La Marfisa bizzarra/Canto IV

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Canto IV

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Canto III Canto V
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CANTO QUARTO.


ARGOMENTO.


     Del sigillo real morto è il custode;
nascon baruffe per la sepoltura.
Pel maritaggio di Marfisa s’ode
grand’apparecchio, e don Gualtieri ha cura.
La bizzarra la visita si gode
del sposo, ch’è una gran caricatura.
Le spose alla Ruet van mascherate;
una comparsa l’ha disordinate.


1
     Tanto il pensar de’ paladin corrotto
era, per quanto leggo e al parer mio,
che a gravi colpi di sopra e di sotto,
fulmin, tremuoto o sirail lavorio,
e alle morti improvvise, sette ed otto,
che per avviso lor mandava Dio,
non istupiano o troncavan niente
i lor vizi e lo stare allegramente.
2
     I fulmini, i tremuoti e la tempesta
dicevano esser cosa naturale:
venti bestemmie ed un crollar di testa
era sollievo a chi veniva il male.
Scherzando in una forma disonesta,
rideano e si diceano alla bestiale:
— Io salmeggiai, arsi ulivo e candele,
e la tempesta venne piú crudele. —

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3
     Cadeva uno, apoplettico d’un colpo:
diceano: — Questo succeder dovea:
egli avea membra strane come il polpo;
tal macchina sussister non potea. —
Alcun diceva: — Io veramente incolpo
la vita solitaria che tenea.
Per viver molto e godere e star bene,
perdio! passarla come noi conviene. —
4
     A’ sacerdoti che dicean da vero:
— Segni son dell’etema providenza, —
dicean col viso ironico e severo:
— Dice pur ben la Vostra Riverenza! —
Le femminette con umil pensiero,
e i dozzinali mostravan credenza;
ma tuttavia la carne ed il rubare
né men per questo si vedea lasciare.
5
     Ma ciò che piú di tutto fa stupire
è che i ragionamenti piú divoti
e piú morali e santi in sul garrire,
gli accigliamenti a tempeste e tremuoti,
il chiamar quelli «giuste celesti ire»,
il far digiuni, il far proteste e voti,
e l’annodar dell’una all’altra mano,
fossero azion del traditor di Gano.
6
     Non so se i nostri tempi sien diversi;
se non lo sono, Dio voglia che siéno.
Prima da’ paladin solea volersi
per un buon segno sin l’arcobaleno,
e per castigo soleva tenersi
la troppa pioggia ed il troppo sereno,
e sin l’aere che il fummo sparpagliava.
Nessun de’ paladin cosí pensava.

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7
     Del secol nostro io non dovrei dir male,
perché so ben che si crede e si tiene
per maldicenza sino alla morale,
e non è piú moderna e non conviene.
Il paladin, che aveva messe l’ale
all’improvviso, ascoltator dabbene,
nella bottega, come si dicea,
direm ch’egli era Angelin di Bordea,
8
     custode in corte del regio sigillo.
Una carica grande e di gran frutto:
ventimila ducati, posso dillo,
ella rendeva con gl’incerti e tutto.
Alla sua morte ci fu il coccodrillo,
che non tenne sull’ossa il ciglio asciutto,
perché l’incarco assai gli era invidiato
da chi tenea su quel l’occhio tirato.
9
     Era Angelin d’una statura grande,
e grosso e molto greve nella pancia,
magno conoscitor delle vivande,
che le gustava sudando la guancia,
e in tavola voleva altro che ghiande;
anzi dicea tutta quanta la Francia,
parlando di chi fa mensa piú buona:
— Angelin di Bordea porta corona. —
10
     I liquori, la pippa e i buon bocconi
erano i principali suoi riflessi,
né si curava di vestiti buoni,
che gli avea fuor di moda ed unti e fessi.
Le sue camicie parevan carboni,
che le cambiava, come i votacessi,
tre volte l’anno, e il di che si cambiava
molto quella fatica biasimava.

