Il poeta fanatico/Atto II

Da Wikisource.
Atto II

../Atto I ../Atto III IncludiIntestazione 20 aprile 2020 100% Da definire

Atto I Atto III

[p. 567 modifica]

ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Camera con tavolino.

Rosaura e Florindo.

Rosaura. Qui, signor Florindo, qui in questa camera staremo con più libertà.

Florindo. Ma non vorrei che il vostro signor padre ci sorprendesse.

Rosaura. Non vi è pericolo. Egli sta presentemente in compagnia di un poeta e di una poetessa forestiera, che sono marito e moglie. E poi, se anche qui mi ritrovasse con voi, non potrebbe dir nulla, avendomi egli stesso accordato che possa a voi far vedere i miei sonetti; e si compromette che voi non sappiate rispondere.

Florindo. Sappiate che la risposta ad uno di essi è fatta. [p. 568 modifica]

Rosaura. Così presto?

Florindo. O bene, o male, ho risposto, ed ho creduto che da celerità possa acquistarmi maggior merito dell’attenzione.

Rosaura. Deh, non mi sospendete più lungamente il piacere. Fatemi sentire questa vostra quasi estemporanea risposta.

Florindo. Vi servo subito. Compatirete.

Rosaura. So il vostro merito.

Florindo. Favorite, se pur v’aggrada, leggere il vostro secondo sonetto, ed io alle quartine e alle terzine di mano in mano vi risponderò.

Rosaura. Lo farò per obbedirvi. Dopo il sonetto petrarchesco, con cui Nice si disponeva di palesare il suo amore a Fileno, la stessa Nice, con un altro sonetto di stile piano e comune, si risolve di palesarlo.

Florindo. Ed io faccio che, nella risposta, Fileno a Nice spieghi il suo sentimento.

Rosaura. Mi sarà caro sentirlo.

SONETTO.

Poichè Amor mi consiglia a dir mie pene,

     Quel che m’arde non taccio intenso ardore.
     Vo’ svelar la mia fiamma al mio pastore,
     In cui solo ho riposta ogni mia spene.

Florindo. Fileno risponde colle medesime ultime parole.

Sento, o bella, pietà delle tue pene,

     Ed eguale nel sen provo l’ardore.
     Più felice di me non fia pastore,
     Se di te m’alimenta amica spene.

Rosaura. Da Filen, che nel petto il mio cuor tiene,

     Se pietà sperar posso, e non rigore,
     Fortunato penar, dolce dolore,
     Sola e vera cagion d’ogni mio bene!
Florindo. Nice, che del mio cor l’impero tiene,
     Suol usar meco, e non temer rigore.

[p. 569 modifica]
     Nascer può dal suo sdegno il mio dolore,

     Vien dalla sua pietate ogni mio bene.
Rosaura. Sappia dunque Filen ch’io peno ed amo,
     Che il frutto degno1 dell’onesto affetto
     Di mia fede in mercè sospiro e bramo.
Florindo. Se tu mi ami, idol mio, sappi ch’io t’amo,
     E a misura del tuo gentile affetto,
     Darti prova del mio sospiro e bramo.
Rosaura. Or che l’arcano mio m’uscì dal petto,
     Amor pietoso in mio soccorso io chiamo,
     E da Fileno il mio conforto aspetto.
Florindo. Più frenar non poss’io l’amor nel petto,
     Nice sola sospiro, e Nice chiamo,
     E la sua destra ed il suo cuore aspetto.
Rosaura. Più frenare non puoi l’amor nel petto?
Florindo. Nice sola sospiro, e Nice chiamo,
     E la sua destra ed il suo cuore aspetto.

Rosaura. Ah, se creder potessi che la vostra risposta fosse dettata dal cuore, felice me!

Florindo. Da dove ebbe origine il vostro sonetto?

Rosaura. Da una vera passione.

Florindo. E il mio da un affetto sincero.

Rosaura. Credete voi ch’io abbia inteso parlar di Nice?

Florindo. Sotto il nome di Nice, scorgo quel di Rosaura.

Rosaura. E Fileno chi è?

Florindo. Florindo, che a Rosaura risponde.

Rosaura. Ah, signor Florindo, voi avete rilevato dal mio sonetto quello che altrimenti non avrei avuto coraggio di dirvi.

Florindo. Spesse volte le Muse hanno fatto finezze simili.

Rosaura. Che effetto potrà produrre questa mia poetica confessione?

Florindo. Le nostre nozze, se vi degnate approvarle.

Rosaura. Dunque dalla poesia deriverà il maggiore de’ miei contenti. [p. 570 modifica]

SCENA II.

Beatrice e detti.

Beatrice. Rosaura, che fate qui in questa camera? E voi, signor Fiorindo, dove avete imparate le convenienze?

Florindo. Signora, non è questa la prima volta ch’io sia venuto in casa vostra.

Rosaura. Mio padre mi ha detto che gli faccia vedere un certo sonetto.

Beatrice. Vostro padre è un pazzo. Egli ha meno giudizio di un ragazzo di dieci anni; ed io, che per mia disgrazia sono sua moglie, non voglio perdere di vista il decoro vostro e di questa casa.

Florindo. Signora Beatrice, io ho tutta la venerazione per la vostra casa, e tutto il rispetto per la signora Rosaura.

Beatrice. Ebbene dunque, cosa pretendete da questa ragazza?

Florindo. Se non temessi una negativa, vi spiegherei il mio desiderio.

Beatrice. Io sono una donna ragionevole; se parlerete, vi risponderò.

Florindo. Vedo che mi capite senza ch’io parli. Sospiro le nozze della signora Rosaura.

Beatrice. E voi, signorina, che cosa dite?

Rosaura. Mi raccomando alla vostra bontà.

Beatrice. Sì, ora vi raccomandate a me2.

SCENA III.

Ottavio e detti.

Ottavio. Ecco qui, sempre gente in questa camera. Dove scrivo, non voglio nessuno.

Beatrice. Io ci sono venuta, perchè il mio dovere mi ci ha portata.

Ottavio. Favorite andar nelle vostre camere.

