Il vecchio della montagna/VII

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Capitolo VII

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VI VIII

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VII.



Ma nè l’indomani nè poi Melchiorre gli rivolse parole di rimprovero. Venne e passò il settembre, venne e s’inoltrò l’ottobre. A giorni imperversava il vento, cangiando gli elci in altrettanti demoni dalle cento braccia pazzamente mosse, dai cento urli profondi; e pioveva, e faceva freddo, e la nebbia umida e amara saliva, scendeva, ondeggiava, avvolgendo il bosco e le roccie in grigi velari. Poi vennero i soavi giorni d’autunno. L’erba fine e lucente rinasceva sulle chine, sul molle terreno che fumava al sole: e le roccie scoperte apparvero lavate e chiare, il musco e l’edera s’imbrunirono, e tutto il bosco, dai tronchi alle foglie, prese una tinta scura e triste. Ma il sole d’autunno era dolce e tiepido in quei pomeriggi tranquilli: dal mare salivano bianchi vapori, che diventavano piccolissime nuvole candide e rotonde, e seguivano il sole in lenta marcia e lo raggiungevano e lo velavano. Allora il suo disco argenteo senza [p. 130 modifica]raggi precedeva, seguito da quell’ondeggiante greggia aerea che si stendeva a ventaglio, luminosa sul fondo chiaro del cielo.

Basilio assomigliava quel lento passaggio di nuvole a una greggia di agnelli autunnali dal vello candido e morbido come seta; e restava lunghe ore assorto in quella contemplazione, supino, con gli occhi pieni di desiderii. Oh, possedere tutte quelle greggie! E una tanca immensa e piana come il cielo! Zio Pietro raccontava una storia di due pastori che sdraiati all’aperto, in una serena notte estiva, avean desiderato, uno di posseder una tanca grande quanto il firmamento, l’altro tante pecore quante stelle vi brillavano.

— E dove le pascoleresti? — chiese il primo.

— Nella tua tanca.

— Ma io non te l’affitterei.

— Ed io entrerei lo stesso.

— E io ti pesterei il muso.

— E prova!

S’azzuffarono; e le stelle risero di loro.

Per evitare dunque ogni inconveniente, Basilio desiderava tutto, e la tanca vasta come il cielo e le greggie numerose [p. 131 modifica]come le nuvolette dei tepidi pomeriggi autunnali.

— Che ne faresti? — chiese un giorno zio Pietro.

— Mi ammoglierei!

— Veramente? Quanti anni hai? Diciotto? Baffi hai tu per pensare a queste cose? Del resto non occorre avere il cielo e le nuvole per procurarsi l’amore d’una donna onesta. Io, quando tornai dal servizio militare, non avevo nulla, neanche la punta d’un capello. Ma avevo buona volontà: mi misi a fare il pastore, e Maria Grazia mi sposò e fummo felici.

— Eravate più vecchio di vostra moglie?

— No, credo che ella avesse qualche anno più di me; ma era la più buona massaia di Nuoro. Faceva persino i formaggelli col cacio di capra e sembravano di cacio di vacca. E dalla lana che essa filò, le mie capre da trenta diventarono cento, e zio Pietro potè acquistare il terreno per pascolarle tutto l’anno.

Basilio ascoltava, e una gioia luminosa come quel celeste mattino d’autunno gli invadeva il cuore al pensiero che forse un giorno Paska lo avrebbe voluto per [p. 132 modifica]sposo, anche senza la tanca vasta come il cielo e le greggie numerose come le stelle. Ma Paska non era l’antica onesta Maria Grazia, e il cuore di Basilio non era il cuore puro di zio Pietro; e alla gioia seguiva la tristezza, i pensieri insidiosi turbavano la mente del mandriano. Il suo sogno era di scendere a Nuoro; ma le capre pregne, che ora pascolavano lente e gravi, avevano cessato di dar latte, e neppure Melchiorre s’assentava. Solo talvolta, quando qualche caprone si smarriva, Basilio andava verso la chiesa grigia e umida nel cerchio dei boschi bruni velati di nebbia: una triste malìa lo sospingeva lassù, e poi verso Monte Bidde, fino alla sporgenza di roccia ove Paska, guardandolo entro gli occhi, gli era penetrata nell’anima. Dov’era adesso? pensava a lui? Gli elci mormoravano cupi sotto il cielo grigio; ma Basilio sentiva ancora i gridi argentini del flauto, le vibrazioni gravi della chitarra; e tutta la montagna coperta di nebbia esalava ancora il profumo delle fronde bruciate, come in quella sera. Ma Paska, Paska, dov’era? Egli se lo chiedeva spasimando, e avrebbe voluto gridare dalle cime tutta la violenta passione che lo [p. 133 modifica]bruciava; gridare, urlare, implorare, in modo da riempire il mondo delle sue grida. Mai aveva pensato a sua madre e guardato il suo villaggio come adesso pensava a Paska, come adesso guardava verso Nuoro grigia fra la nebbia.

