La Marfisa bizzarra/Canto III

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Canto III

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Canto II Canto IV
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CANTO TERZO.


ARGOMENTO.


     Segue il viaggio Filinoro e prova
accidenti moderni per la via.
Soffre sventure, ciarla e ciò che giova
adopra, che non vuol malinconia.
A Terigi con arte afiatto nuova
promessa sposa è la bizzarra mia;
Gualtieri e Guottibuossi, cappellani,
a questo matrimonio son mezzani.


1
     Si dice: — Il mondo fu sempre il medesimo.
Io non mi voglio opporre a quel ch’è vero;
credo però questo nostro millesimo
assai peggior del tempo di san Piero,
se ragioniamo quanto al cristianesimo
e non prendiamo il mondo per l’intero.
A grado a grado è andato peggiorando.
Io dissi: — Credo: — a voi mi raccomando.
2
     Certo è ch’io sento ad og^i passo dire:
— Piú non si può durare in questo mondo, —
e de’ vecchioni saggi riferire:
— Non era a’ tempi nostri tanto immondo. —
Se all’etá di Marfisa p>oté g^re
la fede e il buon costume tanto al fondo,
che visse ottocent’anni dop>o Cristo,
pensiam quant’ogg^ egli debb’esser tristo.

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3
     E se cagion fúr l’ozio e gii scrittori
del peggiorar de’ costumi d’allora,
pensando a’ libri ch’oggi escono fuori
e alla scioperatezza che s’adora,
sento che freddi m’escono i sudori
per il dolor che il sangue mi divora,
e dico: — O terque e quaterque beati —
a que’ che prima d’or son trapassati.
4
     Quantunque io sia peccatorello indegno,
peggior d’ogni altro e pieno di magagna,
non mi stancherò mai d’usar l’ingegno
per discoprir l’interno alla castagna;
e vi porrò sotto agli occhi in disegno
i Cristian da cittade e da campagna
che furo,al tempo del re Carlo Mano:
voi gí’imitate, se vi sembra sano.
5
     Fatta avea nota Filinor per quante
ville e cittá passava in quel viaggio,
e scritte sopra al foglio tutte quante
le genti conosciute come saggio,
sendo la cosa al mangiare importante
ed al dormire, per aver vantaggio,
che, spesando ogni giorno la famiglia,
avea danari da far poche miglia.
6
     Non è da dir se le sapeva tutte
e se all’entrar l’aiuta l’eloquenza.
Alcune volte ha le bolgie condutte
dove anche non aveva conoscenza,
ma parentele in sul fatto ha costrutte
ed amicizia inventa e confidenza;
tanto che vi mangiava e vi dormiva,
poi con gran baciamani si partiva.

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7
     Quando passava le barche sui fiumi,
dove per i cavalli e per le ruote
si paga e le persone, avea suoi lumi,
e dicea d’esser del padron nipote.
Poi si grand ’aria mostra ne’ costumi,
e franco è si che lascia le man vuote
al barcaiuolo, ed al partir: — Se mai
t’occor mia protezion — dicea, — l’avrai.
8
     Tuttoché Filinor studi ogni punto
j)er il risparmio, alcuna volta a forza
o per la pioggia o per il fango è giunto
dove la sete co’ danar s’ammorza;
sicché della pecunia è quasi munto,
e va gridando al cocchier: — Batti, isforza, —
che col viaggio il terzo gli mancava.
Il cocchiere or rideva, or bestemmiava.
9
     Perch’era come a batter delle botti
che fosser vuote, a picchiar que’ cavalli;
si rimbombavan né sentiano i bòtti,
perocché in ogni parte aveano calli.
Né pensar mai che nessun d’essi trotti;
s’ivan di passo, era da ringrazialli.
Sappi che alcuna volta si fermavano
e come pietre il flagel sopportavano.
10
     Un giorno, albergo a mano non trovando,
dicea ch’era vigilia con digiuno
ed altre maliziette va innestando.
— Tiriamo innanzi — diceva a ciascuno.
Il lacchè disse: — Io mi vi raccomando:
voi non mi siete padrone opportuno; —
e gambettando con gran leggiadria,
con l’arme del Vesuvio fuggi via.