Florindo. Signor Ottavio, perdonatemi.

Ottavio. Vi riverisco, Breviano Bilio.

Beatrice. Posso parlarvi di un affare che preme? [p. 571 modifica]

Ottavio. Signora no. Ho da correggere la prefazione per l’accademia di questa sera3.

Beatrice. Signora Rosaura, andiamo.

Rosaura. Anch’io avrei da terminare una composizione per questa sera.

Ottavio. Terminatela, e voi lasciatela stare.

Beatrice. Sì, fate bene. Resterà qui col signor Fiorindo.

Ottavio. Breviano Bilio è nostro accademico.

Beatrice. E io...

Ottavio. E voi andate a badare alla rocca.

Beatrice. Mi preme l’onore di questa casa.

Ottavio. Se vi premesse l’onore di questa casa, non sareste una ignorantaccia, inimica della poesia.

Beatrice. Più tosto che avere la malattia dei versi, vorrei essere zoppa e guercia.

Ottavio. Gente cui si fa notte innanzi sera. (siede al tavolino)

Beatrice. Il bell’onore che acquisterà la vostra figliuola!

Ottavio. Gente cui si fa notte innanzi sera.

Beatrice. Uomo senza cervello.

Ottavio. Gente cui si fa notte...

Beatrice. Voi mi volete far crepare.

Ottavio. Innanzi sera.

Beatrice. Il diavolo che vi porti4. (parte)

SCENA IV5.

Ottavio, Rosaura e Florindo.

Ottavio. Gente cui si fa notte innanzi sera.

Gente cui si fa notte innanzi sera.

 Figliuoli miei, lasciatemi in quiete. Ho da correggere la prefazione. Il principio non mi dispiace. O ignorantissima temeraria gente, che contro la poetica sovrumana virtù ingiurie pessime scaricate... [p. 572 modifica]

Rosaura. Signor padre, vado anch’io a terminare la mia composizione.

Ottavio. Sì. Per dar principio alle nostre accademiche esercitazioni...

Florindo. Anch’io vi leverò l’incomodo.

Ottavio. Sì. Ragion vuole che io, poichè del principesco onore...

Rosaura. Il signor Fiorindo può venir meco?

Ottavio. Sì. Parola dell’istituto nostro faccia...

Florindo. Mi permettete ch’io vada ad assistere la signora Rosaura?

Ottavio. Sì. E del titolo nostro e dell’accademica pastorale...

Rosaura. Vado.

Ottavio. Sì. Sappiasi dunque...

Florindo. Ed io l’accompagno.

Ottavio. Sì. Sappiasi dunque...

Florindo. Andiamo a terminare le nostre composizioni. (a Rosaura)

Rosaura. E se viene la signora matrigna?

Florindo. Due onesti amanti non si prendono soggezione. Andiamo, la mia cara Nice.

Nice sola sospiro, e Nice chiamo,

E la sua destra ed il suo core aspetto.
Rosaura. Amor pietoso in mio soccorso io chiamo,
E da Fileno il mio conforto aspetto.
(partono)

SCENA V.

Ottavio solo6

Ascolta, s’alza un poco e poi siede.

Che brava ragazza è costei! Ella è l’unica mia consolazione; non la mariterei per tutto l’oro del mondo. La voglio in casa con me, me la voglio goder io la mia virtuosa figliuola. Ma qui conviene terminare la prefazione. Quanto mi dà fastidio dover comporre in prosa! Se avessi da scrivere in versi, mi sarebbe più facile, e in caso di bisogno, mi aiuterei col rimario. Orsù, sono nell’impegno, convien ch’io faccia di tutto per riuscir con [p. 573 modifica] onore. Poco manca alla sera. Vediamo che ora è. (mette fuori7 l’orologio) Oh diavolo! Mi sono scordato di caricarlo; non va, è giù la corda, e non so che ora sia. Ehi, (chiama) Brighella. Brighella anderà a vedere che ora è, e mi accomoderà l’orologio. Io non voglio perder tempo. Ehi, Brighella; starà componendo, vi vuol pazienza, verrà. Andiamo avanti. Poichè se tutte le arcadi ed accademiche denominazioni... (scrivendo)

SCENA VI8.

Brighella ed il suddetto.

Brighella. Sior padron...

Ottavio. La novella instituzione nostra...

Brighella. Gh’è qua un zovene spiritoso, dilettante anca lu de poesia, fradello de siora Corallina, che vorria reverirla. Ela contenta, che el passa?

Ottavio. Non senza ponderazione e mistero...

Brighella. Eia contenta che el passa?

Ottavio. Sì. Non senza ponderazione e mistero.

Brighella. Adesso el fazzo vegnir. Poverazzo, che el magna anca élo. (parte)

Ottavio. La novella pianta d’alloro abbiamo noi per impresa... Brighella, tieni quest’orologio, e accomodalo sulle ore di piazza. Brighella è andato via. Qualche nuovo estro lo avrà richiamato. Or ora ho finito. Poichè, siccome le tenerelle piante crescono coll’andar del tempo, e della loro ombra ingombrano i larghi piani. Oh bel poetico sentimento prosaico! E della loro ombra ingombrano i larghi piani.

SCENA VII9.

Arlecchino ed Ottavio.

Arlecchino. Fazzo umilissima reverenza.

Ottavio. Tieni. (senza guardarlo gli dà! orologio, credendolo Brighella)
Noi così parimenti, qual novelle piante... [p. 574 modifica]

Arlecchino. A mi?

Ottavio. Sì. Non vedi che va male? Noi così parimenti...

Arlecchino. Cossa ghe n’hoio da far?

Ottavio. Va via, lasciami finir questa prefazione.

Arlecchino. L’è un omo generoso, el m’ha donà un relogio alla prima. Pazienza, l’anderò a vender. (vuol partire)

Ottavio. Andremo i teneri ramuscelli... Chi è colui, che parte da questa camera? (vedendo Arlecchino) Ehi, galantuomo.

Arlecchino. Signor.

Ottavio. Che cosa volete? Che cosa fate in questa camera?

