Le Baccanti/Introduzione

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Introduzione

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Euripide - Le Baccanti (406 a.C./405 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Introduzione
Le Baccanti Personaggi

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La figura di Diòniso, quale si librava alla fantasia d’un Greco dell’età classica, è molto complessa: risulta di varie persone fuse insieme, e non cosí bene che non ne siano ancor visibili le giunture.

Prima e fondamentale, una divinità tracia dell’ebbrezza. D’un ebbrezza non volgare, né, forse, in origine, connessa col vino, ma autogena e trascendente. Questa divinità s’incarnava in un giovine bellissimo, vestito mollemente, coronato d’ellera, impugnante una ferula coronata di fiamma. Lo segue uno stuolo di Mènadi, giovani donne che errano con lui per i monti e per i liberi campi, danzando, folleggiando, cacciando fiere, compiendo opere prodigiose. E migrano insieme, thíaso gioioso, dalla Tracia, dalla Lidia, e dalla Frigia natale, alla terra ellènica, dove, debellati alcuni vani tentativi d’opposizione, riescono ad imporre i riti loro meravigliosi. Anzi Diòniso è súbito assunto ad una dignità dalla quale furono esclusi quasi tutti i Numi d’Olimpo: viene accolto nei misterî.

I misterî rispondevano ad un profondo bisogno dello spirito umano. La religione ufficiale, quella, su per giú, dei poemi omerici, non offriva, in fondo, alcuna risposta agli eterni [p. 4 modifica]problemi dell’essere, della origine dell’uomo, della vita futura. Perché la vita? Nessuno sapeva. Come nacquero gli uomini? Da capricci dei Numi, da pietre che lanciarono dietro di sé i due superstiti del diluvio universale, Deucalione e Pirra. E gli Dei, chi erano? Donde originati? Nessuno lo diceva. E dopo la morte? Sentiamo Omero. Gli spiriti sono εἴδωλα, immagini. Quelli dei proci uccisi da Ulisse, condotti da Ermete all’Ade, stridono come vipistrelli: essi che nella vita avevano scagliato sino al cielo il terribile urlo di guerra. E senza sangue e senza forza e senza memoria, ombre vane fuor che nell’aspetto, trascinano una squallida esistenza, mille volte piú misera del dissolvimento totale.

Gli spiriti si distolsero presto da questa ontologia infantile. Gli scettici, deposta ogni speranza di illuminazione sovrumana, affrontarono i formidabili quesiti a faccia a faccia, arditamente, senza fiducia altro che nei proprî sensi e nella propria ragione; sensi cosí squisiti, ragione cosí acuta e diritta, che ben poco, in linea teorica, ha aggiunto la filosofia moderna a quanto intuirono quei primissimi sapienti. Gli spiriti mistici, invece, andarono cercando altrove quello che non offriva la scienza patria. E attinsero all’Oriente. Tra i mistici furono uomini d’ingegno e di genio, per esempio Pindaro; ma la maggioranza fu certo delle menti minori e pavide, che non osavano fissar freddamente lo sguardo sul terribile enigma dell’essere.

In che cosa consistevano propriamente questi famosi misterî?

Pindaro ne parla con tòno solenne (frm. 137 Christ):

Beato chi scende sotterra
dopo veduti i misterî.
Il fin della vita conosce,
conosce il principio sancito dai Numi.

[p. 5 modifica]E a giudicar da figurazioni, allusioni, narrazioni piú o meno misteriose1, quel che insegnavano intorno al segreto ultimo della vita deve averlo giustamente intuito il Goethe (Elegie Romane, XII, v. 12 sgg.):

E che cos’era il mistero, se non che Demètra la grande
     benignamente un giorno pur d’un Eroe fu paga,
quando, invaghita, a Giasone, signor dei Cretesi gagliardo,
     svelò dell’immortale corpo i soavi arcani?

