La mia cronaca di poeta
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
◄ | Meditazione | A un rosignolo | ► |
XII
LA MIA CRONACA DI POETA
Ognuno ha il suo diavolo all’uscio. Proverbi. |
Uno stess’orto germina
l’arancio e la cipolla,
stampa uno stesso artefice
il vaso illustre e l’olla;
5e incido anch’io, poeta,
nel marmo o nella creta
Febo con Marsia, e Cesare
da lato a Calandrin.
Ma è sogno da nottambuli
10piacere al mondo. Or odi,
savio lettor, la cronaca
del tuo poeta. E godi,
godi, ché Dio ti fece
per la viuzza, invece
15che sotto a’ nembi avvolgerti
su pel dirceo cammin.
La libreria dell’avolo
lá nella mia Dasindo
mi cominciò gli oracoli
20a bisbigliar di Pindo;
ma l’irto pedagogo
gittommi il Dante al rogo,
tonando dal suo tripode:
— Pane il cantar non dá. —
25— Pur gli uccelletti cantano
e trovan pane anch’essi —
io mi diceva; e incorrere
l’ire tremende elessi,
e, con sul petto il peso
30di quel mio Dante acceso,
dissi alle rose e ai zeffiri
la negra iniquitá.
Ma il buon curato, il sindaco,
lo spezial persino
35piangean co’ miei le indocili
follie del birichino,
ed eran pie soltanto
del birichino al canto
le cingallegre, i taciti
40venti e il fiorito april.
Scesi alla dotta Padova
col fardellin dei carmi,
lode cercando; e rigido
nessun volea lodarmi.
45Chi colla lente al naso
mi ruppe il segnacaso,
chi mi gualcí l’epiteto,
chi mi castrò lo stil.
Dafni una volta e Fillide
50cantai, del Zappi a modo,
e il molle ovil dei Titiri
si liquefece in brodo.
Ma dai novelli troni
i torbidi Platoni
55sentenziar che pecora
nacqui e dovrei morir.
Allor destai de’ pallidi
fantasmi la famiglia,
e l’antro de’ romantici
60muggi di maraviglia.
Ma i Pindari e gli Orfei
de’ logori Atenei
colle titanie folgori
m’han fatto impallidir.
65Poi sulla terra apparvero
scòle, congressi, asili,
metodi ed altre olimpiche
buffonerie simili.
E allor perdei la scrima
70del verso e della rima,
e in quel concilio d’aquile
nessun mi numerò.
Belava un’effemeride:
«Volgi ad amor gl’inchiostri!».
75Ruggiva un periodico:
«Vendica i dritti nostri!»
Sclamava una rivista:
«Canta materia mista!».
E il suo bastardo simbolo
80ognun mi balbettò.
Io, spinto fra le cattedre
di Caifa e di Pilato,
che far potea? Sugli ómeri
mi son ravviluppato
85la veste d’Ecce homo;
e, pubblicando un tomo,
spiegai, bruchetto incognito,
l’ali iridate al sol.
Greche e romane forbici
90fûr su quell’ale in guerra.
Quanto superbo scandalo
fra i Danti di mia terra!
Dalle laringi dotte
schiattar pustéme e gotte;
95diede itterizie e coliche
di quel bruchetto il vol.
Senza sentir piú redine,
senza voler piú freno,
corsi a Milan col rotolo
100di Edmenegarda in seno,
e a ricercar mi mossi
Manzoni, il Torti, il Grossi,
e, assunto al tabernacolo,
fissai la trinitá.
105Ed ella, austera e candida
come le sante cose,
al novo catecumeno
covò le prime rose.
E, quando acuta e fina
110me ne ferí la spina,
ebbi alle piaghe i dittami
talor della beltá.
Povero pazzo! i memori
fogli sigilla e taci.
115Fátti allo specchio, e merita
sol della musa i baci.
