La Palingenesi di Roma/Appendice/I. Che cos'è la Storia?
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I.
CHE COS’È LA STORIA?
1.
Dopo aver visto come i Romani scrivevano la storia, e con quali occhi e con quale animo i secoli hanno letto le loro storie, scampate al diluvio barbarico, non sarà senza interesse studiare come si intenda la storia da certe chiesuole intellettuali moderne, a cui non spiacerebbe di potersi vantare maestre di una nuova arte, in confronto al passato. Un’occhiata alla «Teoria e storia della Storiografia» di B. Croce basterà per mostrarci i bei progressi che quest’arte, così cara agli antichi, ha fatto nei secoli del vapore e dell’elettrico!
2.
«Ogni vera storia è storia contemporanea»: con questo paradosso il Croce apre la sua trattazione. E lo giustifica, argomentando lungamente. «Anche la storia già formata, — egli scrive — che si dice o si vorrebbe dire storia non contemporanea o passata, se è davvero storia, se cioè ha un senso e non suona come discorso vuoto, è contemporanea e non differisce punto dall’altra (la contemporanea). Come dell’altra, condizione di essa è che il fatto del quale si tesse la storia vibri nell’animo dello storico o (per adoperar una parola d’uso nel mestiere storico) se ne abbiano dinnanzi, intelligibili, i documenti... E se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si vuol chiamare non contemporanea, perchè è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato» (pag. 4).
Il pensiero è abbastanza chiaro, anche se espresso in forma involuta e imprecisa. Non basta narrare un fatto per dirsi storici; bisogna farlo presente, come se noi ne fossimo spettatori ed attori; se no si ha «vuota narrazione... e perciò priva di verità» (pagina 9). «La storia è un presente; la storia, resa vuota narrazione, è un passato» (pag. 9).
Ciò detto il Croce procede a distinguere, come già aveva fatto Cicerone, la cronaca dalla storia. Ma non oppone l’annalistica alla storia oratoria, venuta dalla Grecia. I moderni son persuasi che anche in questo ordine di scritture ne sanno più degli antichi. «La storia — egli scrive — è la storia viva, la cronaca la storia morta; la storia, la storia contemporanea, la cronaca, la storia passata» (pag. 10). Indi scopre che le fonti da cui scaturisce la conoscenza storica sono due: la vita e il pensiero che la risuscita e la eterna. «Il documento e la critica, la vita e il pensiero sono le vere fonti della storia, cioè i due elementi della sintesi storica...» (pag. 14).
Accettiamo ad occhi chiusi queste dottrine, seguiamo docilmente il suo autore, e vediamo dove si va a finire. Dopo aver definito quale è la natura e quali sono gli elementi o le fonti della storia, il Croce procede a distinguere da questa che è la vera storia, le storie spurie o «pseudo-storie», come egli le chiama, alla greca. Tra queste pseudo-storie egli annovera la storia poetica, che definisce così:
«Esempi di tale storia forniscono in copia le biografie affettuose che si tessono di persone care e venerate; le storie patriottiche... la storia universale, rischiarata dagli ideali dell’idealismo e dell’umanitarismo, e quella narrata da un socialista che ritragga le gesta... del capitalista o l’altra di un antisemita, che mostri dappertutto, nelle sventure o brutture umane, il giudeo... Nè la storia poetica si esaurisce in coteste tonalità fondamentali e generiche dell’amore e dell’odio (dell’odio che è amore e dell’amore che è odio!) ma passa tra tutte le più intricate forme e le più fini gradazioni del sentimento; e così si ottengono storie poetiche, che sono amorose, malinconiche, nostalgiche, pessimistiche, rassegnate, fidenti, allegre, e quante altre si possano immaginare. Erodoto canta le romanze (!) dell’invidia degli Dei, Livio l’epos della romana virtù; Tacito compone tragedie dell’orrendo, drammi elisabettiani in scultoria prosa latina; e per venire ai moderni e modernissimi Droysen dà forma alla sua aspirazione lirica verso lo Stato forte e accentratore col narrare la storia della Macedonia, della Prussia e dell'Ellade; e Grote a quella verso gli statuti della democrazia simboleggiata in Atene; e Mommsen all’altra verso l’impero, simboleggiata in Cesare; e Balbo effonde il suo ardore per l’indipendenza italiana, adoperando a tal fine tutti i ricordi delle pugne italiche, a cominciare nientemeno da quelle degli Itali e Etruschi contro i Pelasgi; e Thierry celebra la borghesia raccontando la storia del terzo stato» (pagg. 26 e 27).
