La Marfisa bizzarra/Canto V

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Canto V

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Canto IV Canto VI
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CANTO QUINTO.


ARGOMENTO.


     Un amor forte la bizzarra prende
di Filinor. Terigi si dispera;
pur fa grand’apparecchio, e spande e spende
per ricrear la sua sposa una sera.
Alla ricreazion schiere tremende
giungon, e fassi descrizion sincera
di dame e cavalier. Non vien l’infida;
Terigi piange, e il cappellan lo sgrida.


1
     Io non son di natura curioso;
pur, quando sento ruote e la scuriada,
m’affaccio alla finestra furioso
e vo’ veder chi passa per la strada.
Però non istupisco, e son pietoso
che il popol di Parigi in folla vada
a veder la carrozza che ho narrata:
io sarei stato capo di brigata.
2
     Non sempre e in ogni loco curiosa
soffro la gente molto volentieri,
e, verbigrazia, a un’opera fecciosa
che corra e spenda e gridi e si disperi.
Questa curiositade è pemiziosa,
io dico, e di cervei troppo leggeri.
Quella carrozza era una cosa bella
e rara, e in piazza, e si dovea vedella.

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3
     Il cavalier, che da quella è schizzato,
era quel Filinoro di Guascogna.
Perché da un sol rozzon fosse tirato
e dal staffiere, dirvi or mi bisogna.
In una pozza se gli era affogato
il cavai terzo e rimasto carogna,
ed era presso a Parigi un trar d’arco,
donde non volle rimanersi al varco.
4
     Perocch’egli è un fanciul soggiogatore
d’ogni riguardo e alle vergogne avvezzo:
— Dalla cittá non de’ rimaner fuore
— disse — quest’equipaggio mio, da sezzo;
e pose al tiratoio il servitore
dall’altra parte senz’alcun ribrezzo.
Lasciando nella pozza il cavai morto,
ridusse alfin la navicella in porto.
5
     Alcun di nuove fogge dilettante
dicea: — Questa debb’esser moda nuova:
da una parte il cavai, dall’altra il fante!
Certo il buon gusto qui sotto ci cova. —
Alcun ardito chiede al cavalcante:
— Che fate dello sprone e che vi giova?
Spronate voi per fianco quella rozza,
o spronate voi stesso o la carrozza? —
6
     Il servo ansante di sudor grondava:
avea ben altro in mente che rispondere.
La gente sempre accorreva e inondava:
parca ch’ella volesse il ciel sconfondere.
Filinor lo staffiere confortava,
dicendogli: — Su via, non ti confondere,
sciogli i forzieri; — e diceva alle genti:
— Or bene: io son colui dagli accidenti.

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7
     Le sventure, signor, sempre son pronte.
Che maraviglie! Ringraziate Dio
ch’elle non vi son tocche. In piano e in monte
e in mar siam mal sicuri, al parer mio. —
S’innalzava Marfisa con la fronte
per veder la cagion del mormorio,
e sulle punte dei piedi si rizza,
ma invan s’affanna e alfin le venne stizza.
8
     E vòlta a’ cavalier che la servieno,
ed a Terigi che sembra un barlotto,
comincia a dir che tutti le parieno
cavalier da bagasce e da biscotto.
— Vedete — ella dicea — che m’avveleno
per star di sopra, e mi lasciate sotto,
né veder posso. Ogni pitocco e tristo
avrá veduto, ed io non avrò visto.
9
     Fatevi innanzi, allargate la strada!
S’apra la folla, cavalier poltroni!
Chi non sa servir dama se ne vada:
io vi smaschererei co’ mostaccioni, —
Disse Terigi: — Io non ho qui la spada; —
ma gli altri cavalier, come leoni,
cominciano co’ gombiti e co’ fianchi
a sospinger la folla arditi e franchi.
10
     Piú di tutti alle spinte acquista fama
don Guottibuossi, che è qui mascherato,
e grida: — Largo, amici, a questa dama! —
e apre l’onda e gran fesso ha formato.
Marfisa aiuta anch’essa quella trama,
e spinge quanto un uomo disperato,
tanto che giunse in mezzo al cerchio stretto,
e rassettossi poi qualche merletto.

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11
     E si fece vicino a Filinoro,
ch’era un de’ piú bei putti che sien visti.
Lasciamo i capei lunghi a fila d’oro,
la grana e il latte sulle guance misti.
Avea negli occhi e ne’ gesti un decoro
da vincer tutti i fanciulli alchimisti.
Vide Marfisa e fece il stupefatto,
facendo un paio d’inchin moderni affatto.
12
     Fu quasi vinta a quel colpo Marfísa,
e si trasse la maschera dal volto,
asciugando il sudor di ch’ella è intrisa,
con una leggiadria che piacque molto.
Poi disse: — Cavalier, come, in qual guisa
siete a Parigi in questo modo còlto? —
Rispose il cavalier: — Dama cortese,
l’uom che viaggia impara alle sue spese.
13
     Io vengo di Guascogna, e in compagnia
quattro staffieri aveva ed il cocchiere,
il cavalcante e due lacchè per via,
sei corsier sauri con le chiome nere,
ed equipaggio quanto con venia.
Giá queste mura ero giunto a vedere;
quando d’un bosco venti mascalzoni
uscirò armati d’accette e spuntoni.
14
     Per prima cosa uccisero i destrieri,
perché non si potesse via fuggire.
I lacchè si difesero e i staffieri;
chi non fuggi dovette alfin morire.
Guizzai dal cocchio a guardia de’ forzieri,
e cominciai con la spada a ferire;
dieci n’uccisi, e il resto impauriti
per timore o fortuna son fuggiti.

