Italiani illustri/Vincenzo Monti

Da Wikisource.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Vincenzo Monti

../I Plinj ../Appendice A. L’Istituto di scienze, lettere e arti in Milano IncludiIntestazione 1 agosto 2020 75% Da definire

I Plinj Appendice A. L’Istituto di scienze, lettere e arti in Milano

[p. img modifica]VINCENZO MONTI [p. 63 modifica]


I. Primordj — II. Roma e le Tragedie — III. L’abate Monti e la Bassvilliana — IV. Milano. Il cittadino Monti — V. Parigi. La Mascheroniana. Marengo — VI. Regno d’Italia. Il cavalier Monti — VII. Sua famiglia — VIII. L’Iliade — IX. I critici — X. Attacchi e ripicchi — XI. Le variazioni — XII. La restaurazione — XIII. La proposta — XIV. Versi minori. I Romantici — XV. Gli amici e la fine.

I.

In un casale del Ferrarese tra Fusignano e le Alfonsine nacque Vincenzo, al 19 febbrajo 1754, da Fedele Monti e Domenica Mazari; essa pia di cuore, sicchè quando morì i contadini disputavansi per devozione i brandelli del suo vestire, egli onestamente inteso ai proprj campi. Di sette figliuoli che ebbero, quattro mandarono monache, uno cappuccino: Vincenzo destinavan alle cure campestri: ma poichè mostrava precoce ingegno scrivendo e improvvisando versi, il padre lo pose sull’Università di Ferrara, e ve l’accompagnò egli stesso. Più che del diritto, Vincenzo piacevasi de’ poeti, coi classici gustando i moderni, e principalmente i suoi compaesani, Alfonso Varano, alle cui portentose Visioni avea provato un sacro entusiasmo, ed Onofrio Minzoni, che da lui chiesto donde avesse tratta quell’evidenza, rispose: — Dante, i Profeti, l’Ariosto». Sul tipo del Varano foggiò in lode d’un predicatore la Visione d’Ezecchiello, primo lavoro che stampasse a ventidue anni (1776); e piacque tanto, che il cardinale legato Borghesi il menò seco a Roma (1778).

La poesia fu sempre il lacchezzo dei Romani; e mentre i ciocciari improvvisano lavorando, e Montigiani e Transteverini passano ore a bocca aperta ad ascoltare d’Orlando Furioso o di Meo Patacca, le persone a modo vogliono versi per tutte le occasioni; ogni abate [p. 64 modifica]verseggia; ogni prelato si fa mecenate di qualche poeta. Li raccoglie e affratella l’Arcadia, società che tutti sbeffano, ma a cui tutti vogliono appartenere.

E in Arcadia, ed a prelati, e ai tanti abati, come s’intitolano gli addetti alle Corti cardinalizie, l’abate Monti recitava spesso versi, e un primo saggio ne stampò nel 1779, a soggetti sacri accostando elegie d’amore gemebondo.

Il ritorno dalle eleganzuccie leziose e dall’ampollosità sguajata già era non solo cominciato, ma ben progredito; il Parini aveva richiamato la poesia al ministero di civile educatrice; esso, e il Gozzi, il Cesarotti, il Mascheroni, avevano guarito il verso sciolto dall’idropica boria del Bettinelli e del Frugoni, per dargli agevolezza, potenza, varietà: Cosimo Betti, il Leonarducci, il Varano avevano ridesto il culto di Dante; Alfieri scolpiva con stilo di ferro il nome d’Italia e l’odio all’autorità; ma occorreva ancora senno e gusto per discernere non solo tra essi e i cattivi, ma anche tra i migliori, e voler sempre il bello semplice e universale. Inoltre, se le costoro innovazioni letterarie avevano guadagnato, non così le morali, che n’erano l’anima; e ancora si -riponeva l’essenza della poesia nella finzione, manifestata colle forme più squisite, giustificate dall’esempio; non connettevasi l’espressione colla ispirazione, colla realtà; anzi raccomandavasi ai giovani d’esercitarsi in ogni tema, per trovarsi poi atti a quello che occorresse. Tale fu educato il Monti, il quale, non creatore ma non ligio a veruna scuola, da tutte scelse il meglio, tutte imitò, tutte imbelli. Allorchè, dietro al suo Minzoni e al pittoresco Cassiani, fece i sonetti di Giuda, il vulgo letterario gli applause, savj amici gli mostrarono come scivolasse tra Ossian e il Marini, e principalmente l’abate Ennio Quirino Visconti lo dirizzò verso i Greci, e gli suggerì, poi gli lodò grandemente la Prosopopea di Pericle.

Per le nozze di Luigi e Costanza Braschi lesse nel Bosco Parrasio la Bellezza dell’Universo, e Roma ne folleggiò, e per più giorni (beati tempi!) altro non s’udiva che esaltar quelle frasi d’irreprensibile imitazione, quelle immagini evidenti, quelle perifrasi artificiose, quella varietà di rime, quella opportunità di poggiature, quel felice assortimento di parole lunghe e brevi, quella larga onda armonica, ove accoppiava la maestà de’ Latini, la limpidezza dei Cinquecentisti, la pompa dei Secentisti, le figure de’ coloristi, la fluidità de’ [p. 65 modifica]Frugoniani. Il duca Braschi gli offerse il posto di suo segretario, artifizio con cui nobilitavasi un sussidio: Pio VI volle vederlo, e — Non è possibile (scrive il Monti) ch’io possa esprimere la bontà con cui m’accolse. Fui introdotto dal mio padrone1, e il primo abboccamento durò due buone ore. Mi presentai pieno di timore, e ne uscii pieno di tenerezza: e quando gli baciai i piedi, mi vennero agli occhi le lagrime».

Carezzato, applaudito, pagato, il Monti carezzava, applaudiva, ed or celebrava la contessa Trotti Bevilacqua, or con mirabili sciolti il principe Chigi, ora a nome del Bodoni dedicava l’Aminta per le nozze della marchesa Malaspina; or lodando monsignore Spinelli governator di Roma, dava come gloria maggiore dei Cesari e de’ Camini il frenare «la popolar licenza tiberina»; ora al neonato Delfino di Francia preconizzava sarebbe «de’ regi e degli eroi l’esempio, amor del mondo intero, speme del franco impero: la futura sua gloria vedrassi un giorno affaticar l’istoria»; or vantava l’età dell’oro, ripristinata da Pio VI2. Insomma, come i poetonzoli, simili a uccelli in muda che ogni strepito eccita al canto, verseggiava per soggetti del momento, e sublimando gli eroi del giorno, abituavasi a vedere le cose da un lato solo, e ispirarsi ai casi e .alla opinione giornaliera, dal che dovevano derivare tanta leggiadria alle sue produzioni, tante ombre al suo carattere. [p. 66 modifica]

Con maggior nobiltà celebrava Il Pellegrino Apostolico allorchè Pio recavasi a Vienna per mitigare la burocratica clerofobia di Giuseppe II, tiranno da sagrestia.

Nell’ode all’areostata Montgolfier sfoggiò la sua maestria in dir le cose nuove con modi antichi, e addobbare di poesia la scienza; eppure, fra tanto bello, quante inesattezze e fin puerilità!3 e chi la paragoni all’ode a Silvia del Parini, s’accorge che viveva un poeta di ben superiore levatura.

II.

Là in Arcadia improvvisavano il Rezzonico, il marchese Casati, Gherardo de Rossi, il Bondi, il Lamberti, il Godard, il Bernardi: e stupivano tutti quando Faustino Gagliuffi improvvisamente traduceva in distici latini i loro improvvisi: e Roma tutta li ripeteva, e il cardinale Borgia gli domandava come avesse potuto superare tanta difficoltà: ed egli rispondeva: Possunt quia posse videntur.

Come in altre città della non ancora sovvertita Italia, in Roma molte case adunavano il fiore della gente civile in quelle conversazioni, allegre senza disordine, burlevoli senza vulgarità, frivole se volete, ma dove la prontezza di simpatie, il ricambio di cortesie e d’offícj, una curiosità piuttosto arguta che maligna, rendono dolci e feconde le relazioni sociali. Sono abitudini oggi smarrite, come [p. 67 modifica]l’onorare l’intelligenza. Ne’ circoli del cardinal Ruffo (che i liberali consacrarono all’infamia, e che il Monti dichiara affabile signore, ministro integerrimo, savio politico), con Saverio Mattei, traduttore dei Salmi, disputò il nostro poeta sul potersi o no volgarizzare Omero fedelmente, e ne fece sin d’allora qualche tentativo. La casa di Maria Coccovillo, maritata in Giovanni Pizzelli, ornata di lettere e di scienze, sperta di molte lingue, e abilissima al suono e al canto, frequentavano i migliori d’allora, Canova, Visconti, l’Andres, il Cunich, il Serassi, il Puccini, la Dionigi, il Renazzi, il Requens, la Kaufmann, e vi leggeano loro composizioni Alessandro Verri, l’improvvisatore Berardi, il Battistini, Gherardo de Rossi: e quand’essa morì nel 1807 dopo disastri di fortuna, fu composta una raccolta di poesie in sette lingue su questa «donna contornata ogni giorno d’ammiratori anche dopo di aver oltrepassati gli anni settanta di sua età, circondata d’amici anche dopo di essere stata costretta dalle indigenze domestiche a trattar la calza e la conocchia; celebrata concordemente da nazionali e da stranieri, più forse ancora nella vecchiaja che nella gioventù, e più dopo morta che in vita».

Colà il Monti udì l’Alfieri leggere la sua Virginia, e s’infervorò ad emularla.

La tragedia doveva essere l’atteggiamento di qualche fatto sanguinoso, colle unità precettorie, ignote ai Greci, consacrate da’ Francesi per amor dell’ordine, dall’Alfieri per amor del difficile: dove le passioni degli spettatori fossero concitate, non importa se in bene o in male; meno importa ancora se colla verità storica. L’Alfieri avea scelto di qua di là alcuni nomi, e datovi un carattere secondo gli accomodava, sformando gli avvenimenti sino a fare di Lorenzo de’ Medici un mostro, di don Carlos un eroe, di Cosimo un parricida; avea ricalcato la tragedia francese, non solo sfrondandola di confidenti, di a parte, ma anche di tutto ciò che fosse lirico, stipandola in brevissimo tempo, pochissimi personaggi, azione semplicissima, e procedendo men tosto con azioni che con parole secche, epigrammatiche, tali che facessero pensare e lasciassero dall’attore supplire col gesto e colla voce e dall’uditore colla fantasia; nel che forse consiste la magia della riuscita di esse.

Sullo stile d’Alfieri il Monti pronunzia, sebben copertamente, nel discorso sulla difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade: e lo definisce «unicamente sollecito dell’energia del pensiero, e nulla [p. 68 modifica]curante l’armonia delle parole» . Quando quel tragico esclama «Pensar li fo», egli risponde: — Il filosofo fa pensare, il poeta fa sentire» . Contro un sonettaccio dell’Alfieri scrisse dappoi un sonettaccio ove lo chiama

Un cinico, un superbo, un d’ogni Stato
Furente turbator, fabbro d’incolti
Ispidi carmi, che gli onesti volti
Han d’Apollo e d’Amore insanguinato:

nella Prolusione lo definisce «ingegno supremo, che bastava per sè solo a dar nome al suo secolo e a creare la gloria d’una nazione»: ma in fine a Giovanni Rosini scriveva, nel 1807: — È forza che l’Italia, o presto o tardi, si persuada che Alfieri è un grande ingegno, ma mancante di gusto nel verseggiare, e il rovescio della natura nel dipingere le passioni, che in lui sono tutte affare di testa, senza licenza del cuore».

Uditolo dunque, volle emularlo; ma lirico, fluido, bello, non poteva stringarsi entro la corazza di quello, e predilesse le forme per cui erano già piaciuti il Maffei, il Varano, il Conti. l’Aristodemo (1787) presenta una feroce ambizione, punita da un delirio suicida, press’a poco come il Saul; ma tutto vi è lirico, il personaggio di Cesira, il trattato di pace, i racconti, i colloquj; gli spettatori rimangono scossi da quel frenetico, sempre coi capelli irti e il pugno teso; il letterato si bea della splendida verseggiatura; il pedante loda l’osservanza delle tre unità, quand’anche per mantenerle abbia a collocarsi una tomba nella sala d’udienza. Allora non faceva ancor paura ai regnanti il declamare contro i tiranni; ed altra imitazione d’Alfieri n’è l’intimare «che mal si compra coi delitti il soglio».

Quando fu recitato, egli racconta, «da trenta giorni era entrato nei cervelli romani il fanatismo; poi, finita la rappresentazione, la sua casa fu inondata di gente che parevano forsennate dal piacere»4. [p. 69 modifica]

Anche in ciò conformandosi all’Alfieri, volle dettare il parer suo sull’Aristodemo, notandone i difetti gravissimi, e la perpetua inverosimiglianza, mal palliata, a uso dell’Astigiano, con qualche frase, e scusata solo dalla necessità di far cinque atti e di giungere ad una catastrofe, troppo preveduta; nè sapeva spiegarsi egli stesso come, «i Romani, che presto s’annojano, che niente ammirano, che mai non adulano... ma d’un gusto sicuro, dinanzi al quale sono impotenti gli sforzi della cabala, della maldicenza e del fanatismo», avesser tanto gustato l’Aristodemo, «che finalmente è tragedia più da tavolino che da teatro». Qui stava il suo inganno.

Ivi porge alcuni canoni di critica, fra’ quali, almeno pei tempi dove pensavasi a quel che si scriveva, mi par eccellente questo: — Il primo ad accorgersi dei difetti d’un’opera è l’autore medesimo, se non è pazzo del tutto. Anche nelle produzioni d’ingegno, tutti abbiamo una certa coscienza, un certo rimorso, che c’importuna e ci rinfaccia le nostre mancanze. Uomini che scrivete, fate che l’amor proprio non soffochi nel vostro spirito questa sinderesi letteraria. Interrogatela spesso, e ve ne troverete contenti».

E conchiudeva: — La censura di un’opera fa lo stesso che la bile nel nostro corpo. Dicono i fisici che senza di questa non si può vivere; e dicono i savj che, senza di quella, un libro è subito morto».

Il Cajo Gracco, meno piaciuto perchè più pacato e di virtù civili, di lunga pezza sovrasta all’Aristodemo. Non cerchiamovi la realtà; neppure gli eruditi di professione allora coglievano il vero senso delle rogazioni gracchiane; ma quel giovane magistrato, che torna per compiere l’impresa nella quale avea perduto la vita il fratello; così pieno d’amore pel popolo e di compassione pei vinti; così affettuoso alla veneranda madre, alla tenera sposa; così geloso dell’onor suo, eppure rinvolto nei delitti de’ suoi partigiani, e spinto dai precedenti domestici ad atti che non approva, rappresenta interessi d’ogni tempo.

Il Monti osò anche introdurre il popolo e la vita del fòro, a imitazione del maggior tragico del mondo5. Del quale viepiù si ricordò nel Galeotto Manfredi (1788), dove con modi famigliari e semplici ritrae un fatto domestico, che invano cercò rialzare con allusioni politiche, e ch’egli stesso qualifica mediocre. [p. 70 modifica]

Fra tanti forestieri, ascoltava l’Aristodemo un certo Wolfango Göthe, e ne lo lodava: e il Monti in riconoscenza lo faceva noverare fra gli Arcadi col titolo di Megalio, «per causa della grandiosità delle sue opere».

III.

Da Roma, la fama del Monti ampliavasi a tutt’Italia; ma ben presto la violenza degli avvenimenti toglieva a tali costumi la quieta dominazione; e alla vita facile ed officiosa di quell’Arcadia surrogava le passioni arcigne, l’aspro linguaggio, le abitudini ineleganti di una società che non sa nè amare, nè bramare, nè credere, nè tampoco ingannarsi nobilmente.

Il nembo addensato in Francia minacciava scaricarsi di qua dell’Alpi; e poichè d’ogni rivoluzione radicale il primo intento è scassinare l’autorità, e questa in terra è rappresentata supremamente dal pontefice, contro del pontefice scaglia vansi da Francia le irose canzoni della piazza e le minacciose declamazioni della tribuna, e il proposito di volere strizzar l’ultimo prete colle budella dell’ultimo re. V’era chi, applaudendo agli immortali principii annunziati dalla rivoluzione, voleva si compatisse agli eccessi con cui applicavansi: vi erano gli scaltri che gittavano reti nello stagno, a bella posta intorbidato; più erano quelli che esecravano i furori «della sovrana plebe» allorchè

                              mareggiò di cittadino
     Sangue la Gallia, ed in quel sangue il dito
     Tinse il ladro, il pezzente, l’assassino,
E in trono si locò, vile marito
     Di più vil libertà, che, di delitti
     Sitibonda, ruggìa di lito in lito.
Quindi proscritte le città, proscritti
     Popoli interi, e di taglienti scuri
     Tutte ingombre le piazze e di trafitti.

Il vulgo riceve le impressioni da chi sovrasta; tant’è dissennato il volerlo far giudice e arbitro de’ pubblici destini. E il vulgo di Roma, che poco poi doveva [p. 71 modifica]

Alla pastura intemerata e fresca
Dell’ovile roman volger le spalle
Per gir coi ciacchi di Parigi in tresca
A pascersi di ghiande,

allora esecrava i Giacobini e la libertà. Abbondavano però le seduzioni; le logge massoniche rinterzavano intelligenze; spargeansi scritture incendiarie. Ugo Bassville, segretario della legazione francese a Napoli, venne «sul Tebro a suscitar l’empie scintille», ed essendo comparso al Corso con una bandiera tricolore, il popolo se ne indignò, e trucidollo6.

Il Monti, devoto all’opinion pubblica e abituatosi a ricevere le impressioni del momento e tutto esagerare per comodo dell’arte febea, tessè su quel fatto una cantica, che rimase il titolo maggiore ali a sua gloria. Finge che l’assassinato, nel morire, volgesse il cuore a Colui che manda quaggiù, veloce al par dei nostri sospiri, il suo perdono; e che l’accolse a misericordia, ma nel suo decreto adamantino scrisse che non salirebbe all’amplesso di Dio finchè non vedesse gl’infiniti guai della Francia, e sfrenate su lei le saette dell’arco di Dio. Concetto sublime, che porge al poeta il destro di dipingere i mali della Francia, il dominante terrore, la morte di Luigi, la sua assunzione al paradiso.

La Bassvilliana è un’epopea nel vero senso, cioè un sunto poetico della civiltà d’un popolo o d’un tempo. In fatto il Monti vi ritrae i pensamenti di una grossa parte de’ suoi contemporanei; delinea l’atmosfera fra cui si trovava, e insieme la personalità sua propria, che per diritto del genio, se ne faceva l’organo, mentre passando attraverso al suo individuale, il pensiero generale prendeva una [p. 72 modifica]forma artistica, insignemente bella. Ben vi caratterizza le opere degli Enciclopedisti, ai quali attribuisce la compiacenza infernale d’aver preparato tanti disastri, e di contemplare il maggior delitto di cui si fosse mai contaminata la razza celtica. Re Luigi ispira compassione nell’addio al figliuolo e nel saluto che manda alle regali congiunte. Sempre v’è parlato con riverenza di Roma; Roma fatale, dinanzi a cui la temuta libertà di Francia è nebbia che vien domata dal sole, e le minacce una sonora ciancia: Roma, dove il leon di Giuda vive e rugge, e grida «Son la forza di Dio, nessun mi tocchi»; dove un pontefice, circondato e sostenuto da Aronni e Calebidi, colla preghiera assicura il trionfo della Chiesa.

Ma già poteva indovinarsi di là quel che il Monti sarebbe; aspettando sempre che gli eventi operino su lui, nulla farà per ispirazione, per l’ideale, sempre determinato dalle circostanze.

Nel IV canto, il poeta «batte a voi più sublime aura sicura» per narrare come congiurato il mondo intero uscì a danno di Francia, e n’andò sanguigno il flutto de’ fiumi e di due mari. Ma gli eventi, per allora, corsero ben diversi da quel che la Musa prediceva7; Francia dissipò la coalizione europea; dacchè la rivoluzione, come Saturno, ebbe ingojato i proprj figliuoli, qualche ordine sottentrò, nel quale la repubblica estese le conquiste, e bentosto, superando le sempre inutili Alpi, mandava un giovane generale a portar la rivoluzione a genti che non la desideravano.

Che le glorie siano inevitabilmente bersaglio all’invidia, lo attestano le vicende d’ogni illustre. Costretta al silenzio fra tanti ammiratori del Monti, ella aspettava luogo e tempo. E non la ragione ma il pretesto fu offerto da un sonetto, in cui egli invocava san Nicolò da Tolentino a favore della bellissima e vivace Costanza Braschi, moglie del nipote del papa, allora gravida, conchiudendo:

Ch’ella in te spera, e sai che generosa
Prole ha nel grembo, e qual in ciel tu sei,
Ella è grande sul Tebro; e al par pietosa.

[p. 73 modifica]

Cominciossi piamente a sentenziare di profanità questo allivellare la duchessa a un santo; appena uno scagli la prima pietra, gli corre dietro la ciurma, sempre esultante di deprimere chi vale; come per moda e piacenteria lodavanlo prima, per moda e piacenteria svillaneggiaronlo allora; si ristampò il componimento, travolgendone il titolo in Sonetto ad onore di Costanza Braschi, dedicato a san Nicolò; poi parodie, epigrammi, pasquinate; «non si sono mai scritte tante satire per un conclave; quante sopra i miei quattordici versi: son già due mesi che la città è tutta a rumore, e le vespe m’hanno tanto stuzzicato, che finalmente m’è scappata la pazienza; e in grazia d’alcuni ingrati che hanno voluto mordermi, ho riveduto il pelo al resto de’ miei censori».

Gittato dall’altare nella cisterna, impazientito di que’ dabbene che insegnano doversi tacere e soffrire perchè l’olio vien pure di sopra all’acqua e il merito alla fine trionfa, buttò fuori un sonetto, ch’è dei più turpi della nostra letteratura; dove ai poltroni che gli dan rovello, agli improvvisatori Berardi e Malio, al Martini, al Moirani, al Fogli, non rinfaccia solo ignoranza, o d’esser fra’ giumenti d’Arcadia il più balordo e del trombettier di Pindo universale adulatore, ma gl’imputa d’immondezze e delitti, che dovrebbero abbandonarsi al lezzo de’ postriboli e ai fiuti della Polizia8.

Preparava anche una commedia, che poi non compì, e di cui non sappiamo se non che doveva essere «la pittura di dieci o dodici, parte galantuomini e parte bricconi, vissuti al tempo di Augusto, e trasmigrati in altrettanti corpi moderni per virtù d’una poetica metempsicosi». Contro loro tirò anche nel Manfredi, dipingendo sè stesso nel buon cortigiano Ubaldo; tirò peggio nella Mascheroniana, volendo che le sue parole fossero [p. 74 modifica]

                                        spiedi
A infame ciurma ch’alle forche aspira,
Nè vale il fango che mi lorda i piedi.

Il Monti ebbe torto di rispondere; ma sarebbegli stato apposto a torto anche il tacere: ma troppo ci duole che quegli attacchi e ripicchi durarono tutta la sua vita; e fattosi il più gran maestro d’invettiva, lascionne sciagurato esempio a chi poi dovea far della critica il più codardo degli spionaggi, la più assassina delle inquisizioni.

Noi trovo scritto, ma dalla esperienza argomento che gli antichi lodatori si saranno ricreduti, per la consueta condiscendenza a chi più mostra sfacciataggine e malevolenza, o avranno taciuto prudentemente; nè a’ suoi prischi protettori sarà bastato il coraggio di sostenerlo, e la loro benevolenza avranno ristretta a compatirlo, e dire che provocò egli stesso quei mali, e che non conveniva abbaruffarsi colla pubblica opinione. Eroi! Pensatori!