E passò l’ottobre e passò il novembre. Nulla di nuovo all’ovile, tranne una sera in cui giunse un giovinotto paesano, ben vestito, leggiadro e roseo in viso come una donna. Era uno dei figli di zia Bisaccia.

— Salute! — gli disse Melchiorre. — Che buon vento ti porta qui?

L’altro rispose ridendo che lo accusavano d’aver rubato un bue.

— E piuttosto che andarmene al servizio del Re, come i miei fratelli, preferisco passeggiare in campagna.

— Ma l’hai rubato, il bue?

— Macchè!

— Allora, — osservò zio Pietro, — sarebbe meglio costituirti. Si dilucideranno meglio le cose.

— Andate! Andate! Non voglio morir di fame, quest’inverno; perchè, sapete, là dentro danno una scodellina d’acqua con olio e due patate, e un pane. Un pane solo al giorno, capite? Così il Re [p. 134 modifica]mantiene quelli che sono al suo servizio; e ad alimentare un corpo cristiano non ci vuol solo un pane, zio Pietro mio; ci vuole anche un po’ di arrosto e una buona zucca di vino.

— E tua madre non può mandarti il pranzo da casa vostra?

— Prima ella s’impicca. «Mangiate quello che vi dà il Re, giacchè vi siete messi al suo servizio» dice!

Egli recava sulle spalle una piccola bisaccia di cuoio; se la tolse, ne slargò l’apertura, ed estraendone un mazzo di carte, propose una partita al lanzichenecco. Nessuno sapeva il gioco, e d’altronde nè zio Pietro nè Melchiorre avevano voglia di giuocare. Basilio accettò una partita alla scopa.

— Hai denari? — chiese il giovine.

Basilio, con le mani in tasca, alzò le spalle sorridendo.

— E neppure una capra? — aggiunse l’altro mescolando le carte.

— Neppure.

— E allora facciamo così: io ho qui una gallina (e guardò con un solo occhio entro la bisaccia). Non è rubata, sai, no, l’ho presa di casa; mia madre strillerà, accorgendosene, ma non [p. 135 modifica]incolperà nessuno, perchè ella dice che, finchè ha dei figli fuori del carcere, e le verrà rubata qualche cosa, non dubiterà mai d’altri.... Basta, infine facciamo così: se perdo io, Melchiorre infila la gallina nello spiedo; se perdi tu, ti do sette pugni.

— Accetto.

Seduti per terra giocarono, al chiarore del fuoco, e il figlio di zia Bisaccia rideva come un fanciullo, raccontando storielle amene. Il cane, il gatto, e più indietro la lepre simile a un gomitolo di seta bionda, con gli occhioni che riflettevano la fiamma, guardavano intenti. Fuori la nebbia pallida saliva dal mare, la pioggia scrosciava sugli elci, dal vello sporco delle capre l’acqua gocciolava gialla, e la macchietta immobile e rassegnata del cavallino appariva or sì or no fra la nebbia sotto il fantasma deforme dell’elce.

Melchiorre guardava dall’apertura della capanna, e una domanda gli fremeva sulle labbra mentre il paesano raccontava le novità di Nuoro. Ma in fondo s’irritava contro la sua curiosità e taceva. Dopo il voto pronunziato sul capo paterno, negli ultimi mesi era vissuto come [p. 136 modifica]automa, senz’altra volontà che quella di mantener la promessa: e gli sembrava che nulla più gl’importasse di Paska.

Vinse Basilio, forse per generosità dell’avversario, il quale aveva un ottimo cuore e rubava le provviste di sua madre per portarle alle sue amanti povere. La gallina nera picchiettata di bianco venne fuori dalla bisaccia, e fu pelata e passata alla fiamma: dentro aveva un grappolo d’uova alcune già grosse e gialle. Ahi, quanto doveva strillare zia Bisaccia!

Infilando la gallina nello spiedo, Melchiorre aprì le labbra per far la domanda che gli saliva suo malgrado alle labbra. Sollevò gli occhi, vide che il bel giovine rideva e non osò. No, no, no: che gl’importava? Era così vile da interessarsi ancora ad una donna che aveva bastonato?