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15
     Lo staffier sol rimase che vedete,
e d’un altro staffiere il cavai stracco.
Dissi: — Dall’una parte tirerete;
questo rozzon dall’altra, ch’io v’attacco. —
E giunsi qui come veder potete,
che ancor mi fo la croce per quel fiacco. —
Lo staffier stava fuor della memoria
e trasognato a udir si bella storia.
16
     Filinor di soppiatto l’occhiolino
fece al staffier ed ei l’intese tosto.
L’altro seg^e il racconto del cammino,
che un’altra baia nuova avea disposto.
Disse: — Sol mi rincresce un valig^no,
che tenni pel viaggio sempre accosto,
con trentamila zecchin d’or forbiti;
non m’avvedendo al fatto, addio, son iti.
17
     Ed un portamantello io vedo ancora,
dove aveva alcun abito decente
(siccome un onest’uom di casa ftiora
suol portar seco, andando a nuova gente);
e se n’è andato anch’esso alla malora,
con un brillante a cui non posi mente,
che m’è schizzato fuori dalle mani
nel combatter ch’io feci con que’ cani. —
18
     Molti del cerchio, udendo queste cose,
dicean basso: — È ben ver ch’egli è guascone. —
Altri, a’ quai sembrar vero tutto suole,
tiravan gli occhi e avevan compassione.
Ma perché allora s’usavan parole
e fatti pochi per consolazione,
fuor che un commiserar di que’ commossi,
a Filinor non s’offerser due grossi.

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19
     Marfisa altro non volle ad esser vinta
che bellezza nel putto e le avventure.
Veder gli parve una storia dipinta
di Marco romanzier nelle scritture.
Compianse i casi e die’ piú d’una spinta,
perch’ospite suo fosse, e isforza pure;
ma Filinor, baciandole la mano,
disse ch’ospite andava al conte Gano.
20
     — Invidio a Gano un commensal gentile
— disse Marfisa — come siete voi. —
Rispose l’altro con atto civile:
— Questa invidia è invidiabile fra noi. —
Soggiunse l’altra: — A Parigi c’è stile
delle conversazion: vedremci poi. —
— S’ubbidiscon — dicea l’altro — le dame. —
Terigi udiva e sol diceva: — Ho fame.
21
     Mezzogiorno è suonato di due ore,
la maschera m’affanna e infastidisce. —
E poscia l’orivol metteva fuore,
dicendo: — Questa vita non gradisce. —
Marfisa rispondeva: — Mio signore,
dove tengono il tosco, io so, le bisce;
però non cominciate a fare il matto,
ch’io so come si lacera un contratto.
22
     Non mi diceste un giorno: — A me fia grato
tutto quel ch’è piacer vostro, illustrissima? —
Terigi, tra balordo e disperato,
fece una riverenza profondissima.
Rise Marfisa e sul viso gli ha dato
con il ventaglio, ch’era leggiadrissima;
e finalmente ognuno a pranzo andava.
In casa a Gano Filinoro entrava.

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23
     Vide a pie della scala Gan teneva,
come un gigante, un crocifisso Cristo.
Nel girar della scala che faceva,
eccoti innanzi un altro Gesú Cristo.
Nella sala maggior entra, e vedeva
la Via crucis. Per tutto c’è Cristo.
Filinor, ch’è golpon, tosto s’avvede
di qual umor sia Gano e di qual fede.
24
     Si trae il cappello e con la testa bassa
mette un ginocchio a terra e fa la croce;
ad ogni passo si segna e s’abbassa,
borbogliando orazion con umil voce.
Ecco Gan da Pontier che di lá passa:
Filinor non si move piú veloce,
ma torce il collo e si picchia e sospira;
poi, quando gli par tempo, a Gan s’aggira.
25
     E gli fa riverenza, e poi gli ha data
la lettera che a lui lo raccomanda.
Gan lo saluta e, la lettra sbollata,
vide per Filinor ciò che dimanda.
E disse: — Cavalier, vi sia donata
quant’assistenza io posso in questa banda,
e ben la meritate al parer mio,
che mi sembraste col timor di Dio.
26
     Chi in quel s’affida non può dubitare.
La coscienza netta è un gran conforto.
Io passai casi atroci, cose rare,
e mille volte dovevo esser morto.
Alle calunnie ed al perseguitare
io rispondeva sol: — Netto è quest’orto. —
La coscienza netta ed il timore
ch’ebbi sempre di Dio m’han tratto fuore.

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27
     Ma andiamo a pranzo ornai, né vi crediate
queste parole abbia dette in mia lode.
Troppo son peccatore e ho meritate
l’arme di Dio, che tutto vede ed ode. —
Qui andaron al tinel, dove parate
son le vivande, ed altro ch’uova sode!
Pasticci si vedean, marmile piene,
zuppe,- salvatici ne ed ogni bene.
28
     Qui stava Berta dal gran pie, consorte
del conte Gano ne’ secondi voti;
Baldovin figlio, e della nera sorte
due frati grassi, in céra assai devoti,
che facevan crocioni in sulle torte.
Giunto Gano, lettor, convien che noti
ch’ei volle a’ frati levare il mantello,
dicendo che indulgenza era a far quello.
29
     Poi, detto il Benedicite in tuon basso,
cominciasi a mangiare alla papale.
Diceva Gano a Berta a questo passo:
— Avete voi spedite allo spedale
quelle camicie rotte, e broda in chiasso
a’ pover di contrada, che stan male.? —
Ed anche quella carne che putia
— diceva Berta — ho data in cortesia.
30
     Diceano i frati inarcando le ciglia:
— Oh pietá benedetta! — e rastrellavano.
— Sempre sará di Dio questa famiglia
e prosperata sempre; — e trangugiavano.
— Dammi ber — dicea Gano, — e il bicchier piglia
di scopulo che i servi gli recavano:
— Pel di — dicendo — dell’eterne chiostre:
alla salute dell’anime nostre.