Da ciò incoraggiati i detrattori, ogni scritto del Monti diveniva mira d’avvelenate censure; esaltavansi al confronto di lui poeti dozzinali; più egli ingrandiva di meriti, più s’arrovellavano contro di lui gli emuli non solo, ma quel bulicame timidamente arrogante, che aspira alla gloria coll’osteggiare un glorioso; magnis clarescere inimicitiis; e quella folla materiale e prosastica, che i lazzi d’un monello bastano a inizzare contro ogni lampo di spirito e di poesia.

E poichè, cominciata un’iniquità, è forza seguirla in tutti i suoi svolgimenti, gran destro ne ebbero dalla Bassvilliana.

I canti di questa comparvero un dopo l’altro in breve tempo, dal gennajo all’agosto del 93: mirabile celerità in lavoro tanto forbito! Così Dryden in tre mesi compose le censessantuna quartine dell’Annus mirabilis, il miglior suo lavoro. Ne stupiva chiunque avea senso del bello; se n’accannivano gl’invidiosi; e, a tacere i parziali appunti, fu asserito che autore non ne fosse lui, ma non so qual frate; invano li smentisce la perfetta somiglianza di stile; della calunnia resta sempre qualcosa, ed anche ben tardi io ho inteso molti asserire che il Monti non v’avea se non prestato il nome. [p. 75 modifica]

IV.

Quei che aspiravano a nuocergli affinarono di ribalderia collo straziarlo dal lato politico; e copertamente dove non si poteva, apertamente nella Repubblica Cisalpina, veniva esposto all’indignazione come autor servile, come ligio ai re e ai papi, come prezzolato. Devoto all’opinion pubblica, il Monti non resse all’incessante bersagliare di questa, e le diede soddisfazione ritirandosi, quasi direi fuggendo da Roma (marzo 1797), dove venti anni avea goduto piacevole soggiorno. Nella carrozza del Marmont, allora ajutante del Buonaparte e dappoi maresciallo sciaguratamente famoso, venne a Firenze; poi essendosi ribellate al papa le Romagne, passò a Bologna, donde a Milano. Prima della rivoluzione l’avea quivi invitato l’austriaco governatore Wilzeck a professore d’eloquenza, e ve lo traeva la venerazione verso il vecchio Parini, che leggendo la Bassvilliana aveva esclamato: — Costui minaccia sempre di cadere coi voli repentini e sublimi, e sempre sale, più alto». Ora il Monti vi arrivava tra i sibili de’ giornali, e inseguito da un velenosissimo sonetto del Berardi, ove si mordea perfino la sua condizione maritale9.

Consolatevi, o critici; otteneste il momento più doloroso nella vita del Monti; la pagina più desolante per chi scrive di lui.

Da tutta Italia erano affluiti a Milano gli uomini più attuosi e fanatici, chi per amor di libertà, chi di denaro, chi di peggio. Tra questi il napoletano Francesco Salfi, ingegno non vulgare, che avea compianto la morte di Ugo Bassville in versi di idee diametralmente opposte a quelle del Monti, facendo di quell’eccidio non una vendetta popolare, ma un’orditura de’ cardinali Zelada e Albani, del procurator fiscale Barberi e simili10; accompagnata da brutali [p. 76 modifica]insulti alla moglie, al figlio, al cittadino La Flotte, all’ospite Moutte, al moribondo; il quale esclamava di cader vittima d’un’infame cabala pretina. Tutto è impepato d’amor di patria e d’ira contro la religione.

Ora il Salfi redigeva a Milano il Termometro Politico, non il peggiore di quella fungaja di giornali che allora pullulava e moriva dopo sfogato un rancore, compita una vendetta, infamato un emulo, [p. 77 modifica]incusso terrore; senza criterio come senza scrupolo sottilmente adulando le passioni vulgari, e usando l’arte solita di denigrare i loro nemici per aizzare i loro strumenti.

Emulo anche di abilità, il Salfi potea la nimicizia mascherare di patriotismo; e l’addentato poeta, neppur difeso dalla protezione de’ grandi, credette ripararsene con una lettera d’inescusabile bassezza11, diretta da Bologna, il 18 giugno anno primo repubblicano, al cittadino Salfi. Eccola:

— Se vi ricorda ch’io sono stato più volte maltrattato nei vostri fogli a cagione della cantica Bassvilliana, dovete ancor figurarvi ch’io sia pieno di maltalento contro di voi. Disingannatevi: non conoscendomi voi di persona, nè potendomi giudicare che in ragione delle cose da me pubblicate, giustissimo ed onesto è stato il vostro giudizio, nè io debbo lagnarmi che delle crudeli mie circostanze, le quali mi posero nella dura alternativa o di perire o di scrivere ciò che scrissi.

«Io era l’intimo amico dell’infelice Bassville; esistevano in sue mani, quando fu assassinato, delle carte che decidevano della mia vita; mi spaventavano le incessanti ricerche che facevansi dal Governo per iscoprirne l’autore; m’impediva di fuggire il doloroso riflesso che la mia fuga avrebbe portato seco la rovina totale di mia famiglia. Non più sonno, nè riposo, nè sicurezza; il terrore mi aveva sconvolta la fantasia, mi agghiacciava il pensare che i preti sono crudeli, e mai non perdonano, non mi rimaneva insomma altro espediente che il coprirmi d’un velo, e non sapendo imitare l’accortezza di quel Romano che si finse pazzo per campare la vita, imitai la prudenza della Sibilla, che gittò in bocca a Cerbero l’offa di miele per non essere divorata.

«Potrei qui rivelare altre più cose gravissime, la cognizione delle quali compirebbe la mia discolpa, ma vi sono alle volte dei segreti terribili, che non si possono violare senza il consenso di chi n’è partecipe, ed è pur meglio il lasciar debole talvolta la propria difesa, che il mancar d’onestà, di prudenza, di gratitudine.

«Forse direte (ed altri me l’hanno già ripetuto) che la fierezza [p. 78 modifica]di alcuni tratti di quella cantica inducono facilmente il sospetto, che l’animo del poeta non fosse discorde poi tanto da ciò che sonavano le sue parole, e che parecchie di quelle cose fa duopo averle profondamente sentite per ben dipingerle. Alla quale imputazione risponderò schiettamente, che, costretto a sacrificare la mia opinione, mi sono adoprato di salvare, se non altro, la fama di non cattivo scrittore. L’amore adunque di qualche gloria poetica prevalse al rossore di mal ragionare, in un tempo massimamente in cui tant’altri mal ragionavano; e quattordici edizioni, che nello spazio di soli sei mesi furono fatte di quella miserabile rapsodia, mi avrebbero indotto a credere d’aver conseguito il mio fine, se il papa, dinanzi al quale fui trascinato per umiliare ai santi suoi piedi le mie sacre coglionerie, non avesse trovato detestabile quel dantesco mio stile. E mi ricordo ancora che, per insegnare di qual maniera dovessi da me trattare quell’argomento, in presenza di suo nipote e di monsignor Della Genga, mi recitò con grazia un’aria di Metastasio.

«Dalla premura che ho posta nell’istruirvi delle mie passate vicende rapporto alla Bassvilliana, ora che ho messa in salvo la mia famiglia, ora che il carnefice monsignor Barberi non mi fa più tremare, ora finalmente che le mie parole son libere, come libera è l’anima che le muove; da questa premura, io dico, argomenterete il prezzo che pongo all’acquisto della vostra stima, e quanto mi dolga che una fatale combinazione di circostanze mi abbia fatto giudicare partigiano del despotismo. Prestate fede ad un uomo d’onore; prestatela alla testimonianza dei pochi, ma veri Romani, che ben mi conoscono; prestatela alle mie disgrazie; prestatela finalmente alle persecuzioni di cui il papa medesimo mi ha costantemente onorato; quel papa che ha detestato e punito sempre i talenti fino al sospetto, e che due anni fa volevami furiosamente esiliare da tutto lo Stato, perchè una compagnia di dilettanti recitava in Roma con qualche strepito l’Aristodemo. Ho malamente impiegati in quella santa Babilonia molti anni della mia vita; ma quale vi sono entrato, tale ne sono uscito; e se in quel pelago di religiose ribalderie ha naufragato la mia pace, il mio ingegno, la mia fortuna, non vi ha naufragato sicuramente la mia ragione. Quale poi sia il fondo delle mie tenerezze verso il paese a cui ho dato le spalle, potrete conoscerlo dalle stampe che vi spedisco, e che sono la prima espiazione e de’ miei errori politici. Abbiatele per un sincero contrassegno della [p. 79 modifica]stima che vi professo, e siate abbastanza generoso per sostituire all’odio passato il sentimento dell’amicizia, giacchè io posso bensì corrispondervi nel secondo, ma nel primo giammai. Salute e fratellanza».

Poichè è natura d’ogni rivoluzione il chiamar libertà ogni demolizione, esultarono satanicamente i suoi nemici di vederlo far l’opera atl essi più gradita, rinnegare la propria gloria, scalzare il proprio piedistallo; e allora a tacciarlo di banderuola, e mettere a rimpetto le lodi d’un tempo e le presenti: e trovavano bel destro d’esercitare quel che si fa sempre, ma che allora professavasi aperto nella canzone più popolare, «Chiunque s’eleva noi l’abbasseremo»12. Di mezzo a quelle feste che allettano l’imbecillità d’un popolo fanciullo, fu con solennità arsa in piazza del Duomo la Bassvilliana: e invidiandogli il titolo di secretario al ministero degli esteri, il 25 piovoso anno IV decretavasi non poter restare in impiego od ottenerne chi «avesse pubblicato libri, diretti ad ispirare odio verso la democrazia, o predilezione al Governo dei re, dei teocratici, degli aristocratici».

Il Monti credeva (come molti) cancellare i passati coll’esagerare i nuovi sentimenti, collo sfrondare il proprio alloro vituperando i lodati d’un tempo, ed esaltando gl’idoli dell’opinione del giorno. Nella Musogonia, poemetto di grazie attiche, finiva invocando Giove a protegger l’armi dell’imperatore germanico contro l’idra francese. Or ristampatolo, faceva le Muse conchiudere il loro viaggio in Italia col cantare i trionfi della ragione, il risorgimento della libertà. Nell’edizione di Roma diceva:

Cesare salva, che le auguste gote
     All’egra Europa rasciugando viene,
     E la Franca sul Reno idra percuote
     E i vacillanti troni erge e sostiene,
     Salvalo, e tante fumeran devote
     L’are al tuo nume sulle vinte arene, ecc.
Contro il Gallo fellon che varca il monte
     Destatevi, e levate alto la fronte.

[p. 80 modifica]

Tu, germanico eroe, che in biondo pelo
     Mostri, invitto Francesco, alto consiglio,
     Tu ricomponi alla piangente il velo,
     Ch’ella t’è madre, e madre prega il figlio,
     Vien, pugna, e salva la ragion del cielo,
     Chè ben per Dio si corre ogni periglio.
     i Vieni, e al furor del seme empio di Brenno
     Il petto opponi di Camillo e il senno.

Nell’edizione di Venezia, poi di Milano, sostituì:

Soccorri Ausonia, che l’oneste gote
     Di nuova vita colorando viene,
     E il crin nell’elmo a chiuder torna, e scuote
     L’asta, i ceppi gettando e le catene.
     Aitala, gran padre, e a te devote
     Tante l’are arderan su queste arene,
     Deh! le bell’alme elette, in cui s’affida
     L’itala libertà, soccorri e guida.
Tu, magnanimo eroe, che alla dolente
     Dell’antico servaggio hai rotto i ferri,
     Che in frale umana spoglia alternamente
     li coraggio d’un dio palesi e serri,
     Tu che, forte del brando e della mente,
     L’umil sollevi ed il superbo atterri,
     La ben comincia impresa alfin consuma,
     E sii d’Ausonia l’Alessandro e il Numa.

Nel Fanatismo invoca

Dolce dell’alme universal sospiro
Libertà, santa dea, che de’ mortali
Alfin l’antico adempì alto desiro13,
Vieni ed impenna a questo canto l’ali,
Libertà bella e cara, e all’arco mio
Del vero adatta e di ragion gli strali.

E qui schiera i delitti dei papi, di buona radice iniqua pianta, e infamie d’ogni sorta, [p. 81 modifica]

E vile in tutti immenso amor di Stato,
E d’offesa ognor lega e di difesa
Co’ tiranni e col ricco scellerato,

e le indispensabili bestemmie al rapace audacissimo Ildebrando. Poi

Oh crudeli di Spagna e di Lisbona
     Orrendi roghi! e voi di stragi rosse
     Contrade di Bezierre e Carcassona,
E tu, molle di sangue, onde allagosse
     Già Francia tutta, allor che ferro infido
     Il sen del giusto Colignì percosse;
Ululate, ruggite, in ogni lido
     Agitate le tombe, sollevate
     Per l’universo di vendetta il grido.

Con pari iracondia maledice all’Inghilterra, e vuol che l’onde spumanti di sangue le s’avventino, e tremuoti e tenebre14, e ne predice imminente la ruina.

Nella Superstizione, dipinta questa colla scolastica enumerazione di parti, vien a narrare come sgomentato egli ne vivesse

                                        al Tebro in riva
Quando per gli occhi di Maria s’udiva
     Roma di sacri gemiti feroci
     Sonar gridando orribilmente evviva,
E brune per le strade orrende croci
     Procedean fra il pallore e ’l fragor mesto
     Di meste faci e di tartaree voci,
Tal ch’Argo e Tebe non mirâr di questo
     Più rio portento quando la vendetta
     Del parricidio accadde e dell’incesto.

[p. 82 modifica]Tremebondo dei gemiti feroci, delle orrende croci e delle tartaree litanie, egli spingeva l’acume del pensiero e del desio sull’Alpi,

Te invocando, famoso alto guerriero,
     Che, superate alfin le Cozie porte,
     Tremar le chiavi in man facevi a Piero...
Deh t’affretta (io dicea), volgi lo sdegno
     Contro costei che, nata in servitude,
     Tutto del mondo avea sognato il regno....
Togli allo scalzo pescator di Giuda
     Dei re lo scettro, e lui, qual pria, consiglia
     A trattar l’amo sull’arena ignuda....
Ascoltalo, o di guerra inclito Dio,
     Che un Dio se’ certo, o franco eroe lodato:
     L’ascolta, e il giusto non tradir desio.
Frangi il pugnale in Vatican temprato
     Alla fucina del superbo Lama
     Che cader fe Bassville insanguinato.
Ma la cetra risparmia onde la fama
     Del misfatto sonò; che del cantore
     La lingua e il cor contraria avean la brama,
Peccò la lingua, ma fu casto il core,
     E fu ’l peccar necessità, chè chiusa
     Ogni via di salute avea’l terrore.
O cara dell’amico ombra delusa,
     O cener sacro di Bassvill trafitto,
     Fate voi, fate all’error mio la scusa.

E segue a cantare come lo pianse di nascosto perchè il piangere era delitto, e ricorrendo al solito spediente de’ fantasmi, fa comparirsi l’ombra di Bassville, che lo esorta a non dormire.

Fuggi, fuggi, chè barbare e infedeli
     Son queste terre, e d’uman sangue intrise
     L’are di Cristo, e chiusi gli evangeli.

Bassville pesta col piede il suolo, che si spalanca: il poeta svegliasi sgomentato per fuggire; ma la moglie lo abbracciala figlia strilla, ond’egli si risolve a rimanere.

Così di padre e di marito cura
     Costrinsemi a mentir volto e favella,
     E reo mi feci per udir natura:
     Ma non merta rossor colpa sì bella.

[p. 83 modifica]

Celebrandosi il 21 gennajo 1799 la commemorazione del supplizio di Luigi XVI, fece una stupenda canzone. Questi, nella Bassvilliana, non solo è il re più pio, ma il re più grande: simile a quel Giusto che pregava in croce pe’ suoi crocifissori, al suo figliuolo non lasciava altro ricordo che di perdonare a chi l’uccideva; il sole, cinto di gramaglia, ne piange la morte; la sua vista spetrerebbe le rupi, e sol non commuove le galliche tigri; il suo sangue è lambito dall’ombre de’ Druidi, esultanti nel maggior delitto di cui possa superbire la loro semenza iniqua; e la Fede e la Carità lo raccolgono, e imprecano perchè ne sorga

                                   un qualcheduno
Vendicator, che col ferro e col fuoco
Insegua chi lo sparse; nè veruno
Del delitto si goda, nè sia loco
Che lo ricovri:
Il tradimento tradimento frutti:
L’esiglio, il laccio, la prigion, la spada
Tutti li perda, e li disperda tutti.


Così nella Bassvilliana; nell’ode esulta una ferocia contraria.


Il tiranno è caduto: sorgete,
     Genti oppresse. Natura respira.
     Re superbi, tremate, scendete,
     Il più grande de’ troni crollò.
     Lo percosse del vile Capeto
     Lo spergiuro che il cielo stancò.
Tingi il dito in quel sangue spietato,
     Francia, tolta alle indegne catene15;
     Egli è sangue alle vene succhiato
     De’ tuoi figli che il crudo tradì.
Cittadini che all’armi volate,
     In quel sangue le spade bagnate,
     La vittoria nei bellici affanni
     Sta sul brando che i regi ferì.

[p. 84 modifica]

Al legger quelle sublimi strofe siamo côlti di sbigottimento, pensando che uno possa o parere tanto ispirato anche parlando contro convinzione; o aver cangiato sì profondamente di convinzioni16. No: era servilità all’opinione.

Più schifoso è il Pericolo, dove esalta la

Francese libertà, cui sola diede
La ragion di Sofia principio e vita.


Quivi gli s’affaccia un orrido spettro. [p. 85 modifica]

Più che bujo d’inferno ei fosco e fiero
     Portava il ciglio, e livido l’aspetto
     D’un cotal verde che moria nel nero.
Dalle occhiaje, dal naso, dall’infetto
     Labbro, la tabe uscìa sanguigna e pesta....
Stracciato e sparso di gran gigli indossa
     Manto regal, che il marcio corpo e guasto
     Scopre al mover dell’anca e le scarne ossa.


Il tenebroso regal fantasma, che era la fatal di Capeto ombra spietata, si presenta nel Consiglio de’ cinquecento, e collo scettro tocca l’uno e l’altro, e ne sono suscitate le fazioni, e di quei danni risente Italia.

Credeva il Monti ingrazianti i circoli e i giovani col bestemmiare tutto quanto prima aveva divinizzato, e non solo i sacerdoti e il pontefice ma Cristo e la sua Chiesa. Che se, quando in un circolo lesse alcune ottave, sui Crimini dei Papi, l’ex-prete Ranza, gran manipolatore delle dimostrazioni d’allora e grand’avversario del Monti, scese dalla sedia presidenziale per andar abbracciarlo, quando nel Compilatore Cisalpino stampò un sonetto ove alla croce vuol surrogato l’albero della libertà17, esso Ranza rinfacciò al poeta camaleonte di aver oltraggiato Cristo e la fede, mentre, a detta sua, la superstizione aveale guaste, ed ora il teofilantropismo e la religion naturale tornavanle alla primitiva purezza.

Riconfortiamoci colla canzone sul Congresso di Udine, ove canta [p. 86 modifica]come Alemagna e Francia, con diverse voglie, agitano in riva dell’Isonzo le sorti d’Italia, una volendo torla a morte, dargliela l’altra:.

     Tu muta siedi.... e nella tua paura,
     Se ceppi attendi o libertà, non sai.
          O più vil che infelice! o de’ tuoi servi
     Serva derisa! sì dimesso il volto
     Non porteresti, e i piè dal ferro attriti,
     Se del natìo vigor prostrati i nervi
     Superba ignavia non t’avesse, e il molto
     Fornicar coi tiranni e coi leviti.
                         L’Itala fortuna
     Egra è sì, ma non spenta; empio sovrasta
     Il Fato, e danni e tradimenti aduna,
     Ma contro i Fati è Buonaparte, e basta.
Canzon.... se i vili che son forti in soglio,
     T’accusano d’orgoglio,
     Rispondi: Italia sul Tesin v’aspetta
     A provarne la spada e la vendetta.


V.


Tutto ciò non bastava, dice egli stesso, «a vincere quella fatale combinazione di circostanze che lo aveva fatto giudicare cortigiano del dispotismo.... Quanto avrei amato un destino a cui l’invidia non giunga! Ma questo flagello degli uomini onesti mi si è attaccato alla carne e non spero mai di liberarmene, a meno che non prenda il partito di divenir scellerato per divenir fortunato»18.

Ah! non si tratta solo di despotismo o del vario modo d’intendere la libertà, bensì dei canoni del giusto e dell’onesto, che sopravvivono al furore degli odj e ai delirj dell’adulazione: egli sfoga contro tutti i regnanti un’ira, che si direbbe sentita; giudica figli della ragione quei filosofi che avea messi in inferno ancor vivi; e traduce la Pulcella d’Orléans, triplice sacrilegio d’onestà, di patria, di fede.

Anche impieghi ambì, forse appunto perchè n’era escluso, e fu mandato commissario organizzatore sul Rubicone coll’avvocato Oliva di Cremona. Impieghi a cui era disadatto, ma in rivoluzione ognun si crede buono a tutto; e v’ebbe cozzi principalmente col conte [p. 87 modifica]Guiccioli (quel sottile ravignan patrizio, ecc.), che l’accusò al Corpo Legislativo: Monti il ricambiò accusando lui di mali acquisti; ma il poeta rimase colla sua gloria, l’altro co’ suoi milioni. Il Monti, convinto della propria incapacità, tornò a Milano a centellare i disinganni. — Sognai d’esser venuto allo nozze di bella vergine, e mi sveglio in braccio a una meretrice.... Più contemplo la libertà cisalpina, più resto in dubbio se la nostra prosperità vi abbia guadagnato. Questa libertà è per molti di noi un liquore troppo potente, che imbriaca il cervello. Non v’ha repubblica sicura senza costumi e virtù, e noi ne siam poveri, poverissimi. Ti dirò con candore che io desidero una redenzione qualunque»19.

Pur troppo queste redenzioni non son lasciate desiderare lungamente in Italia dall’imprevidenza de’ trionfanti e dal trabocco delle passioni plateali; e Austriaci, Russi, Croati, Cosacchi, scesero a ripristinar qui la religione e la pace! I più conosciuti democratici ricoverarono in Francia, e con essi il Monti, solo, come sono spesso gl’ingegni privilegiati, e povero sì, che tra via sfamavasi con frutti cascati dagli alberi.

I rifuggiti a Parigi ricevettero fredde accoglienze, stentati soccorsi e larghissime promesse, e il celebre naturalista Fortis scriveva: — È spettacolo doloroso per chi ama al tempo stesso l’infelice sua patria e la Francia il vedere i più immorali e i più ignoranti fra gl’Italiani migrati ottenere soccorsi e attestazioni di stima, mentre il piccolo, piccolissimo numero delle persone di vero merito, Tordi, Signorelli, Lamberti, Monti, languisce nella miseria e nella dimenticanza, od anche bersaglio alla persecuzione di alcuni miserabili ciarlatani».

Era tra i migliori Lorenzo Mascheroni, valente matematico e poeta gentilissimo. Morì in esiglio, e il Monti ne trasse argomento ad una nuova Bassvilliana, ispirata dall’ira, che troppo spesso è il companatico de’ profughi, rodentisi un l’altro come can forti, a guisa dei dannati in Caina. — Molti ne rimarranno scottati (diceva il Monti), ma è giunto il tempo di un’onorata vendetta: e perdio, me la voglio prendere, per istruzione della mia patria, lacerata da tanti birbanti».

La Mascheroniana è men forbita della Bassvilliana, e di soggetto più casalingo: ma ha sentimento di patria vivissimo, e le terzine [p. 88 modifica]ove stigmatizza il dilapidamento della Cisalpina e la tracotanza de’ falsi patrioti resteranno eterne, quanto le occasioni di ripeterle.