Che Erodoto, Tito Livio, Tacito, Droysen, Grote, Mommsen, Balbo e Thierry non sieno storici ma falsi storici e poeti, è notizia che giungerà alquanto inaspettata a molti lettori. Se questi otto valentuomini, i quali pure godono di una certa rinomanza nel gregge di Clio, sono dei falsi storici, vorrebbe il Croce dirci il nome e cognome di uno storico vero? Ma la sorpresa cresce quando il Croce cerca di distinguere la storia falsa dalla vera, o, come egli dice, la storia poetica dalla storiografia. La storia poetica si esplicherebbe «nel surrogare al mancante interesse del pensiero l’interesse del sentimento» (pag. 26); mentre invece «il valore che regge la storiografia è il valore del pensiero. Ma appunto per questa ragione il principio determinante di essa non può essere il valore che si chiama di sentimento e che è vita e non pensiero; e quando questa vita si esprime e rappresenta non ancora domata dal pensiero, è poesia e non storia» (pag. 27).
Il principio, o la fonte, della storiografia o vera storia sarebbe dunque il pensiero e non la vita, la quale è invece il principio della poesia. Ma a carte 14 il Croce aveva detto proprio l’opposto. Ricordate? «Il documento e la critica, la vita e il pensiero sono le vere fonti della storia». La vita, che a pag. 14 è fonte della storia, a carte 27 diventa fonte della poesia., e alcunché di opposto e quasi di ribelle al pensiero, poiché il pensiero la deve domare. Domare è una di quelle parole equivoche, di cui la filosofia crociana abbonda con sua molta lode in un’epoca adorante tutte le confusioni; ma per quanto equivoca non può dubitarsi che implichi lo sforzo teso a vincere una resistenza. Difatti il Croce aggiunge più oltre: «per convertire la biografia poetica in biografia veramente storica bisogna reprimere... i nostri amori, le nostre lagrime, e i nostri sdegni...; e il medesimo deve farsi per la storia nazionale e per quella dell’umanità». Mentre nelle prime pagine la storia è il pensiero che risuscita la vita («la storia morta rivive» è detto a pag. 15), più innanzi la storia è il pensiero che combatte, che doma, che mutila la vita, recidendo da essa il sentimento.
Sin dalle prime pagine del volume si intravede che il Croce ha della storia, come di molte altre cose, due concezioni contradditorie; o forse ha una prima concezione che, strada facendo, si muta nella opposta, illudendosi di esser sempre la medesima. Da principio egli concepisce la storia come un «eterno presente» ossia come la vivificazione di quello che fu, quale fu visto e sentito dai contemporanei. Poi a poco a poco si stacca da questa concezione sinché, senza accorgersene, la nega interamente, cercando di dimostrare che storia e filosofia sono una cosa medesima, ossia la dottrina in azione del progresso, inteso non «come passaggio dal male al bene, quasi da uno stato all’altro, ma come passaggio dal bene al meglio, in cui il male è il bene stesso, visto alla luce del meglio» (pag. 23).
Confronti il lettore il primo e il quinto capitolo; e subito si accorgerà che questo nega quello, illudendosi di svolgerlo. «La coscienza storica, in quanto tale, è coscienza logica e non pratica, e anzi fa suo proprio oggetto l’altra: la storia, che fu già vissuta, è ora in lei pensata, e nel pensiero non hanno più luogo le antitesi, che si fronteggiavano nella volontà e nel sentimento. Per essa non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni quando sieno intesi nel loro intimo e nella loro concretezza; non ci sono partiti avversi, ma quel partito più ampio che abbraccia gli avversi e che per avventura è appunto la considerazione storica... La storia non è mai giustiziera ma sempre giustificatrice» ( pagg. 76 e 77).