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31
     — Viva l’anima nostra — ognun dicea.
— Datemi ber, l’anima nostra viva. —
Sí mangiava e scuffiava e si bevea
con una divozion contemplativa.
Filinor dissoluto i cor leggea,
e s’adattava al caso ed istupiva;
ma gli occhi ha chini e sta si rattenuto,
che piú santo degli altri fu creduto.
32
     Baldovino era un fanciuUaccio rotto,
ma seguiva il costume di soppiatto,
che in casa a Gan bisognava esser dotto
e far le iniquitá chete per patto.
Poco mangiava a desco e stava chiotto,
e va sonniferando tratto tratto.
La notte tutta alle puttane er’ito,
tornato a giorno e poco avea dormito.
33
     Berta, che lo tenea per suo mignone
ed era tenerissima del putto:
— C’hai tu? — dicea — mi fai compassione:
oggi tu mi se’ tristo e spunto e brutto. —
Rispondea l’altro: — Ho un po’ d’indigestione;
stanotte io discorrei pel letto tutto,
smaniai, sudai; se feci un sonnellino,
sempre sognai col defunto Angelino.
34
     E’ mi parca vederlo ogni momento
che seco m’invitasse in paradiso.
— Taci lá, pazzerel; ch’è quel ch’io sento? —
diceva Berta e lo guardava fiso.
Gan soggiungea: — Quand’io sogno un uom spento,
segno è dal mio dover mi son diviso;
se De profundis non gli ho detti, ho il torto
quand’io mi lagno di sognare un morto.

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35
     — Certo — diceano e’ frati, — a sogni tali
i De profundis sono un gran rimedio;
ma rimedi sicuri e principali
sono le messe a levarci d’assedio.
— Lasciam questi discorsi, o commensali
— diceva Gano; — abbiate un po’ di tedio:
per questo forestiere di Guascogna,
a me commesso, consigliar bisogna.
36
     Egli è d’illustre casa e stirpe antica,
giovane e timorato del Signore.
Ebbe la sorte a’ giorni suoi nimica:
chi ben vive sempre ha persecutore.
Venuto è qui per ritrovarla amica,
avere incarco e viver con onore,
raccomandato alla mia debolezza,
che, qual è, sempre a ristorar fu avvezza.
37
     Angelin di Bordea, ch’era custode
del sigillo reale, è al ciel salito.
Chi può aver quell’incarco, molto gode.
Il parlamento de’ porlo a partito.
Io non so con qual arte, inganno o frode,
Angelin di Bellanda è fuor uscito,
s’è dato in nota, non ha concorrenza.
De’ far Filinor nostro esperienza.
38
     Chiedon certe persone i boccon grassi
con una sicumera ed una esordia,
che sembra in barbagrazia a’ capi bassi
debban ire i votanti di concordia.
L’incarco avuto, l’util va ne’ spassi:
mai fanno un’opra di misericordia.
Per coscienza intendo Filinoro
dia concorrenza a questo barbassoro.

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39
     Tenterem, vederemo; a Carlo Mano
vo* ragionare; ho degli amici anch’io.
Possibil che disutile sia Gano!
Voi, Filinor, pregate intanto Iddio. —
Qui Filinor gli baciava la mano.
S’offerser tutti a questo lavorio.
Il pranzo era finito e, detto pria
VAgimtis libi grafia, ognun partia.
40
     Correan ventitré ore o poco meno.
Particolar invito era a Parigi
d’una conversazion famosa appieno,
che dava in casa il marchese Terigi
alla sua sposa dal viso sereno;
e aveva detto a don Gualtier: — Dirigi
tu la faccenda, e fa’ che nulla manchi
perché non mi dileggin questi franchi. —
41
     Io so, lettor, negli antichi poemi
talor goduto avrai qualche rassegna,
e letto: «Il tal passava, e par che tremi
il terren sotto alla schiera, all’insegna;
e il tal monarca da’ paesi estremi
veniva dopo con sua gente degna,
armata di panziere o cuoio cotto
e con mazze ferrate e il g^aco sotto».
42
     Ma s’erano cambiati i paladini,
eran le lor rassegne anche mutate,
se i novelli costumi e i líbriccini
d’altra sorta battaglie avean formate.
L’armature eran vaghi manichini,
brache alle cosce, tirate, attillate,
e d’un taglio mirabil vestimenti,
di velluto a giardino o g^uarnimenti.

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43
     Campi delle battaglie eran ridotti
casin, teatri e botteghe e saloni.
Armi da offesa, danar ne’ borsotti,
carte da giuoco e finti paroloni,
teneri bigliettin, sospir dirotti;
e le cittá da far l’espugnazioni,
i ben de’ troppo schiocchi o troppo arditi,
e le moglier de* poveri mariti.
44
     Erano le rassegne come questa
ch’or dirò, dalle antiche differente.
Giá la ricreazione aveva presta
don Gualtier, mansionario diligente;
posta in ordin di torcie una tempesta,
e ciocche di cristallo risplendente,
non dico del Briati, che non c’era,
ma di Buemmia, cariche di cera.
45
     Tavolin, ghiridoni, tavolieri
e carte e sbaraglin per tutto sono,
sedie co’ lor piumacci ed origlieri
d’oro, ch’ognuna valea quanto un trono.
Piú candelotti con piú candelieri
v’erano che in Assisi pel perdono;
staffieri e cappenere una gran banda:
don Gualtieri è per tutto che comanda.
46
     Terigi era cambiato di vestito,
se il primo fu d’argento, questo è d’oro;
tanta ricchezza ha intorno, è si pulito,
che pareva quel giorno il bucentoro;
e sta sull’ale mezzo sbalordito
cosi grassotto e rosso, e di pel foro,
per ire ad accettare e a far gli onori
sino alla scala a’ suoi visitatori