Vidi prima il dolor della meschina (Rep. Cisalpina)
     Di cotal nuova libertà vestita,
     Che libertà nomossi, e fu rapina....
Altri stolti, altri vili, altri perversi,
     Tiranni molti, cittadini pochi,
     E i pochi o muti, o insidiati, o spersi....
Tal s’allaccia in senato la zimarra
     Che d’elleboro ha duopo e d’esorcismo....
Tal vi trama che tutto è parosismo
     Di delfica mania, vate più destro
     La calunnia a filar che il sillogismo....
Oh iniqui! e tutti in arroganti inchiostri
     Parlar virtude, e sè dir Bruto e Gracco,
     Genuzj essendo, Saturnini e mostri....
Libertà? di che guisa?... a cotal patto
     Chi vuol franca la patria è un traditore.
Dal calzato allo scalzo le fortune
     Migrar fu viste; e libertà divenne
     Merce di ladri e furia di tribune....
Squallido, macro il buon soldato, e brutto
     Di polve, di sudor, di cicatrici,
     Chiedea plorando del suo sangue il frutto.
Ma l’inghiottono l’arche voratrici
     Di onnipossenti duci, e gl’ingordi alvi
     Di questori, prefetti e meretrici....
Sai come s’arrabbatta està genia,
     Che ambizïosa, obliqua, entra e penetra,
     E fora e s’apre ai primi onor la via20.

Solenne procedimento davano al suo canto le imprese di Buonaparte, che, tornato dall’Egitto, ricomposto il freno alla Francia e creatosene primo console, scendeva a sbrattare da Tedeschi la Cisalpina, sua creazione, sua scala a più superba altezza. [p. 89 modifica]

Apriti, o Alpe, ei disse, e l’Alpe aprissi,
     E tremò dell’eroe sotto le piante....
Liete da lungi le lombarde valli
     Risposero a quel mugghio, e fiumi intanto
     Scendean d’aste, di bronzi e di cavalli.
Levò la fronte Italia, e in mezzo al pianto,
     Che amaro e largo le scorrea dal ciglio,
     Carca di ferri e lacerato il manto,
Pur venisti, diceva, amato figlio....
     L’eroe.... alla vendetta del materno affanno,
     In Marengo discese fulminando.
Mancò alle stragi il campo, e l’alemanno
     Sangue ondeggiava, e d’un sol dì la sorte
     Valse di sette e sette lune il danno.
Dodici rôcche aprir le ferree porte
     In un sol punto tutte, e ghirlandorno
     Dodici lauri in un sol lauro il forte.


Il Monti indugiossi a Parigi nella lusinga d’una cattedra al Collegio di Francia, ma denunziato come nemico al nome francese e lodatore del Suwarow21, non ottenne se non 500 franchi, quasi di limosina.

Tornò dunque all’Italia, e la salutò con quei versi, che tutti ricantammo quanti abbiam mangiato il pane dell’esigilo:

Bella Italia, amate sponde,
     Pur vi torno a riveder!
     Trema in petto e si confonde
     L’alma oppressa dal piacer.
Tua bellezza, che di pianti
     Fonte amara ognor ti fu,
     Di stranieri e crudi amanti
     T’avea posta in servitù.

[p. 90 modifica]

Ma bugiarda e mal sicura
     La speranza fia dei re.
     No: il giardino di natura,
     No, pei barbari non è.

Questa nobiltà di principio finisce nel troppo consueto macchinamento di fantasmi parlanti, qual è la torva ombra d’Annibale, che per la Cozia valle vien a discorrere con quella di Dessaix; e nell’adulazione all’eroe, al quale inneggiò pure per la pace che seguì, pregando questa dea:

D’Hoenlinda e Marengo ai vincitori
     La bevanda prepara alma de’ numi;
     Ma dell’Olimpo ai meritati onori
                                   Tardi gli assumi.

Alla festa nazionale della Repubblica il 16 giugno 1803 consacrò la canzone Fior di mia gioventute; e l’anno appresso, alla ricorrenza medesima, il Teseo, azione drammatica, rappresentata alla Scala; poi una povera ode al Congresso cisalpino a Lione. Eppur l’eroe ch’e’ divinizzava in versi e in prosa, già parevagli diverso da quel ch’egli se l’era figurato. — Nullameno (scriveva all’abate Fortis) l’abitudine di lodar un uomo che finora mi è parso il più grande di tutti, m’ha fatto novamente cader nelle sue lodi, dimenticando i mali orribili che i suoi generali ci hanno cagionato.... Te beato che nulla vedi in distanza, e non senti che per consenso! Vi son momenti ne’ quali vorrei esser bruto, o ruminare come bruto. Finirei coll’andare al macello, ma almeno non avrei meco un altro carnefice, la ragione».

Anche qui esagerato, e avrebbe dovuto dire che il carnefice sua era l’opinione. Veramente Buonaparte, incapace di rimanere il primo cittadino d’una repubblica, volle esser imperatore e re; e il Monti, per la coronazione di lui, tessè una cantica, ove fa apparirsi l’ombra di Dante a consigliare all’Italia di lasciar da quel forte inforcare i suoi arcioni, e finiva col protestare che

Vate non vile.... mi reggea la penna
Il patrio amor che solo mi consiglia22.

[p. 91 modifica]Al tempo stesso al Cesarotti scriveva: — Il Governo m’ha comandato, e forza m’è obbedire23. Dio faccia che l’amor della patria non mi tiri a troppa libertà di pensieri, e che io rispetti l’eroe senza tradire il dovere di cittadino! Batto un sentiero ove il voto della nazione non va molto d’accordo colla politica, e temo di rovinarmi; sant’Apollo m’ajuti, e voi pregatemi senno e prudenza».

Prudenza!

Il Monti n’ebbe una scatola d’oro, con entro sei cedole da mille lire; e da quell’ora dovette aguzzarsi a cercare per entro la mitologia temi onde celebrare le succedentisi vittorie e le feste; ora usciva colla Supplica di Melpomene a Talia; ora colla Palingenesi Politica per Giuseppe Buonaparte, «inviato dal cielo a ritornar grande e felice la Spagna»; ora colle Vergini Gamelic pel parto della viceregina; ora colla Jerogamia di Creta per le seconde nozze di Napoleone; ora colle Api Panacridi per la nascita del re di Roma. E non bastavagli l’eterno lirismo greco. — In tanta luce di opprimente istorica verità, disperato il caso dell’epopea, nè potendo questa [p. 92 modifica]giovarsi molto della pagana mitologia, a cui è mancato presso noi il fondamento della religione che la santificava, ed essendo cessata quelle delle fate e degli incantesimi, che pure per qualche tempo potè supplire alla prima, era forza ricorrere ad un genere di poesia, il quale ponesse in salvo i diritti della favola, senza nuocere alla dignità della storia» (Dedica). Pertanto nella Spada di Federico mena Buonaparte all’avello del gran Prussiano, la cui ombra gli

Cesse il ferro contese; ed interrotte
Di furor mormorando e di cordoglio
Fiere parole, all’aura alto si spinge
E lunga lunga il ciel col capo attinge24.

Poi, nel Bardo della Selva Nera, prese l’intonazione di Ossian25, mescolando l’epica e la lirica a celebrare le imprese tutte del suo eroe. Ne fu ripagato con altra scatola d’oro, 2000 zecchini, decorazione, poi col titolo d’istoriografo del regno26; ma esprimendo [p. 93 modifica]nel brevetto che avrebbe pensione, non obbligo di scrivere la storia. Lo credo.

VI.

È funesta inclinazione degli uomini il prender calore pe’ fatti anormali, per lo spettacolo della forza, per la riuscita. Un giovane di 28 anni, con 20,000 uomini sprovveduti, scendea dall’Alpi, sperdeva gli eserciti agguerriti del Piemonte e dell’Austria, dava lo sfratto ai re centennarj. Mai la grandezza d’un uomo non erasi spiegata con più fulmineo splendore, o avea più rapito la pubblica opinione con colpi audacissimi e pur tanto calcolati. Alle genti dormiglianti nella pace gridava, Sorgete; e annunziava di non muovere guerra ai popoli, bensì ai loro capi, i quali nello stile d’allora doveansi chiamare tiranni; che farebbe l’Italia, quasi avesse cessato d’esistere l’Italia di Dante, di Michelangelo, di Machiavello, d’Alfieri; che non saremmo nè tedeschi, nè francesi, ma italiani; intanto sovvertiva la geografia, le leggi, le consuetudini nostre, ma col braccio di ferro conservava la quiete e rimetteva l’ordine, nei santi nomi di libertà e d’eguaglianza.

Sono promesse che, ridestate due o tre volte ogni secolo, riscossero sempre applausi e adorazione, finchè si risolvono in disinganni, sacrifizi, patimenti; e ogni volta si ripetè che per l’addietro erano illusioni, bugie, astuzia d’ambiziosi, ma adesso verità, realtà.

Il giovane Buonaparte cacciò gli antichi signori; non era diritto da parte sua il divenir esso signore, giustizia da parte nostra il lasciargli ogni potestà? Con questa fede, disfece, rifece le repubbliche nostre; poi l’alloro volle cambiare in corona, e cingendosi quella di ferro, esclamò: — Dio me l’ha data, guai a chi la tocca». Allora nuovo esaltamento della pubblica opinione, e l’orgoglio di veder costituito un regno d’Italia, che, fra l’incalzante succedersi di vittorie, sistemavasi con teatrale allettativa, ingenti spese, misto di serie preoccupazioni e frivoli passatempi, inebbriando di elevate speranze e cullando di molli condiscendenze, così da rimaner nelle memorie siccome l’età, non la più felice, ma la più splendida del bel paese. Mentre i buoni delle interminabili guerre e della dipendenza dalla Francia consolavansi nella fiducia della quiete e della lusingata indipendenza, in altri ingerivasi un’epidemia d’egoismo e di bassezza, [p. 94 modifica]un’avidità di oro, di onori, di materiali godimenti, di mezzo ai quali tutto doveva osannare al Grande e a’ suoi; non discorso, non poesia dovea comparire senza lodi all’uomo e ai tempi. Se non che l’uomo -6 i tempi cangiavano: quel che jeri s’era vilipeso come il più abjetto tiranno, diveniva il suocero dell’eroe: quel barbaro Scita, a cui tutti doveano imprecare, a Tilsit convertivasi nel più grand’uomo, degno di dividere coll’eroe l’imperio del mondo.

Ah! gli è pur difficile non lasciarsi trascinare dalla corrente, fra tanti cambiamenti riconoscere il paradosso, e non creder vero quel ch’è da tutti ripetuto. E parlo de’ sinceri, senza ricordare che, quanto è comune il calcolo d’applaudire ai fortunati del giorno, tanto è rara l’imbecillità di conservar fede ai caduti. E cadde anche quel colosso sotto alla coalizione de’ popoli; in tutto il «glorioso italo regno» non una mano si alzò a sostenerlo, di tante che lo aveano incensato: non una voce a difenderlo, di tante che l’aveano adulato.

Allora si mutò maniera di vedere; la capitale, piena de’ fasti napoleonici, si tappezzò di caricature in sua onta; i liberali disapprovavano quell’arroganza nella forza, il dispregio delle convenzioni, del diritto, delle credenze e abitudini popolari, i troppi sovvertimenti e la scarsa libertà: fin chi rimpiangeva le baldorie e i vantaggi di quel carnevale dispendioso, incolpava il fondator suo d’averne fatto una mera macchina per dare oro alle zecche, carne ai cannoni; il tiranno fu Napoleone, e redentori gli Alleati; repudiate le parole di gloria, di genio, ripeteansi quelle di pace, di giustizia, d’antico senno: caldeggiavansi i diritti del pensiero e dell’ingegno, il progresso morale; si dischiuse uno spettacolo, ben raro nella storia, la passione della pace.

Ma che? passano anni, lunghi e pieni come secoli, e un nipote dell’eroe, con un’altra di quelle imprese che stordiscono e impongono l’ammirazione, all’autorità corrotta sostituendo l’autorità sfrenata, s’asside sul trono di Francia, novamente arbitro dei popoli, proclamatore dei diritti, seminatore di speranze.

Quanti n’abbiam veduti rimettersi allora a venerare il vinto di Lipsia, il martire stizzoso di Sant’Elena, e sostituendo ancora l’idolatria della forza alla religione seria della libertà, cercare non solo lezioni di vigore, ma di libertà e dignità nel sistema di esso, finchè i disastri di Sedan cambiassero modo di giudicare!

Ogni tempo ha luoghi comuni, ricantati con avidità, poi di botto [p. 95 modifica]soppiantati da nuovi, altrettanto divulgati, benchè spesso opposti. L’opinione pubblica non si briga punto nè poco d’essere coerente; il vediamo tuttodì: e senza computare l’ambizione servile e la pusillanimità, quali strane illusioni coscienziose non può farsi uno spirito debole eppur ardente, non vulgare eppur comune? Gli è vero che le passioni basse esultano di trovare appunti contro chi le mortifica colla superiorità; e a tacere Talleyrand e compagni, udimmo di versalità imputare Göthe, Guvier, tant’altri; anzi Carlo X, nel 1830, diceva: — Non c’è che La Fayette e me che non abbiamo cangiato dall’89 in poi». Ma in realtà a quanto pochi basta il coraggio d’astenersi, e d’aspettar senza bestemmia come senza disperazione! quanti divennero o turbolenti sommovitori o turpi retrogradi, solo perchè non iscorgeano chiaro il fine a cui dirigersi in mezzo a tante perniciose tentazioni, fra spettacoli sì agitanti e corruttori, fra lo sregolamento del pensiero, dell’ambizione, dei fatti; vedendosi decantati per le loro aberrazioni, vilipesi per la loro perseveranza, denigrati per non aver blandito passioni, nè seguitato traviamenti! E quei che disertarono, come rendonsi intolleranti di chi non abdicò, la coscienza individuale per inchinarsi alla plateale opinione!

Beati quelli che la loro oscurità sottrasse al bisogno di manifestare questi cambiamenti, o la cui oscillanza tolse di renderli sensibili! Ma lo scrittore ha dovere di non fallire al proprio genio; ha da rendere conto di sè ai contemporanei e ai posteri. E questi hanno ragione di mostrarsi severi al Monti; così ragione, che niuno avrebbe il cinismo di scolpare col suo esempio quell’abjetta parte della folla scribacchiante, che ha acclamazioni per tutti i trionfi, sibili per tutte le cadute, facendosi complice di tutte le violenze come di tutte le bassezze.

Eppure il Monti non era un abjetto; e il suo peccato era colpa dell’educazione. In iscuola non gli avevano inculcato che l’arte deve essere sincera, ispirata dalla verità, ispiratrice di virtù; bensì a curare la forma, qualunque fosse il fondo, come la modista che prepara abiti e fronzoli per ornare sia Cornelia, sia Poppea; a guardare gli oggetti da un canto solo; prefiggersi il bello con intenzione meramente letteraria, e senza connessione dell’arte colla vita. In somma insegnavasi «Il Bello e basta»; come in altri tempi si insegnò «Audacia e basta».

Da giovane egli non ebbe quel momento critico, ove l’intelligenza [p. 96 modifica]formata dalla tradizione, ripiegasi sovra sè stessa, esamina con inquietudine, cangia, esita. Applaudito ai primi passi, egli non dubita che l’opinione dei più non sia la vera, e ch’egli deva seguirla. Mentre Dante diceva, «Quando amore spira, io noto», il Monti professa: «Ho amato per passione ed ho amato per capriccio; e in tutte due le circostanze ho composto de’ versi». Ingenuo e subitaneo nelle affezioni, queste variava come una donna di eccessiva sensibilità, che ama sincera e ardente, ma per mutare poco dopo d’oggetto.

Allevato a lodare, lodò sempre, o (altro genere di adulazione) vituperò quei che vituperava l’opinion pubblica; sempre con esagerazione, facendo Dei o Demonj quelli stessi che domani tramuterebbe dal Campidoglio alle Gemonie, o viceversa. Venerò od esecrò le persone invece delle idee, e vorrei dire che cambiava spesso di idee fisse. Le immagini che attraversavangli la fantasia, egli colorivale potentemente, non badando se vere, se nobili, ma se poetiche: al termine di ciascun componimento chiudeva la partita, contento d’aver empiuto le orecchie con torrenti d’armonia; domani verseggerà impressioni differenti o anche opposte; sublime cembalista, la sonata sia pure d’altro tono e d’altro stile.

Altamente persuaso di sè, considerandosi signore della pubblica opinione perchè n’era mancipio, non dubita che alcuno il riprovi, o si sovvenga che altrimenti ha giudicato, mentre (contraddizione comune) ha mestieri dell’approvazione altrui; per ottenerla canta ciò che è moda del giorno, ciò che gli assicuri l’encomio del giornalista, il sorriso del ministro, l’applauso della platea: come vi è chi oppugna sempre l’ultimo che riuscì27, così egli lodava sempre l’ultimo fortunato: illuso da quella grande illusa, l’opinione pubblica, nelle trasformazioni della sua politica e della sua vita però noi trovammo persecutore, come tanti divengono al momento che emergono dal fango; nè ebbe l’abile egoismo di coloro che le diserzioni sanno fare a tempo, e mutato mare, conservarsi a galla mediante l’opportuno remeggio delle relazioni sociali. [p. 97 modifica]

VII.

Mentre ancora stava a Roma e in veste d’abate, avea preso usata colla famiglia Pikler, tedeschi immortalatisi nell’intaglio delle pietre dure. Vogliono che della Teresa s’invaghisse sol perchè figlia di tali artisti: ella di lui perchè lodato poeta. Che l’unione riuscisse virtuosa lo negarono le cronache e le satire d’allora28: ch’ella lenisse i tedj al marito dobbiam indurlo dalle affettuose poesie che esso le dirigeva, e dall’amore che sempre le mostrò: e negli ultimi tempi noi vedevamo ribollire la splendida sua bile al menzionare alcun di coloro che avevano osato intaccare la sua Teresina, fior di virtù. Ma altro noi sappiamo. Al lampeggiare d’un’occasione di canto, la coscienza suggeriva al poeta il rispetto dovuto al suo genio: ma aveva accanto chi gli faceva scintillare sugli occhi la lucrabile moneta, le carezze dei ministri, i sorrisi del Dio: e il Dio, quando cessò d’esser Napoleone od Eugenio, divennero questo o quel ricco, e chi avea villeggiature, e chi dava pranzi.

Anche al tenero poeta Delille, la moglie calcolava i cento scudi che ogni verso gli sarebbe pagato, e il tenero cantor de’ Giardini repudiava i cento scudi e le insistenze della moglie, e poteva cantare:

          On ne put arracher un mot à ma candeur,
          Un mensonge à ma piume, une crainte à mon cœur.

Unico frutto del matrimonio fu la Costanza, fanciulla bellissima qual può ancora ammirarsi nel ritratto che Agricola ne lasciò sotto le sembianze di Beatrice, e dove dalla tela parea dire, «Or mira, diletto genitor, quanto son bella»29. Erudita dai padre all’amore [p. 98 modifica]de’ classici, e dalla conversazione alle grazie urbane, fu chiesta moglie dal conte Giulio Perticari di Pesaro; e per quelle nozze i poeti migliori fecero ciascuno un inno ad uno degli Dei Consenti, in nessuno de’ quali mancava un grano d’incenso a Napoleone. Gli Dei non arrisero a quelle nozze; benché sieno vili calunnie quelle che la pubblica opinione accettò da uno, che ha tempo di sentirne rimorso, se non ha coraggio di disdirle.

VIII.

Stanco dalle lotte giornaliere, sazio degli eroi e dei letterati d’un giorno, il Monti rifuggiva ai classici. Di Virgilio era appassionato; divisava un commento sulla vera bellezza di Dante; dell’Ariosto fece un attento spoglio, come il faceva di tutti i classici, spigolando le frasi che poi disseminava a piene mani ne’ suoi carmi. Silvio Pellico stupì quando il poeta gli mostrò là farragine di queste pietruzze di cui congegnava i suoi musaici; esperimento davvero pericoloso a chi non sappia fondere. Ma è un’altra specialità di questo genio l’aver non solo attinto a’ classici d’ogni paese, ma sentito il bisogno di tradurli, fossero Omero o il patriarca Pirker, Anacreonte o Kriloff, Virgilio o Klopstok, Voltaire o Ezechiele. Nel 1803 avea vulgarizzato le satire di Persio, improba fatica che nessuno ripeterà, e dove resta ancor più da indovinare che da tradurre30. Altre volte pubblicava Sovra un proprio ritratto egli fece quest’epigramma:

Chi è costui? — Monti. — Chi’l pinse? — Appiani
— Vedi quanta il pennel vita dispensa!
— Il veggo. — Or dì: perchè non parla? — Ei pensa.

[p. 99 modifica]esercitazioni filologiche, come sulla chioma di Berenice e sul cavallo alato d’Arsinoe (1804), pretendendo che l’equus ales dell’epitalamio di Catullo fosse lo struzzo.

Nominato professore d’eloquenza all’Università di Pavia, vi recitò due prolusioni, dove non ancora discerne le ragioni della prosa da quelle della poesia; e che tanto rimangono inferiori a quella di Ugo Foscolo, che pur è tutt’altro che vera eloquenza31.

Questo Foscolo, animoso e passionato giovane, scisso tra impeti generosi e istinti materiali, ostentando eccellenza morale e avvoltolandosi in passioni procellose eppure efimere, piacque al Monti, il quale gli diede consigli pei Sepolcri, credendoli «un capo d’opera che non deve lasciare alcun morso alla critica». E poichè seppe che aveva cominciato a voltare in italiano l’Iliade, gli mostrò il primo libro, ch’egli avea tradotto a’ bei tempi di Roma, e il Foscolo stampollo a Brescia nel 1807, per Esperimento a fronte del suo e [p. 100 modifica]della versione in prosa del Cesarotti. Allora il Monti vi s’incalorì, e volgarizzò l’intero poema.

I dubbj del Vico non erano conosciuti, perchè Vico è italiano. Quelli del Wolff intorno all’esistenza o alla duplicità di Omero leggeansi esposti e discussi dal Cesarotti, con erudizione d’imprestito; e librate le vicende di quella guerra, di cui il ratto d’Elena fu il pretesto, e motivo vero la libera navigazione dell’Egeo; come ai dì nostri il paletot di Menzikoff fu pretesto a un’altra, che tendeva egualmente a render libero il mar Nero. E a Troja venne costituito quel legame di federazione tra i popoletti della Grecia, che li rese potenti a respingere la Persia, e valenti a primeggiare in tutte le arti, finchè i Macedoni vollero l’unità e il regno forte, pel quale poco dopo cascavano in irreparabile servitù dei Romani.

Di tutto ciò il Monti non si brigava, ma soltanto del bello, di quella lucidità di pensiero, di quella purezza di stile, di quella leggiadria di forme, spoglia dei gingilli delle età di decadenza; di quella calma nel racconto e verità ne’ particolari; di quel dir tutto naturalmente, con facilità graziosa, con finezza senza oscurità, con leggerezza amabile anche nelle cose gravi.

O come il Monti non s’accorse che a questo appunto miravano i romantici italiani, quando voleano revocare la letteratura, non dai classici, bensì dai loro contraffattori, i quali falsavano l’antichità letteraria come l’antichità artistica falsavano i pretesi architetti greci e romani del Cinque e del Seicento?