Cosí non dissi allora
che mi ridea l’aurora;
or che s’infosca il vespero,
120comincio ad insavir.
Ma intanto accuse e strepiti
mi si moveano intorno.
Oh! fosse morto, al nascere,
della mia fama il giorno?
125Petrarchi e Tassi frusti,
caproni e bellimbusti
fêr sinagoga il despota
monello a maledir.
Uno inventò le favole,
130un altro le diffuse;
chi sporse il monosillabo,
chi pronto lo conchiuse,
e dietro al «dálli! dálli!»
gl’insulsi pappagalli
135sul trivio ancor cinguettano
le ree stupiditá.
Sino frugâr nel tumulo
dove tu dormi, Elisa,
e ti compianser vittima
140da’ miei tormenti uccisa.
Sorgi dall’erma bara,
ombra sdegnata e cara;
e del compianto ipocrita
possa arrossir chi ’l fa.
145Tal m’apparí lo splendido
mio mondo. E il pan che fransi,
pan tossicato al lievito,
gittai per terra e piansi;
e imprecai quasi al nume
150che mi vestía di piume,
onde agitarle in étere
livido e reo cosí.
Poi mi riscossi. E, l’anima
fatta matura e il piede,
155ebbi dal duol piú libere
note, piú forte fede,
e camminai. Le spalle
portâr la croce al calle,
e il cireneo del Golgota
160per me non apparí.
Meglio. Chi pensa e spasima
e non consente al duolo,
per nude pietre e triboli
dee camminar da solo.
165E camminai. Sul viso
de’ manigoldi ho riso,
e di piú bei fantasimi
il cor mi scintillò.
Addio, febei mirmídoni,
170macre spennate piche;
addio, volanti retori
per forza di vesciche;
látrami contro, o grulla
prosopopea del nulla;
175fuor di tua riga i cantici
Erato mia pensò.
Ruppe le sacre tenebre
d’Antèla e Mantinea;
conobbe il sasso e i salici
180di Leutra e di Platea;
del Simoenta al margo,
lá sulla polve d’Argo,
sentii di Smirna l’angelo
e per l’Egeo tuonar.
185Tu, musa mia, la cenere
del ghibellin baciasti;
tu solitaria visiti
la cameretta d’Asti;
vaga di freschi allori,
190le antiche glorie onori,
pensi all’Italia, e vigili
de’ padri miei l’altar.
Lasci una vil politica,
ròsa da tigne e tarpe,
195a chi la vende e compera,
come l’ebreo le ciarpe;
e, in bassi ed alti scanni
fisando i tuoi tiranni,
ogni giustizia vendichi,
200fai sacro ogni dolor.
Chiuso nei polsi un rivolo
del sangue d’Alighiero,
armi di meste collere
il tuo civil pensiero;
205e, quando il dio ti spira
fra i nervi della lira,
tu squarci alla fatidica
Delfo i silenzi ancor.
Deh! non cader. Se un ebete
210vulgo t’offende, oblia.
Lanciò la fatua Solima
le pietre in Geremia,
e la dardania prole
rise le illustri fole,
215che pur carpia la vergine
Cassandra all’avvenir.
E fu Sionne un cumulo
di sassi e di vergogna;
e sugli iliaci ruderi
220sta il corvo e la cicogna.
O musa, i fior, che a nembo
lasci cader dal grembo,
possan sull’atrio ai posteri,
non su macerie olir!
225E voi smettete il mugolo,
spadoni imbrattacarte,
ch’ella con veglie e lacrime
fe’ sua la fede e l’arte,
e giá da voi ghirlanda
230non sogna e non dimanda.
perché di malve e d’alighe
non vuol fregiarsi il crin.
Canta, e, cantando, arridimi,
tu de’ miei dí sorella,
235astro nel ciel, sul pelago
volante navicella,
al petto inerme e nudo
gentil lorica e scudo,
nome al mio nome, e lampana
240sul mio sepolcro alfin.