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47
     Con le man dietro passeggia, e pur chiede
agli staffier, che sono alla vedetta,
se comparir nessuno ancor si vede;
poi ripasseggia come un’anitretta.
S’affaccia a un specchio, spinge innanzi un piede,
e fa un inchin, poi lo raddoppia in fretta,
poi lo riprova infin ch ’è persuaso:
sceglie il miglior per comparire al caso.
48
     Talor la man sinistra al fesso mette
del giubberello, e spinge il quarto in fuori,
perch’era tempestato di stellette
e fiorellin che mandava splendori.
In mille scorci par ch ’e’ si rassette,
tal che rideano insino a’ servitori,
e talor per ischèmo alcun lo chiama,
dicendo: — E’ par che capiti una dama.
49
     Illustrissimo, certo ella vien via. —
Presto Terigi alla scala correa.
Colui diceva: — Ha preso un’altra via.
Perdio! che qui venisse mi parca; —
poi gli facea le fiche dietrovia.
Non dimandar se la ciurma ridea,
perocché fino i servi erano iniqui
allora e riformati dagli antiqui.
50
     I primi alla rassegna erano giunti
certi cagnotti parigin diserti,
ch’aveano in cento vizi i ben consunti;
e van per case, e gli occhi han ben aperti,
per condannar gli addobbi e tutti i punti
dell’apparecchio, e per farsi ben certi
che ci fosse abbondanza di confetti,
di caffè, cioccolato e di sorbetti.

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51
     Il marchese Terigi a que’ fa vezzi,
perché l’ignobiltá cerca aderenze;
far gli faceva di rinfreschi mezzi,
per turar ne’ lor sen le maldicenze.
Ma converrá che alfin si scandalezzi,
o ch’egli abbia duemila pazienze;
che tutte le finezze fien mal spese,
e rideranno a lungo del marchese.
52
     Ecco una dama con belletto e nei,
di settant’anni. Aveva ancora in bocca
sei denti, e d’uno forse errar potrei:
moglier di Sinibaldo dalla Rocca.
Terigi è pronto, e quattro e cinque e sei
e sette riverenze le raccocca;
la dama gli diceva questo solo:
— Marchese, son qui putti col vaiuolo? —
53
     Terigi le rispose: — Non, signora;
ma perché mai mi domandate questo? —
Disse la dama: — Io non l’ho avuto ancora,
ed il pigliarlomi saria molesto,
perocché il meglio alle fattezze isfiora,
oltre che mi potrebbe esser funesto. —
Disse il marchese: — Non, in fede mia. —
La dama co’ serventi passa via.
54
     Un gran rumor venia su per la scala,
un ridacchiar femminile e maschile.
Terigi sta come terzuol sull’ala,
e si diguazza a comparir gentile.
Ecco un drappello giunto nella sala,
di dame e cavalieri, signorile.
La prima, che il saluta alla sfranciosa,
era una dama guercia spiritosa.

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55
     La seconda era piccola e ben fatta;
la terza grande e grossa e gigantesca;
la quarta è bella e sembra alquanto astratta,
ma gli occhi l’appalesano furbesca;
la quinta alcun dirla che fosse matta,
ed era la cagfion di quella tresca,
del sghignazzar che prima si facea,
perché ciò che dicesse non sapea,
56
     e sempre ragionava alla distesa,
non guardando piú al nero che al turchino.
Tal or dir cosa santa aveva intesa,
ch’era un’oscenitá da malandrino.
L’altre ridean quand’ell’era discesa,
buffoneggiando Avolio paladino,
ch’era servente a lei, siccome intendo,
e lo commiseravano ridendo.
57
     Gli altri serventi delle quattro prime,
per fare alle servite cosa grata,
faceano anch’essi un sghignazzar sublime,
Avolio è furbo e accresce la chiassata,
dicendo sol: — De’ gusti non s’estime
buon giudice nessun della brig^ata; —
e baciava la mano alla sua dama,
che nulla s’accorgeva della trama.
58
     Fan con Terigfi alcuni convenevoli,
passando poscia al campo di battaglia,
sempre ridenti, ironici e scherzevoli
con Avolio, il qual nulla si travaglia.
Giunsero poi due dame cagionevoli,
che avean le guance color della paglia;
l’una ha gran naso, e l’altra l’ha schiacciato,
e nondimeno hanno serventi a Iato.
e. Gozzi, La Marfisa bizgarra. 8

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59
     E dicendo al marchese: — Altri che voi,
non ci avrien fatte uscire oggi di casa, —
nel marziale agone andaron poi
l’una col naso e l’altra con la nasa.
Terigi alla risposta era infraddoi,
e alfin chiusa la bocca gli è rimasa,
che non gli era venuto un complimento
da fare a quelle un bel ringraziamento.
60
     Un risolino e un abbassar di testa
per quella volta esser dovè bastante.
Dopo re Salomon si manifesta,
che pareva uno stinco di gigante,
con una dama giovinetta e mesta,
la qual dovea tenerlo per giostrante,
perché lo sposo non vuol per niente,
fuor che il re Salomone, altro servente.
61
     Ughetto di Dordona era il consorte,
del costume novel non ben suaso;
ma perch’egli era pure un uom di corte,
il vecchio e il nuovo temperava al caso.
— S’usa il servente; e bene, abbi la Morte,
disse alla moglie un di, torcendo il naso:
e certo ad ogni passo Salomone
sputa catarro ed anima e polmone.
62
     Un «oh!» s’udi nella sala all’arrivo
di Salomon, che il palagio rimbomba,
perocché a far le scale semivivo
era rimasto, e sfiata con la tromba.
La dama vergognosa il viso schivo
teneva e basso. —Povera colomba! —
dicean le genti burlone. Ella passa,
e non bada al marchese che s’abbassa.