Arlecchino. Eh gnente, vago subito.

Ottavio. Che cos'è quello10? (vede l’orologio)

Arlecchino. L’è l’effetto delle so11 grazie.

Ottavio. Come? Il mio orologio? Ah ladro disgraziato! Tu mi mi hai rubato l’orologio.

Arlecchino. Se la me l’ha dà ella colle so man.

Ottavio. Eh, chi è di là? Presto, voglio mandare a chiamar gli sbirri.

Arlecchino. Me maraveio, sior, son un galantomo.

Ottavio. Sei un disgraziato, un ladro, un assassino. Ti sei introdotto in casa mia per rubare, e ti sei prevalso della mia distrazione per rapirmi l’orologio di mano.

Arlecchino. Ghe digo che son un omo onorato.

Ottavio. Le Muse, che non abbandonano i suoi divoti, mi hanno avvertito in tempo per iscoprirti.

Arlecchino. Sia maledetto quando son vegnù qua.

Ottavio. Ti voglio far frustare, ti voglio far andar in galera.

Rapace, rapitore, empio, vigliacco.

Arlecchino. Son un omo d’onor, corpo de bacco.

Ottavio. (Come! E un poeta?)

Mi avete voi rubato l’oriuolo?

Arlecchino. Mi son un galantom, non un mariuolo.

Ottavio. (È poeta, è poeta!) (da sè) Caro amico, vi domando perdono. Ditemi, siete voi servo d’Apollo? [p. 575 modifica]

Arlecchino. Canto ancor io colla chitarra al collo.

Ottavio. Oh caro! Vi domando un’altra volta perdono. Io ero astratto, io ero dall’estro invaso. Ditemi, come è andata la cosa dell’orologio?

Arlecchino. Me l’avi dà colle vostre man.

Ottavio. Sì, è vero. Ho creduto di darlo a Brighella; compatitemi, e in quest’abbraccio ricevete un pegno dell’amor mio.

Arlecchino. (Sta volta, se no savevo far versi, stava fresco.) (da sè)

Ottavio. Ditemi, caro, chi siete? Come vi chiamate?

Arlecchino. Mi me chiamo Arlecchin, e son fradello de Corallina.

Ottavio. Fratello della signora Corallina?

Arlecchino. Per servirla.

Ottavio. Di quella brava improvvisatrice?

Arlecchino. Giusto de quella.

Ottavio. Oh siate benedetto! Lasciate ch’io vi dia un bacio, e che vi giuri perpetua amicizia e poetica fratellanza.

Arlecchino. La sappia, sior, che le cosse le va mal.

Ottavio. Sapete anche voi improvvisare?

Arlecchino. Qualche volta.

Ottavio. Bravo.

Arlecchino. L’è tre zorni, che se magna pochetto.

Ottavio. Questa sera si farà in casa mia una bella accademia.

Arlecchino. Me ne rallegro. E la me creda, signor, che ho una fame terribile.

Ottavio. Sentirete, sentirete che roba.

Arlecchino. Se mai la se contentasse...

Ottavio. Io compongo nello stile eroico.

Arlecchino. De farne dar qualcossa...

Ottavio. E mia figlia compone nello stil petrarchesco.

Arlecchino. La favorisca de ascoltarme una parola sola.

Ottavio. Dite pure, v’ascolto.

Arlecchino. Ho fame.

Ottavio. Sì, caro, sì, mangerete. Venite qui, voglio farvi sentir un sonetto.

Arlecchino. Lo sentirò più volentiera, dopo che averò magnà. [p. 576 modifica]

Ottavio. Voglio che mi diciate la vostra opinione. Ma ecco quel diavolo di mia moglie. Non posso seguitare il sonetto, non posso terminare la prefazione. Prenderò i miei fogli, e mi anderò a serrare nella camera di Brighella. (parte)

Arlecchino. Ah, signor poeta. (dietro ad Ottavio)

SCENA VIII12.

Beatrice ed Arlecchino.

Beatrice. Galantuomo, chi siete voi?

Arlecchino. Un poeta, per servirla.

Beatrice. Siete anche voi uno scroccone simile al signor Tonino e alla signora Corallina?

Arlecchino. Giusto; son fradello della signora Corallina.

Beatrice. E siete anche voi venuto a scroccare con essi?

Arlecchino. Procurerò anca mi de farme onor.

Beatrice. Fareste meglio andar a lavorare.

Arlecchino. Per dirghela, no ghe n’ho troppa volontà.

Beatrice. Signor sì, col pretesto d’esser poeta, si fa vita oziosa e da vagabondo.

Arlecchino. Chi èla13 in grazia?

Beatrice. Sono la padrona di questa casa.

Arlecchino. M’imagino che la sarà poetessa anca ella.

Beatrice. Sono il diavolo che vi porti. Andate fuori di qui.

Arlecchino. Come! Cussì se scazza i galantomeni?

Beatrice. Andatene, altrimenti vi farò cacciare per forza.

Arlecchino. La donna brava e accorta,

Scaccia chi ghe vol tor, e tol chi porta.14 (parte)

SCENA IX15.

Corallina e Beatrice.

Corallina. Signora, perchè scacciate voi mio fratello?

Beatrice. Perchè la mia casa non ha da essere il ricetto dei vagabondi. [p. 577 modifica]

Corallina. Signora mia, permettetemi ch’io vi dica un apologo.

Beatrice. Che cos’è quest’apologo?

Corallina. Vuol dire una favoletta.

Beatrice. Io non mi curo delle vostre scioccherie.

Corallina. Sentitela, e non vi dispiacerà.

Cadde un pecorella dentro un pozzo,

E facea per uscir qualche schiamazzo;
Ed un lupo, che aveva pieno il gozzo,
La derideva e ne facea strapazzo.
Giunse il pastore e uccise il lupo sozzo,
E la pecora trasse fuor del guazzo:
S’io la pecora son, che si strapazza,
Rammentatevi il lupo, o gente pazza.

Beatrice. Come! Che temerità è questa? Dare a me di pazza?

Corallina. Signora, v’ingannate, io non parlo di voi.

