La scuola di ballo/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Don Fabrizio e Ridolfo.
L’ho fatto domandare; ora verrà,
Ma vi avverto, signor, ch’è un uomo destro.
I ballerini suoi vi loderà,
Procurando esaltar per ordinario
Quelli che hanno minore abilità.
S’egli sa che voi siete un impresario,
Terrà in prezzo maggior la mercanzia;
Onde finger con esso è necessario.
Lasciate fare a me la parte mia;
Io conosco chi balla, e chi non balla:
Già da voi non pretendo sensaria.
Anderò traccheggiando dolcemente,
Fino che al balzo ci verrà la palla.
Fabrizio. L’impresario so far passabilmente;
Ma conosco ancor io, che col sensale
I contratti si fan più facilmente.
Ridolfo. Io li confondo a forza di dir male,
I suoi difetti glieli dico in volto,
Mostrando che di lor poco mi cale.
Eppur de’ ballerini il popol folto,
E de’ cantori e canterine a iosa,
Mi sta d’intorno, e si confìdan molto.
Poichè la turba loro è numerosa,
E va mal la faccenda e soglion dire:
Più che niente, è meglio qualche cosa.
Gli impresari si vedon fallire
Per tutto il mondo, e per esser pagati
Musici e ballermi han da piatire.
Escono per lo più degli scannati
A pigliare i teatri, e degnamente
Veggonsi qualche volta bastonati,
E fanno di lontan venir la gente,
E prometton danari anticipati,
E ritiransi poi villanamente,
E d’accordo con altri interessati
Fingono sian cambiate le scritture,
E i virtuosi sono assassinati.
E vi son delle buone creature,
Che si pigliano i posti altrui promessi
Approfittando sulle altrui sciagure.
Ma un giorno forse proveranno anch’essi
Il medesimo tratto, che non giova
Il vil guadagno a spalle degli oppressi.
Perciò quando un teatro si ritrova
Dove la paga poca sia, ma certa,
Chi più sa a questo mondo, chi più marta,
Accomodar si dee all’occasioni.
Ed io la venta la dico aperta.
Ecco che vien dalle sue lezioni
Il maestro famoso; state attento
Com’io lo piglio senz’altri sermoni.
SCENA II.
Monsieur Rigadon e detti.
Se ho tardato a venir.
Ridolfo. Risparmiate
Quest’inutile e vano complimento.
A scolari, maestro, come state?
Rigadon. Bene; ma bene assai, ve l’assicuro.
Roba perfetta.
Ridolfo. Roba da sassate.
Rigadon. D’ingannar le persone io non procuro.
Ridolfo. Ci conosciamo. (Ehi, questi è un impresario.
Io fo le viste, e voi tenete duro) (a Rigadon)
Rigadon. (Il sesto vi darò dell’onorario). (a Ridolfo)
Ridolfo, chi vi sente a dirne tante,
Farà di me giudizio temerario.
E chi è questo signore?
Ridolfo. é un dilettante,
Che vorrebbe imparar il minuetto.
Rigadon. È cavalier?
Ridolfo. No no, ricco mercante.
Rigadon. Se comanda, signor, mi comprometto,
Che in meno di due mesi alle mie mani
Ella diventa un ballerin perfetto.
Ho studiato degli anni, ed ho fin ora
Resi gli stenti dei maestri vani.
Ridolfo. Per dir la verità, non vidi ancora
Un uom più franco in simile mestiere.
Rigadon. S’ella comanda, principiamo or ora.
Ridolfo. Camminato ha fin or più del dovere.
È stanco, non è ver? (a Rigadon)
Fabrizio. Passabilmente.
Ridolfo. Via si riposi, e pongasi a sedere. (Fabrizio siede)
Eh monsieur Rigadon, ditemi intanto
Ch’ei riposa. Felicita s’è poi
Perfezionata?
Rigadon. Cospetto! è un incanto.
Fino dal primo dì, sapete voi
Che abilità si conosceva in lei.
Ora fa quel che vuol co’ piedi suoi.
Ridolfo. Forse per essa occasione avrei:
La dareste per prima ballerina?
Rigadon. Se la pagasser bene, la darei.
Ridolfo. Quanto pretendereste?
Rigadon. Ier mattina
Domandato ho per lei cento zecchini.
Ridolfo. Basteria di zecchini una dozzina?
Rigadon. Andate ad esibir questi quattrini
Ad una sciocca che ballar non sa;
Voi mi fareste uscir fuor dei confini.
Fabrizio. Ridolfo.
Ridolfo. Mio signor.
Fabrizio. Venite qua.
(Diamine, gli esibiste troppo poco).