E ancora: «il vizio della storia negativa proviene dal separare e solidificare e contrapporre le antitesi dialettiche del bene e del male... Tutti i fatti e le epoche sono a lor modo produttivi; non solo nessuno di essi è al lume della storia condannabile, ma tutti sono laudabili e venerabili» (pag. 78).
E sia pure; ma addio, allora, contemporaneità della storia! La storia contemporanea consiste appunto nel «solidificare e contrapporre le antitesi dialettiche del bene e del male». Il presente è proprio un momento del tempo, in cui un certo numero di antitesi si fronteggiano nella volontà e nel sentimento; e se nella storia, scritta dopo qualche secolo, si può trovare «quel partito più ampio che abbraccia diversi partiti», chi può esser così ingenuo da cercar questo partito fra i contemporanei, che vivono appunto per odiarsi, combattersi e sterminarsi? Intorno a che cosa hanno versato tanti fiumi di sangue gli uomini se non a quelle che il Croce chiama «antitesi dialettiche del bene e del male, solidificate»; e che la storia dovrebbe per l’appunto sciogliere? Se gli uomini fossero persuasi che tutti hanno ragione e tutti meritano almeno una menzione onorevole, se non una medaglia di bronzo nel concorso della storia, si sarebbero forse patrizi e plebei, ricchi e poveri, eretici e ortodossi, cristiani e mussulmani, protestanti e cattolici, aristocratici e democratici, scannati in tanti secoli con tanto furore? E che cosa resterebbe di tutte le «storie contemporanee» che si sono seguite?
3.
Una delle due: o la storia è sempre storia contemporanea e allora deve «separare, contrapporre e solidificare le antitesi dialettiche del bene e del male» perchè ogni presente non è che una di queste antitesi in azione. O deve giustificare tutto e allora non può essere storia contemporanea; anzi la storia contemporanea deve considerarsi come pseudo storia o poesia. Impigliato in questa contraddizione, da cui non riesce a districarsi, il pensiero del Croce si lascia sospingere dalla sua stessa confusione a conclusioni così paradossali e strane; da essere quasi ridicole. Questa, ad esempio: che «la storia non è mai storia della morte sibbene storia della vita»; che «sono da ritenere false... tutte le storie che narrano la morte e non la vita dei popoli, degli stati, delle istituzioni, dei costumi, e si contristano, e si angosciano e lamentano che quel che fu non è più» (pagine 79 e 80).
Questa pagina confonde manifestamente il narrare le rovine e il disperarsi per esse. Se un moderno scrivendo la storia dell’impero romano si stracciasse, arrivando ai bassi secoli, i capelli, e ululasse inferocito ai barbari e ai cristiani, noi potremmo dirgli di risparmiare il suo tempo e il suo dolore, poiché le sue furie sono vane o ad ogni modo son cosa sua, che non ci tocca, se pure non ci infastidisce. Ma non per questo è men vero che l’impero romano, fiorente nel primo e nel secondo secolo, è stato dal terzo al quinto secolo a poco a poco distrutto dal di fuori e dal di dentro; e che o lagrimando o ad occhi asciutti uno scrittore può narrare la storia di questa distruzione: come, quando, e per opera di chi si compiè. Dir che la rovina dell’impero romano è una storia falsa, perchè sulle rovine dell’impero sorsero nuovi stati e nuovi popoli e nuove civiltà, sarebbe come dire che l’inquilino di quella tal casa, che oggi hanno portato al cimitero, non è morto, perchè domani un altro inquilino entrerà nella casa. Nuovi stati sorsero sulle rovine dell’impero romano, perchè l’impero era stato distrutto; e la sua distruzione fu effetto di un lungo seguito di azioni che la storia può narrare, come può narrare il lungo seguito delle azioni che lo crearono.
4.
Andare a caccia di contraddizioni nei libri del Croce è come andar a caccia di farfalle in primavera. Ma in questo libro si trovano contraddizioni anche più strane che negli altri libri, forse perchè egli non è mai riuscito a distinguere bene i due elementi della storia che sono il pensiero e il sentimento; ed ora li ha confusi immedesimandoli, ora li ha opposti l’uno all’altro arbitrariamente.