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11
     Era Angelin di Bordea generoso
e non aveva al risparmio pensiere,
del mal compassionevole, amoroso
verso a’ pitocchi ed elemosiniere.
In capo all’anno era pur timoroso
rimanesse un ducato nel forziere:
tutta l’entrata dell’anno volea
che fosse spesa, e mangiava e godea.
12
     Don Martin, don Ubaldo e don Simone,
preti assai dilettanti de’ buon piatti,
eran sue fedelissime persone,
giornalier commensali allegri ed atti,
autor di salse per digestione,
nemici nel pulir l’ossa de’ gatti.
Con accidenti e nuove del paese
pagano ad Angelin le grosse spese.
13
     Bevendo alla bottega il cioccolato
nella contrada di San Pietro, un giorno
apoplettico cadde, e scilinguato
rimase tosto e mai fece ritorno,
I chirurghi e i dottor coli ’ammalato
lor salassi ed emetici provorno:
Angelin di Bordea si stese morto,
e cosí diede a que’ dottori il torto.
14
     Molti discorsi fece la plebaglia,
se fosse salvo o dannato Angelino,
Ognuno si riscalda e si travaglia
a trovar prò e contro il bruscolino,
com’anche a’ nostri di fa la canaglia
quand’uno è morto in caso repentino.
Don Simon, don Martino e don Ubaldo
volean che fosse in cielo allegro e baldo.

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15
     Angelin di contrada è di San Favolo,
ed era morto in quella di San Pietro:
venne a levarlo il piovan di San Favolo;
voleva il morto il piovan di San Fietro.
Diceva il primo: — Egli abita a San Favolo; —
l’altro diceva: — Egli è morto a San Fietro; —
donde si fece gran disputazione
tra i due piovani in mezzo alle persone.
16
     Foich’ebbon con flemmatiche parole
cercato l’uno l’altro persuadere,
dicendo: — Non si deve e non si puole
i successor pregiudicar, messere; —
si riscaldaron, come far si suole,
gridando: — Io non vo’ perder le mie cere; —
né piú si contendeva pel defunto,
ma son le torce del contrasto il punto.
17
     E finalmente ingiurie s’hanno dette;
l’uno dell’altro gran cose rivela,
e de’ peccati quattro, cinque e sette,
che prima ricopria non so qual tela;
poi tutti accesi vennono alle strette,
e si detton sul ceffo la candela.
Le processioni delle due contrade
diér mano a’ torchi, non avendo spade.
18
     E vidonsi in un punto aste e doppieri
arrestati e frugoni e aperta gfuerra,
zazzere abbrustolite e visi neri,
berrette a croce e moccoli per terra;
né si sentieno cantar misereri,
ma bestemmie e un gp-idar: — Sospingi, afferra —
da gole strette, con voci interrotte;
e furon lacerate molte cotte.
e. Gozzi, La Mar/Ua átMtarra. 6

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19
     Que’ gaglioffacci che raccolgon cera
eran nel mezzo ad accrescer baruffa.
Ognun dá d’urto ed aizza la schiera,
ed i pezzuoli di candela ciuffa.
Color che avean la cappa indosso nera
e il copertoio sul grugno, ognuno sbuffa,
e tira gli occhi pe’ buchi del sacco,
crosciando l’aste e facendo gran fiacco.
20
     Era corso a veder tutto il paese;
nessun mettea del suo fuor che la voce.
Dio benedetto ha mandato il danese,
e beccò sopra il capo d’una croce;
ma, conosciuto alquanto, si sospese
al suo gridar la battaglia feroce,
e tanto fece che tutti chetava:
poscia co’ due piovani ragionava.
21
     E disse cose lor da buon cristiano,
quantunque fosse un turco battezzato;
ed or all’uno ora all’altro piovano
con rimproveri acerbi s’è voltato.
— Questo è — dicea — da voi quel che ascoltiamo,
che ognun debb’esser disinteressato,
se poi vi bastonate fra la gente
per quattro moccol di candele spente?
22
     Or oltre; io vo’ che questa cosa sia
dimenticata e piú non se ne parli,
preti avaron, che i scandol per la via
al popol date invece di troncarli,
cosi facendo rider l’eresia. —
E tanto seppe il danese attutarli
che ognun la sua pretesa in lui rimise,
ed ei la lite de’ moccol decise.