Ridolfo. (Lasci far il mestiere a chi lo fa).
Fabrizio. (È brava?)
Ridolfo. (È un capo d’opera).
Fabrizio- (Ci giuoco,
Ridolfo. (Proverò di ridurlo a poco a poco). (a Fabrizio)
Rigadon. (Il merlotto ci casca). (da sè)
Ridolfo. Senza tanta
Difficoltà, ditemi in confidenza:
Vi servirian se fossero quaranta? (a Ridolfo)
Rigadon. Non la posso lasciare, in mia coscienza.
Ridolfo. Dieci più, dieci meno.
Rigadon. In verità...
Ridolfo. Voler quel ch’uno vuole, è prepotenza:
Sì, ve l’accordo, ha dell’abilità,
Ma non è uscita sul teatro ancora,
E concetto acquistato ancor non ha.
La maschera mi levo. La signora
Felicita è richiesta per Pistoia,
E l’impresario eccolo lì in buon’ora.
Rigadon. Siete, per dir il ver, la cara gioja.
Fingere il dilettante....
Ridolfo. Orsù finiamo,
Che queste baie mi recano noia.
Rispondetemi a tuono, e concludiamo.
Per cinquanta zecchini me la date?
Rigadon. Sì, a modo vostro.
Ridolfo. A far la scritta andiamo.
Fabrizio. Vorre’almeno vederla.
Ridolfo. (Non lasciate
Che vi scappi di man questa fortuna:
La vedrete dappoi, quanto bramate). (a Fabrizio)
Fabrizio. Andiam; non ho difficoltade alcuna.
Rigadon. Venga pure. (via)
Fabrizio. Ridolfo è un uomo accorto. (via)
Ridolfo. Va, che tondo tu sei come la luna. (via)
SCENA III.
Madama Sciormand e il Conte.
Ch’ella fa alla mia casa. Il pasticciere
Che salisca le scale io non comporto.
Conte. Rispettate, madama, un cavaliere:
Se il desinar si manda in casa vostra,
Chiese vostro fratel un tal piacere.
Madama. Degenerante mio fratel si mostra
Dal sangue nostro, e con azion sì vile
La fama oltraggia della stirpe nostra.
Conte. Siete dunque di stirpe signorile.
Madama. Un sonator fu il nostro genitore,
Di cui al mondo non si diè il simile.
Conte. E menate per ciò tanto rumore?
Credeva, salmisia, che derivaste
Dalla costa di qualche imperatore.
Madama. Ma le bell’arti a’ nostri dì son guaste
Da tanti vili professori abbietti,
Ch’arder se ne potriano le cataste.
E quei che sono professor perfetti,
Come il nobile mio signor fratello.
Alle ingiurie del volgo van soggetti.
Oggi il ballo, signor, non è più quello;
La nobil danza non è più apprezzata.
Ma il ghignetto, la morfia e il saltarello.
Bella cosa vedere una spaccata!
La facessero gli uomini, pazienza;
Ma le donne la fanno alla giornata.
E si prendono tanta confidenza
Coi palchetti e il parter, che sembra loro
Discorrere e ballar coll’udienza.
Non si usa più quel nobile decoro
Che pagar si poteva a peso d’oro.
I poetici scherzi peregrini
Di Venere, di Giove e di Nettuno,
Son cambiati in Pandori o mattaccini.
Immaginar più non si vede alcuno
Reggie, macchine, altari, o cose tali,
Perchè di ciò non è capace ognuno;
E si vedon talora i principali
In una sala riccamente adorna
Portar vanghe o altre cose manuali.
E se un po’ di buon gusto non ritorna,
Sul teatro vedrem probabilmente
Anche il fornaio, che la pasta inforna.
Conte. Voi, madama, parlate saviamente;
Ma il gusto d’oggi non è quel di pria,
E quel si fa, che suol gradir la gente.
Come il ballo variò la poesia,
E la buona commedia all’uso antico,
Non si sa a’ nostri dì che cosa sia;
E se qualcuno del buon gusto amico
Provasi riformare il mal costume,
Presto si fa l’universal nemico.
Per un poco si soffre il nuovo lume,
Ma presto sembra quella fiamma oscura,
E si apprezzan le vampe del bitume;
E ciaschedun che secondar procura
Il volubile genio delle genti,
È forzato cambiar stile e natura.
E voi, che delle femmine prudenti
Nel novero volete esser compresa,
Regolate coll’uso i bei talenti.
Non vi mostrate di dispetto accesa.
Se manda il pranzo un cavalier d’onore,
Nè vi rincresca sparmiar la spesa;
Vivere a spese d’altri se si può,
E blandire e adular chi è di buon core.
