Italiani illustri/Barnaba Oriani

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Barnaba Oriani

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Vincenzo Monti Ippolito Pindemonte

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I frati! oh i frati erano un marame d’oziosi che non sapevano se non pregare e studiare. Inoltre facevano la carità a chiunque la cercasse, e così fomentavano l’ozio negli altri. Inoltre profittavano dell’ignoranza, e perciò la fomentavano, nemici dei buoni e dei dotti e dei libri. Inoltre.....

Queste cose le sentirete dire con intrepida asseveranza dai tanti che non sanno se non ripetere quel che hanno udito, che non sanno attribuire alle cose altro valore che quello del listino di piazza. Ma se aprite gli occhi, qua a Milano fuor di Porta Romana vedrete che le campagne meglio coltivate e più fruttifere son quelle attorno a Chiaravalle, dove i frati introdussero primi l’irrigazione regolare e i prati a marcita e la coltura del riso e la fabbricazione dei formaggi. E in mezzo alla città troverete il palazzo di Brera, dove prima stavano frati che insegnarono alla Lombardia la fabbrica de’ panni, e con questa arricchirono sè stessi e il paese: e dopo passò ad altri frati, che vi posero un’Università, fiorente di ogni studio. E fuor di Porta Tenaglia troverete la badia di Garignano, con altri frati, dai quali andava a cercare lumi e colloquj il Petrarca, e che faceano lavorare i migliori scultori e pittori, e valga per tutti Daniele Crespi.

E appunto un di questi frati di Garignano, andando attorno a consolare i poveri, com’essi facevano, tra i figlioletti dei contadini ohe venivano a baciargli la manb e chiedergli la benedizione ne distinse uno pien d’ingegno e vivacità, e cominciò a insegnargli qualche cosa; gli altri frati tolsero a volergli bene, e poichè non volle farsi frate, lo mandarono a Milano a Brera, dove altri frati teneano scuole fiorentissime, e aveano piantato allor allora un orto botanico e un osservatorio astronomico; istituzioni nuove a Milano. [p. 192 modifica]

Il giovinetto si chiamò l’abate Barnaba Oriani, e in grazia degli oziosi frati di Garignano e sotto gli oziosi frati di Brera, divenne uno de’ più famosi astronomi e (quel che oggi più si valuta) un ricco, cavaliere, conte, senatore.

Già il nome di lui noto era ai forestieri, che sogliono conoscere i nostri valent’uomini prima di noi, quando i Francesi vennero giù, secondo la solita frase, a liberarci. Buonaparte, appena arrivato a Milano, scrisse all’Oriani: — So che, sotto la tirannia austriaca, le arti e le scienze erano trascurate in Lombardia; che i letterati non vi godeano la considerazione che meritano, e, ritirati ne’ loro gabinetti, ascriveansi a fortuna se non fossero molestati dai re e dai preti. Oggi il pensiero è libero: la gran nazione stima più l’acquisto d’uno scienziato che d’una città. Cittadino Oriani, spiegate questi sensi ai dotti di Lombardia».

V’è certi patrioti che sono a pasto quando sentano dire che il loro paese fu ignorante, fu barbaro, fu sgovernato, finchè la rivoluzione non gli portò da di fuori sapienza, civiltà, sicurezza e tutti i beni di Dio. L’Oriani non amava sentire insulti e raffacci alla patria, ch’egli amava tanto, benchè in modo diverso dagli urloni di moda; e sebbene l’adulazione più solita al vincitore sia il ripetere tutto quello ch’egli dice e applaudire a tutto quel che fa; e sebbene si trattasse del Buonaparte, il liberalone, il gran repubblicano, l’Oriani rispose: — Signor no; i letterati di Milano non erano nè vilipesi, nè perseguitati; otteneano stima proporzionata al merito, stipendj proporzionati agli impieghi, ed erano pagati puntualmente anche in tempi bisognosissimi: mentre adesso a molti furono tolti gl’impieghi, ad altri gli assegni, con gran costernazione delle famiglie».