E come essi romantici voleano richiamar al vero e al sentimento, così il poeta meonio cantava le credenze, la civiltà, i modi dell’età sua e della sua nazione, accoppiando il vero col poetico, il sublime col semplice. Non cantore sacerdotale a guisa di Orfeo e de’ mistagogi; non teogonico a guisa d’Esiodo, parla degli Dei non altrimenti che degli eroi, fissandosi al culto esteriore, alle forme, non al senso mistico; se Giunone si mesce a Giove, se ella è sospesa alla volta del cielo con incudini ai piedi, se Vulcano è lanciato dall’Olimpo, Omero li canta senza sospettarvi simboli; fa gli Dei mistura di bene e di male: la morale rabbrividisca pure ad atti e passioni indegne, la poetica n’è giovata più che dalla monotonia della perfezione: si discosti pure dal sentire, dalle costumanze, dalle leggi, dai canoni dell’onor nostro; vive però d’immortal giovinezza in grazia dei sentimenti; poichè il linguaggio della natura è il filo elettrico delle anime traverso allo spazio e al tempo. [p. 101 modifica]

Omero non dovette essere noto al nostro medioevo, se non per alcuni estratti e compendj, nè forse altrimenti lo conobbe Dante. Se il Petrarca e il Boccaccio poterono leggerlo nella versione di Leonzio Pilato, non pare fosse studiato nel Cinquecento, ancor meno nel secolo succeduto, malgrado il vulgarizzamento così poco simpatico del Salvini; varj lo tradussero nel Settecento, fra cui levò rumore il Cesarotti. Questi conosceva il greco, ma allattato dagli Enciclopedisti, non sapeva spogliarsi de’ sentimenti e dei modi del suo tempo; e v’adoprò una gonfiezza, che discorda dalla atletica nervosità del suo modello: poi rimpastò l’Iliade stessa, mutilandone le sublimi audacie e le originali vivezze per rendere dignitosi gli Dei, ragionevoli gli uomini, e sostituire il cerimoniale all’ingenuità, togliendo o cangiando quel che repugnava ai costumi, al galateo, all’arte moderna. Gli amici preconizzarono l’Iliade italiana; quel verso ribombante, quello splendore bengalico piacevano alla gioventù e alle donne, abituali dispensieri non della gloria ma della voga; i lodatori sistematici lo dichiararono superiore al suo testo, che non aveano letto; ma gli studiosi fremettero a quella profanazione; i begli spiriti dipinsero un Omero vestito alla francese, con abito listato, scarpe a punta, gran parrucca, due ciondoli d’oriuolo, e in mano l’Illiade italiana32. [p. 102 modifica]

Il Monti ravvisò l’impresa unicamente come arte; sentiva di poter tradurre con elegante purezza un poeta così semplice, così chiaro, che mai non si è arrestati da una difficoltà nel capirlo; tradurlo in modo che potesse leggersi come originale.

Il Monti sapea di greco poco più in là dell’alfabeto; ma aveva sotto mano le versioni precedenti in latino e in italiano; oltre che Ennio Visconti, il Lampredi, il Foscolo, il Mustoxidi, il Lamberti33 gli diedero pareri, coi quali prima pubblicò, più tardi corresse la sua traduzione. «Meglio una bella infedele che una brutta fedele», dissero gli arguti; in fatto egli poeta aveva inteso il poeta più che altri non vi giungesse colla cognizione della lingua; più felicemente affrontò l’enorme difficoltà di concordare la lettera collo spirito, la sostanza colla forma.

Giacchè ad Omero fa naturale riscontro Erodoto, epico questo alla guisa che quello è storico, si confronti la prova che fece il [p. 103 modifica]Mustoxidi traducendo le Nove Muse in linguaggio antico, al modo che avea fatto, con più maestria non con più felicità, Gian Paolo Courrier in Francia, scambiando per arcaico il dialetto jonico, men grave che il dorico, men contratto che l’attico. In quella fatica si sente ogni tratto che la parola non nacque col pensiero; mentre il Monti adoprò una dicitura facile, piana, d’eleganza invidiabile. Se non che, negli autori primitivi è troppo necessario non alterare alcuna parola, perchè essi medesimi la raccolsero da’ canti precedenti o dalla tradizione, storia parlata quando ancora non la si scriveva; facendosi testimonj anzichè autori; ed è facile sostituire colla parola una intera categoria di idee, repugnanti dalla civiltà d’allora. V’abbia pure immagini sconvenevoli, sentimenti grossolani, particolarità vulgari, mascherate dalla ingenua eleganza; il traduttore deve riprodurli, mettendo squisita esattezza nel tradurre un fondo così vero e una forma così semplice. In Omero, l’epico si cela sempre; laonde non ben l’intese chi alla prima parola verseggiò Cantami, o diva, dove l’originale mette solo Canta, o diva. Se le navi sarpano l’áncora, se le armi forbite son di canuto ferro, anzichè di rame, se uno «a spronar esorta verso le navi i corridori»; se Tetide, come gli eroi metastasiani si lagna che «iniqua stella, il dì ch’io ti produssi, i talami paterni illuminava», siam fuori del tempo: se a Bellerofonte affida Preto chiuse funeste cifre e crude note34; se i capitani greci firmano ognuno la propria tessera e la mettono nell’elmo35, ecco anticipato l’uso della scrittura, che forse ignoravasi ai tempi d’Omero, non che della guerra iliaca. Potrebbe anche notarsi che Minerva è dea etrusca, mentre i Greci adoravano Pallade; così Erme ed Era e Poseidon e Afrodite ed altri scambj, che trasportano l’erudito in tutt’altro ordine di concetti.

Che che ne sia di queste minuzie, l’Iliade, qual fu corretta dopo nuovi appunti del Lamberti e del Visconti, sebbene più di quella che Fénélon chiamava amabile semplicità del mondo nascente, vi si trovino [p. 104 modifica]le forbite grazie d’un secolo squisito e d’un gusto schizzinoso, restò l’opera più compita del Monti, e l’Italia l’accettò, per quanto altri siasi accinto da poi a vulgarizzarla più fedelmente36. [p. 105 modifica]

IX.

Non occorre ripetere che ogni opera del Monti era tanto vituperata quanto lodata; e gli emuli politici s’aggiungeano ai letterarj, [p. 106 modifica]che spesso egli medesimo istigò37. Angelo Mazza di Parma (— 1817) cominciò a poetare da giovane, e fu lodato da molti e da sè stesso, fin a dire [p. 107 modifica]

Consentirammi Eternitade un loco
Fra ’l numer breve de’ divini ingegni.

Quando il duca di Parma concesse all’Aristodemo l’onor del premio benchè fosse cessato il concorso, e il Bodoni lo stampò magnificamente, gravi censure se ne dissero e se ne scrissero; si spinse un tal padre Capretta a fare una tragedia l’Aristomene, ripetuta sulle scene e portata a cielo, benchè affatto meschina, tutto ciò il Monti credette venuto o ispirato dal Mazza, e avventò contro di lui una nota sanguinosa, ove gli rinfacciava d’essersi fatto coniare una medaglia coll’iscrizione Omero vivente: e si credette avesse alluso al Mazza nella dedica dell’Aminta ove nomina il Frugoni

Padre incorrotto di corrotti figli
Che prodighi d’ampolle e di parole,
Tutto contaminâr d’Apollo il regno.

Il Mazza rispose una lettera abbastanza pacata, ove negava che mai fosse esistita la rinfacciatagli medaglia: il Monti non si disdisse, e anche dopo riconciliati, lo criticò aspramente nel Poligrafo.

A Saverio Bettinelli, che l’aveva appuntato di mescolare la mitologia colla religione, diede un fiero carpiccio nelle note alla Bassvilliana, come affettasse la tirannide delle lettere, e «sentenziasse a morte le altrui produzioni per vendicarsi del sonno apopletico in cui son cadute le sue:... nume che scherzando crea e cancella con un tratto di penna le riputazioni di tutti i secoli; letterario carnefice, il quale non accorda la vita che alla sprezzata e timida plebe che gli casca ai piedi tramortita d’ammirazione e di riverenza, spera forse d’aver ottenuto dall’Italia perdono d’averla un giorno inondata col brodo delle sue sciolte poetiche? La crede egli forse dimentica de’ grossi volumi da lui stampati a perpetuo monumento della sua insensatezza e a beneficio solo de’ cessi e delle botteghe?» e via di peggio.

Ma sedici anni dopo credeasi in dovere di far ammenda e palesare al pubblico ch’e’ portava un cuore compreso di riverenza verso tutti i sommi uomini che onorano la nazione; e protestargli che non cessava d’augurarsi la fama di lui; e reputavalo, d’accordo con tutto il pubblico e nazionale e straniero, uno de’ primi ornamenti dell’italiana letteratura.

E a lui dirigeva una lettera, dove svelenivasi contro de’ suoi avversarj, e massime di Francesco Gianni. Questo romano, che facendo il [p. 108 modifica]sartore, tenevasi sul deschetto il Tasso e l’Ariosto, datosi all’improvvisare, riuscì de’ più meravigliosi; fortunato anche d’imbattere a Genova l’avvocato Ardizzoni, che a mente raccoglieva le sue poesie. Vantato in Roma sin a farne un emulo del Monti, fuggì di là col Salfi dopo assassinato Bassville. A Firenze improvvisava colla Fantastici, che amò, poi infamò in abjetta satira; e l’Alfieri lo ammirava, pronunziando però che quello era men tosto un improvvisare, che un comporre in fretta; alludendo al suo lento declamare. Non mancano di merito que’ suoi componimenti, ma troppo spesso enfatici come le scritture d’allora, quando gli s’applaudiva se cantava che nel 99 a Napoli

Le prigioni mancarono ai vivi,
Agli estinti le tombe mancâr.

A Milano preso il volo sull’ale della consorteria dominante, e messo secretario al ministero degli esteri, promosse l’incendio della Bassvilliana, e dava risalto a ogni torto del Monti, che il ripagò nella Mascheroniana, definendolo «di Libetra certo rettile sconcio, che, supplizio di dotti orecchi, cangiò l’ago in cetra», e «tutto parossismo di delfica manìa, vate più destro la calunnia a filar che il sillogismo»38. Gli applausi del vulgo, sempre stupito dell’arditezza, inebriavano il Gianni fin a credersi il principe de’ poeti; sicchè la rivalità fra i due scrittori era quistione di principato. Il Gianni diceva: — Io non ho mai pubblicato un solo verso che blandisca la tirannia, e che adonesti l’infamia dell’opulento. Ciò valga perchè io sia più grande di chi abusò del suo ingegno per magnificare il delitto».

Alternarono inimicizie e conciliazioni, finchè si venne al massimo scoppio.

Della Spada di Federico eransi fatte dieci edizioni in cinque mesi, tre versioni latine, una in francese, e aveanla lodata «Bettinelli, Mazza, Cesarotti ed altri che il pubblico riconosce come il fior della nostra letteratura». In questo fausto successo avea gran parte l’adulazione all’adulato; ma altri, che nè al lodatore nè al lodato [p. 109 modifica]voleano prostrarsi, cardassarono quel componimento, e più severamente La revue littéraire in un articolo francese. Milano, che voleva umiliar il Monti quanto suole co’ suoi concittadini, fu subito inondata d’avvisi della ristampa di quell’articolo: il Monti potè accertarsi che era ispirazione od opera del Lampredi39, del Gianni, del Buttura, [p. 110 modifica]del Biagioli40, d’altri italiani sedenti a Parigi, e menò il suo staffile su tutti e su ciascuno. I posteri non cureranno quel componimento, malgrado le difese del Monti, che riduceasi, come nella Bassvilliana, a rinfiancarlo con esempj di classici; meno leggeranno quella critica, ove a capo de’ poeti d’Italia è posto il Gianni, autore d’altro canto su quelle vittorie, e a fianco di esso i due Pindemonti, Fantoni, Salomoni, Bettinelli, Casti con Parini e Alfieri e col Buttura. Monti, «provocato dal Lattanzio, insultato in tutte le guise, esagitato senza riposo», credette aver acquistato il funesto diritto di vendicarsene: protesta che, se i critici sanno preparare la cicuta di Socrate, prima di beverla e’ risponderà, ma «le ingiurie non saranno le sue armi di ricambio»: poi tutta la risposta è un torrente d’ingiurie da Transtevere e insinuazioni da Polizia. E’ se ne scusa dicendo che i Pantilj41 e i Demetrj non miravano tanto a roder la reputazione di lui, come ad avvelenare la benevolenza di Mecenate e d’Augusto. Mai non s’eleva alle ragioni generali dell’arte, e prorompe: — La critica, quella coscienza esteriore che ci avverte dei nostri difetti, tenuti nascosti dall’amor proprio, e che, ammonendo con urbanità, sarebbe il massimo de’ beneficj, non è ella nel cuor di questo regno un giornaliero strappazzo dell’altrui fama? Non vedete la virulenza e la rabbia, colla quale costoro incessantemente si gettano sopra le loro vittime, senza punto curarsi della pubblica indignazione?... Contro questi eccessi si sollevano tutte le anime oneste...42 Quando la libertà della stampa non trova un freno interiore nella probità e nell’erubescenza d’un giornalista, un giornale... si cangia in vile istromento delle passioni, diventa una gravissima [p. 111 modifica]ingiuria non contemplata dalla legge nè rigorosamente punita dall’opinione pubblica, che è la tremenda appendice di tutte le leggi».

La Risposta prima del Gianni, intitolata Proteone allo specchio e data da Libetra, è un vero furore d’improperj, ma sembra sentita. — Concentrato pacificamente in un angolo della terra, io vedea scorrere i miei giorni innocenti e tranquilli, allorché tu, invidiandomi quella calma che hai perduta per sempre, fosti il primo ad assalirmi nel mio ritiro. Ripugnava alla mia anima il discendere sino a te», ecc. La seconda risposta è bassa quanto qualunque delle odierne.

Nè le inimicizie cessarono quando, divenuto il Monti poeta di Corte, pareva offesa ufficiale l’intaccarlo. Il Lattanzio nel Corriere delle dame a Milano43, il De Coureil a Pisa44, altrove Urbano Lampredi, Michele Leoni ed altri pareano accordarsi per attossicargli la coppa inebriante, aguzzando gli occhi per iscovare difetti nelle sue composizioni; più s’accannivano contro quella versalità, e distinguevano le opere dell’abate Monti, del cittadino Monti, del cavaliere Monti. [p. 112 modifica]

X.

Ma egli era echeggiato da una scuola di numerosi adepti, di potenti corifei, di fervidi ammiratori, la quale distribuiva la gloria, le decorazioni, le cattedre, i posti nell’Istituto, rimbalzandosi le lodi ne’ circoli e sui giornali. L’Impero voleva anche i fiori squisiti dell’intelligenza e dell’arte, che sono l’ornamento de’ grandi secoli, ma che non fioriscono se non dove la coscienza interrogata può dire la verità.

I ministri d’Italia doveano circondarsi di letterati, e principalmente il Veneri e il Paradisi ne’ loro circoli raccoglievano quanti dotti aveva il regno; l’esservi ammesso e preconizzato era la condizione d’ogni successo; di là usciva la riprovazione o l’esaltamento d’ogni opera dell’arte, di là le elezioni all’Istituto45. Il Monti naturalmente vi primeggiava, non tanto in ragione del talento, come della flessibilità, per la quale appuntandolo consolavansi i mediocri.

Per la ragione contraria v’era meno accetto Ugo Foscolo, che, comunque operasse da individuo ed in privato, sentiva che un autore verrà giudicato da’ suoi scritti, e non voleva insudiciar la Musa; dotato di selvaggia grandezza e pauroso di sembrar comune, fra gente devota alla più comoda delle eresie, la noncuranza di ogni principio, affettava di averne al modo stoico, e dalle passioni e dalla moda spinto a sollecitare il favor de’ ministri, pure ricusava di prostituirvi la dignità delle lettere; e non lo chiedeva, benchè invidiasse quelli che l’otteneano; col mal dissimulato disprezzo per le mediocrità primeggiane, e con quell’ira che spesso appone a una classe o ad un paese intero i torti di qualcuno, professava «abborrimento contro i ciarlatani e impostori, vendilettere, vendifama, vendipatria di Lombardia», ove deplorava che «i letterati sono vilmente timidi; segnatamente a Milano, sono, chi più chi meno, tutti vilmente raggiratori».

Dapprima il Monti e il Foscolo vedeansi in amicizia, e quegli scriveva a questo: — Il tuo massimo studio deve essere il conservarti la grazia del principe. Aggiungi dunque alla tua Prolusione (te ne scongiuro) due parole, un cenno che apertamente tocchi le lodi dell’imperatore e del principe. Questa è una costumanza, dalla quale [p. 113 modifica]non puoi prescindere senza dar campo a odiose illazioni. Fa a modo di chi ti ama davvero».

Il Foscolo, in difesa del Monti, avea scritto: — Non vi resta partito, o Italiani di qualunque setta voi siate, se non quest’uno di rispettarvi da voi; affinchè, s’altri v’opprime, non vi disprezzi». E soggiungeva: — Che non ha ella corrotto in Italia la peste della calunnia, e più che altrove in Milano? città accannita di sètte, le quali, intendendo sempre a guadagni di vili preminenze e di lucro,, hanno per arte imparato ad esagerare le colpe e dissimulare le doti degli avversarj. O monarchi, se desiderate aver più servi che cittadini, lasciate patente l’arena dei reciproci vituperj».

A chi poi, col più triviale de’ consigli, suggerivagli di lasciar dire, e che la verità viene chiara da sè, replicava: — Dovremo dunque sentirci onesti e vederci infami, e per sinistra modestia tacere?, e mentre altri s’apparecchia ad affigger l’ignominia anche ai nostri sepolcri, aspetteremo che la posterità ci giustifichi?»

I soliti amici riuscirono a gettar gelosie fra i due poeti, che per qualche dissenso letterario si bisticciarono, e ne nacque un basso alterco. Foscolo urlò: — Non ho amici, e non voglio averne»; e — Scriverò in modo che più d’uno farò ballare sopra un quattrino». Il Monti replicogli che avrebbe fatto ballar lui sopra la polvere de’ suoi Sepolcri. Sbollita l’ira dopo alcuni giorni, com’è delle anime elevate, Ugo gli diceva: — Discenderemo entrambi nel sepolcro, voi più lodato certamente, io forse più compianto, il vostro epitafio sarà un elogio; sul mio si leggerà che, nato e cresciuto fra triste passioni, ho serbata la mia penna vergine di menzogne». Il Monti sentiva che Ugo era il solo capace di disputargli il primato; colpa che difficilmente si perdona: e mentre reciprocamente avrebbero potuto giovarsi e nelle composizioni e negli atti, temperando la fierezza dell’uno colla arrendevolezza dell’altro, si astiarono o alla coperta o palesemente. Foscolo avea venerazione pel Monti e cercava ammansirlo; ma le inesorabili censure del Poligrafo allora ascoltate perchè giornale quasi unico, infistolivano queste ire; vi si mescolava la politica, e il Monti pretendeva che, essendo egli stato eletto poeta dall’imperatore, il criticar lui fosse un disapprovar l’imperatore, e farsi reo di lesa maestà. E fra altri, slanciava questo basso epigramma sull’Ajace: [p. 114 modifica]

Per porre in scena il furibondo Ajace,
     Il fiero Atride e l’Itaco fallace
     Gran fatica Ugo Foscolo non fe:
     Copiò sè stesso e si divise in tre.

E perchè l’altro sentenziava: — Sdegno il verso che suona e che non crea» e qualificava «Monti cavaliero, gran traduttor dei traduttor d’Omero», gli avventò quest’altro, insultante pur troppo non mendacemente:

Quest’è il rosso di pel, Foscolo detto,
     Sì falso che falsò fino sè stesso
     Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto:
     Guarda la borsa se ti viene appresso46.

E l’ira invelenì: chè i colpi di spada menano spesso alla pace, i colpi di penna alla guerra: nell’Hypercalypsis Ugo ne parla sempre con ira di emulo, sotto il nome di Goes figlio di Horo, trattandolo di accattone, di cornuto: e quanto alla forma, sentenzia che sempre abborracciò per obbedir ai potenti che lo pagavano: ha esposizione nitida, ma più lucente per isplendore di oro che per purezza: imitatore sempre, e che spesso si ripete. Non è pel vulgare gusto d’invilire un grande che ricordiamo alcuna delle tristi puerilità dell’odio, il quale ha pur esso i suoi inebriamenti. E il Monti aspirò anche ad aver la dittatura dell’attacco e della calunnia nel Poligrafo47, avvelenate contumelie e splen[p. 115 modifica]didi improperj o lodi smaccate distribuendo all’assenso o all’avversione, nell’urto incessante di animosità affatto personali, e coll’ira di chi sente d’aver torto, senz’ombra di quella critica iniziatrice, che, ispirandosi al sentimento e alla verità, le teoriche del gusto traduce in consigli di dignità e coraggio.

XI.

V’è altezze a cui si arriva a forza di cadute; e non è raro il trovar giornali, che, dimostrata ogni opera vostra essere uno sbaglio, conchiudono che siete un gran poeta, uno storico eminente, il primo pensatore. Così fra tanti attacchi il Monti era generalmente salutato principe de’ poeti viventi, e glielo attestavano gli omaggi degli uni, come l’accannimento degli altri.

Se non possiamo ingloriarlo come restaurator del gusto, giacchè compariva dopo del Parini e dell’Invito a Lesbia, nè del culto di Dante, giacchè l’aveano preceduto il Varano, il Betti, il Gozzi, nelle composizioni sue, eccettuato forse solo il Bardo48, troviamo [p. 116 modifica]ordine esatto, bella proporzione, stile dignitoso insieme e popolare, che mai non appanna il pensiero, anzi rifonde l’alito in immagini morte: vita briosa, passo concitato verso la meta, incessante cura della grazia, della convenienza, della chiarezza principalmente, trovando egli brutto ciò che non fosse chiaro; signoria della frase, architettura armoniosa d’idee limpide e concatenate, pittura talora delicata, sempre evidente; splendore delle immagini, riprodotte con felicissima agevolezza, con un fare largo e sicuro, con maestrevole sprezzatura; donde risultava la perfezione dello stile, benchè i più schivi trovino declamatorio il tono, ed eccessivo quel lusso ondeggiante di pensiero e di linguaggio.

Colla Bassvilliana era parso raggiungere il senso mistico de’ Trecentisti nell’insigne concetto di fare il mondo dei vivi strumento di espiazione ai morti; ma nello svolgere quel concetto, poi nel riprodurlo troppe volte senza amore nè fede, palesò che dalla vita postuma non sapeva evocar che ombre: ombre incontrane quella di Ugo; ombre de’ Druidi invogliano di sangue i Parigini; ombre di regicidi decapitano il re; ombre di filosofi vengono a berne il sangue; ombre di vittime della rivoluzione fan corteggio all’ombra di Luigi che sale al cielo. Poi tornano ombre nella Mascheroniana, ombre nel Pericolo e nel Fanatismo, ombre nella Battaglia di Marengo e nella Spada di Federico: ombre nell’Aristodemo; sin nella Prolusione pargli «vedere le ombre de’ sapienti che all’Italia meritarono il titolo di maestra».

Egli poi dipinge, non pensa; improvvisa, non esercita la riflessione, che è la coscienza dell’ispirazione; l’eleganza eleva sino a diventar creazione; la sonorità del verso, l’onda della frase tengongli vece del sentimento e del concetto, della emozione personale le classiche reminiscenze, che sa assimilare così da parere spontaneità: e da somigliare stile dell’anima quando in fatti non è che stile dell’arte.

Certe note che alla Bassvilliana soggiunse in nome dell’editore, difendendo e chiarendo là ragione storica e la poetica dell’opera, rivelano splendidamente il modo di vedere del poeta, il quale non cura tanto il fondo quanto l’espressione. Ribatte dapprima chi la giudica poema epico, o chi ne fa protagonista il Bassville, somigliandolo piuttosto alla Divina Commedia, alla quale con ciò ricuserebbe la natura epica. Accusavanlo d’aver ripescato arcaismi nelle bolgie [p. 117 modifica]di Dante, ed egli se ne scagiona con esempj, mentre in realtà arricchiva con legittime frasi il poverissimo dizionario de’ contemporanei di Metastasio. Quasi fosse colpa qualunque fiato d’originalità, ogni frase, ogni idea mostra dedotta da qualche classico, ogni invenzione da qualche antecessore. E coll’autorità vuol difendersi d’aver mescolato la mitologia alle cose religiose: e chiamato villanello quel che si lacera il crin bianco al vedersi rapiti i figliuoli; e d’aver detto dal freddo al caldo polo; nel qual puntiglio talmente s’ostinò, che, sebbene tant’altre cose mutasse, questa non volle mai.