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63
     Berlinghier la seguiva da lontano.
È senza dama il gentil Berlinghieri;
ma si vedea che non l’aveva sano
il core, e si leggeano i suoi pensieri;
che va fiutando un gherofan e’ ha in mano,
mostrando custodirlo volentieri,
tanto che s’apponea piú d’un francese
del giardin di quel fiore e del paese.
64
     Veniva Otton la teina de’ sardi
servendo poscia, ed ella è in gran furore,
e lo sgridava ch’era giunto tardi,
che s’avvedeva ch’ei cambiava core.
— Se per altra — diceva — nel sen ardi,
dillo per tempo, cane, traditore. —
Otton si scusa, ma non istá salda
quella reina di natura calda.
65
     La contessa d’Olanda è dietro a lei.
L’aveva udita e le disse: — Regina,
trattate com’io fo i serventi miei.
Non fate lor mai prego né moina:
se vengon, bene, io gli saluterei;
se no, non darei foco alla fucina,
perocché a mostrar lor zolfo e premura,
e’ se la prendon poi senza misura.
66
     Quel buona lana Ansuigi attendeva:
era alle ventitré l’appuntamento;
scoccaron l’ore e mai non si vedeva.
Questo petroccol m’ha recato il vento,
ed io, senz’altro dir, feci alto leva,
che d’ogni po’ di gruccia io mi contento. —
Aveva la contessa un prete a lato,
che pareva un orsaccio mascherato.

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67
     Fanno i lor convenevol col marchese
le dame, i cavalieri e quell’abate,
del qual si rise, ed era d’un paese
dove soffronsi in pace le risate.
Passarono alle offese e alle difese;
poscia dentro alle camere parate.
Terigi a non veder Marfisa langue.
In questo giungon due dame del sangue.
68
     A veder queste due giugnere unite,
fu nel palagio universal stupore.
Per cagion mille tra nascoste e trite
star doveano disgiunte ed in livore.
Una di quelle delle piú scaltrite
era la schiuma, il puro estratto, il fiore;
l’altra ha un cervello da Dio benedetto,
che per poco scacciava ogni sospetto.
69
     L’astuta è morta, cotta, innamorata
di quella dal buon core nel servente;
ma dovea star la tresca mascherata
per cose ch’io non dico per niente:
donde fingeva far la spasimata.
E l’amica, dell’altra diligente,
lungi da lei dicea che s’abbruciava:
ad ogni passo un bacio le accoccava.
70
     — Dove anderete voi — dicea — dimani?
al passeggilo, al teatro od alla corte?
Se voi andaste fra lupi e fra cani,
quand’io non son con voi, son colle morte.
Poscia volgeva gli occhiolin marrani
al cavaliere e lo saetta forte.
Parca che gli dicesse a questo passo:
— Vedi, per te, cagnaccio, a che m’abbasso!

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71
     La buona rispondea: — Concluderemo;
io vi ringrazio dell’amor cordiale;
come e dove a voi piace, andar potremo. —
Dicendo questo, avean fatte le scale.
Terigi va inarcandosi all’estremo.
Un de’ serventi, altero e liberale,
si gli strinse una guancia con due dita,
che fu il marchese per gridare: — Aita! —
72
     Venne Giulia di Scozia, poetessa,
incolta con un po’ d’affettazione.
Un codazzo di abati avea con essa,
pieni di adulazione e soggezione.
Portava una sua cuffia da dimessa,
guardava ognuno come in astrazione;
ma spicca al march esino un complimento,
che lo fa ammutolir di stordimento.
73
     Claudia, filosofessa di Bretagna,
scrig^uta, nera e magherá venia,
che della moltitudine si lagna
e quel concorso intitola «follia».
— Beata — vien dicendo — la campagna! —
con un gobbo signor che la servia.
Loda la solitudine, arrabbiata,
perché la moltitudin non la guata.
74
     Ermenegilda Galega è venuta,
orrida, nera, sperticata e lunga,
zoppa dal manco pie, sicché saluta
tutti alla parte manca, ov’ella giunga.
Né si de’ creder ch’ella venga muta,
per storpio od orridezza che la punga,
perch’è un’indiavolata di Galizia,
piena di foco, d’arte e di malizia.

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75
     Aveva seco quindici serventi,
tutti gelosi di si bella rosa.
Ermenegilda ride ed alle genti
dice: — Mirate cosa portentosa!
Costor son tutti innamorati spenti
di questa sfinge zoppa e mostruosa. —
Un tal disprezzo franco di se stessa
le faceva d’amanti quella pressa.
76
     Era giunta Ermellina senza gale,
grassetta, allegra, semplice e sincera;
e col marito Aldabella morale,
con l’occhio in guardia, ruvida e severa.
L’antica imperatrice, ancor gioviale,
è quivi giunta ad onorar la sera,
ma in figura privata col danese.
Non dimandar se inchini fa il marchese.
77
     Da Montalban non veniva Clarice,
che Rinaldo le gioie le ha impegnate,
e le andrienne ad una cantatrice
ha date in don, le cufllíe e le cascate.
Per la ricreazion questo si dice
dalle signore afflitte e addolorate;
ma lo diceano tanto allegramente
che dell’angoscia lor parean contente.
78
     Apparve Conegonda borgognona,
per il cambiar de’ serventi famosa,
alta, diritta, di bella persona,
ch’è del buon gusto suo molto orgogliosa.
Quattr’ore prima che suonasse nona,
incominciata ha l’opra portentosa
dell’acconciar del capo e del vestire,
per far le convitate sbigottire.