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23
     Disse che fosse Angelin seppellito
nella contrada dov’egli era morto,
e il piovan di San Favolo, apparito
per la magion, non abbia in tutto il torto.
Volle che fosse l’util ripartito
del funeral. Cosi ridusse in porto
quella battaglia, e a’ casi in avvenire
questo fu legge circa al seppellire.
24
     Vero è che alcun piovano litigante
parecchie volte volle disputare
le circostanze, sequestrando inante,
perch’abbia il morto in diposito a stare;
e potrei dir piú d’un fatto galante,
ma non vorrei fuor de’ miei solchi andare;
e forse uscito son dal mio viaggio,
narrando questo fatto di passaggio.
25
     Dall’altra parte par non istia male
s’egli fu a’ tempi del re Carlo Magno,
perché veggiate sin nel funerale
s’usava piú che la pietá il guadagno.
Il dir ch’è morto Angelino, assai vale;
d’aver questo narrato non mi lagno,
perché vacante rimase il suo posto,
per il qual molte cose verran tosto.
26
     Or si de’ dir che la scrittura fatta
tra la pudica Marfisa e Terigi
fu gran cagion d’una ciarlata matta
nelle case e botteghe di Parigi.
Molti stan con la faccia stupefatta,
tutti cercan le cause ed i vestigi;
sembra che a ognun quella faccenda tocchi,
tante dispute fan, tirando gli occhi.

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27
     Molti dicevan gonfiando le gote:
— Che avvilimento è questo di Ruggero! —
Rispondean altri: — E’ la dá senza dote;
par ch’egli abbia giudizio, a dire il vero.
So dir Terigi accomandar si puote
a san Francesco, a san Gianni, a san Piero,
che a pettinare e’ si toglie una lana
da far che sudi e scoppi di magrana. —
28
     Altri in capo tre giorni, piú o meno,
predicono divorzi o scioglimento.
Nessuno c’è che voglia stare a freno:
fanno argomenti per mostrar talento.
Solo Dodon, tenendo il mento in seno,
guarda sottecchi or l’uno or l’altro attento,
e sogghignava spesso e si stupiva
dell’eterno ciarlar che lo stordiva.
29
     E alla bottega del caffè dov’era,
ad uno che faceva gran contrasto
e volea pur sapere in qual maniera
l’intendesse, Dodon, ch’era omai guasto,
rispose alfin: — Non presi mai mogliera,
prima perché non mi piacque un tal pasto,
ma sopra tutto per non dar cagione
di tanto affanno alle vostre persone.
30
     Marfísa prende Terigi in consorte,
Terigi n’è contento e la vuol prendere.
Io vi rispondo, andando per le corte,
che son contento anch’io, né vo’ contendere.
Né intendo disputar della lor sorte,
perché l’astrologia non soglio vendere.
Se buona fia, godrò di lor quiete;
se trista, a pianger non mi vederete.

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31
     Sol mi rincresce questo maritaggio,
perch’è cagion che voi stracco m’avete. —
Cosi detto, Dodon fece viaggio
con riverenze tonde assai facete.
Quegli oziosi cambiaron linguaggio
sopra Dodon con parole indiscrete.
Chi disse: — E’ pensa ben, — chi: — Pensa male, —
e si rimason tuttavia cicale.
32
     La voce sparsa di quell’imeneo
mise a Parigi in gran briga gli artieri.
Corron tutti in secreto al prete reo,
cappellan di Terigi, don Gualtieri:
ser Rocco dipintore, ser Maffeo
legnaiuol, venti o trenta tappezzieri,
fabbri, mereiai, stuccatori, una folta.
Dòn Gualtieri, o don Volpe, ognuno ascolta.
33
     Perocché, avendo avuto da Ruggero
cento zecchini di nascosto in dono
per il maneggio, faceva pensiero
anche munger ciascun senza perdono.
E perché tutti nel loro mestiero
van profferendo al prete un util buono
se gli faceva aver l’opra in lor capo,
Gualtier sta ritto come il dio Priápo.
34
     E udite da ciascun l’esibizioni,
fece aver l’opre al miglior offerente,
e foi faceva le disposizioni,
perché Terigi il fé’soprintendente.
Polizze fa ripiene d’invenzioni:
mai non si vide prete piú saccente.
Terigi, forse per troppa allegrezza,
a questa volta ha dato in leggerezza.