Dalla persuasione che la poesia non abbia bisogno d’esser giusta, purchè ardente e passionata, derivò l’enfasi continua, il sorreggersi con ipotiposi, apostrofi, circonlocuzioni, e aleggiare colla fantasia: facile compito qualvolta si lasci da banda il giudizio.

Gli eroi che ritrae non han carattere e vita individuale; sono forme aeree, non realità o storia.

L’esagerazione poi è sistematica nella frase come nel sentimento; il Vesuvio versa tuoni e folgori; il re di Napoli non è degno di morire del pugnale di Bruto; le Alpi stupefatte tremano al passar dell’esercito pel San Bernardo; Buonaparte ancor generale, nel cielo ha i rivali perchè averli non puote quaggiù; dopo coronato è un Sesostri, è il re della gloria, il signor del fulmine, e sull’opre sue è scritto «Adora e taci»: le croci d’una processione sono orrende, e tartaree le litanie dei supplicanti; la Malaspina è donna immortale, divina l’Antonietta Costa, cui poco mancò che i Genovesi erigessero altari; l’Università di Parma è un Peripato che vincea l’antico, e il duca Ferdinando un Pericle novello, e Aspasia migliore la sua moglie: ogni uomo è un demonio o un dio, anzichè questo impasto reale di grandezza e miseria, di sublimazione e avvilimento.

Di mezzo a ciò, è difficile determinare i veri sentimenti del Monti. Direbbesi che la Bassvilliana sia la più sentita delle sue composizioni, quella certo che il pubblico maggiormente ricorda; pure nemmeno ne’ vecchi suoi giorni si pentì delle demagogiche49, forse [p. 118 modifica]anche allora calcolando l’arte più che il concetto. Certo però noi vediamo più ritornare ai sensi di devozione che spirano da alcuno de’ primi suoi componimenti, e mostrasi sempre scettico e libero pensatore, sicchè avea torto il Gianni di qualificarlo «ripentito cantor del Crocifisso».

Le ispirazioni democratiche erompono in frequenti motti contro tiranni, allora sinonimo di re.

                                   Di re giustizia
     Lo scellerato assolve e il giusto fiede (Masch.)
Vedi sozzi di strage e di peccato
     I troni della terra, e dalla forza
     Il delitto regal santificato.
Re, tremate, l’estremo decreto
     Per voi l’ira del cielo segnò.
Punitrice di regj delitti,
     Libertade, primiero dei dritti....
     Il tuo ramo radice non pone
     Che fra i brani d’infrante corone;
     Nè si pasce di mute rugiade,
     Ma dei nembi e del sangue dei re;
     Re perversi, già trema, già cade
     Il poter che il delitto vi diè.

Fin lodando Napoleone nella Spada di Federico, prorompe:

E questo suono mi feriva: Avara
Regal semenza, a vender sangue impara.

Anche per la Grecia cantò

Guai al giuro dei re! guai alle brame
Di chi lo scettro più che Cristo adora.

Nobile vi è e costante l’amor dell’Italia; dico dell’Italia una, dell’Italia forte, dell’Italia antipapale, dell’Italia primeggiante per la gloria dell’armi, quale i rivoluzionarj credono averla inventata jeri. La Musogonia, nell’edizione emendata, conchiude:

E voi, di tanta madre incliti figli,
Fratelli, i preghi della madre udite.
Di sentenza disgiunti e di consigli,
Che pensate, infelici, e chi tradite?
Una deh sia la patria, e ne’ perigli
Uno il senno, l’ardir, l’alme, le vite.
Del discorde voler che vi scompagna
Deh non rida, per dio, Roma e Lamagna.

[p. 119 modifica]Dedicando il Prometeo a Buonaparte, e paragonandolo a questo mito, diceva: — Voi infondete nelle nazioni il fuoco della libertà, adempiendo gli alti e generosi disegni del primo governo dell’universo.... Voi beneficate i popoli sommersi nel fango della schiavitù, restituendoli ai naturali lor diritti, ed obbligando gli ostinati vostri nemici a lasciar in pace la terra». Altrove lo inneggia perchè all’Italia,

                                        com’era
D’armi nuda e d’ardire e di consiglio,
Diè lo scudo, diè l’asta, e già guerriera,
Già coronata, in trono la compose
Con guardo che dicea: Fa senno e spera.


Di patriotismo bolle la Mascheroniana; di patriotismo è tessuta la Prolusione: parla d’Italia fin nella cantata in lode degli Austriaci tornati.

XII.

Perocchè il portento che aveva affascinato il mondo e lui, cadde sotto l’odio de’ popoli, tremendamente concitati da Körner e da altri poeti e prosatori tedeschi. Gridando la liberazione e l’indipendenza, i monarchi alleati occupavano l’Italia, e la ribadivano agli antichi padroni, privata delle antiche franchigie; e la Lombardia colla Venezia assegnavano all’Austria. L’arciduca Giovanni venne a raccogliere il giuramento dei nuovi sudditi il 15 maggio 1815, e il Monti compose il Mistico omaggio da cantarsi al teatro della Scala, e si consolava perchè esso principe, alla presenza di tutti i membri dell’Istituto, gli disse: — Avete espresso delle utili verità, che devono piacere a tutti i sovrani. Questo è il linguaggio che gradiste all’imperatore».

Il qual imperatore, venendo a Milano, ebbe dal Monti un’altra cantata, Il ritorno d’Astrea50, ove celebrava [p. 120 modifica]

          Il sapiente, il giusto,
          Il migliore dei re, Francesco Augusto.
     Così l’orror finito
          Di questa fiera età,
          Il suo novello Tito
          Il mondo adorerà.
Adorarlo beati vedremo
     L’Unno, il Daco, il Moravo, il Boemo,
     E quant’altra a lui serve giurata
     Gente armata di ferro e valor.
E tu, madre di fervide menti,
     Che caduta ma grande ti senti,
     Bella Italia, dirai: Se son viva,
     Se son diva, d’Augusto è favor.

Così perseverava nell’arte di mescolar il vero al falso, di confondere e sentimenti e idee nel barbaglio della poesia. Era anche preparato un altro inno che parve troppo basso: come l’Invito a Pallade quando nel 1819 s’attendeano a Milano l’imperatore e la moglie, di lui dicendo che

Sdegnato, è turbine
Che tutto spezza;
Placato, è zefiro
Che i fior carezza;

e per lui facendo invidiata

Te, che di Cesare
Posi sul petto,
Elisa, italico
Nome diletto.

Qui il poeta non subiva altro fascino che la vulgare opinione, perocchè non v’era bagliore di eroe, non attrattive in un Governo che non amava le blandizie, nè curava gli applausi, bastandogli d’esser obbedito. Francesco I parlò con profondo disprezzo del Monti, e negò continuargli la pensione d’istoriografo51. Di qui sdegno [p. 121 modifica]inesorabile nel poeta, che anche negli ultimi giorni imbizziva con immagini di bassa fantasia per improperio di quel Cesare, e del podestà di Milano che avea ricusato accollar quella pensione alla città.

Tardi sdegni, quand’era immortalmente scritta la lode profusa ai vincitori di quello, cui avea profuso lodi immortali. E più dolorosa a rammentarsi perchè mai più in 40 anni di servaggio trovossi un poeta vero che cantasse quei dominanti, nè un ingegno che togliesse a sostenerli o difenderli52. Quando signoreggia l’iniquità, resta una consolazione ai giusti, il sentire/ che possono non applaudirla, non secondarla, ma tacere innanzi ad essa. Vero è che ciò rendeasi men difficile quando il potere non comprava nè carezzava. Però uno dei primi governatori avea pensato fondar a Milano un giornale, la Biblioteca Italiana, che guadagnasse l’opinione a servigio de’ nuovi padroni. Ugo Foscolo non accettò di’ dirigerla; l’accettarono il Monti53, [p. 122 modifica]Pietro Giordani e il mantovano Giuseppe Acerbi. Quest’ultimo ben presto disgustò gli altri due, onde il Monti, che vi aveva esercitato nuove nimicizie54 e sperato trovarvi libero campo alle sue [p. 123 modifica]polemiche, versò anche sopra di esso nella Proposta que’ suoi travasi di fiele55.

XIII.

D’allora, estranio alla politica, si applicò specialmente a tenzonare di parole nella Proposta di correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca. Avea mosso quel litigio fin dal tempo del Poligrafo, [p. 124 modifica]cuculiando il padre Cesari. Trovata la lingua perfidiata dal Cesarotti, mal difesa dal Napione, infranciosata e nelle teorie e nella pratica non tanto per l’invasione forestiera, quanto per accidia innazionale, il Cesari indicò le cause e cercò i rimedj di quel guasto; innamorato de’ Trecentisti, ottima opera faceva col richiamare a quella semplicità dall’enfasi rivoluzionaria, sebbene, sprovveduto di criterio, accettasse senza discrimine ciò ch’era o fallato o invecchiato; e tolse a ristampare il Vocabolario della Crusca, infinite parole e frasi aggiungendovi desunte da’ classici; fatica agevole, come provarono i tanti che dopo la continuarono; ma dove egli e i suoi collaboratori affastellarono senza discernimento errori, 1 storpiature, rancidumi, purchè li trovassero nei classici. Ed aveano ragione se il Dizionario si consideri, come quel delle lingue morte, compilato per ispiegare i classici56.

Ora il Monti accingevasi a riveder le buccie al Vocabolario della Crusca, assumendo sulle proprie spalle un lavoro che, per incarico del ministero italiano, già avea cominciato l’Istituto Nazionale; ma talmente era egli abituato a dedur l’ispirazione dal pubblico o dal [p. 125 modifica]Governo, che disse farlo «per secondare le generose intenzioni della illuminata superiore sapienza». Gli avversarj, che necessariamente doveva eccitargli quel lavoro57, e massime i Toscani, asserirono che l’Austria avesse indotto il Monti a intraprenderlo per aizzare la più biliosa delle razze, quella de’ grammatici, e seminar così altra zizzania fra gli Italiani. Convenivano nel Monti tutti gli elementi di felice riuscita; era cresciuto in paese ove il buon italiano corre per le strade; avea fatto tesoro delle migliori maniere de’ classici: deliziavasi di Virgilio; beffando il Cesari come arcaico, pareva dar ragione a chi la lingua scritta vuole avvicinare alla parlata: laonde, affidatosi alla franca famigliarità dello stile, spiegò nella prosa quella ricchezza, disinvoltura ed eleganza che nella poesia: con belle vedute, con savie correzioni filologiche, con capestrerie tutte vive, con argute e non triviali allusioni rese ameno un trattato pedantesco, e Italia potè rallegrarsi d’avere un altro insigne prosatore; merito assai più raro che quello di insigne poeta. Ma egli confondeva un’Accademia, spesso fallace, con la lingua stessa; gli scrittori coi parlanti; affollava arguzie in luogo d’argomenti; e soffiava nelle invidie municipali col resuscitare antiche e irresolubili quistioni.

Gli errori che apponeva alla Crusca, erano in gran parte stati avvertiti dall’Ottonelli, dal Tassoni, da altri anche membri d’essa Accademia; molti risultavano da migliore lezione de’ classici e dal buon senso; non pochi riduceansi a quelle fisicherie, che trova in qualunque libro chi si proponga unicamente di censurarlo. Quanto alla teorica, esso preconizzava la lingua cortigiana, scelta, letteraria, o comunque la denominino; che insomma non conosce nè tempo nè luogo determinato, ma è il meglio di quel che scrissero i buoni autori in tutta Italia. Pongo questa dottrina generale, ma vi si troverà facilmente anche l’opposta; avvegnachè l’opera manchi di canoni fissi, non determinando prima la natura delle lingue, il fondamento, l’autorità che le sancisce e le riforma, siccome sarebbe indispensabile a trattati di tale natura. [p. 126 modifica]

La Proposta divenne centro di elucubrazioni su tal proposito, molti aspirando alla gloria d’associare il loro nome a quello del poeta più universalmente lodato in Italia, molti a combatterlo per clarescere magnis inimicitiis. Giulio Perticari, genero del Monti, con una gravezza che parve maestà, con un accozzamento d’autorità che simulava erudizione, rinfiancò le teorie del Napione, ripetè il paradosso del Renouard che il nostro derivi dall’idioma della Linguadoca ed entrambi da un comune, sbocciato dal corrompersi del latino; per disgradare la Toscana sostenne che l’italiano siasi parlato in Sicilia prima che colà, e all’uopo ne’ cumulati esempj alterava il provenzale e il vetusto siculo, per mostrarli conformi al buon toscano; e ne conchiuse che nel Trecento scriveasi bene dapertutto, e perciò il buon vulgare s’ha a dedurre dagli scrittori d’ogni paese.

Ma questi scrittori si erano valsi forse dei dialetti natii? o cercarono imitare il toscano? ed egli stesso non li considera migliori quanto più s’avvicinano ai Toscani che scriveano come parlavano?

Quei che leggono sol per disannojarsi, e danno ragione all’ultimo che parla o che parla più leggiadro, decretarono alla Proposta gli onori del trionfo, trionfo che si riduceva a dichiarare spesso fallace, spesso ignorante la Crusca. Ma alle teorie ed ancor più alle applicazioni di quella si opposero Giovanni Battista Niccolini, Giovanni Rosini, Gino Capponi, Biamonti, Lampredi, Villardi, Michele Colombo, il Montani, il Giordani, il Tommaseo, e ne originò una guerra, dibattuta con vivacità, con passione, con pazienza, con ingiurie, insomma con tutto fuorchè con quella filosofia che eleva le quistioni ad un’altezza, nella cui prospettiva si smarriscono le particolarità.

Mentre ingiuriava agli accademici58, il Monti, nella dedica al marchese Trivulzi, professava che, «rispetto alla lingua, senza dubbio Firenze è l’Atene degli Italiani»; e diceva ai Toscani: «Nella vostra lingua parlata è un tesoro di voci, di modi, necessario alle nuove idee già diffuse nella nazione, necessario alla favella delle scienze e delle arti; perchè non ci fate voi partecipi a tanto tesoro? Spigolare ne’ libri antichi un qualche vocabolo sfuggito alla diligenza de’ vostri antecessori è facile uffizio, è picciol bene; possiam farlo [p. 127 modifica]da noi. Ma le voci, ma i modi che voi possedete tuttor vivi, e che a noi mancano, perchè privarcene ancora?» E il Perticari scriveva al Rosini: — Voglio ci guardiam tutti come fratelli d’una sola, grande ed indivisibile famiglia, e male abbia chi vuole fra noi seminar lo scandalo e lo scisma».

Tanto le massime discordano dalla pratica59.

XIV.

Fra ciò il Monti non dimenticava le Muse, quantunque per occasioni ben minori: nozze delle quattro signorine Trivulzio; nozze illustri veronesi; nozze Galderara Butti; nel Cespuglio delle quattro rose, nel Cadmo ed Emione facea sentire ancora il gran poeta, colla serenità di chi guarda sempre all’estrinseco delle cose.

Vedea frattanto venir su una nuova generazione, che nella poesia cercava altra cosa che la forma, ma penetrare i misteri della vita, i quali non traggono spiegazione se non da un primitivo mistero e da un postumo snodamento. Che se la vita è un’espiazione e un preparamento, non le si addiranno la bacchica esultanza dell’Ariosto [p. 128 modifica]e la sibaritica spensieratezza del Metastasio, ma una melanconia rassegnata, un riconoscere da per tutto l’ordinamento provvidenziale, un valutar le azioni dal loro fine o particolare o complessivo.

Da ciò nuovi canoni del bello. Al fin del secolo passato voleasi tutto ragionevole: artifiziavasi un concetto, combinavansi i modi d’effettuarlo; voleasi evitar i difetti, non urtare il freddo giudizio degli spettatori. Anche le belle arti pretendeano la ragione; non abbandonarsi a gusti, sentimenti, impressioni plastiche, derivanti dall’intimo dell’artista; non avventurarsi a render sensibile ciò che, nelle realità, aveva operato su di esso, bensì idee metodiche, produzioni convenzionali. Fin per commuovere non si ricorreva a ciò che erasi sentito, ma a ciò che avea commosso o commoverebbe altri.

Adesso invece si volea ripiegarsi sovra sè stessi; meditare i sentimenti e gl’istinti, le verità e gli errori di ciascuno e delle moltitudini; fissar gli occhi sul popolo; gli avvenimenti riferire a un tempo e a un luogo; le regole prendere come una storia di ciò che fecero i migliori, non come un ceppo ai piedi di chi s’arrischiasse al nuovo; nei classici rispettare il bello senza venerare ciecamente ogni cosa; ispirarsi da essi per far diversamente e per raggiungere la novità; considerar lo scrittore quale interprete dell’idea divina posta sotto finite parvenze per rivelar l’infinito, e che svolge ed esprime i caratteri distinti e durevoli del mondo, sicchè dall’opera sua si possa dedurre una teorica dell’uomo e della natura, come un ritratto della sua età e della sua stirpe. Le contorsioni dell’Alfieri come la prodiga fluidità del Monti non pareano da imitare; nè quello sfumar ogni tinta risentita, nè il soffogare le ardite fantasie sotto al freddo convenzionale, la franchezza dell’espressione sotto a pallide circonlocuzioni e lambiccature da accademia o da Corte: abbandonando le forme convenzionali, l’ambiziosa fraseologia, la burbanza percettiva, rivendicavasi la semplicità de’ primi nostri scrittori; affrontavasi la parola propria, la maniera più schietta, raccolta dal labbro dei parlanti, interrogando come i sentimenti così il linguaggio del popolo; voleasi scegliere sì la natura, ma non cangiarla; tornare la poesia qual era in Dante, fantasia subordinata alla ragione.

Milano, come di tant’altre, così fu l’arena di queste abbaruffate, e la ingenita lepidezza e il sentenziare scettico e beffardo impacciarono non poco il trionfo del vero.

La consorteria del Monti non volle vedervi che un’insurrezione [p. 129 modifica]contro i grandi, che un’introduzione di forestierume, che una santocchieria; e mentre la Polizia, accorgendosi che quelle novità portavano una franchezza d’esame che è sempre pericolosa alla tirannia, sparpagliava o imprigionava i romantici60, molti gli assalivano con satire, drammi, caricature, che facevano dimenticare la distinzione di buono e cattivo per palleggiarsi i titoli di classico e romantico.

Il Monti che, senza accorgersene, era stato antesignano del romanticismo, s’arrestò a una parte accidentale, il ripudio della mitologia, ed (errore d’alcuni malaccorti) il sostituire alle finzioni greche altre finzioni settentrionali od orientali. Dimentico che le più alte ispirazioni erano a lui venute dalla verità; che egli aveva dimesticate le Muse italiche colle ombre e coi fantasmi; che non era mai riuscito sì bene come quando ricorse alla verità sia de’ sentimenti politici e morali, sia delle finezze scientifiche, le quali, non che scemargli bellezza, v’aveano aggiunto vigoria ed evidenza, uscì, in un carme per le nozze della divina Antonietta Costa (1825), a condannare l’audace scuola boreale, che ripudia gli Dei; e ad asserire che l’arido vero è tomba de’ vati, che poesia vale finzione, e che la favola non è altro che la verità travestita61. [p. 130 modifica]

È presto fatto a condannare una cosa coll’apporle una definizione di nostra testa. Chiamate repubblica il despotismo delle moltitudini, chiamate cristiano l’ipocrita, clericale chi si ostina ancora al buono e al giusto, brigante chiunque rifugge dalla tirannia, antipatriota chi ammonisce un Governo de’ suoi errori, progresso il conculcare abitudini, tradizioni, credenze, rispetto: e avrete ragione presso la gran ciurma che s’accontenta a parole. Definite romantico chi vilipende i classici, chi rinnega le regole, chi vuol solo l’arido vero, e uccide le grazie senza cui nulla cosa ha leggiadra; e sarebbero da mandar ai pazzarelli coloro che non beffassero o condannassero il romanticismo62.

Gli risposero molti, con arte ben inferiore, ma con ragioni irrecusabili; alle quali non volendo arrendersi, il Monti raccoglievasi alla solita scusa di condannare soltanto l’eccesso, di non aver anch’egli usato della mitologia che a misura. Al cremonese Tedaldi Fores scriveva: [p. 131 modifica]

— Tranne la Jerogamia, nelle altre mie composizioni ho gettato colla parsimonia debita gli ornati della mitologia». Come potea dir così, mentre sono di soggetto essenzialmente mitologico la Musogonia, il Prometeo, la Feroniade, le Nozze di Cadmo ed Ermione? Nella dedica della Jerogamia di Creta, intonava a Napoleone: — Disperando l’umano pensiero di trovare altrove l’idea della vostra grandezza se non la cerca ne’ campi dell’immaginazione, non istupite, o sire, se le Muse dinanzi a voi, malgrado il divino loro intelletto, sono costrette di rifugiarsi sotto l’arcano velo dell’allegoria. Essa è il modesto linguaggio della verità rispettosa: e la jerogamia del maggior de’ mortali non potevasi degnamente adombrare che in quella del maggior degli Dei». Con più di sincerità poteva dire che senza mitologia non avrebbe potuto cantare tante futilità, verseggiare tante adulazioni.

Da vecchio ritoccava anche i suoi prischi versi, e dovea cagionargli qualche riflessione il veder quasi soli, o più di tutti sopravvivere nelle memorie quei della Bassvilliana. Neppur vecchio osò bruciare la sua traduzione della Pulcella d’Orleans63.

La Feroniade avea cominciata in onore di Pio VI, asciugatore delle Paludi Pontine, ove la dea Feronia aveva ottenuto culto; poi la rivolse a onore della viceregina Amalia; caduti i Napoleonidi, le cercava un mecenate, e speravalo in Pio VII; finì per dirigerla alla marchesa Trivulzio. Era certamente strano il ridestare e accumulare’ tutte le fole della mitologia a proposito d’un’operazione idraulica, anzi inventarne di nuove, com’è l’adulterio di Giove con Feronia, e la gelosia di Giunone che batte la fanciulla, e stizzita rompe la specchiera: e tutto per conchiudere in lodi a Pio VI. Ma non è possibile legger versi più ricchi di diamanti classici, e più poveri di originalità. Pochi gliene mancavano a finirla, ma non gli riuscirono mai a desiderio, nè lo accontentarono quelli che, sul pensier suo, foggiavano Felice Belletti o Pietro Maggi o alcun altro amico.

XV.

Perocchè, sbrattato allora dai due gran nemici, gl’invidi e gli adulatori, da rispettosi amici traeva conforto alla sua vecchiaja. In pericolo di perdere la vista, fe lunga dimora a Pesaro nella casa del [p. 132 modifica]Perticari, ove dettò il Sollievo alla melanconia (1822); ma poco appresso ebbe a piangere la morte di questo suo dilettissimo genero. Abitualmente dimorava a Milano in una casa a pigione, quasi rimpetto a San Giuseppe, e villeggiava or a Cernobbio dal Londonio, or a Ornate dal Trivulzi, or a Sesto dall’Oriani, or a Garaverio presso Luigi Aureggi, buon uomo che gli voleva bene alla schietta, e che egli ne’ versi di riconoscenza mutava in uom grande. Onestissimo anche in un’età ove il latrocinio ammantavasi di patriotismo, desiderava giovare altrui, se non altro con lodi che prodigò anche a mediocri. Subitaneo all’ira come all’affetto, prontamente si placava, per quanto gliel consentiva quell’alta stima di sè stesso che trasuda da ogni riga. Tale persuasione di sè lo campava dall’invidia, e da quell’altra forma d’invidia, la gelosia; e i suoi rabbuffi nasceano dal credere disprezzabilissimi a tutto il mondo coloro che non accettassero la sua sentenza: pronto a riamarli al primo grano di incenso che gli bruciassero, e ordinare alla posterità di riverirli64. Duole [p. 133 modifica]l’udirlo lamentarsi che, perduto pe’ rovesci politici il meglio di sua fortuna, gli fosse forza riparare a’ suoi bisogni col lavoro della penna; eppure non lascia trapelare i pungenti ricordi dell’ingratitudine [p. 134 modifica]degli uomini. Colpito d’emiplegia (9 aprile 1826), tornava a quei placidi colli di Brianza, dov’io giovinetto più di una volta spinsi la sua seggiola rotante in sulle strade, o l’accompagnavo sino ai mercati di Lecco o di Santa Maria Hoe; ed egli mi largiva qualche benigna parola, e mi raccomandava — Studia Virgilio».