«Condizione dello storico è che il fatto vibri nell’animo dello storico; o (per adoperare le parole d’uso nel mestiere storico) se ne abbiano intelligibili i documenti» — ha scritto, come vedemmo, a carte 4. Sembrerebbe dunque che la storia ritornando a vibrare nell’animo, diventi intelligibile. Non c’è storico un po’ esperto, il quale ignori che spesso accade proprio l’opposto: accade che per capire un avvenimento, ossia per distinguere chiaramente i motivi veri che spinsero i personaggi all’azione e i veri effetti che l’azione generò, è qualche volta necessario, più spesso utile liberarsi dalle passioni contemporanee, ossia mettersi in uno stato di freddezza, per cui l’evento non vibrando più nell’animo dello storico, questi possa osservarlo da tutte le parti, anche da quelle che gli attori appassionati non videro e non potevano vedere. Per citare un solo esempio: accade spesso nelle grandi lotte umane (guerre, rivoluzioni, ecc.) che la parte la quale riuscì vittoriosa, si fosse per lungo tempo ingannata sulle forze dell’avversario, credendole molto più grandi che non fossero. Uno storico, il quale voglia capire ciò che davvero è accaduto, deve rendersi conto di questa illusione; ma dal momento in cui ha scoperta l’illusione l’avvenimento non può vibrare più nell’animo dello storico come vibrò nell’animo degli autori. La passione, che generò l’azione, diventando oggetto di fredda analisi, lo storico deve distaccarsene invece di confondersi con essa.
Dopo aver immedesimato sentimento e pensiero, come se nella storia il sentire equivalesse a comprendere, con singolare contraddizione, in un altro punto, il Croce vuol bandire addirittura il sentimento, come un falsario sistematico, dalla storia, e come se il sentire un avvenimento volesse dir sempre fraintenderlo. «L’alterazione — egli scrive — continua e intrinseca a quella storiografia (la poetica) consiste nello scegliere e connettere i particolari, che si traggono dalle fonti, secondo un motivo non di pensiero ma di sentimento; il che se ben si consideri, è sostanzialmente un inventarli» (pagg. 28 e 29). E perchè? Da una esagerazione si casca in una esagerazione opposta. Qui il Croce suppone che il sentimento falsi sempre la verità e che il pensiero invece non la falsi mai; il che è un errore di psicologia manifesto. Il sentimento falsa la verità quando è pervertito, viziato, in rivolta contro le leggi della natura e della morale; quando odia quel che è bene e ama quel che è male. Ma quando ama il bene, o odia il male è spesso più pronto e più profondo nello scoprire il vero del pensiero. Quante volte il cuore precorre la mente nel divinare quello che la mente scoprirà dopo, faticosamente! Di quanti sentimenti altrui ci è difficile renderci conto se non li abbiamo provati, e quante volte l’essere appassionato è condizione per capire l’altrui passione! Viceversa, anche il pensiero spesso s’inganna, o adultera la verità per errore o per malizia. Un cattolico, un protestante, scrivendo la storia della Riforma, con la passione altereranno sfigurandolo coll’odio il nemico, ma ciascuno sarà nel vero nel lodare le cose buone della Chiesa o della Riforma; e l’uno e l’altro capiranno non solo lo stato d’animo dei propri ma anche quello degli avversari, meglio e più facilmente di un miscredente, per il quale tutte quelle dispute teologiche non siano che un fastidioso perditempo.
E del resto se la passione fosse condannata a restar fuori della verità sempre e in eterno, come potremmo noi scriver la storia? Chi conosce un po’ quel che il Croce chiama il «mestiere storico» (l’arte, io direi) — sa che quasi tutti i documenti sono più o meno inquinati dalla passione.
5.
Anche questa dottrina della storia è un guazzabuglio di contraddizioni, in mezzo alle quali il pensiero del Croce cerca di reggersi e di camminare diritto; ma non può, che non sa dove va, barcolla e ad ogni passo incespica. La Storia è problema nel tempo stesso più semplice e più complesso che il Croce non pensi.