Madama. Io le finezze disprezzar non so;
Ma il pranzo che ha recato il pasticciere,
Fu ordinato per me?
Conte. Madama no.
Madama. Per chi dunque?
Conte. Dirò da cavaliere
La pura verità: per Giuseppina
Solo preso mi son questo pensiere.
Madama. È una semplice abbietta ballerina,
Suddita del signor fratello mio.
Provvedere dovrà la mia cucina?
Degna di queste grazie non son io?
Ah pur troppo la sorte ai sciocchi arride;
E si abbandona il merito all’obblio.
Questo è quel che mi affanna, e che mi uccide;
Han le scolare i protettori intorno,
E del merito mio nessun si avvide.
Ma so il perchè; perchè il mio viso adorno
Di finte grazie non alletta i stolti.
Grazie inventate dal bel sesso a scorno;
Ma se vedeste smascherati i volti
Che vi paion sì vaghi, a me più tosto
Gli occhi sarian ammirator rivolti.
Conte. Dite, madama mia, ditemi tosto:
Il vostro volto non ha niente niente
Di quel bello, che il ver ci tien nascosto?
Madama. Con licenza, signor: l’impertinente
Giuseppina sen viene a questa volta;
Non mi degno di star con simil gente. (via)
Conte. Un discorso che spiace, non si ascolta.
Io la tocco sul vivo, ed ella tosto
Le spalle francamente mi rivolta.
SCENA IV.
Giuseppina e detto.
Conte. Sempre disposto,
Giuseppina vezzosa, ad obbedirvi,
Fra i servi vostri desiando un posto.
Giuseppina. Voi parlate così per divertirvi.
Voi siete il solo cui gradir mi piace,
E da voi stesso potete chiarirvi.
Conte. Di contraddirvi non sarò sì audace;
Ma lasciate ch’io dica un mio pensiero:
Il maestro mi par non vi dispiace.
Giuseppina. Ora mi fate rider daddovero.
Se faccio al pover uom qualche finezza,
Follo per imparar presto il mestiero.
Benchè, per favellar con candidezza.
Il mestier del ballar mi piace poco,
E conosco che ho fatto una sciocchezza;
Ma se la provvidenza a tempo e loco
M’aprirà qualche strada, vel protesto,
Fuggo il ballar, come si fugge il foco.
Non dico che non sia mestiere onesto
Per chi ha buona intenzion di farlo bene.
Ma il teatro sovente è assai funesto.
Poco mi alletta grandiosa spene
Di far ricchezze; non son persuasa
Che si facciano a forza di far bene.
Per me starei più volentieri in casa,
Se lo volesse il ciel, con un marito;
Che non son troppo dei piaceri invasa.
Ma la mia trista sorte ha stabilito,
Ch’io mi esponga allo scherno delle genti,
Che soffra il danno, e che mi morda il dito.
Sono degni di voi; me ne compiaccio,
E non avete favellato ai venti.
Quel che penso di voi, per ora io taccio;
Quando tempo sarà, voi lo saprete.
Le cose mie senza parlare io faccio.
Giuseppina. Lo so, signor, che un cavalier voi siete
Pieno di carità; ne ho mille prove
Di quel tenero amor che per me avete.
Anche oggi, signor, con grazie nuove
Favorita mi vedo, e mi dispiace
Che tal gente indiscreta si ritrova:
E che il maestro un poco troppo audace
Valgasi del mio nome a satollare
Questa, dirò così, turba vorace.
Una cosa direi; ma no, mi pare
La proposizion troppo avanzata.2
Conte. Ditela.
Giuseppina. Ma vi prego a perdonare.
Se qualche cosa avete destinata
Per me, che tanto l’aggradisco e tanto,
Che non lo sappia tutta la brigata.
Se vi par ben, tiratemi in un canto:
Datemi il vostro don celatamente,
Ed io nascosto lo terrò frattanto.
Ma non state a gettare inutilmente
Il danaro in fatture; perdonate
Se vi parlo un po’ troppo arditamente.
Quel che di regalarmi destinate,
Se lo date in danar, lo metto via,
E profitto del ben che voi mi fate;
E se mercè la vostra cortesia
In grado mi trov’io di prender stato,
Mi direte, signor, ch’io v’ho seccato.
Conte. No no, per dir il ver, un certo misto
Mi ha nel vostro parlar maravigliato.
Ma la ragion della domanda ho visto;
Se il fondo è buono, come in voi mi pare,3
Il fin non posso dubitar sia tristo.
Non è cosa ben fatta il domandare;
Ma in certi casi.... Via, ve la perdono.
E saprò in avvenir quel che ho da fare.
SCENA V.
Monsieur Rigadon e detti.