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79
     Vien col capo crollante ed ondeggiante,
con una guardatura dolce e grave,
e una veste ricchissima e galante,
che nel portarla è delle donne brave.
Astolfo è suo, mastro d’ogni amante,
dottissimo ammiraglio a quella nave,
ed era stato consiglier tre ore
a porle in sul toppe di gemme un fiore.
80
     Parca la patriarchessa delle donne.
Il drappel de’ feriti in fila abbonda,
ch ’è un alfabeto quasi fino al conne,
dopo d’Astolfo dietro a Conegonda.
Non è da dir se quell’altre madonne
fan rigoletti, union, bisbiglio ed onda:
volean partire unite come un fiume,
in sul pretesto del suo mal costume.
81
     Il marchese Terigi è disperato,
spalanca gli occhi tondi e parla e prega.
Astolfo è vin matto assai considerato;
fa il sordo, ghigna e per nulla si piega.
Dodon, che de’ costumi è giá informato,
piglia i mariti e gran ragione allega,
dicendo: — Le consorti abbian giudizio:
non è piú tempo di fuggire il vizio.
82
     Invidia solo è quella che le irrita:
è troppo bella Conegonda e adoma.
Fará dell’altre un comento alla vita:
se fuggon, conto a voi punto non torna.
Conegonda ha eloquenza ed è gradita:
saprá scoprire a voi tante di corna. —
I mariti son pallidi, e tremando
a’ serventi si van raccomandando.

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83
     Furon alfin le furie racchetate.
Turpino questo per miracol nota.
Segiion frattanto a gfiugner le brigate,
come lamprede ch’escon dalla mota.
Terigi ha l’anche e le tempie sudate.
A me g^ra il cervel come una ruota,
che la rassegna è a torme ed a torrenti
di dame, cavalieri e di serventi.
84
     Molte vecchie decrepite lisciate,
che aveano un arzanal di gale e fiori,
le sale di Terigi han profumate
d’un misto di cattivi e buoni odori;
e perché son ricchissime d’entrate,
han per serventi ragazzi signori,
che avean scarse mesate da’ lor padri,
pur hanno gemme ed abiti leggiadri.
85
     La maldicenza sopra a quelle vecchie
e sopra que’ ragazzi corredati
faceva un mormorio come di pecchie,
infamando que’ finti spasimati;
ma la satira giusta nelle orecchie,
in quel secol di franchi illuminati,
faceva quell’eff^etto che farla
lo sputar passeggiando per la via.
86
     V’eran uomini seri alla sembianza,
degl’inglesi affettati imitatori,
che passeggiando duri in ogni stanza,
da filosofi muti osservatori,
studian dir pochi motti e di sostanza,
per comparir profondi pensatori;
ma il miglior de’ lor detti dir potevi
che consista nell’esser pochi e brevi.

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87
     V’erano viaggiatori italiani,
illustri cavalier ne’ lor paesi,
con ricche vesti e anella sulle mani,
derisi assai da’ paladin francesi,
perch’erano, diceano, grossolani,
superstiziosi e non ben atei resi,
che le chiese ed i riti rispettavano
e il venerdí capponi non mangiavano.
88
     Erano giovinastri appena usciti
dalle riforme e da’ licei novelli,
che a’ sensati sembravano storditi
nelle lor controversie e parallelli.
Strillavano argomenti non piú uditi,
con un vero martirio a’ lor cervelli,
impuntigliati a riedificare
il modo di pensare e giudicare.
89
     Perché erano stati stimolati
da’ precettor del novello oriente
a dare un calcio agli scrittori andati,
a scrivere e pensar diversamente,
a scagliarsi nell’aria spiritati,
nuove idee divorando nella mente,
che ingoiando di quelle, ognor sull’ali,
divenian dotti e stelle originali.
90
     Donde quegl’invasati, andando in traccia
d’idee per l’aria e immagini novelle,
sperando nuove idee pigliare a caccia,
prendean farfalle in iscambio di quelle;
e poscia, disputando rossi in faccia
per comparire originali stelle,
credendo argomentare e dir ragioni,
sputavan farfallette e farfalloni.

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91
     Tuttavia sostenean che i) pensar loro
era un astratto di geometria;
che degli antichi dettami il lavoro
erano pregiudizi e scioccheria.
Se si opponeva alcun del concistoro,
si dicevan l’un l’altro: — Andiamo via,
che le nostre scoperte e il nostro ingegno
non han che far colle teste di legno. —
92
     Poi schiamazzando andavan per le sale,
criticando ricamo e acconciature,
e vomitando il lor genio carnale
per le dame piú belle creature.
— Se aver potessi — dicevan — la tale...
— Cara colei... vorrei... — mille sozzure;
ch’era infin lor legittima scienza
leggerezza e brutal concupiscenza.
93
     Cert’inni infami d’uno stile impuro,
che tenean per sublimi e lor diletti,
a Venere, a Priápo, ad Epicuro;
certe lorde canzon, certi sonetti
da far entrare in succhio un tronco, un muro,
recita van que’ dotti giovinetti;
e le spregiudicate in ratto e in gloria
studiavan appararli alla memoria.
94
     Tebaldo, cavaliere di Provenza,
e’ ha per entrata il titol di marchese,
ridotto industre dalla sua indigenza,
serviva dieci dame del paese,
ed era condottiere in diligenza
di tutte per un scudo l’una al mese.
Accordava con esse i punti e l’ore,
per esser puntual con le signore.