Il gatto sbadigliava e inarcava la schiena, seguendo il girar dello spiedo con occhi fosforescenti: fuori la pioggia scrosciava e la nebbia saliva fino alla capanna; dall’apertura ormai non si scorgeva che uno sfondo grigio, pervaso da un sonoro rombo di tempesta. Pareva che i torrenti straripati allagassero la radura, e che la capanna galleggiasse sola e [p. 137 modifica]perduta come una barca in alto mare. Non ostante questa desolazione i quattro uomini cenarono allegramente: sembrava che il bandito non temesse insidie, sicuro che nessuna potenza umana potesse arrivare fin lassù in quel mondo fatto di nebbia e di solitudine.

Eppure Melchiorre sentiva sempre la gola stretta dalla sua domanda, e mangiando, ridendo, chiacchierando, non cercava che il momento opportuno per liberarsi da quella specie di nodo.

— Oh, — disse a un tratto rapidamente, col boccone pieno, sforzandosi all’ironia, — e cugina mia cosa fa?

Basilio tese le orecchie; ma il paesano cessò di sorridere e rispose con indifferenza:

— Non ne so niente.

Melchiorre capì che egli invece ne sapeva molto.

— Cosa fa essa? Cosa fa? L’hai veduta? Ha sul viso ancora l’impronta dei miei schiaffi? Fa ancora all’amore coi signorotti?

— Coi signori e coi rustici, — rispose l’altro seccamente, e il discorso cadde, lasciando una impressione di rabbia nel cuore di Melchiorre e di Basilio.

[p. 138 modifica]Per distrarli zio Pietro raccontò una storiella.

— Sentite, una volta un mercante andò in un regno lontano, ove c’erano tanti topi che il re mangiava sempre pane, perchè il formaggio se lo rodevano quelli....

— Figuriamoci allora cosa si mangiava in carcere! — sogghignò il paesano.

— Basta, cosa fa il mercante? Tornato al suo paese prende tanti gatti e li porta in regalo al re, il quale, vedendo la strage che i gatti facevano dei sorci, dona al mercante tanti sacchi di oro. Poi, tornato il mercante al suo paese, un compagno invidioso pensa: se quel re regala tanto oro per tre o quattro gatti, cosa darà se gli portano cose di più gran valore? Cosa fa, prende e gli porta tutto il suo patrimonio in doni, oro, perle, broccato, vino, ecc.

— Anche formaggio?

— Anche. Ad ogni modo, sapete cosa fece il re? Siccome il visitatore, maligno, non aveva detto che era del paese di quell’altro, il re, credendolo d’un regno di topi come il suo, gli regalò sei gatti!

Al paesano piacque tanto la storiella, che dopo quella sera continuò a frequentare l’ovile: e ogni volta portava vino, [p. 139 modifica]lardo, pane bianco, salame, uova, carne, e rallegrava col suo riso spensierato la capanna desolata dal freddo. Benchè zio Pietro e Melchiorre fossero certi che un giorno o l’altro i carabinieri avrebbero sorpreso l’allegro giovane lassù, gli si affezionarono talmente che se qualche volta non veniva s’inquietavano, e senza la sua compagnia sentivano maggiormente la tristezza della solitudine e della mala stagione.

Per di più quell’anno gli elci in quel tratto di montagna non avean dato ghiande; quindi nessun pastore porcaro essendo salito lassù il bosco restava deserto sotto le continue nebbie. Gli uccelli eran migrati, le roccie umide sembravano rovine verdastre e rugginose, e dal mare oramai invisibile, continuamente salivano nubi e vapori cinerei: dietro le montagne, scialbe al mattino, bronzee alla sera, le nuvole descrivevano altre montagne alte e livide, talvolta orlate di bagliori gialli, talvolta illuminate da foschi tramonti vermigli; immobili sul cielo grigio sembravano montagne fantastiche da sogno pauroso.

Ai primi di dicembre nevicò, ma un leggero nevischio che tosto si sciolse.

[p. 140 modifica]Fra il gatto assopito e la lepre, i cui occhi fissi nelle fredde lontananze sognavano sempre la fuga, zio Pietro passava le giornate entro la capanna: e adesso che Melchiorre s’assentava di rado, e che pareva avesse dimenticato, si sentiva tranquillo, e pregava che l’inverno non diventasse molto rigido, che molti capretti venissero alla luce, che molto latte gonfiasse le mammelle delle capre. Lo scrosciar del bosco contorto dal vento gli diceva che l’inverno era lungo e rigido: ma per la sua antica esperienza sapeva che il vento, la pioggia, la nebbia e la neve erano necessarie perchè la terra s’impregnasse d’umido, gli alberi si spogliassero delle foglie inutili, le sorgenti rigurgitassero di acqua, e ogni cosa infine ricevesse dall’inverno i germi fecondi della primavera.