Colpito novamente nel maggio del 27, più non fece che languire. Trovandosi a Monza, gli fu insinuato di dar solenne testimonianza alla religione, alla quale aveva prestato i primi omaggi; ed egli volonteroso ricevette i sacramenti. Erasegli allora attaccato ai fianchi Paride Zajotti, sì poco grato agli Italiani, onde il liberalismo, che coglieva ogni occasione di manifestarsi, gridò all’indegnità d’abusare della imbecillità del vecchio per dare soddisfazione a un partito; e lo scandalo giunse a tale che il poeta, o chi per lui, protestò sulla Gazzetta di Milano (16 settembre) qualmente per propria volontà erasi procurato i conforti della religione; e della sua coscienza non riconosceva altro giudice che Quello davanti a cui stava per comparire65.

E il 13 ottobre ricongiungevasi alla prima cagione. L’Italia compianse il principe de’ poeti; il suo successore lo salutò per divino, [p. 135 modifica]e disse che ebbe «di Dante il cuore e del suo duce il canto»; gli amici ne scrissero necrologie e vite con rispetto e compatimento; e deh possano trovare che, se usò la severità che devesi ai grandi estinti, il nostro giudizio non mancò di giustizia e di riverenza.

Il Monti fu poeta: qui, sta la sua vocazione, la sua unità, la sua gloria, la sua scusa. Sua missione provvidenziale fu di chiudere insignemente il passato della poesia; perocchè, qual uom di genio vorrebbe più correre la via, dov’egli aveva stampato insuperabili orme? chi mai penserebbe ancora raggiungere l’immortalità con opere di ricalco, eseguite con freddo cómputo delle convenienze, e con riguardo al cipiglio o al ghigno del critico? Chi riponga la poesia nelle immagini più limpide ed evidenti; nella imitazione armonica e plastica del vero; nell’incolpabile scelta di quanto han di meglio i classici d’ogni favella: chi creda fonte delle arti il sentimento della forma, e invaghitone, solletichi col verso la sensualità, badi al ben detto più che al ben pensato, e affacciandosi sereno spettatore al teatro dell’universo, vi cerchi fiori, vi espanda la melodia degli affetti più estrinseci e più ilari, separando la fantasia dalla ragione; facciasi eco dell’opinione divulgata, idolatrando la forza o la voluttà, adulando ai tempi o astiosi o beffardi o gaudenti, coll’esagerazione che è il linguaggio delle società decadenti, costui, abbagliato dalla gloria d’altri ma anelando alla propria, s’accorgerà che non è possibile superare il Monti.

Dopo che lettere, critica, filosofia, scienza, arte, poesia furono invase dalla speculazione ateistica e dalle aride preoccupazioni dell’orgoglio; dopo che fu offuscato sistematicamente il vero, deturpati i canoni del buono, sovvertite le leggi del bello, confidiamo potrà ancora la giustizia soverchiare le dottrine della forza e della riuscita; il potente alito dello spiritualismo resuscitare la società, e il buon gusto ajutare a ripristinar il buon senso. Allora il Monti resterà noverato fra i più bei poeti d’Italia; ma credendo che l’arte, con uffizio più sublime che il dilettare, deve assumere il bello per mezzo, per soggetto il vero, per fine il buono; che il fondo del talento letterario non è la immaginativa, ma il buon senso, la ricca intelligenza vestita di felice espressione e temperata da logica costante; che, se l’idea non la fa palpitare, la parola non vai meglio d’un’elegante drapperia gittata sopra un fantoccio; che anche fra’ ciottoli già esplorati trovansi altri diamanti, oltre quelli già faccet[p. 136 modifica]tati da orafi precedenti. E chi della poesia faccia una riflessione attiva dell’uomo sopra sè stesso, la quale non trae il proprio ideale da altra, ma lo deduce dai sentimenti che son d’ogni tempo e luogo, modificati ai costumi, alle istituzioni, alle convenienze nazionali, e presentando così l’esistenza reale, vive d’alito proprio, immedesimandosi agli affetti tutti e a tutte le contingenze solenni della vita; chi, con sentimento e convinzioni profonde, non invochi protezione dai grandi e applauso dalla folla, ma quella libertà* che vive nella coscienza di ciò ch’è giusto e buono, non cerchi lode di talento, ma di trovarsi faccia a faccia colla verità; non miri al caleidoscopio dell’opinione, il cui giogo può esser gravissimo dove leggerissimo è quel della legge; chi serbi l’individualità quando tutto tende a livellarsi, a fondersi, ad accomunarsi, distruggendo e carattere e originalità; persuaso che la poesia, interprete dell’idea divina, dee farsi mezzo di fede, di consolazione, di buon senso, di benevolenza, stromento primario di educazione sociale, propagando abitudini di dolcezza, di tolleranza, di buon senso, irreconciliabile dispetto per la iniquità come riverenza ai diritti, lume alle dubbiezze, impulso alle volontà: chi, rivolgendosi sovra sè stesso, e i pensieri e gli affetti concentrando nell’indivisibile punto della coscienza, indaghi l’idea sotto al fenomeno, il lato serio sotto al frivolo, e nel solenne spettacolo delle grandi realità ogni cosa riferisca all’uomo, faccia il carattere predominare al pensiero, e aspirando meno al vanto di poeta che a quello di probo cittadino, non s’abbandoni alla corrente degli eventi, ma li signoreggi; se ne’ rapidi cambiamenti di scena s’ingannò, sappia punirsi col tacere; se sentendo di star colla ragione, malgrado la condanna dei fatti, aspetti nella certezza che ciò ch’è giusto è eterno; costui sceglierà via diversa dal Monti; e vorrà esser, non l’ultimo poeta del passato, ma il primo dell’avvenire.



Note

  1. Sic. E nella dedica dell’Aristodemo a donna Costanza Braschi: — Io non ho i pingui agnelli di Titiro, onde imitar la splendidezza de’ suoi sacrifizj al nume che ne benefica: ho bensì un animo schietto e la fedeltà del buon servo, e una vita che desidero spender tutta in servirlo», ecc.
    Dalle odierne condizioni il letterato resta sciolto da ogni dipendenza, ma anche privato d’ogni appoggio.
  2. Tardi nepoti e secoli,
         Che dopo Pio verrete,
         Quando lo sguardo attonito
         Indietro volgerete,
    Oh come fia che ignobile
         Allor vi sembri e mesta
         La bella età di Pericle
         Al paragon di questa!

    Prosopopea di Pericle.


    E nella Bellezza dell’Universo:

                             al suol romano
    D’Augusto i tempi e di Leon tornaro.

  3. Pace e silenzio, o turbini;
         Deh non vi prenda sdegno
         Se umane salme varcano
         Delle tempeste il regno.
    Rattien la neve, o Borea,
         Che giù dal crin ti cola,
         L’etra serena e libera
         Cedi a Robert che vola.
    Non egli vien d’Orizia
         A insidiar le soglie:
         Costa rimorsi e lacrime
         Tentar d’un dio la moglie?
    Mise Teseo ne’ talami
         Dell’atro Dite il piede:
         Punillo il Fato, e in Erebo
         Fra ceppi eterni or siede.

  4. Dionigi Strocchi, il 14 febbrajo 1786, scriveva da Roma: — Domenica passata Monti fece una recita generale della sua tragedia per due volte; la mattina in sua casa, la sera in quella del cardinal Boschi. Non vi so dire abbastanza la sorpresa, la compunzione, e le lagrime di tutti. Non v’è dubbio, quella tragedia è un capo d’opera. Io stimava Monti infinitamente: pure ha superato la mia aspettazione. Il giudizio che si dà comunemente di questa tragedia è che sia il miglior lavoro di teatro che abbia l’Italia. So che queste cose vi accresceranno la voglia di leggerla; ma quanta voi ne avete di leggerla, altrettanta io ne ho di mandarvela».
  5. Dalla lettera al Bettinelli appare come il Monti conoscesse Shakspeare, il che allora era di ben pochi.
  6. Nella vita premessa alla Bassvilliana si dice come questo piccardo, entrato in amicizia con Mirabeau e altri corifei della rivoluzione, dettasse certi elementi di Mitologia, sparsi «delle scellerate ed empie eleganze, di cui Marot aprì la fonte, e che Voltaire poscia dilatò tanto, che ne fu inondata tutta la Francia»; che, rottasi la rivoluzione, «il più grande e il più famoso degli avvenimenti politici», ne stese la storia in senso realista; ma poi, «sedotto o dal timore o dall’ambizione o dal bisogno o da tutti insieme questi motivi», si diede al democratico fanatismo; ebbe una misteriosa missione a Roma, a cui sarebbe riuscito «se avesse trovato, come sperava, la Roma di Giugurta»; che, spinto a eccessi da falsi patrioti, e massime da La Flotte, spirando ripetea: Je meurs victime d’un fou, e moriva cristianamente.
  7. Dissi per allora: se avesse atteso fino a Waterloo non avrebbe dovuto interrompere il suo poema perchè, come scrive a Francesco Fortis, «Il rovescio delle vicende d’Europa distrugge tutto il mio piano, e non lascia più veruna speranza di fine al purgatorio del mio eroe». Ma Dio non ha fretta, e a Sedan potè vedersi come «sia di Francia ulto il delitto».
  8. Su questo sonetto il Monti ci raccontava un lepido aneddoto. Un cardinale una sera gli disse: — Signor abate, so che avete fatto un bellissimo sonetto. Vogliate recitarmelo»? Ed egli cominciò:

    Padre Quirino, io so che a Maro e a Flacco
    Spesse volte crudel fosti e ribelle;
    Io so che Mevio suscitasti a quello,
    Pantilio a questo, e fu villan l’attacco.

    Qui, mentre ripigliava fiato, il cardinale gli domandò: — O mi dica, questo padre Quirino è il maestro del Sacro Palazzo? — Eminenza, sì», rispose indispettito il poeta. E il prelato, credendo finito il sonetto, conchiuse: — Veramente bellissimo».

  9. Col tozzo in man, colla bisaccia in collo
         Traendosi i pidocchi dalla chioma
         Questo nuovo carnefice d’Apollo
         Si strascinò da Fusignano a Roma, ecc.

  10. Francesco Salfi di Cosenza (1759-1832) in patria avea pubblicato molte scritture contro i papi e la Chiesa, per secondare i re che con questa lottavano per la chinea e che lo compensarono coll’abadia di San Nicola di Maida. Oltre varie composizioni teatrali, merita menzione il suo Saggio de’ fenomeni antropologici relativi al tremuoto (1787). A Milano mostrossi de’ più infervorati alle idee nuove/e nel Termometro Politico batteva ogni giorno gli aristocratici, denunziava i preti, dava campo franco alle diatribe contro i vecchi Governi, e principalmente contro il papa. Allorchè questi ruppe guerra alla Repubblica francese, poi la chiuse subitamente colla pace di Tolentino, il generale Dupuys, a nome di Buonaparte, ordinò al Salti di comporre un balletto pel teatro della Scala, dove comparissero il papa e il suo generali Colli, esposti alle risate del pubblico. Il Salfi vi si prestò, e mentre temeva che l’indignaziorie e il buon senso degli Italiani gettasse a terra quell’indegna parodia, la vide applaudita dalla ciurma liberalastra, sempre disposta a scompisciare ciò che hanno di più venerato le tradizioni e la sventura.
    Il Salfi si trovò mescolato a tutte le vicende interne d’allora. Era a Pavia quando questa si sollevò contro i Giacobini; e cercato a grida a morte, si campò col fingersi un Doria di Genova. Da Brescia, ov’era secretano al Comitato di Legislazione, fu mandato per tranquillare la Valtellina, non ancora unita alla Cisalpina, e a Tirano, assistito dai preti, fece una predica tutta di pace e unione e fratellanza. Quando poi quella valle chiese di unirsi al Milanese, e Murat andò occuparla, Salfi ve lo seguì, avvivando di arringhe le feste con cui si suole accompagnare ogni cambiamento di padroni: a Tirano, che erasi sollevata per la paura di veder saccheggiato il tesoro della Madonna, fece risolvere i furori in abbracciamenti. Fatto secretario al ministero dell’istruzione pubblica, compose la Virginia di Brescia, come segno di riconoscenza alla città che l’aveva aggregato fra’ suoi cittadini: poi attese a stabilire una scuola di declamazione, e fondare a Milano il teatro Patriotico. Nel Pausania tragedia fu tutto allusione a Napoleone. Quando poi Championet conquistò Napoli, Salfi accorse colà per sopreccitare l’entusiasmo patriotico contro l’ordine che il partito militare, capitanatola Macdonald, cercava stabilire. Rivalsi i reali, Salfi si campò ancora dal supplizio con nome falso. Rifuggito in Francia, tornò a Milano nel 1800; fu professore a Brescia, poi in Brera, poi nelle scuole speciali. La Reggenza provvisoria di Milano del 1814 lo destituì, come il Gioja, il Foscolo, il Rasori, e il re di Napoli lo chiamò professore di cronologia in quell’Università, ma presto andossene a Parigi dove ebbe amicizia con Tracy, Constant, Say e col Guiguenè, del quale tolse a continuare la Storia letteraria, correggendo il 7, 8, 9 volume, e aggiungendo di suo il 10. Scrisse su molti giornali e nella Biographie del Michaud; un Résumé de l’histoire de la litterature italienne, e nel 1820, L’Italie au XIX siecle, ou de la necessitè d’accorder le pouvoìr avec la liberté, suggerendo una federazione fra gli Stati dell’Italia indipendente.
  11. In una Apologia politica di Vincenzo Monti (Imola, 1870), lodevolissima pel sentimento che la dettò, grand’appoggio si fa su questa bellissima lettera, Giudichi il lettore.
  12. Celui qui s’élève on l’abaissera.

    È il ritornello del Ça ira.

  13. Compi alfine l’antico desiro
    Dell’Europa, ch’è tutta per te.

  14. Ti privi irato il Sol di sua feconda
    Luce.

    Ci ricorda il sonetto suo:

    Luce ti nieghi il Sol, erba la terra,
         Malvagia che dall’alga e dallo scoglio
         Per la via dei ladron salisti al soglio,
         E con l’arme di Giuda esci alla guerra.

    Quel canto principalmente è un centone di altre composizioni del poeta.

  15. Questa immagine è storica. Nelle Révolutions de Paris, leggiamo: — Un cittadino salì sulla ghigliottina, e tuffando tutto il braccio nel sangue di Capeto, che erasi accumulato, ne prese una manciata, e ne asperse per tre volte la folla che accalcavasi ai piedi del patibolo per ricevere ciascuno una goccia di sangue sulla fronte. — Fratelli! (esclamava il cittadino, facendo la sua aspersione) Fratelli, ci minacciarono che il sangue di Luigi Capeto ricadrebbe sulle vostre teste. Ebbene, cada. Luigi Capeto lavò tante volte le sue mani nel nostro. Repubblicani, il sangue d’un re porta fortuna». — Sangue bisogna: è una verità politica che non potrebbe negarsi se non dichiarandosi mostro d’aristocrazia e assassino del popolo. Tutte le autorità della montagna son d’accordo in ciò. Al principio della rivoluzione diceasi, «L’albero della libertà viene in tutti i paesi, ma non può coltivarsi che coi diritti dell’uomo». Bella frase per allora; ma adesso le son sciocchezze, buone per rovesciar i tiranni coronati. Oggi Tallien ci dice: — Non basta piantar alberi della libertà; perchè attecchiscano e vivano è mestieri inaffiarli di sangue». E Giulien dice: — La libertà non deve avere che origlieri di cadaveri».
    Discorsi di Agricola a un club.
  16. Poco dopo giungeano gli Austro-Russi e Francesco Beccatini «per la resa del castello di Milano alle armi gloriose di S. M. I. e R. Francesco II, nostro augustissimo sovrano» parodiava l’inno del Monti:

    Il castello è caduto. Sorgete,
         Genti oppresse; natura respira;...
         La barbarie una volta crollò...
    Un fantasma illusorio spietato
         Quanti regni ha tenuti in catene!
    Italiani, all’incontro volate,
         Alle spade nel sangue bagnate
         Di quel popol, che in mezzo agli affanni
         Tutt’Italia distrusse e ferì:
    Son fuggiti i crudeli tiranni,
         Dell’Italia il servaggio finì.
    Chi è quel duce che vinto s’invola
         Dietro l’alpe che Italia circonda?
    Ma il suo vate frenetico e crudo
         Di tal ferro non merta morir.

  17. La pianta che in Giudea mise radice
         E d’un trafitto il carco alto sostenne,
         Poi, steso il piè su la tarpea pendice,
         Ombrò di rami il mondo e servo il tenne,
    Questa d’ogni viltà pianta matrice
         Finalmente nel fango a cader venne;
         E la gallica spada, e dell’ultrice
         Ragion l’ha tronca la fatai bipenne.
    Sorge in suo loco l’arbore divina
         Di libertade: e tra le fronde liete
         Rinverde e frutta la virtù latina.
    Bruto l’elmo vi posa: e le segrete
         Mani su l’Arno e sul Sebeto inchina;
         Ne crolla i troni, e grida ai re, scendete.

  18. Lettera al Constabili, 5 settembre 1798.
  19. Lettera al Constabili.
  20. Nel Pericolo avea lodato perfin gli oratori di quelle assemblee:

    Altri Tullj ed Ortensj ha questa terra,
    D’eloquenza miglior caldi le vene.

  21. Un suo biografo nega che avesse cantato Suwarow. Certo però nel 99 passava per suo un sonetto che comincia:

    Vieni, o sarmata eroe; vieni, e le braccia
         Stendi all’Italia desolata e nuda;
         Se disarmar lasciossi, arme si faccia
         Del petto, e il prisco suo valor dischiuda.
    Vieni, e dai lidi suoi gli empi discaccia,
         Che di donna la fêr cattiva e druda, ecc.

  22. Più tardi, nel canto VI del Bardo, fa comparire a Buonaparte la Francia, e consigliarlo al colpo di Stato del 18 brumale; dicendo che «in quel suolo L’uso comanda il comandar d’un solo»; e

         Re vogl’io chi forte
         Vola al mio scampo, e non chi vuol mia morte.
    Questa di mali, o figlio, onda fremente
         Franger non puossi che d’un trono al piede:
         Al voler d’una sola arbitra mente
         Che all’utile comun ratta procede:
         Allor forte, allor grande, allor possente
         Ali sarò tra le genti; allor fia sede
         Di virtù vera la tua patria, or rio
         Mar di vizj, u’ ’l furor soffia di Dio.

  23. Ci sa di stranissimo questo accettare ordini dal Governo; eppure allora ciò trovavasi semplice non solo dal Monti. Vedasi la lettera ove Ugo Foscolo si scusa d’esser spiaciuto al Governo; e la lettera 5 febbrajo 1817 di Pietro Giordani (in voce di liberissimo), ove scrive: — L’articolo (nella Biblioteca Italiana) sugli improvvisatori l’ho fatto contro voglia, più che mai altra cosa al mondo. Ma fu ordine espresso, ripetuto, inculcato dalla propria persona del governatore (austriaco) di farlo, e farlo così». Nel 1809, Chàteaubriand scriveva a Guizot: — La franchise et la noblesse de votre procédé me fait oublier un moment la turpitude de ce siècle. Que penser d’un temps où l’on dit à un honnêt homme, «Vous aurez sur tei ouvrage telle opinion; vous louerez, on vous blàmerez cet ouvrage, non pas d’après votre conscience, mais d’après l’esprit du journal où vous écrivez?»
  24. Le opere del Monti venivano stampate in edizioni di gran lusso dal Bodoni a Parma. A nome di questo egli scrisse la bella dedica dell’Aminta, e gli prometteva la sua protezione, e di farlo decorare, trattare e pensionare. Il 3 dicembre 1807 gli scriveva: «Le mie ottave sulla Spada di Federico, ho presentate l’altra mattina al grazioso nostro principe, sempre dolente di non aver Bodoni al suo fianco: ed egli, da cui mi venne il consiglio di dedicarla alla grande armata, le ha spedile all’Imperatore. Non so qual giudizio e voi e l’amata nostra signora Ghita (sua moglie) ne porterete, ma quanti le hanno vedute sono d’avviso che, di tutte le mie poesie staccate, questa sia la più calda e la più grave. E tale a me pure la fa credere l’amor paterno».
    Non vi manca un insulto anche alla regina Luisa, allora ispirazione, dappoi incancellabile memoria di patriotismo alle genti tedesche;

    E cagion fugge delle ree disfide
    La regal donna. Amor la segue e ride.

    Di rimpatto a Giuseppe Napoleone, traslocato re in Spagna, dedicava la Palingenesi Politica dicendo: — Ogni amico dell’indipendenza del continente ammira, o sire, l’ispana restaurazione. Tre volte beata cotesta generosa nazione, se tutto saprà comprendere il benefizio!»
  25. Vedi l’appendice C.
  26. Il vicerè Eugenio, al 10 aprile 1806 scriveva a Napoleone. — Mi ricordai che V. M. desiderava dar un posto al poeta Monti: Ho l’onore di dirigerle un progetto di decreto che lo nomina storiografo del regno d’Italia. Forse si troverà strano che le funzioni di storiografo siano date a un poeta. Luigi XIV le avea però affidato a Racine».
  27. Brutus, je haïs toujours le dernier qui l’emporte.

    Ampère, César.

  28. Vate superbo e docil minotauro.      Gianni.
    Carco di corna più che Ammone e Pluto.      Berardi.

  29. Più la contemplo, più vaneggio in quella
         Mirabil tela: e il cor, che ne sospira,
         Sì neirobjelto del suo amor delira
         Che gli amplessi ne aspetta e la favella.
    Ond’io già corro ad abbracciarla: ed ella
         Labbro non move, ma lo sguardo gira
         Ver me, sì lieto, che mi dice: Or mira,
         Diletto genitor, quanto son bella.

    Figlia, io rispondo, d’un gentil sereno
         Ridon tue forme, e questa immago è diva
         Sì che ogni tela al paragon vien meno."
    Ma un’imago di te vegg’io più viva,
         E la veggo sol io; quella che in seno
         Al tuo tenero padre amor scolpiva.