La Storia è l’applicazione letteraria di una facoltà dello spirito umano, poco o punto studiata sinora dagli psicologi e dai filosofi: l’intuizione. Che cosa è l’intuizione? È quella facoltà per cui noi indoviniamo gli stati d’animo dei nostri simili; i loro pensieri, i loro sentimenti, le loro inclinazioni, la loro indole, i loro propositi, le loro virtù, i loro vizi. Non c’è facoltà più comune e più preziosa di questa. La vita di tutti gli uomini, umili e grandi, dotti e ignoranti, ricchi e poveri non è, dalla mattina alla sera, che un esercizio ininterrotto di intuizione psicologica. Noi abbiamo sempre bisogno di indovinare quel che pensa, vuole, macchina, in quali disposizioni di animo si trova un certo numero dei nostri simili senza che essi ce lo dicano — sia perchè non vogliono, sia perchè non sanno e non possono.
La natura di questa facoltà è molto misteriosa: ragione per cui forse gli psicologi non l’hanno punto studiata fino ad ora. È una facoltà mista, a cui partecipa il raziocinio, la memoria, l’associazione, l’immaginazione; e per la quale noi quasi entriamo a un tratto negli altri indovinando quel che avviene nella loro coscienza. È una facoltà innata, perchè tutti ne sono provvisti, come di volontà e d’intelligenza; ma come di volontà e di intelligenza chi più e chi meno. L’esercizio e l’esperienza la raffinano e la rafforzano. Quel che si dice di solito «imparare a conoscere gli uomini e il mondo» non è che l’esercizio di questa facoltà. Il nascere provvisti di intuizione pronta, agile, sicura, è una fortuna, perchè questa è tra le armi che più servono per riuscire.
6.
La Storia non è che una applicazione letteraria, nobile, profonda di questa facoltà comunissima, di cui tutti gli spiriti son provvisti, perchè è uno dei tanti cosidetti «organi di relazione». Chi scrive una storia, grande o piccola, non fa che intuire ed esporre degli «stati di coscienza» singoli o gregari. I piani, i disegni, le ambizioni, gli odi, gli amori, le illusioni, gli atti e i fatti dei grandi personaggi della storia che altro sono se non idee, sentimenti, voleri, propositi, ossia «stati di coscienza»? E che cosa sono, se non stati di coscienza gregari, le inclinazioni dello spirito pubblico, le dottrine e le ambizioni, gli odi e le ammirazioni dei partiti, le tradizioni e gli interessi delle classi sociali, le aspirazioni, gli orgogli, i puntigli, gli interessi dei corpi pubblici — parlamento, magistratura, burocrazia? Che altro è una religione, se non una cristallizzazione di stati di coscienza, spesso complicatissimi ed oscurissimi?
La storia insomma, come opera d’arte e di pensiero, è una psicologia in azione, il cinematografo interno — se posso adoperare l’immagine — di singoli uomini e di gruppi: sovrani, capi di religione, generali, diplomatici, demagoghi, partiti, classi, amministrazioni, sette e via dicendo. Il Croce si è invischiato in tante difficoltà perchè non ha capito questa prima ed elementare verità. Senonchè se lo strumento con cui noi risuscitiamo questi stati di coscienza è quella stessa intuizione, di cui ci serviamo ogni giorno per indovinare ciò che i nostri simili pensano e vogliono, il nostro compito è molto più difficile, quando si tratta di scrivere storie. Gli stati di coscienza da cui nascono i grandi avvenimenti storici sono complessi, numerosi, spesso contradditori, spesso legati tra di loro o inestricabilmente aggrovigliati gli uni negli altri, e in continuo movimento. Chi ci vive in mezzo, se non è proprio dotato di straordinaria intelligenza, non vede che frammenti; onde è così difficile scrivere la «storia contemporanea» a cui il Croce ha voluto per un momento ridurre tutta la storia, ma inutilmente, perchè dire che ogni storia è «storia contemporanea» è come dire che l’uomo non capirà mai nulla di ciò che succede. Quando invece la storia è passata nasce un’altra difficoltà: gli «stati di coscienza» sono spariti insieme con gli uomini, e di essi non restano più che segni frammentari e per se stessi morti: i documenti.