Beatrice. Dunque di chi parlate?

Corallina. Parla la favola di chi ride del male altrui, di chi si beffa delle altrui miserie, di chi non porgerebbe la mano a un misero che si affoga, per trarlo fuori dal suo pericolo.

Beatrice. Io non ho sentimentimenti sì barbari. Piace a me pure la carità, ma mi piace farla a chi la merita.

Corallina. Sapete voi distinguere chi più meriti la carità?

Beatrice. M’insegnereste ancor questo? La carità la meritano i poveri che vanno questuando, quei che sono imperfetti, quei che domandano pietà colle loro lagrime, colle loro strida.

Corallina. Permettetemi ch’io vi reciti un’altra favola.

Beatrice. Mi direte qualche altra impertinenza?

Corallina. Non vi è pericolo.

Vi son quattro animali in una grotta,

Ciascun de’ quali il nuovo cibo aspetta.
Entra il custode, e tre di loro in flotta
Gli vanno incontro per mangiare in fretta.
Il coniglio non esce e non borbotta,
E quel che dagli il suo padrone, accetta.

[p. 578 modifica]
E il padron porge al buon coniglio il frutto,

Perchè gli altri trovar lo san per tutto.

Beatrice. Vuol dire la vostra favola, per quel che intendo, che la carità va fatta a chi non la sa domandare.

Corallina. Per l’appunto.

Beatrice. Quand’è così, i poeti certamente da me non l’avranno.

Corallina. E perchè?

Beatrice. Perchè essi domandano più sfacciatamente degli altri, onde li disprezzo tutti egualmente.

Corallina. Un’altra favola, e vado via.

Beatrice. Oh, sono annoiata!

Corallina. Di animali porcini era una truppa,

Che mangiava di semola la pappa;
Di moscato fu lor data una zuppa,
Entro le madreperle fatte a cappa.
Ciascuno si ritira e si raggruppa,
E dal moscato e dalle perle scappa;
Onde queste parole sono uscite:
Ai porci non si dan le margarite. (parte)

Beatrice. Temeraria, indegna! Questo ancor dovrò soffrire? Giuro al cielo, se non mi vendico, non son chi sono.

SCENA X16

Tonino e Beatrice.

Tonino. Patrona reverita, con chi la gh’ala?

Beatrice. Con quella temeraria di vostra moglie.

Tonino. Desgraziada! Cossa gh’ala fatto?

Beatrice. Mi ha perduto il rispetto.

Tonino. Baronzella! La prego dirme, come èla stada! La castigherò17. (Bisogna imbonirla, chi vol magnar in pase.) (da sè) [p. 579 modifica]

Beatrice. Fa la dottoressa, dice gli apologhi, dice le favole, e offende, e tocca sul vivo. In casa mia?

Tonino. Me par impussibile che Corallina sia stada capace de un insolenza de sta sorte, perchè so con quanta stima e con quanto respetto la parla de ella. No la fa che lodarse della so bontà, della so cortesia. (Voggio veder se me basta l’animo de farmela amiga, acciò che no la me rebalta). (da sè)

Beatrice. Questa non è la maniera di vivere a spalle altrui, a forza d’impertinenze.

Tonino. Mi ghe assicuro, che sparzeria tutto el sangue che gh’ho in te le vene, perchè mia muggier non gh’avesse dà sto desgusto.

Beatrice. Vi dispiacerà, perchè temete ch’io vi faccia uscire di questa casa.

Tonino. La me perdona, no la me cognosse. Mi son un omo che vive per tutto, e se no la me vede volentiera, in sto momento son pronto andar via. Me despiase unicamente esser stà causa del so disturbo perchè, la me permetta che ghe lo diga de cuor: ella xe una persona che stimo infinitamente, e ghe zuro che in tutto quel mondo che ho praticà, non ho trovà una persona più giusta, più amabile, più discreta de ella.

Beatrice. Signor poeta, mi burlate voi?

Tonino. No son capace de torme sta libertà. Ella la xe una signora che obbliga a prima vista, che liga i cuori delle persone, e che imprime in tel medesimo tempo amor, reverenza e respetto.

Beatrice. Signor Tonino, non istate così in disagio. Accomodatevi, sedete.

Tonino. Per obbedirla, accetterò le so grazie. (Eh, questa colle donne la xe una scuola che no falla mai). (da sè, prende le sedie)

Beatrice. (Povero giovane! le sue disgrazie mi muovono a compassione). (da sè)

Tonino. La se comoda prima ella.

Beatrice. (È tutto civiltà; bisogna sia una persona ben nata). (da sè)

Tonino. Chi dirave mai che una signora come ella, savesse cussì ben governar una casa, e gh’avesse massime cussì giuste, cussì economiche, cussì esemplari? [p. 580 modifica]

Beatrice. Certo, se non foss’io, povero mio marito! Questa casa andrebbe in rovina.

Tonino. Mah! L’è sta ben fortuna el sior Ottavio a trovar una muggier com’ella. Una certa simpatia sento che me obbliga e me trasporta a consacrarghe colla mazor onestà e modestia tutto el mio cuor.

Beatrice. Ah, signor Tonino, voi siete poeta.

Tonino. Cossa vorla dir per questo?

Beatrice. Siete avvezzo a fingere.

Tonino. Un tempo i poeti finzeva, quando i se serviva delle favole per spiegar i popri pensieri, e quando colle iperboli e coi traslati i vestiva de finti colori le parole e i concetti. Adesso la poesia è deventada piana e sincera, e che sia la verità, la senta un sonettin, che ho fatto za un’ora in lode18 de ella.

Beatrice. In lode mia?

Tonino. In lode soa.

Beatrice. Così presto?

Tonino. L’averlo fatto presto, giustifica che l’ho fatto de cuor. (No la sa, che so improvvisar). (da sè)

Beatrice. Io veramente non amo la poesia.

Tonino. Se no la vol che ghe lo diga, pazienza.

Beatrice. È un sonetto in mia lode?

Tonino. Senz’altro.

Beatrice. Via, perchè l’avete fatto voi, lo sentirò volentieri.