Buonaparte, ad ogni modo, era un uomo grande, e la persecuzione contro le persone di vaglia e di coraggio vien piuttosto dai mediocri, invidiosi e insofferenti di ogni superiorità. Ora costoro decretarono che l’Oriani, come il Parini e il Volta e lo Scarpa ed altri famosi, giurassero fedeltà al nuovo Governo, odio all’antico. L’Oriani rispose: — Io rispetto tutti i Governi ben ordinati, ma non vedo che ci abbia a fare la scienza col giurar odio eterno al cessato. Di 23 anni fui impiegato come astronomo dal cessato Governo, e ho acquistato qualche nome coi mezzi che quel Governo mi somministrava. Sarei dunque troppo ingrato se giurassi odio a chi non mi ha fatto che del bene. Mi sottopongo dunque a perder il mio impiego, e ciò non mi terrà di far sempre voti per la prosperità della patria». [p. 193 modifica]

L’Oriani sapeva dunque distinguere la patria da coloro che la disastrano.

Dalle molestie de’ concittadini lo salvò ancora il Buonaparte dicendo: — La scienza non è di nessun partito; chi non è un vigliacco deve onorarla, di qualunque colore ella sia».

Allora gl’invidiosi, non potendo prenderlo a bastonate, cercarono dargli colpi di spillo, e voleano che egli e il Parini montassero la guardia nazionale, e più vi si ostinavano perchè preti, e li minacciavano del Consiglio di disciplina, o, ciò ch’è più temuto, di diffamarli sui giornali. L’Oriani, se si fosse trattato di difender la patria, credo avrebbe anch’egli preso il fucile, ma non potea che compassionare quelle parate, dove il vivindarno pavoneggiavasi quanto il capitano che meritò col sangue gli spallini, dove il piazzajuolo creatosi tenente pretendea comandare ai dotti e ai preti di passar le ore nel corpo di guardia, montar in sentinella e far la ronda. — L’eguaglianza (rispondeva l’Oriani) sta nel sollevare costoro al nostro livello, non nell’abbassar noi al loro». Così egli conservava i pregiudizj che il merito personale formi una distinzione, che le abitudini siano una giustizia, che la libertà vuole siano protetti gli averi, sicura la religione, rispettate le opinioni.

Quel Governo non seppe farlo, e perciò cadde; e il generale liberalone si fece re, e i repubblicani divennero suoi ministri, suoi cortigiani, suoi umilissimi servitori.

Chi conosce la storia pretende che l’educazione dei frati, i quali consideravano gli uomini come un nulla in faccia a Dio e che ciascuno sia alto o basso unicamente pe’ suoi meriti, e responsale delle proprie azioni, formasse dei caratteri robusti, delle volontà ferme, delle spine dorsali poco pieghevoli; insomma di quegli ostinati che, quando han visto che un’azione non va bene, non la fanno mai più a qualunque costo, e alle lusinghe come alle minaccie rispondono: — Non è lecito».

Queste caparbietà le aveva anche l’Oriani, e come non erasi curvato a un questore o ad un sergente, così si tenne ritto in faccia al Buonaparte divenuto Napoleone. E quando doveva, pel suo posto, andare alla Corte, ci stava come chi sa di starci per diritto; e come chi crede onorar la reggia andandovi, anzichè cercarla per esser onorato. E se Napoleone gli domandava, — Abate Oriani, cosa posso fare che vi piaccia?» egli rispondeva: — Maestà, compri un telescopio per [p. 194 modifica]la specola; — Maestà, regali un oriuolo a Brera». E perchè serbava la sua dignità, Napoleone gli prodigava onori e distinzioni e pensioni, talchè divenne ricco, e potè fare con alcune brave persone quei che i frati di Garignano aveano fatto con lui, ajutarle a studiare, procacciar loro comodità di applicarsi alle, lettere e alle scienze.

Il Monti più d’una volta trovò sul suo scrittojo un rotolo di zecchini, e non sapeva a chi doverli; dappoi fu chiarito che venivano dall’Oriani. Fra varie lettere del Monti a lui, pubblichiamo questa, che possediamo originale, e che si riferisce a punti accennati nella vita di questo.

— Mio caro amico e collega. Vi recherà la presente il mio alter ego, il signor Felice Bellotti. Io ve l’indirizzo in qualità di mio plenipotenziario perchè mi ottenga da voi e dal vostro degnissimo presidente (dell’Istituto) un favore, che può tornarmi in gran bene, e in mezzo alla grande disgrazia che m’ha percosso, farmi lietissimo. E udite il come.