I documenti sono il grande rompicapo di tutti i teorici della storia, che non riescono a mettersi d’accordo intorno alla loro natura. Ma la oscura questione si chiarisce semplificandosi, per chi abbia capito che la storia è intuizione di stati di coscienza, singoli o gregari, di uomini e di generazioni che furono. Fuorché nei casi in cui il documento è la voluta espressione degli «stati d’animo» di qualche personaggio storico — tali sono, per esempio, le memorie degli uomini politici, qualche volta le loro lettere o confidenze — il documento è quasi sempre il rottame, salvatosi a caso, di un antico mezzo d’azione che per i posteri diventa il segno di uno o più stati di coscienza — i propositi, le illusioni, le speranze dell’uomo e del gruppo che se ne serviva. La corrispondenza diplomatica di un ministro, gli ordini e i bollettini di un generale, i discorsi di un capo di parte sono stati composti non perchè i posteri sapessero poi quello che è successo, ma per ottenere quello o quell’altro intento, che allora premeva a quel tale o tal’altro uomo d’azione. Ma allo storico servono come mezzo per conoscere ciò che l’uomo d’azione, il suo governo o il suo partito, voleva in quel momento; per capire la visione delle cose che lo guidava; i motivi che lo spinsero a quella o a quell’altra azione.
È facile ora capire la strana e contradditoria natura del documento storico, intorno alla quale tanto disputano i teorici della storia, e che i veri storici capiscono a fondo senza aver bisogno di discuterla. Tre sono le contraddizioni insite nella natura del documento storico.
a) La sopravvivenza del documento è accidentale perchè dei mezzi d’azione si conservano spesso, per servir come segni degli stati d’animo, quelli che meno servono a capire «gli stati d’animo» essenziali dai quali l’avvenimento è nato; lo storico deve invece indovinare questi stati d’animo essenziali.
b) il documento, appunto perchè è il rottame di un mezzo d’azione che non serve più, è una cosa morta: lo storico deve servirsene per intuire uno stato d’animo, che è una cosa viva;
c) il documento è sempre frammentario; da questo documento frammentario lo storico deve cercare di ricavare una intuizione di stati di coscienza quanto più gli è possibile totalitaria, indovinando quello che nel documento non c’è e non ci può essere, perchè il documento è per sua natura un frammento.
Chi tenga presente queste tre contraddizioni insite nel documento, intenderà quanto sia difficile lo scriver la storia e come ai maestri che salgono in cattedra a insegnare la teoria si addica una certa modestia nel dare consigli a coloro, che invece di dir come si deve scriver la storia, la scrivono. Intenderà pure che il cercare una conclusione certa, appoggiata su documenti inoppugnabili e definitivi, i quali si possano interpretare in una sola maniera, è quasi sempre la pretesa di una presuntuosa leggerezza. Intenderà come accada che ogni storia si rinnovi quando lo storico muta. Intenderà che un mezzo sicuro e definitivo di provare vera e giusta la interpretazione di un documento, ossia di verificare l’intuizione degli «stati di coscienza» che da quel documento piglia le mosse non c’è. Intenderà infine che la storia si scrive per molti motivi diversi. Si scrive per ricordare il passato. Si scrive per soddisfare la curiosità. Si scrive per divertirsi e per divertire, su per giù come si scrivono romanzi. Si scrive per glorificare o per infamare una dinastia, un partito, una religione, un popolo, una nazione, un regime politico, una classe sociale. Si scrive per affilare le armi ad una loti a politica, sociale, o ad un conflitto armato tra stati. Si scrive per indagare il mistero dei destini umani, il perchè delle vittorie e delle sconfitte, della grandezza e della decadenza, delle prosperità e dei rovesci. Il Croce dice che questo perchè è introvabile. Non importa: a quanti perchè senza risposta l’uomo cerca risposta!