Quindi non si lamentava mai; anzi il tepore dei grossi tronchi accesi nella capanna lo avvolgeva spesso di sogni e come dalla tristezza dell’inverno la sua vecchia esperienza presentiva il rigoglio della primavera, così dalla melanconica rassegnazione di Melchiorre tornava a sperare un miglior avvenire. Melchiorre avrebbe nuovamente amato; e si sarebbe [p. 141 modifica]avverato il mite sogno del vecchio: lasciar quella selvaggia solitudine, passare gli ultimi inverni in una casetta fra cristiani con la nuora e i nipotini che lo avrebbero accompagnato ogni mattina alla messa. Intanto s’avvicinava il Natale, e appunto lo scrupolo d’ascoltar la messa almeno in quel giorno gli diede il desiderio di scendere a Nuoro.

— Scendo anch’io! Vi condurrò io! — gridò pronto Basilio.

— Lo condurrò io, — disse fermo Melchiorre.

— Ma anch’io ho diritto d’ascoltar la messa in quel giorno! Se non mi lasciate andar di buon grado, andrò lo stesso, vi piaccia o no.

— Andrai, — disse zio Pietro: e siccome Melchiorre alzava la voce, Basilio si fece umile e lo persuase con buone ragioni. Alla fine Natale era Natale, e ogni cristiano doveva onorare il Figlio di Dio: e si aveva un’anima sola, alla fine! Poco male se ne avessero due, da poterne perdere una! ma se ne aveva una sola, e.... infine egli voleva scendere a Nuoro ad ascoltar la messa.

Zio Pietro accennava di sì, di sì, sollevando ed abbassando la barba ingiallita [p. 142 modifica]dal fumo; ma Melchiorre fissava Basilio e gli puntava un dito sul petto:

— Tu? Tu? Cosa dici tu di anime e di divini Figli? Piccola volpe, tu non ne hai due, ma dieci di anime, e le darai tutte non al divin Figlio, ma al padre dell’inferno, a Lusbè il capo dei demoni.

Tuttavia gli permise di scendere a Nuoro per ascoltar la messa di mezzanotte; sarebbe risalito all’alba, e dopo il suo ritorno, lui e zio Pietro sarebbero scesi a loro volta, permettendolo il tempo.

Il tempo lo permise. Faceva un freddo intenso ma asciutto; il cielo spazzato dalla tramontana era d’un azzurro profondo, e le montagne lontane coperte di neve cristallizzata dal gelo tagliavano l’orizzonte come muraglie d’alabastro. Il bosco rabbrividiva, benchè il vento tacesse; e Basilio, col volto livido, il naso paonazzo e gli occhi lucenti di lagrime spremutegli dalla gioia e dal freddo, scese la montagna saltellando.

Il freddo aumentava col cader della sera: dalle radure scorgevasi dietro i boschi neri l’oro pallido del tramonto; s’udiva vibrato nel silenzio qualche grido di pastore che imitandone il grugnito richiamava i suoi porci sbandati; qualche [p. 143 modifica]lontano picchio d’accetta risuonava nel fitto della foresta. Basilio rispondeva a quelle voci e a quei suoni emettendo grida selvaggie che echeggiavano nelle lontananze come ripercosse dal granito. Altre grida rispondevano, ed egli continuava nella sua corsa, balzando e nitrendo come un puledro. Nella tasca di cuoio che gli pendeva dalle spalle gorgogliava un po’ di latte spremuto da alcune capre sgravatesi già di capretti magri e rachitici. Nella corsa l’aria fredda investiva Basilio e gli faceva calar dal naso un umore salato che egli si puliva ogni tanto con la mano.

Giunse a Nuoro che imbruniva: rientravano di campagna pastori e contadini; questi ultimi, con la lor giacca di cuoio, il volto aquilino e terreo, col pungolo sulla spalla, preceduti da piccoli buoi rossi o neri trascinanti l’antico aratro sardo, ricordavano gli agricoltori egizii.

Basilio passò di corsa, senza guardare nè salutar nessuno. Giunto nel cortile di zia Bisaccia vide la porta illuminata dal fuoco, e sentì voci aspre e fiere: era la padrona che copriva d’improperi il marito tornato dall’ovile dopo tre mesi d’assenza per passare almeno il santo [p. 144 modifica]Natale in famiglia. L’uomo non reagiva e neppure rispondeva alle grida della moglie; e quando Basilio entrò vide un vecchietto lacero e sporco, col viso sbarbato così pallido e gli occhietti azzurri così spauriti che lo derise e lo compassionò.