  30. Quando la baronessa di Staël fu a Milano, il Monti le portò sua traduzione di Persio, ed essa lo ricambiò con un volume delle opere di Neker, suo padre. Era allora centro della colta società la spiritosissima moglie di Leopoldo Cicognara, quella che il Giordani chiama divina. Il Monti, uscendo dalla Staël, passò da questa, e vi depose il libro avuto, dicendo lo prenderebbe un’altra volta. Ed ecco poco dopo giungere la Staël, che venendo avea leggicchiato in carrozza il Persio, e che qui lo depose per riprenderlo un’altra volta. Dopo molto mesi, l’arguta Cicognara mostrava i due volumi, giacenti un sopra l’altro, in segno della stima che si han fra loro i letterati.
  31. Chi ha senso delle convenienze pensi quale effetto dovea fare, davanti a un migliajo di giovani quadrilustri, questa frase: — La verità del filosofo è una bella virtuosa, che non si dà tutta nuda che in braccio del più importuno».
    Il 4 marzo 1802 Giovanni Paradisi scriveva a Dionigi Strocchi: — Monti è a Pavia; ha fatto la sua prolusione con concorso grandissimo, inveendo contro i preti e i Francesi. La stamperà, ma riformata d’assai. Il Gracco è fuori, ed è un lavoro di vario genere, dove sono incastrati dei bellissimi giojelli».
    Pecchio, nella Vita di Foscolo, dice: — Quando Monti occupava quella cattedra, l’aula, dov’egli doveva leggere era, a un’ora dopo mezzogiorno, presa come d’assalto dagli studenti, che irrompevano dalle porte e dalle finestre, scavalcandosi gli uni gli altri; tale era l’entusiasmo ch’ei sapeva destare nella elettrica gioventù. Quando egli, dopo averci parlato dell’amore di Dante per la patria e per la libertà, delle sue sciagure, del suo quadrilustre esilio, si metteva a declamare con quella sua voce profonda e sonora l’apostrofe di quel fiero poeta all’Italia,

    Ahi! serva Italia, di dolore ostello,
    Nave senza nocchiero in gran tempesta,
    Non donna di provincie, ma bordello!

    tuoni d’applausi scoppiavano nella sala; a molti di noi cadevano le lagrime giù per le guance; e allo scendere dalla cattedra tutti volevamo salutare il degno interpreto di quel divino poeta, e fra le acclamazioni lo conducevamo fino a casa».

  32. Comincia:

    Del figliuol di Peleo, del divo Achille
    Cantami l’ira, ira fatal.

    Riprovandolo, il Monti avverte che «il nome dell’immortale traduttore di Ossian suona sì alto, che anche de’ suoi difetti, ove pure sien tali, convien parlare con riverenza». Eppure in una lettera al Cesarotti, confessa d’aver dato il pensiero di quella caricatura, naturalmente disapprovandone l’esecuzione.

    Qui il Cesarotti mi riesce migliore, il quale, ai 16 dicembre 1805, rispondevagli:

    — Vi ringrazio della pena che vi siete preso di sincerarmi sulla caricatura del ritratto d’Omero: ma non v’è bisogno di tanto. Vi parlerò anch’io con ingenuità e con franchezza, giacchè non intendo di cedere ad alcuno in queste due qualità. M’era noto che il mio lavoro omerico non incontrava gran fatto la vostra grazia; per ciò, quando intesi attribuirsi a voi quel ritratto, non credei, a dir vero, la cosa impossibile, ma non pertanto non prestai fede a quella voce, poichè non amo di credere rei di una scortesia insolente quei che io stimo e rispetto pe’ loro talenti. Vi dirò anzi che la notizia di questo ritratto, in luogo di farmi adirare, mi fe sorridere. L’idea mi parve spiritosa e felice, nel senso di chi la concepì, benchè non credessi di meritarla. Io non sono (perchè mi conosciate meglio) uno del genus irritabile vatum, nè mi sono mai offeso, nè ho meno stimato un uome di merito perchè discordi da me in materia di lettere, o perchè non apprezzi le mie cose e grado del mio discreto amor proprio. Sensibile alla lode spontanea che mi venga da un uomo giustamente lodato, ho sempre sdegnalo di procacciarmele colle officiosità della politica letteraria. Accolgo con gratitudine gli avvisi e le censure stesse; esposte colla dovuta decenza, pronto a correggermi o a difendermi con urbanità. Degli oscuri e malnati sdegno le lodi e non curo i biasimi, e ho la vanità di vendicarmene con assoluto silanzio....».

  33. Luigi Lamberti, di Reggio, era stato presentato a Roma da E. Q. Visconti al principe Borghese, del quale cantò le piccole vicende e le magnifiche ville. Dotto senza immaginazione, scrive puro e insipido come l’acqua. Fece un’edizione d’Omero coi tipi del Bodoni, sul che fu fatto quest’epigramma:

    Che fa Lamberti
    Uom dottissimo?
    — Stampa un Omero
    Laboriosissimo.
    — Commenta? — no.
    — Traduce? — oibò.
    — Dunque che fa?
    — Le prime prove passando va,
    Ed ogni mese un foglio dà,
    Talchè in dieci anni lo finirà,
    Se pur Bodoni pria non morrà.
    — Lavoro eterno!
    — Paga il Governo.

    Quando lo presentò a Napoleone, questi apertolo, — È greco! (esclamò). Perchè occuparvi delle cose e delle persone antiche, anzichè delle attuali?» Il Lamberti restò mortificato, ma Napoleone lo ricompensò di 12,000 franchi.

  34. Il testo ha πόρεν δ’ὅ γε σήματα λογρά: segnali funesti.
  35. Il testo ha γνῶ δὲ κλήρου σῆμα ἰδών: conobbe guardando il segnale. Nel famoso, e probabilmente apocrifo passo della descrizione dello scudo, ov’è esposto un giudizio, il Monti dice che «contesa era insorta fra due», e tace la circostanza che essi dichiararono le lor ragioni al popolo: δήμῳ πιφαύσκοντες, il che indica l’intervenir del popolo come vero giudice, mentre nel Monti pare semplice spettatore. A ciò ripugna il dire che «finir davanti a un arbitro la lite chiedeano».
  36. I poemi omerici furono tradotti anche dal cavaliere Mancini di Firenze, e la Biblioteca Italiana, tornata amica e ligia al Monti, lo stramazzò schifosamente, e il Monti vi contrappose un saggio di sua traduzione dell’Iliade in ottave. Egidio Fiocchi, professore a Pavia, volgarizzò pure i poemi omerici, e il Governo mandò la sua versione da esaminare all’Istituto Lombardo-Veneto, una cui Commissione ne pronunziò questo giudizio, che per molte ragioni non si troverà fuor di proposito:
    — Gravoso veramente ed increscevole diviene l’uffizio di letterato quando, esente, com’esser debbe, da sdegno, o da parzialità, è obbligato a pronunciare, secondo il proprio giudizio, sentenza sopra opere d’autori viventi. Ma in un articolo d’un giornale, o in altre scritture, può cautamente esporre una opinione, quando sia duopo, anche poco favorevole, e temperare o velare con accorte frasi la censura od il biasimo, senza mancare nè poco nè punto alle leggi che a’ critici sono prescritte. Non così può adoperare chi, per dovere del proprio istituto o per ordine del Governo, è chiamato a esaminare e a giudicare il merito altrui con giusta bilancia: colpa è per lui ogni ambiguità ogni simulazione, ogni artificio che per poco illudesse il magistrato, che ha diritto di conoscere la verità, o almeno l’opinione sincera, qual ch’ella sia, de’ soggetti chiamati a spiegare un parere.
    «Tale appunto è la condizione nostra, essendoci commesso di riferire sul merito delle traduzioni de’ poemi omerici e del supplimento di Quinto Calabro, pubblicati dal professore Fiocchi, e noi adempiamo colla debita lealtà e franchezza alle intenzioni dall’I. R. Governo manifestate, dichiarando quello che, secondo le cognizioni nostre, sentiamo su quel proposito.
    «Se si chiamano ad esame come traduzioni le poetiche fatiche dell’editore, non è facile ravvisare in esse quel carattere e quel pregio, che in così fatti lavori precipuamente ricercansi. Gran torto ebbe il traduttore credendo che lunghi poemi, siccome son quelli, potessero mai specchiarsi in una versione schiava dell’ottava-rima. Potea, se non la ragione e l’esperienza sua stessa, ammonirlo e sgomentarlo l’esempio del Bugliazzini, del Grotto, di Bernardino Leo, del Tebaldi, del Bozzoli, il nome de’ quali (per quest’improbo sforzo di serbarsi, se fosse possibile, fedeli al testo omerico, allargandolo o stringendolo secondo che esigevano le regole imperiose d’un metro così difficile per le rime e per la struttura) non ha punto acquistato di fama, e si rimase colle lor opere dimenticato o negletto. Se tanto studio s’è posto, e molto s’è scritto, per rendere in buon verso sciolto il primo verso dell’Illiade senza aggiungere o togliere all’esatto senso de’ vocaboli greci, come sperare, e in quel verso e nelle altre migliaja, di cogliere la palma di ben volgarizzare poeticamente e rappresentare Omero? E come pretendere che in otto versi, sempre dalle rime posti alla tortura, si chiudano, senza amplificazioni inopportune, senza sostituzioni di parole o d’immagini meno adatte o felici, i pensieri e le frasi così giuste e perfette dell’inimitabil modello? E non conseguendo nel modo men riprovevole l’intento, perchè accrescere il numero delle traduzioni imperfette e infedeli, senza vantaggio di chi studia, e senza diletto di chi ha studiato? Nel giornale della Biblioteca Italiana fu già detto (non sappiamo da chi, che discorreva di recenti traduzioni dal greco) che l’Iliade del professore Fiocchi non meritava che se ne facesse menzione. Noi, senza approvare la durezza di quella sentenza, conchiuderemo solo che non troviamo merito di traduttore in questi due volgarizzamenti dell’Iliade e dell’Odissea, poichè il metodo tenuto e la esecuzione escludono affatto le qualità che alla traduzione appartengono, e che conservar non si ponno ed anche difficilmente, se non se nel recare in rime italiane brevi componimenti de’ greci. Resta adunque d’esaminare se i due poemi omerici fossero ridotti a plausibile parafrasi, e consentissero questo vanto e merito all’autore.
    «Non ci fermeremo a scandagliare se una parafrasi di magistrali poemi sia mai commendabile, quando si voglia dare a conoscere il bello di un gran poeta, affinchè sia gustato da tutti, e dai buoni scrittori imitato. Solamente diremo che male avviserebbero i suoi scolari se pigliassero norma ed esempio dal maestro quando attendono a studiare, ad interpretare, ad emulare i greci o i latini esemplari. Sarebbe inutile addurre argomenti o testimonianze classiche in prova della nostra massima. Ma talvolta se la parafrasi, come tale, fosse sobria, prudente, e gradevole per singolare eleganza e purezza di stile (come una ve n’ha dell’Iliade in ottava-rima, non è gran tempo stampata a Siena, dal giovane poeta signor Lorenzo Mancini), potrebbe non senza piacere e vantaggio essere letta anche dagli alunni. Ci duole di non avere scontrato questi meriti nell’Iliade e nell’Odissea Italiana del professore Fiocchi. Per la prima, già nota dal 1816, non porteremo esempj. Accenneremo della seconda, aprendo il libro a caso, le parole (ottava I, v. 1) quell’uom così diverso, per ispiegare l’ἄνδρα πολύτροπον, quell’uomo versatile, accorto d’Ulisse. È ben vero che diverso vuol dire anche crudele, orribile, ecc.: ma questo epiteto è giusto? risponde al concetto d’Omero?
    «Nell’ottava 19, canto stesso:

    La figlia ivi tra i boschi e l’ombre amene
    D’Atlante sta, che i fondi in mar, con rara
    Virtù scuopre, e colonne alte sostiene,
    Confin che dalla terra il mar separa, ecc.

    «Chi capisce se sia la figlia d’Atlante o Atlante stesso, che scuopre i fondi in mare, cioè che conosce tutte le profondità e abissi del mare? Chi capisce che Atlante sostiene le colonne lunghe che abbracciano, cioè toccano dall’una parte la terra, dall’altra il cielo?
    «Nell’ottava 6, canto IX, i due primi versi che stanno da sè dicono:

    E d’ôr fornito abbiasi pure il nido
    In paese stranier, da’ suoi lontano.

    Se abbiasi è preso in senso generale, non si può accordare col da’ suoi lontano: se lontano è nominativo, manca il sostantivo: se è avverbio, è dura la costruzione, e oscuro il senso.
    «Saremo, siccome crediamo, dispensati dalla fatica di recare in mezzo altri esempj. Chiunque abbia fior di senno, anche senza confrontare il testo greco, concederà di leggieri, che in quella lettura non si trova molto da imparare, e manca il diletto dello stile limpido, esatto e poetico.
    «Quanto per noi s’è detto finora su la traduzione dell’Iliade e dell’Odissea, debbe intendersi anche per quella del Suplimento di Quinto Calabro, ecc. Basta leggere la prima ottava per disperare del merito di questa parafrasi. Il Termodonte a largo flutto, cioè di larghe correnti; i quattro versi (ottava 4, canto I),

    Di luttuosa guerra al par la brama
    Viva la muove, e viva al par la tema,
    Tra le sue genti di sinistra fama,
    Che là qualcun di morderla non tema, ecc.

    «le erinni «Che degli empi tra i piè sempre ne vanno», son modi, e frasi, e sintassi che non invogliano a rifrustare altri luoghi più avanti, per indagare se alcun ve n’abbia che richieda gratitudine, come spera lo scrittore nella prefazione, alla sua erculea fatica. Dobbiamo poi confessare, che maggior diletto poetico abbiamo scontrato nella parafrasi della Bandettini, benchè più libera e ardita della sua; ne’ licenziosi suoi arbitrj, nelle amplificazioni, ne’ voli della sua fantasia, si sente almeno ch’è una bella infedele, nudrita del latte de’ classici nostri poeti italiani, e dimenticando Quinto, non dispiace del tutto la sua imitatrice.
    «Adempiute così, quantunque a malincuore, le parti di critici sinceri, che non sanno mascherare qual ch’ella sia la propria opinione, vogliamo credere che altri meriti possano conciliare al professore Fiocchi il favor del Governo. Al Governo pertanto, e non a noi, s’aspetta il giudicare se d’altri meriti egli sia fornito, o se le private di lui circostanze concorrano ad impetrargli una qualche gratificazione. Noi termineremo col raccomandar sempre all’I. R. Governo le lettere, le arti, le scienze, e gli uomini benemeriti che le coltivano a pubblica utilità.

    «Milano, 13 dicembre 1823.

    «Luigi Rossi — G. C. Luosi».

    Non è difficile sentire in queste ignobili frasi la mano del Monti, che apparteneva alla Commissione esaminatrice, e che soggiungea questa protesta autografa:
    «La giusta legge che vieta l’esser giudice e parte, vieta a me sottoscritto il proferire sentenza sulle omeriche traduzioni dell’esimio signor professore Fiocchi, essendo a tutti notissimo che io pure ho corso lo stesso arringo: il che, nel caso possibile che le versioni del lodato professore non mi paressero degne di tutta lode, potrebbe facilmente dar cagione al medesimo di sospettare che il mio giudizio fosse dettato dalla passione, anzi che dalla povertà del corto mio intendimento.

  37. È notevole quest’epigramma:

    Del Monti il Bardo andrà col Tasso al pari.
    Firmato, Eugenio; e un po più giù, Vaccari.

  38. Essendosi proposto di ascriverlo dell’Istituto Italiano, il Monti, chiesto del suo parere, proferì: — La natura, dal canto suo, ha fatto di tutto per farne un gran poeta. È maravigliosa la sua facoltà poetica, ma non la coltivò come si dee, collo studio de’ classici e il corredo delle scienze e della critica».
  39. Urbano Lampredi di Firenze (1761-1838) delle Scuole Pie, ebbe ingegno arguto e facilità ironica, colla quale potè farsi temuto ne’ giornali e ne’ circoli. Professore a Roma nel Collegio Nazareno col Galiuffi, poeta latino e stupendo mnemonico, e col Breislak naturalista, in casa Morelli conobbe il Monti, lo lodò prima, l’attaccò poi, e ne meritò un accannito rabbuffo nel sonetto al Padre Quirin. Ritiratosi poi da Roma e uscito di frate, a Firenze tornò incontrare il Monti, e l’ajutò a rappattumarsi col Gianni, e ad ottenere per suo mezzo raccomandazioni nella Cisalpina. Anche nell’esilio di Parigi imbattè di nuovo il Monti, il quale credette trovare la mano di lui negli ostacoli posti alla sua gloria e al suo collocamento. Più tardi il Lampredi confessò che i materiali dell’articolo contro la Spada di Federico erano stati lasciati da lui, partendo per Londra, come anche un sonetto contro il poeta versatile; e che il Gianni se ne valse al doppio servigio di calpestar il Monti e d’innalzar sè stesso. Imputato nella lettera al Bettinelli, venne a Milano a chiederne ragione; se alcuni, com’è stile de’ codardi, aizzavano i due emuli, l’Anelli, il Lamberti, il Breislak, l’Appiani s’interponeano per pace: si compromise la cosa nel Guicciardi ministro di polizia e nel Paradisi presidente del senato, ma tirandosi la cosa per le lunghe, il vicerè fece intendere che la voleva finita, e il Paradisi invitò Monti e Lampredi a un pranzo, ove si abbracciarono. Anzi il Lampredi insegnò matematiche alla Costanzina Monti, ajutò lui di buoni consigli alla traduzione dell’Iliade, e con esso scrisse il Poligrafo, dove sferzava Foscolo e gli altri mal accetti al Governo.
    Il Monti lo loda in molti luoghi, lo dichiara cima di letterato; poi nella lettera al Bettinelli lo strapazza: gli «tesse una corona di spropositi meravigliosa» quando «scende in arena a farsi campione dei buffoni della Crusca». Il Lampredi stampò gran lodi della versione dell’Iliade, poi alla macchia censurò le opere del Monti.
    Buon matematico, buon filologo, tradusse molti greci, e mostrò finezza di critica. Ma con ciò si fece molti nemici. Già nel Monitore Romano del 1799 scriveva contro E. Q. Visconti le Litanie di Pasquino, e denunziava le ruberie del Faypoult, del Perillé, degli altri commissarj francesi. È ricordata questa sua satira:

    Marforio. Che tempo fa, Pasquino?
    Pasquino. Fa un tempo da ladri.
                        (Sarà continuato).

    Un articolo contro del celebre chirurgo Angelucci lo pose in gravissime congiunture, come più tardi quelli a Milano contro il Compagnoni, e a Napoli contro il duca Mollo, da improvvisatore divenuto ministro di polizia. Contro del Lampredi principalmente è diretta l’Hypercalypsis di Ugo Foscolo, che lo intitola Hieromomus o frate buffone, e dice: «Hujus naturæ est ut, ubicunque est, discordias et lites serat, eademque hebdomade et laudes et in eosdem satiras edat».
    Caduto il regno, andò ramingo, finchè nel 1825 tornò a Napoli, ben ospitato dal conte Ricciardi: e raddolcito, piacevasi, negli ultimi anni, d’incoraggiare i giovani prestanti, e d’interporsi alle baruffe de’ giovinastri, volendo, diceva, esserne il Nestore, come lo era per età.

  40. Al Biagioli rese pan per focaccia in postille al suo Commento di Dante, stampate postume. Il Biagioli era veramente pazzo pel suo autore, e natogli un figliuolo a Parigi, volle battezzarlo col nome di Dante. Il curato gli disse che non conosceva un san Dante. E il Biagioli: — Je ne sais pas s’il y a un saint Dante; je sais qu’il y a le dieu Dante».
  41. Men’ moveat cimex Pantilius? aut crucier quod
    Vellicet absentem Demetrius?

  42. Se la frase è vera, noi saremmo in gran progresso, giacchè la virulenza non eccita più la pubblica indignazione; è anzi lo spasso del colto pubblico.
  43. Giuseppe Lattanzio (galeotto di Nemi — scappalo al remo e al tiberin capestro) suppliva allo scarso ingegno coll’audacia, o agli attacchi della Mascheroniana contrappose un pessimo poema, l’Inferno, ove al Monti rende la pariglia. Nel Corriere delle dame osò predire che Buonaparte si farebbe re d’Italia. Invece di imprigionarlo, lo mandarono all’ospedal de’ pazzi (la fune e la Senavra impetra).
  44. Il De Coureil avea fatto una «assurda impudentissima anatomia» del Parini, soprattutto per l’abuso della mitologia. Morse l’orazione inaugurale del Monii, sostenendo (audacia rara allora) che non fossero vere le persecuzioni del Sant’Uffizio contro di Galileo e della filosofia.
    Era nato francese, ma dai genitori condotto fanciullo a Pisa dove fece gli studj, infine pose casa a Livorno; visse di fare scuola e di scrivere; e stampò favole, novelle, lettere critiche in cinque volumi. Di gran lettura e gran memoria, trattava con indipendenza, allor poco solita, i più grandi autori, antichi e moderni.
    Il Monti, da lui criticato, gli avventò una nota furibonda nella terza lettera sul Cavallo di Arsinoe; gli rinfaccia d’esser di razza non italiana e povero; lo manda a far il beccajo perchè non conosce la mitologia, e si meraviglia che la barella dell’ospedale non sia ancor venuta a pigliarlo.
    Il De Coureil non si tacque, e quanto alla povertà, gli facea riflettere che lo schernire un suo confratello di lettere, grande o piccolo non importa, perchè la fortuna lo tenesse in povertà, è la maggior bassezza di cui possa farsi colpevole un uomo d’onore. Scrisse poi un opuscolo contro il Baldo della Selva Nera, ma il Monti non gli rispose. Morì d’apoplessia a Livorno, il 29 gennaio 1822 di 62 anni.
  45. Vedi l’appendice D.
  46. Il Monti, nel 1827, mandava quell’epigramma a Urbano Lampredi, ringraziandolo delle lodi che avea date alla sua Iliade in conforto con altre traduzioni. — Duole ai molti amici che qui avete che vi sia uscita di mente la traduzione del più maligno ed invidioso di tutti gli omerici traduttori. Parlo di Ugo Foscolo, che del certo non si alza punto sugli altri, ed è anzi al disotto di quei medesimi che egli calpesta, fra’ quali sono io il più calpestato».
    A Pieri il 30 giugno 1810 avea scritto: — L’ho rotta con Foscolo, perchè egli l’ha rotta col pubblico, e con tutta la famiglia de’ letterati morti e vivi. Nondimeno aspetto che, secondo la sua tremenda minaccia, mi compartisca il beneficio di criticarmi, per ringraziarlo e riconciliarmi. Fuori di celia, il povero diavolo conosce il suo errore, n’è pentito, e m’ha fatto dire da molti ch’egli è dolentissimo d’aver perduta la mia amicizia, e io mi ricordo sempre d’avergli voluto assai bene». Vedi l’appendice B.
  47. Appena il Poligrafo comparve nel marzo 1811, gli tenne dietro l’Antipoligrafo, dove con molta arguzia e disinvolta severità si criticava ogni articolo, ogni parola di quello, e massime l’affettazione di parole greche o latine o arcaiche e gli aggettivi laudatorj. Non la perdona al Monti, e pur confessando ch’è impareggiabile verseggiatore, dice della sua Iliade non esser italiana, ma un misto di ruggine greca, spesso latina, che unita all’italiano, forma un impasto che non è nè italiano, nè latino, nè greco». E cita il pelide, la priameja cittade, parlò queste parole. In generale disapprova lo stile colto, cioè affettato; la grammatica consistere nell’uso.
    Di fatto son troppi i suoi latinismi, massime nella Iliade ove troviamo il nitente peplo — i duri agresti — assueti a largo pasto — il barlume antelucano — cedi il piè dalla pugna — l’onda del mar devolve — la notturna escubia — un valoroso ti suspicar — avvolta nel fluente suo vel la dia lacena.
    L’Antipoligrafo era opera di Francesco Contarini veneziano, che nel 1818 stampò il Viaggio e maravigliose avventure d’un veneziano che esce la prima volta dalla laguna e si reca a Padova ed a Milano.
  48. E una stravaganza il supporre che nel 1808 esistesse ancora in Germania uno de’ Bardi che viveano al tempo di Tacito. Ha qualche bel passo come questo:

    Lassù dov’anco
    Il mesto arriva
    Gemer del verme che calcato spira,
    Del Nume al fianco
    Siede una diva
    Che chiusa in negro ammanto
    Scrive i delitti coronati, e all’ira
    Di Dio presenta delle genti il pianto.