Non era molto; ma vorrei sapere qual metafisica ci abbia rivelato di piú.

Molto di piú, invece, i misteri insegnavano intorno alla vita futura. Pindaro, nella meravigliosa seconda olimpica, espone a lungo la sorte delle anime secondo le dottrine mistiche. L’uomo aveva due vite. Una terrestre, sotto il dominio di Giove, l’altra nel mondo sotterraneo, dove regnava Persefone. E passava continuamente dall’una all’altra, godendo in ognuna o patendo il premio o la punizione per le buone o le male azioni compiute nell’altra. Chi riusciva a condurre vita santa tre volte in ognuna di esse, godeva infine il riposo eterno, nella torre di Crono (Ol. II, 75 sg.).

Ma quei che tre volte
vivendo in entrambe, mantennero
l’anima scevra da colpe,
pervengon, lungh’essa la via
di Giove, alla torre di Crono,
dove le brezze marine
spirano all’isole attorno

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dei Beati: ed avvampano petali
d’oro dagli alberi fulgidi, alcuni sul suolo,
ed altri ne nutrono l’acque:
ed essi alle mani ed al capo ne intrecciano serti.


Ed altre pitture ed altri mirabili accenni di Pindaro mostrano quanto alta nel cuore degli Elleni fosse la religione dei misteri.

E perché mai Diòniso, ultimo giunto, fu elevato a cosí alto onore?

Egli è che ben chiari trasparivano nel suo mito significati profondi, che trascendevano i miti olimpici. Diòniso era il Dio dell’ebbrezza. Ma che cosa è ebbrezza, se non trasumanare visibilmente, indiarsi? Il vino e l’amore, hanno solo essi virtú di rivelare all’uomo qualche cosa che supera veramente il breve giro della sua potenza. Rivelazione effimera e torbida, ma pur sempre rivelazione, di qualche cosa di sovrumano, non solo udito, ma provato. E questa rivelazione non la dava agli uomini alcuno dei Numi d’Olimpo.

Profondo significato aveva anche il potere misterioso delle Mènadi, che facevano sgorgare miele da gambi d’ellera, acqua da rupi, latte e vino dal suolo. Esse potevano perché tornate allo stato di natura. Tuffandosi nelle vergini scaturigini della vita, dalla quale una falsa civiltà aveva allontanati gli uomini, gl’iniziati riuscivano, grazie a Diòniso, a dominar la vita. E cosí la religione di Diòniso rispondeva ad uno dei piú vivi bisogni dell’uomo, specialmente dell’uomo primitivo: soggiogare le forze della natura: compiere opera di magia.

Cosí Diòniso fu assunto a gloria nei misteri. E in questo mondo ambiguo il suo carattere tralignò. Si fantasticò del suo [p. 7 modifica]corpo lacerato dai Titani, e della sua resurrezione. Particolari puerili e particolari tragici, che si possono tuttora leggere negli inni orfici, gittarono una lunga ombra sulla sua figura radiosa. Come avvenisse questa trasformazione si può forse indurre, ma ora non c’importa. Basti che Diòniso nei misterî assunse un carattere un po’ lugubre, e che questo valse a rendere piú complicata la sua figura.

Il popolo, a sua volta, senza impacciarsi di significati riposti e simbolici, vedeva Diòniso ben differente dagli altri Numi d’Olimpo. Questi vivevano lontani sempre dagli uomini, ricordandosi di loro solo per estorcere sacrifici; distributori, sí, dei beni e dei mali, ma distributori capricciosi: tanto che i poeti li rampognano spesso, amaramente, per la loro ingiustizia.

I benefici di Diòniso erano invece pronti, sicuri, tangibili, concessi tanto ai ricchi quanto ai poveri e agli schiavi (Baccanti, 454):

                         e in dono al misero
offre, non meno che al beato, il gaudio
del vino, dove ogni dolore annegasi.