Tonino. (Sentirse lodar piase a tutti, e specialmente alle donne). (da sè) La senta, e la compatissa.

SONETTO.

Morbido e folto crin, fra il biondo e il nero,19

     Spaziosa fronte, e bianco viso e pieno,
     Occhio celeste, or torbido, or sereno;
     Angusto labbro, rigoroso, austero.

[p. 581 modifica]
Tenera e breve man, degna d’impero,

     Candido, bipartito, amabil seno,
     D’ogni proporzion corpo ripieno,
     Aria sprezzante, e portamento altero.
Questa è di voi visibile bellezza,
     Ma di gloria maggior degna vi rende
     La velata beltà, che più si apprezza.
Spirto, che tutto vede e tutto intende,
     Arte, che tutto brama e tutto sprezza,
     Cuore, che manda fiamme, e non s’accende.

Beatrice. Caro signor Tonino, voi mi mortificate.

Tonino. Ho dito anca poco a quello che dir doveria. Oh, se a sto sonetto ghe podesse metter la coa, la sentirave qualcossa de più.

Beatrice. Io non lo merito certamente.

Tonino. Ma possibile che la sia tanto nemiga della poesia?

Beatrice. In verità, che ora la poesia mi comincia a piacere.

Tonino. Ela contenta che ghe daga qualche lezion?

Beatrice. Sì, mi farete piacere.

Tonino. Benchè el so sior consorte ghe ne sa più de mi, el ghe poderà insegnar meggio.

Beatrice. Oibò, non ha maniera, non ha comunicativa. Imparerò più facilmente da voi.

Tonino. Dirala più mal dei poeti?

Beatrice. No certamente.

Tonino. Ghe vorla ben?

Beatrice. I poeti della vostra sorte meritano tutta la propensione.

Tonino. Ghe piase el mio stil?

Beatrice. Voi componete con una grazia, che innamora20. [p. 582 modifica]

SCENA XI21

Ottavio che osserva e detti.

Ottavio. (Mia moglie accanto al poeta Veneziano?) (da sè)

Tonino. Come hala fatto a innamorarse22 cussì presto?

Ottavio. (Innamorarsi?) (da sè)

Beatrice. Effetto del vostro merito.

Ottavio. Signori, li riverisco. (alterato)

Tonino. Servitor obligatissimo.

Ottavio. Come si divertono, padroni miei?

Tonino. Son qua che me dago l’onor de insinuar el gusto de la poesia nell’animo della siora Beatrice.

Ottavio. Eh, voi non me lo darete ad intendere. Beatrice è nemica della virtù.

Beatrice. Credetemi, marito mio, che ora principio a prenderci gusto.

Ottavio. Dite davvero?

Tonino. Me impegno in pochi zorni de farla poetessa.

Ottavio. Oh, la fortuna il facesse!

Beatrice. Se volete che impari qualche cosa, non mi sturbate23.

Ottavio. No, non vi sturbo, vado via. Caro poeta mio, insegnatele i versi, le rime. Fate voi, mi raccomando a voi, vi sarò eternamente obbligato. Beatrice non griderà più contro le accademie, contro le Muse. Che siate benedetto! Caro poeta! Il cielo me l’ha mandato). (da sè, parte)

Beatrice. Avete sentito? Mio marito a voi mi raccomanda.

Tonino. E mi farò el mio dover.

Beatrice. M’insegnerete?

Tonino. Ghe insegnerò.

Beatrice. Ma quando principierete?

Tonino. Quando che la vol.

Beatrice. Sono impaziente d’apprendere le vostre lezioni.

Tonino. Vorla che adesso ghe scomenza a dar una lizionzina?

Beatrice. Mi farete piacere. [p. 583 modifica]

Tonino. La senta sti versi; i se chiama endecasillabi, cioè de undese piè. I xe otto versi, che forma un’ottava rima. El primo se rima col terzo e col quinto; el segondo col quarto e col sesto; e i do ultimi da so posta. La ascolta sta ottava, la la impara, e per adesso ghe basta cussì.

Xe un dono de natura la bellezza,

Che se perde col tempo, e se ne va.
Xe un don della fortuna la ricchezza,
Che podaria scambiarse in povertà.
Quel che se stima più, che più se apprezza,
Xe la fede, el bon cuor, la carità.
Questa xe la lizion, che mi ghe dago;
La impara sta ottavetta, e me ne vago. (parte)

Beatrice. Questo giovine mi ha incantato.

SCENA XII24.

Brighella da bidello e Beatrice.

Brighella. Signora padrona, me rallegro che la sia deventada amiga della poesia.

Beatrice. (Ha parole, ha versi, ha concetti, che farebbero innamorare i sassi). (da sè)

Brighella. Comandela che ghe recita una ottavetta?

Beatrice. Eh, non voglio sentire le tue freddure.

Brighella. Anca mi me inzegno. Son anca mi un pochettin poeta.

Beatrice. Va al diavolo tu e la tua poesia.

Brighella. Ma el patron m’ha dito che anca ella la scomenza a dilettarse de sta bella virtù.

Beatrice. Tu e il tuo padrone siete due pazzi. (parte)

Brighella. Bon! Elo questo el gusto che l’ha chiappà alla poesia? Ah, pur troppo l’è vero! Le donne son volubili.

Come del cielo instabili le nubili. (parte)
[p. 584 modifica]

SCENA XIII25.

Sala illuminata.

Ottavio vestito pomposamente, seguito da tutti i personaggi. Siedono. Ottavio s’alza, e dopo aver fatto riverenze, legge e recita, come segue.