«Il patriarca di Venezia (Pircher), a cui la pubblica voce attribuisce molto potere sull’animo dell’imperatore, mosso da spontanea benevolenza, e forse ancora da qualche sentimento di riconoscenza per avergli io tradotto in versi italiani un episodio della sua Tunisiade (ch’egli è poeta, e di primo grido nella Germania), ha presentata a S. M., e a viva voce caldamente raccomandata una mia supplica, colla quale imploro la reintegrazione della pensione assegnatami da Napoleone col titolo d’istoriografo del regno d’Italia; pensione indebitamente soppressa dalla Giunta Milanese all’arrivo delle armi austriache, sotto il pretesto che questo fosse un impiego vero, e non un puro titolo d’onore senza alcun obbligo di scrivere storia, come già fu dato in Francia a Racine, a Boileau, e tant’altri; quindi pensione privilegiata perchè non fu mai a carico dello Stato ma sempre mantenuta sulla lista civile della Corona. Ora la supplica è stata dall’imperatore rimessa al Governo per informazione, e Tagliabò, che per me molto si adopera in questo affare, mi fa sapere che molto mi gioverebbe un documento, dal quale apparisse che l’opera della Proposta, che mi è costata tanta fatica e tanti anni di tempo, è stata scritta per commissione dell’Istituto, a cui il Governo avea comandato di dar opera alla correzione del Vocabolario Italiano; correzione invocata da molto tempo da tutta l’Italia, massimamente riguardo alle scienze. Ora, a nessuno dell’Istituto può essere uscito [p. 195 modifica]di mente che il conte di Saurau governatore di Milano, in cui tutta posavasi la podestà governativa, fu quello che con replicati dispacci diè moto a questo grande lavoro, al quale l’Istituto, occupato allora in materia di maggior momento, non potendo interamente dedicarsi, commise a me di pubblicare le mie critiche osservazioni di Vocabolario della Crusca (alle quali poi diedi il titolo di Proposta, ecc.), onde il Governo per prove di fatto vedesse che l’Istituto, malgrado delle sue serie occupazioni, non dimenticava i supremi comandi. E ricordatevi che l’Istituto, per le spese di stampa, fin da principio mi assegnò il soccorso di mille cinquecento franchi, con altre duemila lire austriache, delle quali mi fu liberale al finire dell’opera. Ecco lo storico documento di cui ho bisogno, e di cui caldamente vi prego, e spero che, per onore della nuda e pura verità, ed anche per pietà della sventura in cui sono caduto, spero, dissi, che il nostro ottimo Carlini mi sarà cortese, estraendolo dagli Atti dell’Istituto, col transunto delle lettere di S. E. Saurau, e con quelle considerazioni che, senza uscire dal vero; più possono farmi onore, toccanda l’effetto che la Proposta ha prodotto in tutta l’italiana letteratura; al che può molto conferire il giudizio portatone ultimamente in due articoli della Biblioteca Italiana, scritti con mirabile eloquenza e filosofia dal consigliere Zajotti, e stampati anche in fascicolo separato, e nuovamente ristampati dallo Stella nell’Appendice alla Proposta, uscita ultimamente alla luce.

«Mio caro amico e benefattore, io porto sempre scritta nel cuore la generosa liberalità con cui mi avete spontaneamente sovvenuto ben d’altro che di parole. Al presente non chieggo che l’efficacia delle vostre parole presso Carlini e l’onestissimo Cesari. Non mi abbandonate adunque in un punto di tanta importanza, e ridarete la vita al vostro povero storpio».

Partendo dalla villeggiatura dell’Oriani, la Costanza Monti, il 24 maggio 1823, vi lasciava questi versi, inediti come la lettera qui sopra:

Egra e già morta a qual si sia diletto,
     Venni a Te, piena il cor d’alto rispetto;
     Ed or partendo, a Te piena d’amore,
     Cortese ospite mio, lascio il mio core.
Gradisci il dono, e se d’averlo caro
     Vuoi darmi prova, adempi la speranza
     Di venir presto nel suo stato amaro
     A consolar la tua serva Costanza.

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L’Oriani morendo dispose un terzo della sua eredità per la Biblioteca Ambrosiana, il resto divise tra l’Orfanotrofio e il Seminario di Milano: all’Osservatorio molti stromenti e 200,000 lire per tenervi un secondo astronomo e un terzo alunno: gli arredi della domestica sua cappella alla chiesa di San Marco; un dono di 50,000 lire all’astronomo Plana di Torino, e legati a tutti i suoi dipendenti. Gli scritti di lui furono acquistati dall’Osservatorio di Milano.

E forse l’Oriani sarebbe morto vangando e zappando, se non incontrava un buon frate di que’ Certosini di Garignano.