Ma il vino era poi Bacco stesso, benigno sino al punto di comunicare sé agli uomini, d’immedesimarsi con loro: tanto che i suoi seguaci prendevano il suo nome, divenivano lui: come non esser grati ad un tale Iddio? Quindi la immensa popolarità di Diòniso. Gli altri Numi furono dai Greci solo temuti: Diòniso fu amato. E poiché dall’amore alla confidenza il passo è breve, perde’ anche, agli occhi del popolino, un po’ del suo prestigio celeste. [p. 8 modifica]

A ciò contribuí anche un altro fatto. Allorché Diòniso giunse sul suolo greco, lo trovò occupato da fitte schiere di demonietti burleschi, Cabíri, Satiri, Silèni, che avevano comuni con lui, sebbene in diversa misura e diversa tempra, alcuni caratteri: la vinolenza, la salacia, la passione per la vita libera agreste. L’affinità strinse invasori e invasi. Questi divennero ministri di quello, e gli appiccarono un po’ del loro carattere burlesco. La simpatia del popolino non poteva che accrescersi. Diòniso e il suo numeroso variopinto corteggio divennero popolarissimi, e si volle non solo udir le loro gesta, ma anche vederle rappresentate. Sorse cosí la prima tragedia, che, dunque, avendo come coro obbligato il petulante stuolo dei satiri pronti al commento buffonesco e salace, dove’ rivestir carattere semiburlesco. Ma a mano a mano crebbe il desiderio di veder gittare nella nuova attraente forma drammatica l’antico prezioso metallo dell’epica. I satiri cominciarono a sentircisi a disagio, ed infine esularono. Diòniso non li abbandonò. Re, di nome, d’ogni forma di composizione drammatica, rimase di fatto signore del dramma satiresco e della commedia.

Onde nella fantasia del popolino prevalse a mano a mano la figura di un Diòniso godereccio e carnascialesco, che, col non meno prediletto Ercole, divenne poi ospite abituale delle scene comiche, per trasformarsi, quale ci appare tuttora nelle Rane, in perfettissimo pulcinella, pancione, ghiotto, furbo, svelto di lingua e vigliacco per l’anima. Né si creda che tutti i Numi fossero così ridotti dalla commedia. Gli altri, ad eccezione d’Ermète, che aveva in sé molti elementi di comicità, attraversando la commedia, vengono anch’essi illuminati da un riflesso burlesco; ma buffonate non ne dicono. Si pensi, per esempio, all’Iride e al Posídone degli Uccelli d’Aristofane. [p. 9 modifica]

Ho fissato i colori fondamentali della cangiante figura di Diòniso. Ma s’intende come dal Diòniso martire dei misteri al Diòniso arlecchinesco delle Rane, interceda una serie di immagini intermedie. Questo spiega l’immensa popolarità del mito dionisiaco, e la predilezione accordata ai suoi soggetti dalla poesia e dall’arte figurata.

Nessun argomento attrasse gli antichi artisti piú della vita di Diòniso. Dalle arcaiche rappresentazioni del corteggio bacchico ai capolavori di Prassitele e di Scòpade, agli eleganti bassorilievi ellenistici, son centinaia, migliaia di corteggi bacchici, d’ogni stile e d’ogni carattere.

Né minore, lo assicura la tradizione, fu l’entusiasmo della poesia. Ma ben poco è giunto sino a noi delle composizioni ispirate a Diòniso anteriori alle Baccanti. Nell’Iliade (VI, 130) è narrato l’episodio di Licurgo, in pochi versi, senza nessun afflato dionisiaco.

Poiché neppur Licurgo, gagliardo figliuol di Driante,
a lungo visse, quando contese coi Numi immortali,
ei che le Ninfe, nutrici dell’ebro Dïòniso, un giorno
cacciò pei gioghi santi di Nisa. Gittarono quelle
tutte i lor tirsi a terra, battute dal pungolo aguzzo
dell’omicida Licurgo: Dïòniso, tutto sgomento,
giú si tuffò nei flutti del mare; e lui pavido accolse
Teti nel grembo; e per gli urli del Sire era tutto un tremore.