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35
     E perch’era in quel secolo un’usanza,
al maritar delle persone altere,
il far di versi una grand ’abbondanza,
parte alla dama e parte al cavaliere;
anzi era questo di tanta importanza
quel di quant’era il mangiare ed il bere,
che questo libro gli sposi ordinavano
e i stampatori a gran costo pagavano;
36
     ed avveniva che il raccoglitore,
il qual faceva la dedicatoria,
n’avea dalla signora o dal signore,
pel generoso core o per la boria,
qualche regalo che faceva onore,
ma talor questo uscia dalla memoria;
pur nondimeno parecchi ogni volta
per commession cercavan la raccolta;
37
     Marco e Matteo dal Pian di San Michele,
ch’eran torrenti della poesia,
a don Gualtieri accendevan candele
perché Terigi a un d’essi l’ordin dia.
A Matteo don Gualtier non fu fedele,
e con il patto che divisa sia
la mancia tra Gualtieri e il vate Marco,
a questo fece rimaner l’incarco.
38
     Allora Marco per tutto il paese
iscreditava Matteo poveretto,
dicendo: — E’ non è buon per queste imprese;
altro non sa che por scene in guazzetto. —
Matteo, quando il ciarlar di Marco intese,
g^va dicendo: — Io fui bene costretto
a far quella raccolta e rinunziai,
che non procuro queste brighe mai. —

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39
     Gran dispute hanno fatto i partigiani
di Marco e di Matteo per questo caso.
Sostenevan parecchi, come cani:
— Matteo non fu d’accettar persuaso. —
Altri giuravan, picchiando le mani,
che rifiutato al certo era rimaso.
Que’ di Matteo di nuovo fanno fronte,
e g^dan saper tutto da buon fonte.
40
     E se non fosse che Turpino scrisse
di questo fatto il vero dell’arcano,
ancora ci sarebbon delle risse
a* nostri tempi fra qualche cristiano.
Frattanto il Gratta, un stampator che visse
quando viveva il nostro Carlo Mano,
un uomo coraggioso e intraprendente,
è corso a don Gualtieri prestamente.
41
     E gli promise venti e piú zecchini, ’
se la raccolta stampargli facea.
Ornati, foglie, uccelletti e bambini,
e rami assai puliti promettea,
da far maravigliar i paladini.
— Io ho nuovi caratteri — dicea —
e carta fine, ed incisioni albergo,
e so inventar geroglifici in gergo.
42
     Io non voglio giá far nessun guadagno
— diceva il Gratta — e sol fo per l’onore. —
Non era il prete men di lui mascagno,
e rispondea: — Conosco il vostro core;
però mi troverete buon compagno. —
Ma io non voglio dir tutto al lettore,
né intomo ciò la trama fra lor fatta;
basta che la raccolta impresse il Gratta.

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43
     Rugger per il costume del paese
qualche libretto anch’ei doveva fare.
Dodone il santo, figliuol del danese,
gli aveva detto: — Non farneticare,
che un libriccin vo’ farti alle mie spese
da far Marco e Matteo divincolare. —
Ruggero ride e dice: — Essi hanno fame:
lasciagli star, vuoi tu che mangin strame? —
44
     Dicea Dodon: — Non posso in coscienza,
che van guastando tutte le persone
con le lor stampe di mala influenza
e d’un costume contro la ragione.
Non vedi tu la lor trista semenza
omai salita in tal riputazione,
che sino ne’ collegi i frati pazzi
lascian che sia lo studio de’ ragazzi?
45
     E imparano da quella uno stil grosso,
o veramente uno stil da bombarda,
metaforacce e qualche paradosso,
o versi goffi e frasi alla lombarda.
E dalle Madri tradite dir posso
ch’apprendano i fanciul, se ben si guarda,
a maledire i morti e i testamenti,
a beffeggiar le madri ed i parenti.
46
     E contro il padre a por mano alla spada,
corrergli addosso per farlo morire;
a ingannar, a tradir qual sia la strada,
imparano i fanciul, se il ver vuoi dire.
Forse la scuoia lasciva t’aggrada
e la lussuria, i lazzi ed il languire
ás^V Impressario turco dalla Smirne,
e d’altri cento che non vo’ piú dime?