— Ave Maria! — disse, togliendosi di spalla la tasca. — Dite il rosario?

— Grazia piena, — rispose la donna, stizzita. — Sei tu, muso di sorcio? Cosa c’è di nuovo?

— Sono sceso per ascoltar la messa: domani verranno zio Pietro e zio Melchiorre. Prendete questo.

— Cos’è questo?

— Un po’ di latte.

— Per venderlo?

— No, per voi: ve lo regala zio Pietro.

Ella lo prese, rabbonita, e lo versò in una pentolina, lasciando pazientemente cader le ultime gocce dense, misurandolo con gli occhi; poi andò a nasconderlo affinchè i figli, ritornando quella notte coi loro scapestrati compagni, non se lo bevessero. Aveva nascosto anche l’agnello nero che il marito aveva portato dall’ovile. Ella non intendeva nè di andar alla messa, nè di far cena di grasso; gran che se sul fuoco abbassava e divideva la [p. 145 modifica]fiamma un paiolino nero ove gorgogliava l’acqua per un po’ di maccheroni. Nascosto il latte sedette per terra, e al chiarore del fuoco, stretto fra i ginocchi un mortaio cominciò a pestare un pugno di noci secche che sotto i suoi colpi feroci diventarono poltiglia gialla. Con questa avrebbe condito i maccheroni, seguendo la tradizione e risparmiando il cacio.

Basilio, ritto presso il focolare, spingeva i tizzoni con un piede, incerto se doveva o no chieder notizie per ritrovar la casa ove Paska serviva; ma no, zia Bisaccia era troppo maligna per non riferir tutto a Melchiorre. E come l’ometto dagli occhi azzurri spauriti aveva profittato della venuta di lui per sgattaiolare nella stanza attigua, egli colse il momento in cui zia Bisaccia s’alzava col mortaio sul petto, per far un mulinello sui tacchi e andarsene in giro.

Gli fu facile trovar il palazzo ove Paska abitava; una casa bianca le cui finestre erano illuminate; s’era levato il vento di tramontana e le stelle verdognole tremolavano sopra gli embrici sporgenti delle casupole intorno. La strada era deserta. Egli sollevò il viso e stette a lungo incerto, tremando, più che per il vento [p. 146 modifica]che gli sferzava la nuca, per un angoscioso senso di paura.

Non sapeva come era arrivato fin là, nè che cosa avrebbe detto alla ragazza; ma l’idea di non picchiare a quella porta e di andarsene senza veder Paska non gli passava neppure nella mente.

E picchiò, stringendo nel suo il pugno di ferro pendente sulla porta. Come era freddo quel pugno!

Il suono echeggiò nell’interno della casa: un cane abbaiò, un passo svelto risuonò nel corridoio. Basilio riconobbe il latrato del cagnolino nero, indovinò di chi era il passo, e si ritrasse palpitando di gioia e di paura.

— Chi è?

— Io.

— Chi, tu?

— Io, Basilio.

La porta stridette e Paska apparve premurosa e stupita.

— Sei tu? Cosa vuoi?

Cosa voleva? Egli non rispose. Voleva vederla, sentir la sua voce, appagare lo struggente desiderio che da quattro lunghi mesi lo tormentava. E Paska, come tutte le donne davanti all’uomo che le desidera, diventò seria e quasi triste.

[p. 147 modifica]— Cosa c’è di nuovo? — chiese sotto voce. — Sei sceso ad ascoltar la messa? Dove stai?

— In casa di zia Bisaccia.

— E il figlio, il figlio di questa donna, viene spesso al vostro ovile?

— Spesso, — rispose Basilio pur avendo la coscienza di far male: ed ella diventò premurosa e vivace.

— Come ti sei fatto grande! — disse, guardandolo da capo a piedi. — Senti, adesso non posso restar qui: vieni, ritorna, i miei padroni vanno alla messa; potremo parlare.

Basilio appoggiava al muro la mano tremante: gli pareva di dover cadere, come se qualcuno gli battesse con un randello le ginocchia.

— E tu alla messa non ci vai?

— No.

Ella spinse lievemente la porta.

— Ti aspetto, allora: adesso va. Addio.

— Addio.

La porta fu chiusa; a lui parve si chiudesse la porta del paradiso; ma una luce ardente gli sfolgorava dentro, ben dentro al petto. Rifece la strada, ritornò nei miseri vicinati ove la casa di zia Bisaccia sorgeva come una fortezza: e gli pareva [p. 148 modifica]di non toccare terra coi piedi, e di sfiorar invece con la punta gelata del naso il cielo limpido come uno specchio nella cui fredda trasparenza le stelle splendevano meno dei suoi occhi.