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11
     Potè ben Filinor gridare a gola:
— Ritorna indietro, briccon, dove vai? —
colui pe’ fatti suoi via se ne vola,
e non rispose e non si volse mai.
Questa disgrazia poscia non fu sola;
furon molte, lettor, come udirai.
Non comincia fortuna mai per poco,
quando si prende alcuno a scherzo, a giuoco.
12
     Filinoro era omai senza un quattrino.
Quindici miglia è lungi da Parigi:
si vedeva e pareva quasi vicino
un miglio il campanil di San Dionigi;
ma e’ cavai non potean piú far cammino,
e non c’è tempo di scusa o litigi,
che bisognava o crepare o mangiare,
donde fu forza a un’osteria l’andare.
13
     E per far quell’avanzo della strada
gagliardemente e giunger con fracasso,
a’ suoi rozzoni ogni momento biada
e fieno e biada fa gettare a basso.
Gridano i servi e non istanno a bada,
fanno sudar quell’oste ch’era grasso,
e la cucina è di faccende piena:
Filinor sta in sul grave e pranza e cena.
14
     Due giorni stette quindi a gran diletto:
pensa con ciarle di pagar l’ostiere.
I servi a quello avevan prima detto
ch’egli era imbasciatore all’imperiere;
donde tremava l’ostier poveretto,
temendo di non dargli dispiacere,
e va pur rovistando la credenza
per boccon scelti, e dá dell’«Eccellenza».

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15
     La notte innanzi al partir sopravvenne
una gran febbre allo staffier mal sano.
Filinoro per questo non isvenne:
dice all’ostier: — Tu mi sembri cristiano.
Ho quel staffier che par giunto all’amenne:
Dio sa se l’amo e se mi sembra strano
ch’io per Parigi devo partir tosto,
e devo lasciar quel cosí indisposto.
16
     Anche un de’ miei poledri è molto stracco,
e non vorrei per la via qualche tresca.
Penso lasciarlo, ed al mio legno attacco
tre cavalli e men vado alla tedesca.
Lo staffier t’accomando, e non a macco:
fa’ che il cavai dí stalla mai non esca.
Per sicurtá dell’uomo e del cavallo,
oste, io non pago il conto senza fallo.
17
     Manderò poi fra quattro o cinque giorni
a levare il cavallo ed il mio servo,
ch’io prego Dio che in sanitá ritorni.
Il mio dovere a quel punto riservo. —
L’oste guardava quegli abiti adorni;
per soggezion gli tremava ogni nervo:
disse che avrebbe perduta la vita,
prima che uscir dagli ordini due dita.
18
     A cenni d’occhi e mani nobilmente
e fiutando tabacco, Filinoro
fé’i tre cavalli attaccar prestamente,
e lascia il quarto che vale un tesoro.
L’oste gli è intorno e gli bacia umilmente
con la berretta in mano il gheron d’oro.
Filinor parte e l’oste inchina il cocchio
insin che può discoprirlo con l’occhio.