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47
     Vannoti a sangue quelle principesse
che sono incinte pria che sieno spose,
e si maí-itan poi per interesse
co’ duchi che non san di queste cose?
poi vanno a partorir Filosofesse
a Roma, e fan le faccende nascose,
acciò il marito non veda la prole,
e si battezzi un tristo, s’ei si duole?
48
     Ti piaceran le donzelle d’onore
di quelle principesse della corte,
non mica vaghe del far all’amore,
ma ingravidate senz’aver consorte?
Mille garbugli infami di scrittore,
che tutto guarda colle luci torte,
e ad ogni mal facilita la via,
dicendo: — Insegno la filosofia. —
49
     Le filosofe sue bello è vedere
colme di passioni e debolezze,
tradir le dame i duchi, e per dovere
far le ruffiane ed altre gentilezze,
e far le spie di dietro le portiere
co’ birri a lato, acciò si raccapezze
un che fu ladro un tempo, e in tal maniera
dire: — Egli è quello, — e mandarlo in galera.
50
     Le prefazion di questi autor moderni
(non so, Rugger, s’hai fatto ben l’esame)
appellano «istruttivi» i lor quaderni,
«filosofici» e «vaghi per le dame».
Io so che ci faran de’ begli schemi
le suore nostre che di questi han fame.
Dico che provan lor dottrine strane
filosofe e duchesse le puttane. —

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51
     Dicea Ruggero a Dodon: — Tu di’ bene,
ma pochi la ragione ti daranno.
Al popol piacion lor romanzi e scene;
se fossi in te, non vorrei quest’affanno,
perché t’acquisti un odio sulle schiene,
e un giorno o l’altro ti lapideranno.
Non si vuol sempre la ragion difendere:
oh, gli è la bella cosa il mondo intendere!
52
     — È bella cosa, è ver — dicea Dodone, —
ma quando intendi il mondo vada male,
so che il tacere è cosa da poltrone,
e de’ corregger l’uom per quanto vale.
So ch’oggi una bagascia è la ragione,
che l’avete mandata all’ospedale
per soggezione, e con rispetti umani
e finte indifferenze e baciamani.
53
     Ma piú di tutti dá cattivo esempio,
a lasciar correr certe commedie
e certi romanzacci e il compor empio,
Carloman, presso al novissimo die,
che con la bocca aperta, vecchio e scempio,
ascolta, come fosser litanie;
anzi le cose piú nefande apprezza,
e poi travolge gli occhi di dolcezza.
54
     In quanto a me, qual mansueto agnello,
me ne vo come Isacche al sacrifizio,
ed all’aperta predico e favello
contro gli scritti, il mal costume e il vizio;
e dove prende granchi il mio cervello,
usin di correttor gli altri l’uffízio.
Con prove sane facciano schiamazzo,
non giá con la ragion del popolazzo.

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55
     Né stien dicendo che l’invidia è quella
che m’arde contro la lor preminenza.
Io non so d’invidiar Pulicinella,
perch’oggi giorno ha si magna udienza. —
Cosi Dodon per ischerzi favella,
e finalmente ha data la sentenza
di voler far il libretto a sue spese.
Rugger lo ringraziò, ch’era cortese.
56
     Terigi intanto s’era apparecchiato
a fare una sua visita alla sposa,
e un vestito s’è messo ricamato
d’oro, che mai si die’ piú bella cosa.
Avea le fibbie che valeano un Stato,
e manichin d’un’opera famosa,
un cappel fine col pennacchio bianco,
ed una spada gioiellata al fianco.
57
     Ma potea ben studiar l’attillatura
e porsi indosso ogni cosa pulita:
egli era un uomo gprosso oltre misura,
ed alto sette palmi piú due dita;
sicch’era sempre una caricatura.
La faccia aveva larga e sbalordita,
gli occhi incantati e tondi, e un riso in bocca
continuato ad ogni cosa sciocca.
58
     Goffo al pensare e al ragionare, e spesso
non intendeva ciò che gli era detto,
e richiedeva quel che aveva appresso,
dicendo: — Avete inteso voi quel detto? —
Quell’altro si togliea spasso con esso,
e gli diceva all’opposto in effetto,
donde Terigi dava una risposta
da far scoppiar dalle risa ogni costa.