O ignorantissima temeraria gente, ascoltatori miei gentilissimi, o ignorantissima temeraria gente, che contro la poetica sovrumana virtù ingiurie pessime scaricate, eccoci a dispetto vostro alla fin fine uniti, ragunati e raccolti, per dar principio alle nostre accademiche esercitazioni! Ragion vuole che io, poichè del principesco onore insignito mi trovo, parola dell’istituto nostro altrui faccia; e del titolo nostro, e dell’accademica pastorale, primitiva, novella impresa nostra, tutti e ciascheduno di quei che mi ascoltano, cautamente avvertisca. Non senza ponderazione e mistero la novella pianta d’alloro abbiamo noi per impresa scelta, eletta e destinata, poichè, siccome le tenerelle piante crescono coll’andar del tempo, e della loro ombra ingombrano i larghi piani, noi così parimente, quali novelle piante dall’acqua d’Ippocrene inaffiate, andremo i teneri ramuscelli in forti e robusti rami cangiando. Crepate dunque, invidiosi, sì, crepate (Accademici gentilissimi, meco esclamate voi pure) sì, crepate d’invidia, invidiosissimi che noi invidiate, poichè il serenissimo, biondo, canoro Apollo trasformerà questa nostra sontuosa e bene illuminata sala nel monte celebrato Parnaso, e le virtuose donne accademiche nostre in Muse trasformate saranno, e noi saremo in satiri convertiti; e il sommo Giove scaricherà sopra noi i fulmini della sua clemenza, e la provida madre terra ci aprirà il seno benefico, per seppellirci tutti in un abisso di gloria. Ho detto. (siede) Fidalma Ombrosia, a voi. (a Rosaura)

Rosaura. Dirò una breve canzone lirica.

Ottavio. (Sarà petrarchesca). (da sè) [p. 585 modifica]

Rosaura. Amore, involto ne’ tuoi lacci ho il core,

     Nè che si sciolga e lo sprigioni io chiedo,
     Poichè in van spargerei le voci ai venti.
     Chiedo soltanto che l’aspro rigore,
     Onde assalire e circondar mi vedo,
     Per te in parte si tempri, e si rallenti.
     Chiedo de’ miei tormenti
     Scemato il tristo e grave
     Peso, che oppressa m’ave;
     Chiedo che tua pietà mi porga aita,
     Prima che manchi in sul finir mia vita.
Aspra è la piaga, che nel seno impressa
     Fu dallo stral che non ferisce in vano,
     E di colpo leggier pago non resta;
     Ma dello stral la ferrea punta istessa
     Del mio leggiadro feritore in mano
     Alla piaga letal balsamo appresta.
     Quella che pria funesta
     Parve cagion di pianto,
     Ora è il mio più bel vanto.
     Perdona, Amor, se il pentimento è tardo,
     Amo e stringo i tuoi lacci, e bacio il dardo.
Porre vogl'io delle bilance a un lato
     L’aspre pene sofferte e i crudi affanni,
     E dall’altro un piacer solo amoroso,
     E vedrò questo di recente nato
     Premer sua lance, e dei passati danni
     Vincere il duro grave peso annoso.
     Amor orgoglioso
     Più in suo voler non sembra;
     Di lui più non rammembra
     L’alma, che lieta fassi, il crudel modo,
     E lieta piango e de’ miei pianti io godo26

[p. 586 modifica]

Ottavio. Bravissima. Evviva Fidalma Ombrosia. Ah, che ne dite eh? Avete sentito mia figlia? Avete sentito il Petrarca? Oh figlia mia! Che tu sia benedetta.

Rosaura. Compatiranno.

Ottavio. Sì, sì, compatiranno. Una canzone di questa sorta compatiranno.

Eleonora. (Avete sentito la petrarchesca27 selvatica?) (a Lelio)

Lelio. (Credono che per fare una canzone o un sonetto petrarchesco, basti imitarlo rozzamente nei versi, e non pensano alla condotta, all’unità, alla forza, e precisamente alla bellezza degli epiteteti e degli aggiunti).

Ottavio. Cintia Sirena, a voi.

Eleonora. In difesa d’Amore, accusato ingiustamente di perfido e di crudele.

SONETTO.

Perfido Amor? Chi è che d’Amor favella

     Con sì poco rispetto, e ingrato tanto?28
     Del vero amor, no, non conosce il vanto,
     Chi lui tiranno e menzognero appella.
Dolci, amabili son le sue quadrella,
     D’allegrezza cagione, e non di pianto;
     Ed è virtù dell’amoroso incanto,
     Ch’ogni cosa all’amante orna ed abbella.
Non è Amor che comanda il serbar fede
     All’empio, ingrato, sconoscente cuore,
     Che non cura l’affetto, o non lo crede!
Chi ha dall’idolo suo sdegno e rigore,
     Cambi, e cerchi in altrui miglior mercede,
     E troverà sempre pietoso Amore. (tutti applaudiscono)

Eleonora. Compatiranno.

Ottavio. Eh, può passare, può passare: non è petrarchesco, ma può passare. Avete sentito mia figlia? [p. 587 modifica]

Florindo. (Che dite del sonetto della signora Eleonora?) (a Rosaura)

Rosaura. (Non è suo: gliel’ha fatto un giovine studente, che lo ha confidato a Brighella).

Florindo. (Non è cosa fuor di uso. Quasi tutte queste signore, che passano per poetesse, si fanno fare le composizioni dagli altri).

Lelio.29 Parlo a voi, Muse veraci,

Che cantare il ver solete.30
     Non sperate aver seguaci,
     Che derise in oggi siete.
     Più non v’è chi dietro a voi
     Perder voglia i giorni suoi.
Non entrate, o meschinelle,
     Nello studio d’un legale,
     Che alle vostre rime belle
     La bugia colà prevale;
     E si studia onninamente
     Attrappar qualche cliente.
Non andate, o poverette,
     Da quel medico stupendo,
     Dove a caso le ricette
     Di sua mano ei sta scrivendo.
     Dar la vita è vostra sorte,
     Egli studia a dar la morte.
Lungi, lungi, Muse amare31,
     Dalla casa del mercante.
     Egli studia accumulare
     Giorno e notte il suo contante;
     E col peso e la misura
     D’ingannare altrui procura.