E dopo, a parte gl’inni omerici, nei poeti lirici non troviamo che briciole. Solo in Pindaro, prima della tragedia, vediamo guizzare alcune scintille della gran fiamma dionisiaca che ardeva gli artisti greci. L’ebbrezza bacchica è nel suo canto sposata all’ebbrezza primaverile (Ditirambi, IVº). [p. 10 modifica]

Olimpî, lo sguardo volgete al mio coro,
e l’inclito vostro favore largitemi, o Numi,
che della città popolosa,
d’Atene la sacra nel cuore,
tra fumi di vittime
movete, e per l’agora adorna gradite la messe
primaverile di mammole strette in ghirlande;
e a me rivolgete lo sguardo, che giungo
fulgente d’un raggio del Nume,
a dire, secondo nei cantici, il Dio cinto d’ellera,
cui gli uomini chiamano Bromio.
Io venni a cantar la progenie
di padri, di madri cadmèe.
Ché celebra il vate le feste,
quando, schiudendosi il talamo dell’Ore dai pepli di porpora,
la primavera fragrante schiude i nettarei calici.
Allora si lanciano fiori,
allor su l’ambrosïa terra
di mammole amabili petali s’intrecciano, e rose alle chiome.
Cantate, levando la voce tra i flauti,
o cori, cantate Semèle velata di serti.

E dopo questo, e prima della tragedia, non ci rimane piú nulla. I ditirambi? Fra le composizioni di Bacchilide, scoperte una quindicina d’anni fa, alcune erano designate nel papiro col nome di ditirambi. Ma una di esse, la piú bella, Teseo e i giovani, è conclusa da un’invocazione ad Apollo, e dunque sarà, piú probabilmente, un peana. Nelle altre, nulla che accenni ad influsso dionisiaco.

Anche i poeti tragici, naturalmente, s’erano occupati molto [p. 11 modifica]di Diòniso; ma anche delle loro tragedie dionisiache, non possediamo che rarissimi frammenti.

Eschilo aveva composta una trilogia su Licurgo. La prima parte, intitolata Gli Edoni, dové avere una condotta simile a quella delle Baccanti. Licurgo dava ordine, parrebbe, che si arrestasse e si conducesse alla sua presenza il nuovo Dio; e, veduto l’aspetto suo femminile, sclamava;

Qual femminetta è questa? La sua patria
quale? Quale il vestir?

Da un altro verso, celebre, perché, al pari del precedente, parodiato da Aristofane, ma troppo guasto perché si possa tradurre, pare che lo trattasse da ciurmadore. E alla liberazione di Diòniso gli abitanti della reggia e la reggia stessa, come la selva nelle Baccanti, sono colti da delirio bacchico:

coglie la casa un estro, i tetti un bacchico
delirio.

E alla pittoresca pàrodos della tragedia euripidea (126-137) fa pensare un altro brano un po’ piú lungo, nel quale si descrivono i canti e gli strumenti d’un’orgia bacchica (Frm. 57):

E di Cotíto celebran l’orgia.
Questi sui flauti,
opra del tornio, coi diti un cantico
ronzante segnano, che col suo strepito
la folla desta: quello dei cembali
il frastuono eccita: vibran le cetere:
paurosi mimi, da un invisibile
luogo, con voci di tauro mugghiano:
simile a inferno terribil tuono
greve del timpano s’effonde il suono.

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Molto meno potremmo dire della seconda parte della trilogia, le Bassàridi, quasi nulla della terza, I Giovinetti. Di un’altra trilogia dionisiaca di Eschilo ci rimane poco piú che i titoli: Semele, Le Baccanti, Pentèo; e pochissimo delle Xantriai, Le filatrici, in cui pur si narrava la morte di Penteo.