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59
     Tratto fuor da’ raggiri del negozio
delle gabelle, dov’era molto atto,
che non guardava al nimico o al sozio,
quando faceva qualche suo contratto;
del resto e’ si potea lasciare in ozio
o con le genti dozzinali affatto.
Or con bel scorcio e con sue sciocche risa
se n’era andato a visitar Marfisa.
60
     E le disse: — Illustrissima signora,
lei s’è degnata di mia povertá de.
Sappia ch’io l’amo e che non veggo l’ora
d’esser marito della sua beltade. —
Un sterminato rubin trasse fuora,
dicendo: — Questo è della sua boutade,
e vorrei che valesse mille mondi. —
Poscia le pianta in viso gli occhi tondi.
61
     E con un certo risolin scipito
stava attendendo un bel ringraziamento,
dando qualche occhiatella al suo vestito
e diguazzando i manichini al vento.
Marfisa conosceva quel marito
da molto tempo, i modi e il pensamento;
e perch’ella era bizzarra e cortese,
in questa forma rispose al marchese:
62
     — Io vi ringrazio, e sposo mi sarete.
Che si de’ far? maritarsi conviene.
Frattanto, o caro, vi contenterete
ch’io rida un po’, che da rider mi viene,
r so che a male non lo prenderete. —
E cominciava a rider molto bene;
e pur lo guarda, e ride, ride, e il guarda.
Terigfi ride anch’esso a quella giarda.

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63
     Perocché gli sembrava gran fortuna
la sposa sua si allegra lo accettasse.
Era Marfisa allor di buona luna:
disse al marchese che s’accomodasse,
e tra le sedie gliene additav’una
ch ’è la piú bassa tra le sedie basse.
Terigi, dopo un nuovo e strano inchino,
s’assise in quella, e pareva un bambino.
64
     Non dimandar se ride la fanciulla.
— Volete voi parlar di cose dotte
— gli va dicendo — o di pappa o di culla,
del tempo buono o di piogge dirotte?
Avete voi necessitá di nulla?
avete ben dormito questa notte?
Marchese, è tutto vostro questo core:
volete voi che ragioniam d’amore? —
65
     Terigi ad ogni cosa rispondea:
— Grazie alla Vostra Signoria illustríssima; —
ed abbassava il capo e ripetea:
— Tutto quel ch’è in piacer vostro, illustrissima. —
A qualunque parola che dicea
Marfisa, ei non lasciava r«illustrissima».
Le serve erano uscite dalla stanza,
che non istan piú salde a quella danza.
66
     E sghignazzavan dietro le portiere,
quando sentieno «illustrissima» a dire.
Marfisa ne traeva un gran piacere,
né lascia molti patti a stabilire,
dicendo: — Voi giá siete cavaliere,
che delle usanze non voria stupire
o de’ serventi o del star fuor di notte,
perocch’io non son nata nelle grotte.