Questa molteplicità di scopi genera molte famiglie di storie e di storici, ciascuna delle quali esercita la sua intuizione in modo diverso. Lo scopo foggia per reazione lo strumento. Alcune tra le distinzioni che il Croce, brancicando nel buio, tenta di stabilire tra storia e storia nascono da questi diversi scopi. Non ci sono storie positive e storie negative, storie vere e storie false, storie poetiche e storie filosofiche. La storia è sempre storia — cioè intuizione di «stati di coscienza»: la scriva Tito Livio, o Tacito, o Svetonio, o il Machiavelli, o il Gibbon, o il Mommsen, o quel tale misterioso storico — chi sarà mai? — nel quale il Croce ravvisa il vero storico. Ma muta secondo che è scritta per uno scopo o per un altro. Così quelle che il Croce chiama storie poetiche o pseudo-storie sono storie dominate da una forte passione, o politica o religiosa o morale, la quale in certi momenti può falsare, in altri acuire nello storico la visione della verità. Tacito ha atrocemente calunniato Tiberio, che fu un grande imperatore, e si sacrificò per salvare lo Stato; ma se la sua intuizione ha errato nel raffigurare questo personaggio; e se per ciò la sua storia è in questo punto difettosa, è pur sempre storia composta con gli eterni processi che ogni storico ha adoperato, adopera ed adopererà, perchè non ce ne sono altri. La differenza da storico a storico sta solo nella maestria con cui ciascuno li adopera, e nello scopo che si propone.
7.
Alla luce di queste considerazioni molte questioni sul metodo storico, che da quando la storia si è messa in mente di essere una scienza, si sono tanto arruffate, si semplificano assai. Non ho tempo qui di dimostrarlo. Ma non posso tacere una conclusione che è la più importante, perchè vale a sbugiardare insieme e di colpo tutte le false autorità che pullulano oggi negli studi storici dalla universale confusione e ignoranza. La conclusione è questa: che una opera di storia può essere giudicata da un critico soltanto nella sua forma letteraria, come è stata composta e scritta; se è viva o no; se si capisce o se riesce oscura, se piace o annoia. Nella sostanza, ossia se lo storico abbia adoperato bene o male il processo intuitivo con cui soltanto si può scriver la storia; se sia nel vero o se s’inganni, no. Siccome non c’è modo o criterio per verificare inappellabilmente se un documento è stato o non è stato interpretato rettamente, il critico può soltanto scoprire o notare i piccoli errori di fatto, in cui a tutti gli storici accade di incorrere: per giudicare sostanzialmente una storia il critico dovrebbe rifarla tutta quanta, interpretando di nuovo i documenti, a modo suo, ossia intuendo in altro modo e legando tra loro in un ordine diverso gli stati di coscienza di cui i documenti sono il segno frammentario, accidentale e morto. Al lettore spetterà poi di giudicare quale delle due interpretazioni lo convinca di più, e gli sembri più verosimile: giudizio però personale anche questo e quindi variabile da lettore a lettore, ma sempre posato sopra un paragone di più storie. Se voglio dimostrare che Tacito si è sbagliato scrivendo la storia di Tiberio, devo raccontarla di nuovo e in modo che sembri più persuasiva, perchè più verosimile; senza però presumere mai di giungere ad una conclusione che sia definitiva, inoppugnabile, irrevocabile.
Desidera il lettore rendersi conto, come un critico, il quale voglia giudicare il valore intrinseco di uno storia senza rifarla, possa vaneggiare? Il Croce stesso ci somministra di ciò un curioso esempio. Il Croce aveva rasentato la verità — che la storia sia intuizione di stati di coscienza — quando scriveva a pagina 29 e 30: «la fantasia è indispensabile allo storico: la critica vuota, la narrazione vuota, il concetto senza intuizione o fantasia sono affatto sterili; e ciò si è detto e ridetto in queste pagine col richiedere la viva esperienza degli accadimenti, di cui si prende a narrare la storia, il che importa insieme elaborazione di essa come intuizione e fantasia; senza questa ricostruzione o integrazione fantastica non è dato nè scrivere storia, nè leggerla o intenderla. Ma siffatta fantasia veramente indispensabile allo storico è la fantasia inscindibile dalla sintesi storica, la fantasia nel pensiero e per il pensiero, la concretezza del pensiero che non è mai un astratto concetto ma sempre una relazione e un giudizio, non una indeterminatezza, ma una determinatezza. Epperò essa è da distinguere dalla libera fantasia poetica, cara a quegli storici che vedono o odono il viso e la voce di Gesù sul lago di Tiberiade, o seguono Eraclito nelle sue quotidiane passeggiale tra le colline di Efeso, o ridicono i segreti colloqui tra Francesco d’Assisi e il dolce umbro paese».