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19
     Or qui potria domandarmi il lettore
che cosa avvenne poi del cavalcante.
Di tre cavalli è il cocchier conduttore:
dunque che fu di quell’altro brigante?
Dico che il pose di dietro il signore
al cocchio per staffier o vuoi per fante.
Filinor nostro è d’intelletto raro,
e in ogni caso ritrova il riparo.
20
     Fu bella cosa quell’ostier sentire
a comandare alla moglie e a’ famigli,
che si dovesse l’infermo ubbidire.
Poscia alla stalla va a dare i consigli
come si debba il cavai custodire;
ma nel guardarlo par si maravigli.
— Questo — dicea — d’una rozza è il cadavero,
e debbe aver mangiato del papavero. —
21
     Perocché stava molto sonnolento,
e gli occhi cispi aveva e rinfossati.
— Disse il signor ch’è un poledro: io pavento
ch’egli abbia almen quarant’anui passati, —
diceva l’oste; e pigliandolo al mento,
gli vide in bocca denti smisurati.
Sente che in quel spettezzava e tossiva:
l’oste gridava a’ que’ sternuti: — Viva! —
22
     E tra sé disse: — Omè lasso, ho mal fatto; —
e dubitava forte del suo danno.
Lasciamo l’oste irato e stupefatto,
che attenda sua ventura con affanno.
Filinor era da lungi un buon tratto;
e mentre galluzzava dell’inganno,
una sciagura gli avvenne terribile:
io so, lettor, che ti parrá impossibile.

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23
     Ma vo’ che tu mi tenga in ciò che narro
uomo informato e storico fedele,
perch’io non vendo per frumento farro,
lasche per trotte o le zucche per mele;
che temo sempre l’occhio del ramarro,
o giungan dov’è buio le candele,
e se c’è fanfalucca, si discopra
per biasmo dello storico e dell’opra.
24
     Dico che un vento improvviso levato,
il cavai primo sciolto ritrovando,
che pareva un carcame figurato
e andava d’un trottino vacillando,
lo spinse con un soffio in un fossato.
Filinor esce col cocchier gridando
e dice: — Tristo! il tuo mestier non sai;
s’è morto il mio puledro, il pagherai. —
25
     La bestia s’era scavezzata il collo,
e si potè ben tirare e gridare,
che fu vana ogni voce ed ogni crollo;
Filinoro il cocchier vuol batacchiare.
Grida il cocchier scrignuto: — Io son satollo;
so ben dove la cosa ha a terminare.
Lei vuol le cento lire del salario
dipennar per la rozza dal lunario.
26
     Io n’ho stupore, e non sare’ dovere
voler jjer venti camuffarne cento;
oltre che non fu colpa del mestiere,
ma del rozzon semivivo e del vento. —
Filinor grida: — Come! a un cavaliere
un servo parla con tanto ardimento? —
Poi croscia in sulla gobba col bastone,
e due e tre e quattro delle buone.

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27
     Tanto che fuggi via con gli stivali
colui, lasciando il padron e il guadagno.
A Filinor di quattro servigiali
rimase il cavalcante buon compagno,
e due de’ quattro valenti animali.
Diceva il cavaliere: — Io son nel gagno,
perdio, de’ tristi; — e poi si raccomanda
al cavalcante; e quel sale alla banda,
28
     e me’ che può verso Parigi arranca.
Lungi tre miglia esser poteva ancora:
non era la fortuna però stanca.
Ma tacerò di Filinor per ora,
perocché v’ho tenuti sulla panca
a ragionarvi d’esso ben un’ora,
e certi accidentucci v’ho narrati
/. v che forse v’averanno addormentati.
39
     Dico però: dovete accontentarvi
se gli accidenti non vi paion grandi,
perocché voi dovreste ricordarvi,
non s’usavan piú i fatti memorandi,
e che a principio proposi narrarvi
cambiati in tutto i Rinaldi e gli Orlandi
e i paladini e la plebe e i signori,
per la virtú dell’ozio e de’ scrittori.
30
     E voglio che sappiate, uditor vaghi,
acciò questo viaggio non v’annoi,
vi risparmiai gli accidenti degli aghi,
al crepar delle redini e de’ cuoi,
e come cento volte con gli spaghi
furon rattacconati i tiratoi;
e mille accidentin non posi in rima,
che non s’usavan ne’ viaggi prima.