[p. 588 modifica]
Lungi pur dal giuocatore,

     Che di voi disprezza l’arte,
     Egli sparge il suo sudore
     Sullo studio delle carte,
     E procura il suo guadagno
     Sulla strage del compagno.
Dalle donne brutte o belle
     Voi sarete discacciate,
     Che nel liscio della pelle
     Spendon mezze le giornate.
     Stanno a letto assai di giorno,
     E la notte vanno attorno.
Una volta gli amoretti
     Favoriva ancor la Musa;
     Con canzoni e con sonetti
     Far l’amor più non si usa.
     Or la gente è persuasa,
     Che sia meglio entrar in casa.
Le gran menti non si degnano
     Oggi più di poesia;
     Studian cose, cose insegnano
     Da oscurar la fantasia;
     E chi sale troppo in alto,
     Fa talvolta un brutto salto.
Non sperate ritrovare
     Dai poeti alcun ristoro:
     Non pon darvi da mangiare,
     Non ne han nemmen per loro;
     Per la fame i poverelli
     Son di voi fatti ribelli.
Ma se niuno vi vuol seco,
     Se ciascun vi manda via,
     Muse, su venite meco,
     Io vi prendo in compagnia.

[p. 589 modifica]
     Per il mondo andrem girando,

     Gli altrui vizi criticando.
E chi il merito32 disprezza
     Dei poeti e delle Muse,
     Gente al male solo avvezza,
     Che dal sen virtude escluse,
     Proverà se meglio fia
     Rispettar la poesia.
Poesia, virtù celeste,
     Che in gran pregio un tempo fu,
     Che da certe nuove teste
     Non si stima in oggi più:
     Perchè d’altro sono amanti
     I viziosi e gl’ignoranti. (tutti applaudiscono)

Ottavio. Perchè d’altro sono amanti

     I viziosi e gl’ignoranti.
     Perchè d’altro sono amanti
     I viziosi e gl’ignoranti.

 Ovano Pazzio, tenete. (gli dà un bacio)
Breviano Bilio, a voi.

Florindo. Fileno chiede consiglio ad Amore, come abbia ad assicurarsi dell’affetto della sua Nice.

SONETTO.

Dimmi, pietoso Amor, che far poss’io

     Per meritar di Nice mia l’affetto?
     Vuoi tu ch’io m’apra di mia mano il petto,
     E che in dono al mio bene offra il cor mio?
Vuoi che asperso di pianto acerbo e rio,
     A lei mi mostri in doloroso aspetto?
     Vuoi ch’io peni senz’ombra di diletto,
     Vuoi tu ch’io taccia, e in sen nutra il desio?

[p. 590 modifica]
Vuoi ch’io l’attenda rispettoso, umile,

     O ch’io segua da lunge i passi suoi?
     Vuoi ch’io sia nell’amarla ardito, o vile?
Tutto, Amore, farò quel che più vuoi,
     Per l’acquisto di lei vaga e gentile.
     Deh, consigliami tu, che far lo puoi.

(tutti applaudiscono)


Ottavio. Magronia Prudenziana, ora tocca a voi. (a Corallina)

Corallina. Signore, io non ho preparato niente.

Ottavio. Dite qualche cosa all’improvviso.

Corallina. Favorite darmi voi l’argomento.

Ottavio. Venite qui, rispondete a questo sonetto. A un sonetto mio, a un sonetto mio, estemporaneamente, in lode del glorioso, erudito femmineo sesso. Compatirete.

SONETTO.

Spezzate omai le stridule conocchie,

     Donne, e venite al fonte d’Aganippe,
     Le canore v’attendono sirocchie,
     E vi faranno omai tante Menippe.
E voi restate in mezzo alle ranocchie,
     Genti, che avete le pupille lippe,
     E Apollo mandi un nerbo, che vi crocchie,
     E v’acciacchi ben bene e spalle e trippe.
La gloria di Parnaso a voi s’approccia;
     Vedo le donne uscir fuori del vulgo,
     E mi sento stillare a goccia, a goccia.
La fama delle femmine divulgo,
     E tutto fuori della mortal buccia,
     Delle femmine in mezzo anch’io rifulgo.

Corallina. Ringraziamento delle donne. Sonetto colle medesime maledettissime rime.

Ottavio. Io scrivo sempre con queste rime difficili. [p. 591 modifica]

Corallina. Le donne avvezze sono alle conocchie,

     Nè soglion bere l’acqua d’Aganippe.
     Non sanno alle compagne, o alle sirocchie,
     Di Menippo parlare, o di Menippe.
Giovani cantan come le ranocchie,
     E quando per l’età diventan lippe,
     Forz’è che ognun le sprezzi, ognun le crocchie,
     Poichè buone non son, che da far trippe.
La lode vostra al vero non s’approccia;
     Ed io, che nata sono in mezzo al vulgo,
     Sudo per il rossor più d’una goccia.
Ma poichè in grazia vostra mi divulgo,
     Vestita anch’io della novella buccia,
     Fra cotante pazzie, pazza rifulgo.

Ottavio. Oh bello! Oh brava! Evviva. Oh che roba! Oh che roba! A Roma a Roma, al Campidoglio, al Campidoglio. Meritate essere incoronata, e se nessuno lo vorrà fare, v’incoronerò io, v’incoronerò io.

Eleonora. (Gran miracoli che si fanno per quattro spropositi di una pettegola). (a Lelio)

Lelio. (Può essere che quel sonetto lo abbia veduto prima d’adesso).

Ottavio. Ora tocca a voi, Adriatico Pantalonico.

Tonino. Comandela che la serva de quattro spropositi all’improvviso?

Ottavio. Via, sì, dite qualche cosa di bello.

Tonino. Le favorissa de darme l’argomento.

Florindo. Ve lo darò io. Dite se nelle donne sia più stimabile la bellezza o la grazia.

Tonino. Amor, che delle donne ti te vai33

     Per mettere in caena i nostri cuori,
     Dimme se della donna più prevai
     I bei graziosi vezzi o i bei colori.