Servo del signor Conte.
Conte. Riverisco.
Rigadon. L’avete ringraziato del suo dono? (a Giuseppina)
Conte. Non parlate di ciò, ve l’avvertisco:
Sì lieve affar non merita la pena.
Rigadon. Al mio giusto dover non preterisco. (con una riverenza)
Giuseppina, di brio la casa è piena.
Ho accordato a ballar sapete chi?
Se vel dirò, lo crederete appena.
Felicita anderà fuori di qui
Per prima ballerina.
Giuseppina. Ove?
Rigadon. A Pistoia.
Giuseppina. Mi burlate, signor?
Rigadon. Ella è così.
Giuseppina. E quanto hanno esibito a questa gioja?
Rigadon. Son cinquanta zecchini, e ben pagati,
E la metà non me la leva il boia. (mostra danaro)
Giuseppina. Convien essere al mondo fortunati;
Rigadon. Farà i soliti passi impasticciati.
Per voi, che avete dell’abilità,
Vi è un incerto miglior. (Vo’un po’ vedere
Se il signor Conte ci ha difficoltà).
Giuseppina. Qual incontro saria? si può sapere?
Rigadon. A Peterburgo coi viaggi pagati
Mille e duecento rubbli, ed il quartiere.
Giuseppina. Cosa son questi rubbli?
Rigadon. Equiparati
Son quasi ai nostri scudi fiorentini.
Giuseppina. Capperi! i passi non sarian gettati.
Conte. Tosto in sentire a nominar quattrini
Vi è la brama venuta, ed è smarrito
L’odio contro al mestier dei ballerini. (a Giuseppina)
Giuseppina. Io, signore, non ho quest’appetito.
Se col vostro bel cor mi consigliate,
Io pronta sono a ricusar l’invito.
Rigadon. Come! senza di me voi v’impegnate?
Chi è padron di dispor della scolara?
Affè di Bacco, mi scandolizzate.
Se una buona fortuna si prepara
Per voi, per me, s’ha da lasciar fuggire?
Questa bella pazzia dove s’impara?
Non vi lasciate dalla bocca uscire
Tai sconcie cose a danno mio soltanto
Suggerite da chi non lo vo’ dire. (sdegnato)
Conte. Maestro mio, non vi avanzate tanto,
Ch’io vi capisco, e vi farò pentito.
Nato son cavaliere, e tal mi vanto.
La Giuseppina trovasi al partito
Di bilanciar per me la sua fortuna,
E lasciar per Firenze il Moscovito.
Io non avrò difficoltade alcuna,
A pagar mille scudi acciò non vada.
(piano a Giuseppina)
Per dir la verità, questa è la strada;
Quando che si vuol bene a una fanciulla,
Colle parole non si tiene a bada.
Amor, protezion non conta nulla.
Ecco, se il signor Conte vi vuol bene:
Mille scudi gli sembrano una frulla.
Giuseppina. Accettarli però non mi conviene.
Rigadon. Perchè?
Giuseppina. Perchè non so per qual ragione....
Rigadon. Voi fate torto a un cavalier dabbene:
La pietà del suo core è la ragione
Che lo sprona all’onesto sagrifizio,
E non è mosso d’altra passione.
Accettate senz’altro il benefìzio.
Dei mille scudi la metà mi tocca,
E i cinquecento mi faran servizio.
Conte. No, no, la destra mia non è sì sciocca
Di gettar il danaro a chi nol merta.
Maestro mio, spazzatevi la bocca.
Per Giuseppina la mia casa è aperta.
Voi da me non sperate un sol quattrino;
Già la vostra malizia ho discoperta:
Siete delle scolare un aguzzino. (via)
Giuseppina. Ecco, per cagion vostra avrò perduta
L’avventura miglior del mio destino.
Rigadon. Ho piacere ancor io, se il ciel v’aiuta;
Ma che aiuti voi sola, e a me niente.
Per i miei denti è un masticar cicuta.
Perdo il guadagno, e poi probabilmente
Perderò voi, che il cavalier pietoso
Credo non sarà poi tanto innocente.
E ho da tacer? se per amor geloso
Fossi soltanto, metterei giudizio.
Ma la rabbia mi sale all’occipizio,
Perchè oltre all’affetto che vi porto,
Sono, se mi lasciate, in precipizio. (vìa)
Giuseppina. Dica quel che sa dir, si lagna a torto.
Questa non è la via di far guadagno;
Chi nel torbido pesca, è malaccorto.
Il mio maestro è un avoltor grifagno,
Egli tende le rete alle scolare,
E noi siamo le mosche in bocca al ragno. (via)
Fine dell’Atto Secondo.