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31
     Io trovo ne’ romanzi di que’ tempi
certe avventure magre da pidocchi,
e fatti da sbavigli, cosí scempi,
di quei poeti, e lunghi un tirar d’occhi,
che riformavan quegli antichi esempi
di battaglie, di giostre e spade e stocchi;
onde le genti che leggevan quelli
erano imitator de’ scrittorelli.
32
     Or vi conduco a Marfisa e a Ruggero,
lo lasciai quella molto screditata,
ed il fratel disperato e in pensiero
pel caso che non s’era maritata.
E per casa diceva: — Per Dio vero,
non so che far di quella spiritata. —
La moglie Bradamante lo molesta,
tanto ch’egli è per spezzarsi la testa.
33
     Don Guottibuossi era suo confidente,
maestro a’ figliuoletti e fa il fattore;
teneva i conti diligentemente
e sprezza anche le legna per buon core.
È spenditor, mansionario e servente
di Bradamante, spia e imbasciatore;
ed andava anche in maschera con quella,
e non aveva trista la gonnella.
34
     Perocché prima di cantar la messa
avea dato il manipolo a baciare;
e Bradamante fu capitanessa
le genti al sacro bacio ad obbligare,
e delle mancie dispose con essa.
Per prima cosa s’ebbe a comperare
un vestito da maschera attillato,
e l’ebbe caro mezzo il ricavato.
e. Gozzi, La Marfisa bisxarra. 5

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35
     Onde si dava poi gran sicumera
a servir Bradamante il carnovale
alle commedie, ed al caffè la sera.
Ma spesse volte la passava male,
che quella dama, dove il popol era,
lo strapazzava come un animale.
Egli faceva un risolin sardonico,
e poscia diveniva malinconico.
36
     Pur s’affannava per acquistar merito
sempre, e va mulinando qualche tratto
che lo faccia alla dama benemerito.
Qualunque cosa per questo avria fatto,
per non star sempre come nel preterito;
e si pensò che, se con qualche matto
o savio maritar potea Marfísa,
avrebbe avuta grazia in questa guisa.
37
     V’era in quel tempo un uom ricco a Parigi,
che un giorno fu lo scudiere d’Orlando,
come si legge, chiamato Terigi,
ch’era pel mondo andato assai girando,
quando s’usava, seguendo i vestigi
del conte, che gran re venia ammazzando,
e duchi e cavalieri carchi di perle
ed oro e gemme a gran costo d’averle.
38
     Costui previde che il costume antico
aver dovea riforma in tempo corto,
sicché per non restare un di mendico,
quando il padrone avea qualche re morto,
e’ non istava a grattarsi il bellico:
tosto che l’alma andava s’era accorto,
spogliava l’ammazzato d’ogni cosa,
insin della camicia sanguinosa.

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39
     Sicché d’oro, di gioie e ricche spoglie
pel corso di molt’anni un magazzino
aveva empiuto, e a chi venia le voglie
sapeva vender caro il malandrino,
ch’avria tratti danar sin dalle foglie;
e poiché in questa forma fé’bottino
di piú d’un milione di ducati,
prese gabelle a fitto dagli Stati.
40
     E mantenendo sgherri e berovieri,
degli utili sfondati ne traeva;
poi comperava palagi e poderi,
tanto che immense entrate fatte aveva;
e infine feudi prese e misti imperi,
e privilegi e titoli prendeva
di conte, di marchese e di barone;
Iacea conviti e gran conversazione.
41
     Ma perch’egli era di basso lignaggio,
volea nobilitare i discendenti,
e cerca far qualche bel maritaggio
per acquistare aderenze e parenti.
Don Guottibuossi vide, come saggio,
da far un colpo, con begli argomenti,
che a Bradamante ed a Rugger piacesse,
se Marfisa a Terigi unir potesse.
42
     E dato cenno a don Gualtieri un giorno,
che cappellan con Terigi si stava,
di questo suo pensier e’ parla adorno.
Gualtier da Mulion non rinculava,
anzi promise fare a lui ritomo,
ma che se la faccenda bene andava,
e’ non saria contento a un par di guanti:
poi disse mal del mestier de’ pedanti.