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67
     Io vorrò correr le poste talora
con chi mi piace, e voi non ci sarete.
Qualche viaggio lungo farò ancora,
e quando tornerò mi vederete.
Ragioniam netto adesso per allora,
ch’io non soffro ingrognati e vo’ quiete.
Un cavaliere, quando la sposa ama,
non si scorda giammai ch’è nata dama.
68
     Parean aspri a Terigi questi detti,
ma dall’amore egli era sbalordito,
e tanagliato da mille rispetti.
Abbassa il capo col riso scipito,
col collo torto e co’ denti ristretti:
sol rispondea: — Vi sarò buon marito:
ogni cosa andrá bene, e fia bellissima,
quand’ella fia piacer vostro, illustrissima.
69
     Sappi, lettor, che Terigi al lasciarla
senti strapparsi il cor dalla corata.
Impossibil gli par di meritarla.
Con inchin parte, e sospira e la guata.
A casa giunto, manda a regalarla
di drappi da Lion per la vernata
e per la state e per ogni stagione,
velluti, merli e pelli, un milione.
70
     Molt’altre dame eran spose a Parigi,
e molte n’eran sposate di fresco
al tempo di Marfisa e di Terigi,
scrivon le storie, dalle quai non esco.
I paladini dietro a’ lor vestigi,
e tutto quanto il popolo francesco
andava a contemplarle mascherate,
ch’ivano in piazza a far le passeggiate.

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71
     Nota, lettor, se Dio ti faccia sano,
come le usanze fanno i cambiamenti.
Ogg^ a Parigi terrien mal cristiano,
uno che andasse in maschera, le genti:
eppure al tempo del re Carlo Mano
per irvi eran rabbiosi, impazienti
tutti, e talvolta fino in qualche chiesa
maschere si vedien senza contesa.
72
     Un di di carnoval era, e la pressa
de’ cavalieri e paladini è grande,
per gir nella Ruet dopo la messa,
ch ’è una via in piazza, chiusa dalle bande
da’ sedili di paglia, ov’è il sol messa.
Qui facean le sentenze memorande,
al passar delle spose, dell’imbusto;
de’ drappi, delle anella e del buon gusto.
73
     Non si può dir quanta fosse la cura
nella Ruette a veder le comparse.
La piazza è spaziosa oltremisura,
ma ognun fra que’ sedili vuol ficcarse.
S’uno era spinto fuor della fissura,
sforza la calca, perch’ivi vuol starse.
Se inavvedutamente uno uscia fuore,
gridava: — Oh ve’, son fuor? — con gran stupore.
74
     Spesso s’udia gridare: — Omè, il mio callo
un m’ha piggiato, o Dio, veggo le stelle. —
Un altro dire: — Olá, sei tu un cavallo?
M’hai dato d’urto e rotte le mascelle. —
Un altro: — E’ mi fu tolto senza fallo;
non ho piú l’ori vuol nelle scarselle. —
E min ’altre sventure e casi avversi,
ma tutti alla Ruet dovean tenersi.

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75
     All’apparir di qualche sposa nuova,
come al zimbel si calan gli uccellini,
un torrente di popolo, una piova •
correva, ed eran capi i paladini.
Ad un l’abito piace, un non l’approva,
o il guernimento o il merlo o gli ermellini.
Sul color non moderno molti l’hanno;
grand ’argomenti e gran dispute fanno.
76
     Avino, Avolio, Ottone e Berlinghieri
eran gfiudicator di prima istanza;
gli appelli de* perdenti cavalieri
Astolfo decideva per usanza;
e conveniva ceder volentieri,
che l’opporsi ad Astolfo era increanza.
Di color, di buon gusti e guernizioni,
fu il duca delle buone opinioni.
77
     A tutte l’altre spose nel vestire
quel di Marfisa diede scaccorocco;
e il portar della maschera e il gestire,
tutto diceva ai cor: — Guarda, ch’io scocco.
Si rise sol, veggendo comparire
Terigi che pareva un anitrocco;
e benché avesse addosso un gran tesoro,
non sapeva portarlo con decoro.
78
     Mentre per la Ruet scorre il torrente,
è capitato un cocchio sulla piazza,
ch’avea dentro un garzon molto avvenente:
del resto non si dá cosa piú pazza.
Un cavai magro, adagio, sonnolente
tira da un lato e si ferma e scacazza;
dall’altra parte il tiratoio tirava
uno staffiere, e sudava ed ansava.

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79
     Sozzopra è la Ruet. Tutte le genti
corrono a contemplar si nuova cosa.
I paladin, le dame ed i serventi
alla carrozza van maravigliosa,
la qual nel mezzo a tanti occhi veggenti
alla magion di Gano fece posa,
ed iscese da quella il cavaliere,
di cui per ora il nome vo’ tacere.



fine del canto quarto