Sebbene involuta ed oscura, questa pagina distingue, una fantasia — chiamiamola così — «storica» che ricostruisce ed integra dai documenti quello che fu; e una fantasia poetica che inventa quello che non fu mai; concludendo che senza la fantasia «storica» la quale ricostruisce ed integra, non c’è storia. «Senza questa ricostruzione o integrazione fantastica non è dato nè scrivere storia, nè leggerla ed intenderla».
Su questo punto non possono esserci dubbi. È chiaro d’altra parte che quella che il Croce chiama qui, con linguaggio impreciso e barcollante, «ricostruzione o integrazione fantastica» è l’intuizione degli stati di coscienza passati. Ma in un’altra opera il Croce ha voluto giudicare l’opera mia e giudicarla non solo nella forma, ma anche nella sostanza, per negare che essa sia storia. Che cosa ha detto allora? Ha affermato che non solo la fantasia poetica, ma anche la fantasia storica, ossia l’intuizione, non può creare storia vera. Il lettore stenterà a crederlo; eppure è proprio vero che il Croce ha scritto testualmente così: «Il Ferrero crede che si debba con la immaginazione, o come dice, con la congettura integrare le fonti là dove il senso critico vieta coteste integrazioni e nega che possano mai fornire storia e storia reale. Al che il Ferrero, e con lui i suoi difensori, obbiettano, che, senza le congetture e le immaginazioni, molta parte della storia rimarrebbe arida esposizione e compilazione di fonti. E tale sia e rimanga, quando non può essere altro, ossia quando mancano le condizioni soggettive ed oggettive perchè sorga storia vera e propria; meglio allora una rassegna di fonti, che un sogno sulle fonti...»
La contraddizione è evidente: «Il senso critico vieta coteste integrazioni e nega che possano mai fornire storia e storia reale». Ma che altro possono essere queste integrazioni vietate dal senso critico, se non quelle che la fantasia storica fa in opposizione alla fantasia poetica, che non integra ma inventa; e che nella «Teoria» erano state giustamente dichiarate indispensabili allo storico, perchè non sono altro che la sua facoltà di intuizione?
Ma non poteva accadere altrimenti. Volendo negare che una storia fosse buona storia senza rifarla, il Croce non aveva altro mezzo che di negare addirittura il processo creativo della storia — l’intuizione; ossia, per affermare che io ho perduto il mio tempo a scrivere «Grandezza e Decadenza di Roma» come i suoi numerosi lettori a leggerla, che la storia non esiste, non è possibile, è un vano sogno. Per ammazzare me egli ha sacrificato addirittura Clio e la Storia tutta quanta; e dopo aver scritto un poderoso volume per scoprire che cosa sia e come si scrive! O giovani, che volete darvi alle storie, non ascoltate le false autorità, che vogliono insegnarvi, senza saperlo, che cosa è e come si scrive la storia. Leggete i grandi maestri dell’arte, incominciando dagli antichi. Leggete Tucidide, leggete Sallustio, leggete Livio, leggete Tacito. Solo chi conosce l’arte può insegnarla: troppo, questo vecchio precetto del buon senso è stato dimenticato dal secolo implacabilmente nemico di tutte le arti: della storia come della guerra, della pittura come della politica.
- Testi in cui è citato Erodoto
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Tito Livio
- Testi in cui è citato Publio Cornelio Tacito
- Testi in cui è citato Gaio Svetonio Tranquillo
- Testi in cui è citato Niccolò Machiavelli
- Testi in cui è citato Edward Gibbon
- Testi in cui è citato Tucidide
- Testi in cui è citato Gaio Sallustio Crispo
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