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43
     Che guadagnava una pidocchieria
a insegnar per le case con affanno,
bastando appena la mansioneria
per i suoi vizi due mesi dell’anno.
— Se non guadagno qualche cortesia —
dicea Gualtier — con arte e con inganno
nelle inframesse o per alcun raggiro,
credimi, Guottibuossi, egli è un martiro. —
44
     Don Guottibuossi gli rispose: — Basta,
proccuriam ch’abbia effetto la faccenda. —
Alfin fu rimenata ben la pasta,
per non far troppo lunga la leggenda.
Terigi fu contento e non contrasta,
Rugger anch’esso par che condiscenda:
nel parentado ci fu qualche sciarra,
ma il nodo stava in Marfisa bizzarra.
45
     Diceva Bradamante al suo Ruggero:
— Deve ubbidirvi, le siete fratello. —
Dicea Rugger: — Perdio, che mi dispero;
devereste conoscer quel cervello.
S’ella dice: — Noi voglio — dite il vero,
degg’io far, ch’ella il prenda, col coltello. Don
Guottibuossi era un abile prete,
e disse: — Io vo’ parlarle, se il volete. —
46
     Furon contenti e a lui s’accomandáro.
Il prete pensa una sua malizietta.
Trova Marfisa sola, ed ebbe caro,
che rado fu trovata o mai soletta.
EU ’era appunto in un pensiero amaro,
che le parea veder piú poca fretta
ne’ concorrenti e ne’ visitatori,
e raffreddati i sospiri e gli amori.

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47
     Perocch’eravam giunti agli anni trenta,
e, unita agli anni la sua stravaganza,
a poco a poco aveva quasi spenta
ne’ cori degli amanti la costanza.
Stava rimproverando malcontenta
in dieci lettre la poca creanza
a questo e quell’amador disertato,
quando don Guottibuossi è capitato.
48
     Marfísa l’accettava volentieri,
ch’anche de’ preti comincia a degnarsi.
— Ben venga il soprastante a’ cimiteri —
gli disse e che dovesse accomodarsi.
Rispose il prete: — l’ho de’ gran i)ensieri
veder Marfisa ancor maggese starsi,
e sentire i discorsi della piazza,
che non fanno vantaggio a una ragazza. —
49
     EHsse Marfisa: — Prete mio da gabbia,
dch, dimmi un poco che di me si dice; —
e cominciava accendersi di rabbia,
facendo sulle guancie la vernice.
Dice il prete: — E’ non è mestier ch’io v’abbia
a narrar tutto; basta che disdice,
una fanciulla d’un merto infinito
invecchi in casa e non trovi marito.
50
     E quel che piú mi trafigge nel core
è che, pensando al caso vostro d’ora,
m’affaticai come buon servidore
ed avea tratto un bel partito fuora.
Ma fui cacciato come un traditore,
dicendolo a Rugger, che grida ancora.
Fa piú d’esso la sposa Bradamante:
mi die’ g^ú per lo capo del «forfante»,

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51
     gridando che il partito non è buono,
e ch’è passato il tempo de’ mariti,
e ch’io pensassi a cantare in bel tuono
il vespro e non a cercarvi partiti.
Io per giustificarmi sol qui sono,
perché i discorsi vengon travestiti;
e non vorrei, se il falso vi si mostra,
uscir, Marfisa, dalla grazia vostra. —
52
     Disse Marfisa: — Altro non vo’ sapere;
e basta mio fratello e mia cognata
abbian di questo nodo dispiacere,
fa ragion che la scritta sia firmata.
Fosse lo sposo un magnano, un barbiere,
dico per via di dire, io son parata;
se fosse il diavol, non avrò paura:
vo’ che facciamo tosto la scrittura.
53
     — E’ non è il diavol — rispondeva il prete,
ch’è il marchese Terigi quel ch’io dico;
ma non posso gpiá far ciò che volete:
Bradamante e Rugger non vo’ nimico. —
Non è da dir se a Marfisa la sete
cresce di porre iscompiglio ed intrico:
basta a’ parenti il nodo dispiacesse,
quest’era una ragion ch’ella il volesse.
54
     Don Guottibuossi fa del pauroso,
e dice: — O voi vedete, o voi pensate,
non posso fare — e finge il schizzinoso.
Marfisa alfin minaccia le ceffate.
Donde pur vinse il prete malizioso
con queste bagattelle artifiziate,
e infine disse: — E’ convien giocar netto:
del resto ad ubbidirvi mi rassetto.