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95
     Aveano i punti e l’ore stabiliti
l’un dall’altro uno spazio conveniente,
perché Tebaldo er’uomo de’ puliti,
né trasgredisce al patto di servente.
Giá i suoi dieci viaggi avea finiti,
condotte le servite diligente;
ma, pel correr qua e lá, giú per il mento
gli grondava il sudor sul pavimento.
96
     Buon per lui che gpiravano staffieri
con cioccolata della piú squisita,
e biscottelli rossi, verdi e neri,
da ristorargli l’anima sfinita.
Con lodi sterminate a’ credenzieri,
il buon Tebaldo esercita le dita,
né lascia le saccocce inoperose,
per fare il liberal colle virtuose.
97
     Ardemia, nel buon gusto raffinata,
massime nel dar bella educazione,
una sua figlia avea seco menata
per far stupire la ricreazione.
Quella agli ott’anni appena era arrivata,
ma a sé fa volger tutte le persone,
pere’ ha un vestito di mirabil taglio:
fa risolini e scherzi col ventaglio.
98
     La madre precettori le ha tenuti:
una quondam leggiadra danzatrice;
un mastro di cappella, che la aiuti
a imparar ciò che lice e che non lice,
e a far svenire i maschi sugli acuti
e in sui bemolli a un passaggio felice;
ed un maestro di lingue straniere,
perch’ella fosse un’arca di sapere.

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99
     Fa passi misurati e pettoruta
cinguetta a chi dianzi se le para:
con occhio seduttore ognun saluta,
quella moral seguendo ch’ella impara.
Di ott’anni è civettina divenuta:
si udia suonar per tutto: — Oh cara! oh cara!
onde Ardemia si gonfia e va superba
della sua figliuoletta Frine in erba.
100
     Giunsero dei visetti femminini
tardi, senza serventi né mariti,
benedetti dicendo i libriccini
che i pregiudizi hanno da noi sbanditi.
Eran donne con passi mascolini,
che gli antichi riguardi avean smarriti:
venian sole, ma pacche e riscaldate;
il diavolo sapea dov’eran state.
101
     Eran le stanze tutte quante piene:
piú non sapea Terigi dove attendere:
per gl’inchin riscaldate avea le rene,
e non ha piú ceremonie da spendere.
In gran faccende è don Gualtier dabbene,
che avea le cere tutte fatte accendere;
ed è per tutto, e grida che si smoccoli
e si raccolga il gocciolar de’ moccoli.
102
     Era una bella cosa il cappellano,
in cappel largo ed in veste talare,
che venia, de* staffieri capitano,
le tazze de’ gelati accompagnare;
e va diritto gridando: — Fa’ piano,
che tu potresti il vassoio versare.
S’io non ci fossi, credo che fareste
i gran marroni: oh che teste! oh che teste! —

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103
     Giá le moderne zuffe incominciavano,
i duelli, i terzetti ed i quartetti,
ed ili quinto ancora battaglie appiccavano.
Tristi a que’ che al schermir sono scorretti;
che air «ombre», alle «concine», che fumavano,
a’ «trisette», a’ «quintigli» ed «a’picchetti»,
si canibieran le lor borse in rigagni,
ed averan rabbuffi da’ compagni.
104
     In ogni parte il conflitto bolliva
de’ giuochi delle carte e de’ parlari.
Il drappel che non giuoca intomo giva
a sentir: — Coppe, bastoni e danari. —
Parecchi stan di dietro a qualche diva,
fingendo al giuoco i maestri o i scolari;
ma veramente in primo scopo avieno,
di scoprir qual avesse piú bel seno.
105
     V’era Riccardo, il sir di Normandia,
un nobil divenuto poveretto,
che per venire alla funzione avia
preso a prestanza il giubbetto e il farsetto.
I paladin con poca cortesia
lo trafiggean dell’esser meschinetto,
tanto ch’egli era il bersaglio e il buffone
di tutta quanta la conversazione.
106
     Giovine A vino, acconcio ne’ capelli,
quanto mai riformato paladino,
giá contemplando in uno specchio quelli,
a se stesso facendo l’occhiolino.
Con una mano il mento par s’abbellí:
p)OÌ si volgeva a qualche suo vicino,
dicendo in forma grave e spiritosa,
— Ma! questa è quell’etá pericolosa. —

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107
     Angelin dí Baiona era un cristiano
dal vaiol roso, piccioletto e brutto,
ch’iva girando con l’occhiale in mano,
esaminando femmine per tutto;
e con un modo sprezzante e villano
dicea: — Quella ha il sen vizzo, quella asciutto;
e sono vecchie tutte, al mio giudizio:
potean starsene in casa a dir l’uffizio. —
108
     Parea quell’Angelin turco di razza.
— Quando una donna passa i ventidue
— diceva a’ paladin, — perdio ch ’è pazza
a porre a mostra le fattezze sue;
e dovria ritirarsi dalla piazza,
ch’ella recer mi fa, pel mio Gesue! —
E non si ricordava, quel Baiona,
ch’era vecchiotto ed orrida persona.
109
     Ricciardetto avea seco. Apprezzato era
questo tra le persone spiritose.
Nelle virtú sue molte una n’ha vera;
nessuno in quella a vincerlo si pose:
che bestemmie inventava di maniera,
diceasi, molto acute e graziose;
poiché se Maria Vergin bestemmiava,
col quondam Gioacchin la confermava.
110
     Vedi se il mondo esser poteva giunto
a peggior corruzion di quel che fosse.
Quand’io leggo Turpin, divengo munto:
scorremi un gel nel midollo per l’osse,
a dir che un paladin dal battesmo unto
si le leggi di Cristo avesse scosse,
e bilanciasser gli altri s’era giusto
anche nelle bestemmie il lor buon gusto

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111
     Aveva bestemmiando Ricciardetto
a quel Baiona detto un suo parere,
cioè che, fatto il primo figliuoletto,
erano vizze e mézze le mogliere.
E una dama vantandosi avea detto
in quel: — Mai feci figli — a un tavoliere.
Non dimandar se il rider fuori scocca,
perch’era quella da’ sei denti in bocca.
112
     Marco dal Pian di San Michel, poeta,
era venuto, e all’apparir di quello,
parve che fosse giunta la cometa,
al gridar di parecchi: — Vello, vello. —
Gli sono intorno a fare una dieta
i paladin piú inclinati al bordello,
perocché Marco da quelli è stimato
un uom di mondo ed ispregiudicato.
113
     Certe proposizion piantar con esso
(anche queste eran nuove e virtuose),
mettendo in dubbio ed in ridicol spesso
i gioghi santi delle sacre cose.
Marco con qualche verso avea concesso
ogni sfogo a quell’anime viziose;
donde smuccian le risa, e l’hanno carco
di plausi e intuonan: — Gran Marco! gran Marco!
114
     Anche Matteo, poeta suo nimico,
era comparso ad adular le dame,
per tener quanto puote il mondo amico
al suo teatro comico di strame.
Con grand’inchin va piegando il bellico,
baciando lembi e mani alle madame,
e goffamente si studia e procura
pingersi un uom di gran letteratura.