  49. Ch’egli si pentisse de’ versi politici, e che solo l’indiscrezione degli editori gli abbia riprodotti, è smentito da una sua lettera alla Clarina Mosconi di Verona, del settembre 1826, ove, parlando della stampa fatta dalla tipografia milanese dei Classici, la dice «edizione poverissima, perchè di tutte quelle che ho scritto dal 1798 al 1816, nè pure una sillaba mi è stato permesso di ristampare, ed è la parte men cattiva delle mie poesie».
  50. Il Gioja, nel Merito e Ricompense, vol. II, pag. 304, scriveva: — Le lodi date ad una chioma che non esiste, possono eccitare il sorriso del disprezzo. Ma un poeta che parla del regno di Astrea ad una nazione le cui piaghe danno ancora sangue, merita d’esser mandato alla ....».
  51. Carlo Stuard, a un poeta che cantava la sua restaurazione, disse che eran migliori i versi che avea fatti per Cromwell. Il poeta rispose: — Perchè i poeti riescono meglio nelle cose false che nelle vere».
  52. Certo non si dorrà ch’io lo dimentichi il gentile che fe la cantata per la coronazione di Ferdinando nel 1838. Il Giordani diceva che il solo vero ingegno che si fosse venduto all’Austria era Paride Zajotti, trentino.
    Scalvini letterato bresciano, che avrebbe potuto esser de’ migliori, scrive:
    «Il Monti dice: A questi semi-letteratucci, che insolentiscono contro le opere de’ grandi uomini, convien rendere la pariglia con un buon bastone. Se un cane mi viene a pisciare vicino, io ho diritto di dargli un calcio o una bastonata. — Gli uomini grandi, soggiungeva il Monti, debbono render ragioni, non venire colla spada alla mano. — Mentre così diceva, senza avvedersi, condannava sè stesso. Che non ha egli detto di quel povero De Coureil, nella nota, al Cavallo alato d’Arsdnoe? Gli antichi, certo, non fecero mostra mai di tanto fiele.
    «Monti si stava radendo la barba. — Fruga nella mia tasca, disse, e troverai una lettera del principe di Carignano. Vedi che mi scrive egli». Io la trassi, e andando verso lui, — Vedi (diss’egli volgendosi) tutta di suo pugno!» Io lessi. — Hai badato (diss’egli volgendosi un’altra volta) a quella parola venerazione?» — Voi non avete bisogno, diss’io, delle lodi di principi, nè ve ne dovete compiacere.
    «Monti è ito in fretta a Fusignano per salvare il suo avere dalle brame di un nipote a cui lo aveva affidato. Egli ha il carico di scrivere una cantata per la venuta dell’imperatore.... Egli era comandato, egli era forzato a ciò. — Chi può forzare ad operar contro la propria coscienza?»
  53. Egli scriveva al Mustoxidi, il 20 marzo 1816:
    — Ascoltate un nuovo letterario divisamento.
    «Tutta Milano e molta parte d’Italia, secondo che risulta dalle nostre corrispondenze, ha dato vivissimi eccitamenti alla formazione di un giornale. A questo effetto Giordani, Brocchi, Breyslak, Labus e il vostro Monti, sotto gli auspicj di onorati e potenti cavalieri, ne hanno assunto l’incarico. E già il nostro progetto ha ottenuta la superiore approvazione, e in breve ne uscirà il manifesto, coll’elenco degli amici cooperatori. Vedrete fra questi il nome di Oriani, di Stratico, di Moscati, di Longo, di Rosmini, di Francesconi, di Sbrocchi, di Morelli e d’Arici, tutti membri dell’Istituto. A questi aggiungete Maj, Gaetano Cattaneo e parecchi altri di Milano, e fuor di Milano, Costa in Bologna, Perticari in Pesaro, Borghesi in Savignano, Lampredi in Napoli, Botta (e spero anche Visconti) in Parigi, e Cicognara in Venezia. Ora, non sarebbe per me e pe’ miei colleghi, in nome de’ quali vi scrivo, non sarebbe per tutti noi il massimo de’ peccati se, fra tanti bei nomi, non si leggesse pur quello di Mustoxidi? Nella fretta con cui questo affare ha dovuto procedere, ed anche nell’incertezza del superiore consentimento, noi non abbiamo avuto tempo d’interrogarvi, e di chiedervi (siccome abbiam fatto con tutti quelli che ci sono presenti) la permissione di segnar nella lista dei nostri ausiliarj il vostro bel nome. Ma noi, sicurati sulla cortese vostra amicizia, ve l’abbiamo inserito, e abbiam piuttosto voluto peccare d’arbitrio che di riverenza. Nè per questo intendiamo che voi restiate legato da verun obbligo di contribuirci l’opera vostra. Da questo lato voi rimanete liberissimo. Ma se una volta l’anno volete esserci generoso di qualche pagina vostra, noi l’avremo per grazia ed onore singolarissimo. Nè voglio tacervi che questo favore piacerà molto anche a due persone che sommamente vi amano, al marchese Trivulzio e a sua moglie.
    «Consolateci dunque tutti d’una graziosa risposta, e quando l’ozio vi soprabbonda ricordatevi delle rimanenti vostre annotazioni alla mia Iliade. State sano, ed amate il vostro amantissimo, ecc.».
  54. Angelo Anelli, arguto autore delle Cronache di Pindo, scriveva al cavalier Carlo Rosmini da Milano, 7 agosto 1816.
    — La mia lettera non fece che accrescermi il vivo dispiacere ch’io provo di quanto è seguito, e sospendermi la penna in continuazione d’altre armi difensive che avea preparato. Ad onta che un qualche amico avesse sparso alcuni tratti della Cronaca di Pindo, or or pubblicata, pure io ne tenni sospesa la stampa, fino che lessi l’ultimo fascicolo della Biblioteca Italiana. Le dirò di più, che levai molte altre allusioni, anzi pure due ottave e tre note, in cui nominava tondo chi m’avea provocato; e le levai, tuttochè approvate superiormente. Se vorrà vederle, potrò riservatamente anche in ciò dimostrarle la mia confidenza. Ella ha ragione nel credere ch’io stimi il cavaliere Monti; lo dico, lo scrivo, lo stamperò. Ma Dio mi tenga lontano per sempre dall’aver con lui la più piccola relazione. M’ha provocato villanamente per servire alle turpi suggestioni del signor.... e del signor..., persone che conoscea e (massime il primo) disprezzava altamente; m’ha attaccato fin nella cattedra con quella imputazione sopra Leonida, che tornerà a suo scapito. Io gli ho steso la mano dell’amicizia anche quando avevo letto la prima parte del dialogo nel fascicolo VI (prima però che fosse pubblicata, avendola letta di contrabbando). Egli, senza neppur domandarmi se avevo parte nel giornal del Bellini, me ne ritenne complice; e a torto, e n’ho le prove. Insomma, stimando i suoi meriti letterarj, non posso e non devo che disprezzarlo per sempre. Grave est accusare in amicitia. Cic. «Ella ha tale e tanto diritto alla mia stima, ed io ho tale e tanta tendenza a ciò che giova alla patria, che, deposte le armi, la farei arbitro, anzi plenipotenziario d’ogni mia ragione. Ma siamo a tale da non poter più dare addietro. I miei figli, i miei amici, i miei concittadini, fino le persone stesse di Governo sono indignati per me. Se il signor Monti fosse il cavaliere Rosmini, mi concilierei tosto, con un patto solo, che dovesse criticare le mie Cronache, ma con la debita urbanità letteraria, ed io gli risponderei ringraziandolo pubblicamente, e scusandomi come credessi di poterlo fare. Ma con Monti....?
    «Alle corte, mio degno e rispettabile amico, chè tale riconosco dalla sua lettera, Monti è un idrofobo: bisogna compiangerlo, stargli lontano, e quando si accosta per mordere, difendersi, per non esserne offesi, a spada tratta.
    «Ho scritto: ma grato eternamente a lei. Avrò il piacer di vederla. Il solo rimorso che ho, si è di non averle in secreto confidato ciò che avea scritto e aggiunto in questa Cronaca. Nelle venture non farò così. La settima è presto finita. Abuserò della sua bontà, ma farò onore alla di lei saviezza e a quella confidenza ch’ella m’ispira».
  55. Oltre quello che ne disse nella Proposta, ecco quanto ne scriveva a Padova a Mario Pieri, corcirese iracondo, avvolto nelle baruffe di quel tempo, e delle quali lasciò il racconto.
    — Nessuno dei primi compilatori della Biblioteca Italiana ha più nulla che fare in quel giornale, le cui vicende potete udir fedeli ed esatte dall’ottimo Francesconi. La protesta in fronte ai fascicoli del secondo anno è una solenne impostura: e a qual fine ognuno l’intende. Quale poi sia stata l’iniqua condotta dell’Acerbi verso me, è tale istoria, che un foglio privato non può contenerla, nè io saprei contarla senza infiammarmi.
    «Tornando al detto giornale, egli è al presente tutto mercenario, L’Acerbi, non essendo atto a porvi una sola riga del suo senza spropositi, è forza che tutto compri. E tra coloro che vilmente gli hanno venduto a 40 franchi il foglio, la penna, non ha nessuno che sia pure alcun poco iniziato nel bello scrivere. Quindi cessino tutte le maraviglie sulla decadenza di quello sciagurato giornale. Si è formata un’altra società, la quale ha presentato al governo il progetto d’un nuovo Foglio, complessivo come l’altro di ogni materia letteraria e scientifica. I sottoscritti sono Brocchi, Breyslach, Giordani, Labus e Monti per la compilazione. Quanto agli ajuti, nessuna letteraria confederazione si è mai veduta simile a questa: perchè nostri ausiliarj in Milano sono: Oriani, Carlini, Maj, Rosmini (Carlo), Longo, Mescati, Stratico, Gherardini e più altri che or non è tempo di palesare. In Venezia, Mustoxidi, Aglietti, Cicognara. In Brescia, Arici e Morcelli. In Bologna, Costa, Tommasini, Marchetti e Venturoli. In Roma, Perticari, Biondi e Borghesi. In Firenze, Fabbroni, Niecolini e Serristori. In Torino, Balbis, Grassi, Vernazza. In Parigi, Botta e Visconti. In Napoli, Lampredi, Monticelli. E questo non è che un principio; perchè nostro divisamente è d’invitare in questa lega i migliori lutti d’Italia. E se finora non ci siamo rivolti alle due Università del regno, Padova e Pavia, egli è perchè il nostro progetto, sancito già a voti unanimi dal Consiglio Imperiale, non è per anco stato firmato da S. E. il signor Conte Governatore, la cui giustizia non può tardare a ratificarlo. Così mostreremo non pure all’Italia, ma a tutta l’Europa esser falsa la calunnia di che ci gravano gli stranieri, cioè che i letterati italiani si straziano fra di loro, come i Cadmei: e che questa accusa non cade che sopra i guastamestieri. Pregate dunque sant’Apollo e Minerva che la nostra impresa si conduca a riva felicemente, e voi pure sarete del bel numer uno, e con voi quanti costì han caro l’onore dell’italiana letteratura» (9 febbrajo 1817).
  56. Il Cesari, messo in continua baja dal Monti, venne una volta a Milano, andò a trovarlo. Il Monti l’accolse con creanza, e domandatogli al fine se potesse servirlo di nulla, «La mi faccia portare un bicchier d’acqua. Potrò vantarmi di averlo ricevuto dal maggior nostro poeta». Il Perticari, raccomandandolo al principe Odescalchi, il 14 marzo 1822 lo chiama «padre d’ogni eloquenza»,e «nulla vi dico delle sue lodi, perchè agli uomini che sono lodati da tutta la nazione non bisognano le lodi mie. Questo solo vi dico, che voi vedete quell’uomo, per cui la Lombardia ha già tolto il vanto della lingua alla disfatta Toscana!!»
  57. Il Foscolo scriveva allora s’un giornale in Inghilterra: — Voglia il cielo che tale impresa, la quale dovrebbe esser condotta con fredda riflessione e dirigersi all’utilità, possa andar esente da quelle inavvertenze che per la fretta e per la passione sfigurarono gli antecedenti scritti polemici di questo autore a segno da ridurli all’abiettissimo grado di controversie personali».
    Vedi l’appendice D.
  58. «A ognuno rimarrà chiaro che i reverendi Infarinati, tranne ben pochi, furono e sono più che mai una vera mandria di ciuchi». Lettera del 1821 al marchese Trivulzio.
  59. Lettere del Monti, a proposito della baruffa cruschesca, dirette all’abate Villardi di Verona, furono pubblicate in Padova il 1843 per nozze Cabianca-Onesti. In una del 5 dicembre 1819 dice: — Vi rattristi il vedere che, mentre i soli Lombardi sono quelli che degnamente sostengono in Italia l’onore del bello scrivere, v’abbia gente fra essi che assoldasi alla bandiera degli eterni ed insolenti nostri nemici i Toscani, quei Toscani che più d’ogni altro a’ dì nostri hanno morto il bel parlare italiano».
    È notevole che poco dopo, proprio in Lombardia, sorse una scuola che sosteneva non potersi scriver bene se non in toscano.
    In un’altra del 5 luglio 1820 riferisce una lettera del Perticari, il quale si loda delle grandissime cortesie che a lui e alla Costanza usarono i Fiorentini e gli Accademici della Crusca. Il Perticari conchiude che «la sola Lombardia può a’ nostri giorni metter fuori alcuna cosa che sia degna del nome italiano; perciocchè le lettere o straniere o mal condotte in tutte le altre parti d’Italia, hanno rifugio nelle sole terre lombarde».
    Nel 1843 a Venezia si stamparono dodici lettere inedite, fra cui una del 20 agosto 1818, ove Amalteo da Oderzo dice: — Alle insolenze del Monti puossi rispondere trionfalmente, volendo uno avvilirsi, con altrettante ingiurie ed improperj: alle ragioni del Monti non puossi rispondere dagli Accademici che col dire che tutti quegli errori sono stati presentiti e confessati da loro stessi, e che però non occorreva menar di ciò tanto rumore».
  60. A tacere la Biblioteca Italiana, il Pagani Cesa definiva i Romantici, briganti politici, gente d’arme, giovinastri, non pratici che del disordine in cui sono nati; avventurieri fortunati, intesi a sovversioni e letterarie e politiche, ecc.
    Trent’anni dopo, il signor Emiliani Giudici ripetea le accuse stesse in senso opposto, denunziandoli come emissarj del Governo austriaco, perchè accettavano dottrine predicate da sommi tedeschi, E queste bestemmie si rinnovarono nel 1872. E se noi mostriamo che ci siam sempre ingegnati di dire le cose più italiane nel modo più italiano, ci si rinfaccia: — Il bello stile nel romanticismo l’è uno spoglio violento, fatto al detronizzato classicismo». La Carità, febbrajo 1868, pag. 127.
  61. Fine ai sogni e alle fole, e regni il vero.
    Magnifico parlar, degno del senno
    Che della Stoa dettò l’irta dottrina,
    Ma non del senno che cantò d’Achille
    L’ira, e fu prima fantasia del mondo,
    Senza portento, senza meraviglia,
    Nulla è l’arte de’ carmi, e mal s’accorda
    La meraviglia ed il portento al nudo
    Arido Vero che de’ vati è tomba....
    Rendi dunque ad Amor l’arco e gli strali,
    Rendi a Venere il cinto, ed essa il ceda
    A te, divina Antonietta.

    In questo sermone sulla Mitologia, ripete bellamente ciò che avea già cantato Voltaire, che anch’egli difese la parte materiale delle antiche favole, le illustri finzioni che

    Moto, spirto, poter, favella e senno
    Compartirò alla terra, all’aria, al mare....
    L’albero che sublime erge la fronte
    Co’ sempre verdi rami, Ati fu un giorno
    Ati, diletto alla madre Cibele:
    Schiude il Giacinto innanzi tempo e spiega
    Odorosa bellezza, ed è il garzone
    Ch’Apollo un dì cercò per questi prati;
    Zefiro e Flora la novella rosa
    Dipingon di vermiglio....
    Cervo che in suo fuggir superi i venti
    Fu il giovane Ateone; augel che geme
    Pietosamente della notte in seno
    Fu la gentil di Pandion donzella.
    Se poi vien che all’occaso io segua il sole,
    Penso ch’ei si riposa in grembo a Teti:
    D’innamorati eroi tutto l’Olimpo
    È popolato. Oh le ammirande scene!
    O le care magìe!

    Forse il Monti avea di più in memoria l’ode di Schiller.
    Del resto, già il Tasso nel dialogo il Cattaneo avea difeso la mitologia; e poi il Sanvitali di Parma, come diciamo più sotto.

  62. Nel Dialogo dei poeti dei primi secoli, il Monti dice: — Il luogo della scena è romantico, cioè dove torna più conto».
  63. Da chi l’ebbe da lui in deposito fu consegnata alla biblioteca di Bergamo.
  64. Urbano Lampredi, del quale parlammo nella nota 39, scrisse appunti sulla propria vita, come tant’altri, per uso di monsignor Muzzarelli, che volea fare biografie di viventi, e che poi furono scorrettamente quanto impudentemente pubblicate a Torino, dal Pomba, 1853. Ivi si fa grande ammiratore del Monti, e sopratutto vuol mostrare che se, dopo la rivoluzione del 31, egli fu cacciato da Napoli, non era per colpe politiche nè intrighi settarj, ma per vendetta del duca Mollo e del principe di Canosa.
    In quella stessa infelice pubblicazione, sotto il titolo di V. Monti, è una relazione sopra questo poeta, stesa, dicesi, da persona che ne fu intima, e che vuole scagionarlo della versatilità politica. È firmata Pietro Giordani, ma basta il minimo criterio per conoscerla di Urbano Lampredi. Racconta egli come riconciliasse in Firenze col Gianni il Monti, pur meravigliandosi non l’avessero impiccato a Roma pel sonetto Padre Quirin: poi le nuove capiglie col Gianni, «gobbo che ha molto spirito», diceva Buonaparte, e che irritava il Monti principalmente coll’ingiuriarne la moglie, fior di bellezza e non ricca. Confessa sua opera la critica comparsa nella Decade di Parigi, alla quale rispose il Monti nella lettera a Bettinelli, rendendogli pan per focaccia. Pure il Lampredi si riconciliò col Monti a un pranzo da Paradisi, e gli fu sempre amico. In quella lettera al Bettinelli diceansi vituperj di persone care al vicerè, locchè tolse che il Monti fosse nominato senatore.
    Alla nascita del re di Roma si insisteva perchè cantasse: ed egli vi ripugnava perchè scontento della politica di Napoleone e del titolo dato a questo bambino, e non confidava ne fosse duratura la potenza. Pure, incalzato da Breyslak, da Lamberti, da Paradisi, fece le Api Panacridi. Avrà insistito viepiù la moglie, la quale sapeva che al ministero dell’interno era deposto un migliajo di zecchini, da dargli se continuasse il Bardo. Il Lampredi, che pur avea svillaneggiato quel poema come una sbandellata, pure ve l’esortò: ma Vincenzo gli rispose: — Che vuoi? costui fa delle cose da raffreddare un vulcano. Non vedi cos’ha fatto in Ispagna e con quella famiglia? Non vedi ch’egli precipiterà sè e la famiglia sua, e noi quanti siamo a lui devoti? La sola buona cosa che ha fatto è l’organizzazione di questo regno d’Italia: ma poi come tratta noi italiani? Egli si rende nemici tutti i re d’Europa, che alla fine trionferanno. E noi tutti precipiteremo con lui».
    Fu atto pio quel d’un romano che fece l’apologia del Monti, ma essa si riduce a mostrare che, nelle sue variazioni, non fu vile e amò sempre l’Italia, il che noi avevamo detto e ripetuto. Egli reca un giudizio del Giordani, che non conchiude altrimenti.
    Studiò di non dispiacere a’ potenti: e perchè il giuoco di fortuna è insolente, e spesso nel suo teatro gl’istrioni si cambiano, perciò il buon Monti, necessitato di voltare quando a ponente e quando a settentrione la faccia, non potè sfuggire dal biasimo di quelli che nel poeta vorrebbero gravità e costanza di filosofo; e a lui diedero cólpa di mutate opinioni. Ma egli non vendette la coscienza, non mai, nè per avarizia, nè per ambizione; e nemmeno si può dire che mentisse a sè stesso. Lo fece apparire mutabile una eccessiva e misera e scusabile timidità; la quale egli stesso confessava ai più stretti amici dolente. E si consideri che a lui già famoso non sarebbesi perdonato il silenzio. E si guardi che, s’egli variamente lusingò i simulacri girati in alto dalla fortunevole ruota, non però mai falsò le massime, non raccomandò l’errore, non adorò i vizj trionfanti, non mancò di riverenza alle virtù sfortunate; sempre amò e desiderò che il vero, il buono, l’utile, il coraggio, la scienza, la prosperità, la gloria fossero patrimonio di nostra madre Italia. Insomma chi ha conosciuto intimamente e considerato bene il Monti può dire, che le molte ed eccellenti virtù che in lui il mondo ammirò, e i tanti suoi amici adorarono, e quel non molto che alcuni ricusarono di lodare: quella vena beata di poesia e di prosa, quella splendida copia d’immagini, quella variata ricchezza di suoni, quella arguta abbondanza di modi in tante differenti materie; e similmente quelle ineguaglianze e dissonanze, e quasi quei balzi di stile; quell’audacia talora di concetti scomposti e di figure meno vereconde; e così quella facilità e mobilità di affezioni; quelle paure con piccolo motivo, e così tosto quegli ardimenti con poca misura; quelle ire subite e sonanti, con quella tanta facondia nell’ira; quelle amicizie sì prontamente calde, e sì fluttuose; quella modestia e semplicità di costumi; quella sincerità candidissima; quella perpetua ed universale benevolenza; quella, per così dire, muliebrità d’indole (che pareva più notabile in corpo quasi di atleta, e nella poetica baldanza dell’ingegno), tutto nel Monti era parimente cagionato da prepotenza di passiva immaginazione. La quale dopo molti anni egli seppe frenare ed ammogliare al giudizio; sommettendola a studj potenti, benchè tardivi: grande maraviglia a tutti, che paragonavano lui lungamente giovane a lui tardi maturato scrittore».
  65. Nel Pierpaolo, almanacco morale che stampavasi a Modena pel 1862, fu inserita una lettera d’un sacerdote A. A. che assistette alla conversione, alla comunione e agli ultimi momenti del Monti, e ne attesta la massima commozione e la più gran pietà.
    Al padre Francesco Villardi scriveva o piuttosto faceva scrivere, il 26 gennajo 1827: — Vi ringrazio delle sante orazioni che alzale al Cielo per me, ma forte mi dolgo dell’ingiuria che mi fate trattandomi da miscredente. Perchè qualche volta me la piglio colla superstizione e coll’ipocrisia de’ fanatici religiosi, avete avuto il cuore di credere che io abbia rinunziato all’evangelio? Dalle mie indignazioni contro i superstiziosi e gl’ipocriti dovevate anzi conchiudere tutto il contrario. Orsù! perdono alla buona intenzione l’offesa che mi fate, ma pregovi di mutare opinione rispetto alla mia credenza, altrimente io avrò finito d’essere il vostro affezionalissimo amico

    Vincenzo Monti».

    E il 6 dicembre: — Io non son mai stato nè ateo, nè luterano, nè calvinista, e l’aver fatto ciò che fa e deve fare ogni buon cristiano ridotto agli estremi della vita, non parmi che ad un simile atto di religione debba darsi il nome di conversione: nome il quale suppone che io veramente abba professato principi irreligiosi».
    La Costanza regalò a Ferrara il cuore di Vincenzo entro un’urnetta di ebano imitante il sarcofago di Napoleone, sormontata dal Crocifisso che «sulla coltrice accanto a lui posò»: lo scrittojo di lui, il Dizionario della Crusca, da lui postillato. A Milano in Brera gli fu posta un’erma.