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55
     Fate la cosa appaia un voler vostro;
io mi difenderò dal canto mio
e porrò in opra la voce e l’inchiostro:
avrem l’intento, s’è in piacer di Dio, —
E detto questo, come a Rugger nostro
e a Bradamante: — Che direte s’io
vinta ho Marfisa — disse — in due parole?
E non è condiscesa, anzi lo vuole. —
56
     Diceano i due congiunti: — Com’hai fatto? —
Don Guottibuossi avvisa della tresca
e dice: — E’ vi bisogna ad ogni patto
mostrar che il matrimonio vi rincresca,
e farvi trascinare in sul contratto,
e lasciar che Marfisa la prima esca
a ragionarne; e condurrem la trama:
per altra via non si piglia la dama. —
57
     Giá era di tre ore mezzogiorno
suonato, e ancor da Rugger non si pranza
(che in casa a’ grandi era quasi uno scorno
pranzare innanzi: tal era l’usanza);
onde udivansi i servi andare attorno
chiamando a desco con bella creanza.
Siedono a mensa. Marfisa siedeva,
e sta ingrognata e mangiar non voleva.
58
     Don Guottibuossi non mangia, divora,
e mostra la faccenda al lui non tocchi.
Rugger, ch’era pur saggio, s’addolora,
e mangia adagio e talor chiude gli occhi,
e tra sé ducisi d’avere una suora
da pigliar con la trappola che scocchi.
E Bradamante in sull’avviso stava,
e spicca morsellini e sogghignava.

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59
     Marfisa guarda l’un l’altro nel viso,
e scherza or col cucchiaio or col coltello,
ed or sul grasso in qualche tondo intriso
scrive con la forchetta, or fa fardello
del tovagliuolo, or suona all’improvviso
con le dita in sul desco il tamburello,
or crolla il capo, or s’affisa nel tetto,
e mostra fuor ciò che serra nel petto.
60
     In tutti gli atti si vedeva aperto
ch’ella voleva alcun le ragionasse,
per appiccare una sciarra, un concerto
di voci, che tre ore lungo andasse.
Ma poich’ella ebbe il silenzio sofferto
un pezzo senza che alcun le parlasse,
sendo il pranzo finito, in Rugger fisse
tenne le luci bieche e poi gli disse:
61
     — Tempo è ch’io, stanca, fracida, annoiata,
me n’esca un tratto da questa famiglia,
e rimanga padrona la cognata
che un po’ troppo il buon sposo suo consiglia.
Però, signori, io mi son maritata;
abbiate se il volete maraviglia:
il marchese Terigi è giá mio sposo,
né fia, quando a me piace, difettoso.
62
     Non crediate v’avvisi perch’io creda
esser tenuta a dirvi i fatti miei.
De’ pregiudizi antichi non son reda
e d’ubbidenze sciocche da plebei:
le mie letture hanno fatto ch’io veda
che farlo senza dirvelo potrei.
Ma perché so che di Terigi ostico
vi sembra il nodo, appunto ve lo dico.