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115
     Far non avea potuto la raccolta,
come dicemmo, e tanto avea seccato
il marchese, che alfin pur fece còlta,
ed una serenata avea formato,
che, per farla cantare, aveva tolta
Terig^ quella sera a buon mercato:
donde a Marco Matteo par esser sopra.
Marco era quivi a criticar quell’opra.
116
     La contessa d’Olanda avea veduto
giunger quell’Ansuigi negligente;
e benché prima ella avea mantenuto
che non si de’ badar nulla al servente,
l’ha salutato con si gran saluto
e con occhio e con viso si rovente,
ch ’ognun s’avvide non avea semenza
della sua millantata indifferenza.
117
     Dodone dalla mazza, detto «il santo»,
era venuto, e guardava ogni cosa
stando a un tavolier solo da un canto,
facendo vista di fiutar la rosa.
Talor da sé si divertiva alquanto
con un mazzo di carte che qui posa.
Scartava, e allor che un undeci è apparito,
l’univa, fin che il mazzo era finito.
118
     Alcuni abati ed alcuni giuristi
facean presso a lui disputazione
sopra a’ beni di Chiesa e agli acquisti
che lascia a’ frati chi in morte dispone;
perocché a tutti i chierici e a’ casisti
ed a chi víve di contemplazione
aveva il parlamento ordine dato
di vendere ogni bene ereditato.

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119
     Parean gli abati tanti satanassi
a sostener che ciò non si potea,
e trovan testi, annotazioni e passi
della legge cristiana e dell’ebrea,
che tai decreti annullano e fan cassi.
— Il ben di Chiesa — ogni abate dicea
è di iure divin, né può il mortale
abolire una legge celestiale. —
120
     Avean fatto a Dodon tanto di testa;
sicché alla fine, a que’ giuristi vòlto,
disse: — Voi siete gente poco onesta.
Cotesti abati, per quanto ho raccolto,
hanno ragion patente, manifesta,
ed han nel mezzo al vero punto còlto:
son di iure divino i beni e’ hanno;
ve lo dice il buon uso che ne fanno.
121
     I refettori, le taverne, i chiassi
fanno testimonianze chiare e piane.
Le mense de’ cattolici papassi,
e certe mantenute pie cristiane
dicon qual uso saggio ed udí fassi
da’ collar, da’ cappucci, dalle lane,
de’ ben che sono di iure divino,
per quanto scrisse il padre Magnolino.
122
     Fu dalle risa tronca la questione.
Quegli abad Dodon miraron guercio,
e si partiron con dimostrazione
di non voler con atei commercio.
Bolle in un canto la conversazione
intorno al far rifiorire il commercio
ed al rinvigorir agricolture,
cogli esempi del Congo e le misure.

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123
     Le cose tutte andavano a pennello
per l’attenzion del prete don Gualtieri,
che in veste lunga e col suo gran cappello
provvede agli orinali e a’ candelieri.
Finito avea di perdere il cervello
quasi Terigi e par che si disperi;
ch’ogni vecchia, ogni storpia in sala arriva,
né sa se la Marfisa è morta o viva.
124
     Ognun assalta, a ognun òhiede, ognun secca,
e vuol per forza che l’abbia veduta.
Talor borbotta e batte l’anche, e pecca
nel pensare al perché non sia venuta.
Lacchè spedisce, e rintuzza, e rimbecca
ch’ogni risposta è tarda e oscura suta,
perché Rugger come un matto ha risposto:
— Ella verrá, se Dio l’avrá disposto. —
125
     Non è da dir se Terigi s’affanna.
Con don Gualtier si chiudeva a consiglio.
— Che di’ tu, prete? — dicea sulla scranna.
Risponde il prete: — Assai mi maraviglio.
O ella vuol tenervi per la canna;
vi sarete scoperto un gran coniglio:
o qualche sgarbo usato le averete,
perché talor molto ci vii non siete. —
126
     Disse Terigi: — Gualtier, no, perdio,
sempre dell’* illustrissima» le ho dato,
e sono stato attento. Gesú mio,
voi sapete in qual modo ho pur trattato! —
E cominciava di lagrime un rio,
e a fare un ceffo molto difformato.
Don Gualtier lo consola e lo conforta,
dicendo: — Ella fia forse in sulla porta.

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127
     Usciam di qua, tenete sodo il viso,
perocché noi farem la scena grande;
statevi ritto, talor fate un riso,
fingete il dilleggino alle dimande. —
Piacque al marchese del prete l’avviso:
rasciuga il pianto da tutte le bande;
ma gli occhi tondi aveva tanto rossi
e gonfi che parevano percossi,
128
     tanto che ognun s’avvedeva del fatto.
Il discorso è per tutto universale:
che Marfisa non giunga è stupefatto
ciascuno, e si sentiva: — Oh male! oh male! —
Non era l’accidente però stratto
quanto diceasi e fuor del naturale.
Ma sufficiente, anzi opportuno assai,
per terminar un canto io lo trovai.



fine del canto quinto