno le sue, alle quali io povero medico convien che m’inchini. Niun mezzo od argomento fu lasciato intentato: il Gonfaloniere ed il capo Ecclesiastico recaronsi supplichevoli in persona a Firenze, ma invano; io stesso instavo presso il superiore Governo, perchè, se un ricovero si dovesse aprire, alla villa s’aprisse, unico locale che allora si porgeva adattato. Ma gli animi eran chiusi; quindi anche la villa rimase chiusa. Intanto la cura a domicilio, per quanto il municipio provvedesse gl’infermi poveri di tutto il bisognevole, malamente contentava il medico per la inespertezza e infingardaggine degli inservienti mercenarii, per la impedita cura balnearia, che è tanta parte della cura anticholerica, e per altre molte ragioni che non si vogliono dire. Finalmente dopo quindici giorni di pratiche vane, e ventuno da che la malattia era apparsa in Barberino, fu dato di aprire alla meglio altrove un Lazzeretto; e di questo ne dovemmo saper grado al caso, che preparandosi in que’ giorni la Toscana ad evacuare gli Austriaci che guernivano Livorno, nè giudicando prudente il passo per Barberino, veniva a rimaner vacante il locale, riserbato ivi a caserma alle truppe transitanti. Sebbene attiguo da una parte all’abitato, angusto e male orientato, pure la mitezza che il male dimostrava in quegli ultimi dell’anno, e la speranza che il flagello presto si dileguasse, ci indussero (malgrado le paure e i romorii non del tutto irragionevoli de’ vicini) ad accettarlo: sebbene, data maggior gravezza ed estensione del morbo, la buona igiene dovesse ricusarvisi. Fortunatamente l’evento rispose a’ desiderii e alle nostre speranze.
- ↑ [p. 91 modifica]Secondo i computi del Repetti (vedi Dizionario Geografico della Toscana) ascendeva nel 1846 a 6,45 individui per famiglia.
- ↑ [p. 91 modifica]Lo scheletro di quest’uomo gigantesco è posseduto dall’Ecc.mo D. Giovanni Guidotti condotto del luogo. La testa ci apparve molto degna di studio, per la prevalenza stragrande della faccia, per la depressione del frontale, e per l’occipite come ricalcato di basso in alto dentro il cavo del cranio. Il gigante, come tutti i giganti, cominciando da Goliat, era di poco cervello, e lo confermano gli stessi paesani; quantunque fosse onorato allora, come il più grosso di tutti, di parecchie missioni anche diplomatiche. Tant’è vero, che gli uomini grandi sono spesso reputati grandi uomini.
- ↑ [p. 91 modifica]»E ciò egli è appunto, quanto abbiamo osservato accadere nella serie de’ diversi animali e nelle circostanze tutte della vita degli individui, ove sempre scorgemmo più facili e più abbondevoli le formazioni organiche, dalla generazione di nuovi viventi fino alla individuale nutrizione, in proporzione che meno era sviluppato l’apparecchio respiratorio, e quindi meno efficace l’influenza dell’ossigeno, e perciò stesso meno innanzi progredita nelle sue proprie metamorfosi la materia organica.» (Opere di Maurizio Bufalini, Vol. 2. 88.)
- ↑ [p. 92 modifica]Enrico Mayer. Ricordi del cholera in Livorno nel 1854. Lettera a G. Pietro Vieusseux.
- ↑ [p. 92 modifica]Io ho sotto gli occhi la relazione de’ primi casi, cortesemente favoritami dall’Ecc.mo D. Giovanni Guidotti, ed a quella mi riferisco. La lealtà dello scrivente, e la scrupolosità nell’indagare tuttociò che favorisce l’opinione della contagiosità, che è la sua, varranno a darle tutta la fede. Io fui chiamato a Barberino il 14 Dicembre, e non potei assumer la cura de’ cholerosi che il dì susseguente.
- ↑ [p. 92 modifica]Di questi che furon cinque, in uno solo, nel giovanetto Maranghi d’anni undici posso ammettere certo il contatto mediato, avendo saputo, che la di lui madre avvicinò dei cholerosi. Non posso però ammetterlo nella Catani Anna, la quale avea innanzi assistito una malata, che si volle a tutti costi dalla opinione dotta e indotta del paese malata di cholera, ma che per me nol fu mai. In tutti questi non mancò la diarrea prodromica.
- Testi in cui è citato Odoardo Corsini
- Testi in cui è citato Giovanni Della Casa
- Pagine che usano Nota separata
- Testi in cui è citato Attilio Zuccagni-Orlandini
- Testi SAL 100%
- Testi in cui è citato Emanuele Repetti
- Testi in cui è citato Maurizio Bufalini
- Testi in cui è citato Enrico Mayer
- Testi in cui è citato Giovan Pietro Vieusseux