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63
     Le risa appena trattien Bradamante:
se stava ferma, guastava la cosa;
donde rizzossi con atto arrogante
e mostrò di partirsi disdegnosa.
Rugger mostrossi irato nel sembiante,
e disse: — O Dio, quando averò mai posa?
Non mi potete dar maggior sciagura
di questa ch’ora provo né piú dura. —
64
     E terribil volgendosi a Marfisa,
disse: — Aprite gli orecchi a quel ch’io parlo.
Non sará mai la famiglia di Risa
tal parentado possa sopportarlo;
se tentate avvilirla in cotal guisa,
e un gabellier cognato a Rugger farlo,
dico che prima voi sarete appesa,
sorella cieca e sorda e pazza resa. —
65
     Qui le risposte, il fracasso e le gjida
furono orrende fuor d’ogni pensiero,
e piú Marfisa al suo Terig^ è fida,
quanto l’aborre e disprezza Ruggero.
Dicea Ruggero: — Prete, mala guida —
a Guottibuossi, — io non son si leggero,
che non intendo questo guazzabuglio
esser pretino fetente garbuglio.
66
     Ma i preti si dovrieno all’etá nostra
porgli in catena a biscottel muffato,
che in tutto voglion far di loro mostra,
dimenticando il sacro chericato. —
Don Guottibuossi pur la zucca prostra
due o tre volte e sta mortificato,
e poiché fino al finocchio ha consunto,
gli parve alior di ragionare il punto.

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67
     E disse: — In coscienza questa dama
può dir s’io feci a lei parola alcuna;
ma veggio alfin che odiato è chi piú ama,
e converrá ch’io cerchi altra fortuna.
Vero è ch’io dissi a voi: — Terigi brama
averla in moglie; — ch’io credo opportuna
l’occasion, perché non cerca dote;
ma feci solo a voi le cose note.
68
     E poiché siamo in su questo proposito,
parlerò netto e senz’alcun timore.
Questo mio sacro capo vi deposito,
Rugger, che a non voler siete in errore.
L’usanza è dal passato ora all’opposito.
È una cosa fantastica l’onore:
di parentado e di genealogia
si ride il mondo e’ ha filosofia.
69
     Voi siete pien d’antichi pregiudizi,
né alle commedie nuove andate mai,
né i romanzi novei, pien d’artifizi
dotti, leggete, che insegnano assai.
Certe antiche virtudi ora son vizi,
e non importa un fil di paglia omai
l’esser fígliuol di dama o di puttana,
come un nuovo romanzo oggi ci spiana.
70
     Quando un uom ricco di basso lignaggio
chiede una dama illustre per isposa,
e senza dote a tòrla egli ha coraggio,
non è alla moda il bilanciar la cosa;
perocché due famiglie n’han vantaggio,
e la faccenda sembra prodigiosa:
se una risparmia e da quel ch ’è non esce,
l’altra in opinione e in boria cresce.

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71
     Il nobil anzi in sull’altro casato
mantien certa arroganza e preminenza,
che può voler da quel ciò e’ ha sognato
per una stabilita conseguenza.
Terigi è di Marfisa innamorato,
ed è si ricco e ha titol d’«Eccellenza»;
la fanciulla il torrebbe, e non so poi
per qual ragion lo ricusate voi. —
72
     Rugger raddoppia minacce e disprezzi.
Marfisa gonfia e grida: — Il voglio, il voglio; —
in sullo spazzo i bicchier getta in pezzi,
ordina al prete di rogare il foglio.
Don Guottibuossi a tutti dui fa vezzi,
e mena con tant’arte quell’imbroglio
che fece dire a Rugger con dispetto:
— Col diavol sia! l’assenso vi prometto. —
73
     Ed accordata e fatta la scrittura
fu da Ruggero sempre rinculando;
e Bradamante brusca in guardatura
si fa sentir per casa borbottando.
Don Guottibuossi a Marfisa paura
e gran fatica e sudor va mostrando.
Dicea Marfisa: — E’ l’avranno alla barba:
e’ de’ bastar; questa cosa a me garba. —
74
     Un giorno che le visite accettava,
le congratulazioni, i complimenti,
per tutta la citta si ragionava
che in un caffè morto era in due momenti
un paladin, ma il nome si cambiava,
come suol fare il furor fra le genti.
Era ognun curioso di sap)erlo,
siccome voi; ma per or vo’ tacerlo.
FINE DEL CANTO TERZO