[p. 592 modifica]
     La femmena, che a nu fa ben e mal,

     Ora dandone gusti, ora dolori,
     Per venzer sempre, e trionfar segura,
     La doperà a so tempo arte e natura.
Amor, ti che ti pol andar là drento
     In tel cuor della donna a bisegar34,
     Che ti sa l’arte, el modo e el fondamento,
     Come possa la donna innamorar.
     Te prego, in grazia, damme sto contento,
     Fa che el vero a capir possa arrivar,
     E sappia dir co un poco de dolcezza,
     Se più possa la grazia o la bellezza.
Supplico chi m’ascolta aver pazienza,
     E voler quel che digo perdonar,
     Perchè prevedo che la mia sentenza
     Ugual diletto a tutti no pol dar.
     Amor m’inspira, e spero a sufficienza
     De grazia e de beltà poder parlar,
     A una delle do s’aspetta el vanto,
     E mi dirò la mia opinion col canto.
          Il ciel benigno e provido
               Vedendo che più fragile
               Dell’uomo era la femmina,
               Per renderla più amabile,
               Per farla compatibile,
               Le diè bellezza e grazia.
                                             Le diè ecc.
          Quel che bellezza chiamasi
               Talora è un viso candido,
               Talora bruno o pallido;
               Due luci belle diconsi
               Talor, perchè negrissime,
               O pur di color vario;

[p. 593 modifica]
          Talor perchè allegrissime,

          Talor perchè patetiche;
          E belle son, se piacciono.
                                   E belle ecc.
     Chi vuol la donna picciola,
          Chi grande la desidera,
          Del grasso chi dilettasi,
          E chi la vuol magrissima;
          Chi vuol che sappia ridere,
          Chi vuol che sappia piangere;
          E belle chiaman gli uomini
          Sol quelle che a lor piacciono.
                                   Sol quelle ecc.
     Bellezza è dunque varia,
          E non ha certo merito,
          E non può i cori accendere,
          Se a lei non somministrasi
          Valor da noi medesimi.
                                   Valor ecc.
     Ma non così la grazia,
          La qual da tutti ammirasi35,
          E d’essa ognun dilettasi,
          E ognun, che ad essa accostasi,
          Si sente nel cuor ardere.
                                   Si sente ecc.
     La grazia, ch’è indelebile,
          In una brava femmina
          In vecchia età conservasi;
          Ma una sgarbata giovine,
          Ancorchè sia bellissima,
          Quando un pochino invecchia,
          Si rende altrui ridicola.
                                   Si rende ecc.

[p. 594 modifica]
     Più vale assai lo spirito

          D’una bellezza stolida:
          Le donne assai più possono
          Col vezzo, che col minio.
          Bellezza va prestissimo,
          La grazia è più durabile:
          Quest’è la mia sentenza.
                                        Quest’è ecc.
     Graziose femmine
          Se qui m’ascoltano,
          Il mio gradiscano
          Sincero cor.
               E le bellissime
                    Deh mi perdonino,
                    Che inimicissimo
                    Non son di lor.
               Molto esse possono
                    Col volto amabile,
                    Coll’adorabile
                    Loro beltà.
     Ma della grazia
          E il pregio massimo,
          Che ancor conservasi
          Nell’altra età.
               Però confessovi,
                    Che a me pur piacciono,
                    Vermiglie o candide,
                    Le donne ognor,
               Che mi ferirono,
                    E mi feriscono,
                    Ed esser dubito
                    Ferito ancor.

[p. 595 modifica]
Amor, ti ti ha deciso che val più

La grazia femminil della beltà,
Ma parlemose schietto fra de nu:
L’una e l’altra xe forte in verità.
Se spirito gh’avesse e più virtù,
Diria de tutte do l’attività.
Fenisso, perchè v’ho seccà abbastanza,
Se ho dito mal, domando perdonanza.

Ottavio. Evviva, evviva.

Se ho detto mal, domando perdonanza.

Risuoni questa stanza.
Viva la poesia!
Sonatori, sonate sinfonia.

(si suona sinfonia, e tutti partono)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Bett., Paperini ecc.: onesto.
  2. Bett. continua: ma se io non venivo qui, le cose si concludevano fra di voi.
  3. Segue nell’ed. Bett.: «Beatr. Maledetta la vostra accademia. Ott. Maledetta voi e le vostre indegne parole».
  4. Bett. continua: siate maledetto voi e i vostri versi.
  5. È unita alla scena preced. nell’ed. Bett.
  6. È unita in Bett. alle scene precedenti.
  7. Bett.: cava.
  8. Sc. IV nell’ed. Bett.
  9. Sc. V nell’ed. Bett.
  10. Zatta: questo.
  11. Bett., Pap. ecc.: so care.
  12. Sc. VI in Bett.
  13. Bett.: Chi ela ella.
  14. Bett. aggiunge: «Beatr. Temerario».
  15. Sc. VII in Bett.
  16. Sc. VIII nell’ed. Bett.
  17. Bett. aggiunge: la bastonerò, la cazzerò via.
  18. Zatta: che ho fatto in lode.
  19. Questo all’incirca era il ritratto dell’Attrice che faceva la parte di Beatrice, la signora Caterina Landi. [nota originale]
  20. Bett.: con una grazia mirabile. E continua: «Ton. Quanto che ghe insegno volentiera. Beatr. Quanto mi piace la vostra poesia!»
  21. Sc. IX nell’ed. Bett.
  22. Paper.: innamorarsene.
  23. Zatta: disturbate.
  24. Sc. X nell’ed. Bett.
  25. Sc. XI in Bett.
  26. Segue in Bett.: «Canzon, che breve or sei, - Come dei dolor miei - Fu breve il rio momento, - Or più bella ti rende il mio contento. Tutti applaudiscono».
  27. Bett.: petrarchessa.
  28. È sbagliata nell’ed. Zatta la punteggiatura.
  29. Segue nell’ed. Bettin.: A quelli che disprezzano la poesia. Stanze anacreontiche.
  30. Bett.: Muse garrule e loquaci - Che sol d’ozio vi pascete.
  31. Bett.: o Muse care; Zatta: Muse amata.
  32. Bett.: il nome ancor.
  33. Cantando sull’aria degl’improvvisatori. [nota originale]
  34. Frugare, stuzzicare, solleticare, brulicare ecc.: v. Boerio, Diz. cit.
  35. Bett.: La qual da tutti vedesi - In un oggetto simile.