Sicché, senza insistere a voler trarre da questi resti miseri quanto essi non possono dare, ci conviene senz’altro passare all’opera di Euripide, che in parte ci compensa di tante perdite. Ma prima di contemplare il Diòniso euripideo, non sarà forse vano osservare altre due immagini del Nume, tracciate da due grandi artisti, un tragediografo ed un commediografo, Sofocle ed Aristofane.

Si leva la prima da un Coro dell’Antigone dove cosí i vegliardi tebani invocano il Dio:


Strofe I

Orgoglio di Sèmele, Dio dai molteplici
nomi, figliuolo di Giove
signore del tuono, che Italia proteggi, che regni
sui piani ospitali d’Elèusi
a Dèmetra sacri, che presso
il molle fluir dell’Ismèno,
in Tebe dimori,
che te vide nascere, presso
la stirpe del drago selvaggio!

Antistrofe I

Il fumo corrusco del duplice vertice
dove le Ninfe coricie
baccanti s’aggiran, te mira, te l’onda castalia.
E i clivi dei monti di Nisa
che d’ellera han chiome, e la verde

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pianura ferace di grappoli,
fra un evio clamore
di cantici sacri, t’inviano
di Tebe a mirar le contrade.

Strofe II

Di Tebe a te cara piú molto
che ogni altra città,
al par di tua madre, dal folgore spenta.
Ed ora da morbo veemente
ella è tutta invasa.
Col pie’ salvatore
tu valica il giogo Parrasio,
o il gorgo sonante del mare.

Antistrofe II

Oh duce degli astri dall’alito
di fiamma, che i canti
notturni presiedi, figliuolo di Giove,
or móstrati insieme alle Tíadi
di Nisa, che ebbre
ti seguono, e intera
la notte danzando, delirano
per Bacco dator di fortuna.

L’altra immagine appare tra il roggio fumo della festa notturna nelle Rane d’Aristofane (v. 323 sg.).


Strofe

Oh tu che alberghi in questa sacra sede,
o Iacco, Iacco,
muovi su questo prato a danza il piede

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fra i tuoi santi seguaci.
Squassa il mirto che, folto
di bacche, ombra il tuo volto
di florida ghirlanda: segna con passi audaci
in mezzo ai cori mistici
la mia giocosa danza,
pura, d’ogni fren libera,
cui largiron le Grazie ogni eleganza.

Antistrofe

Scuoti le faci, e la fiamma ridesta,
o Iacco, Iacco,
astro che irraggi la notturna festa!
Il prato arde di fuochi;
fremono dei vegliardi
già le ginocchia; e i tardi
anni e le cure scosse, corrono ai sacri giuochi.
Al lume delle fiaccole,
or qui avanti, o Beato,
i carolanti giovani
guida tu sul fiorito umido prato.

La poesia greca non ci ha tramandata altra piú radiosa immagine di Diòniso.

Se a qualche distanza dalla lettura cerchiamo in noi l’impressione delle Baccanti d’Euripide, troviamo un formidabile, duro, crudo urto di tragicità, una fosforescenza magica, una serie di mirabili pitture. Esaminiamo questi tre elementi della impressione complessiva.

Nelle Baccanti manca varietà d’episodî. Euripide non ha [p. 15 modifica]qui inventato alcuno di quegli intrighi, alcuna di quelle macchine che gli venivano tanto aspramente rinfacciate dai poeti comici. Tutta la tragedia è, da cima a fondo, un contrasto fra Diòniso e Penteo, e nulla viene a turbare questa linea possente e diritta.

E l’impressione di unità è accresciuta anche dal poco sviluppo e la poca individualizzazione dei caratteri. Questi sono enormemente semplificati. Le persone sono considerate solo per quanto sono o seguaci di Diòniso o sue nemiche. Ecco le due uniche molle. Altri sentimenti non hanno luogo. L’amore, che tanta parte aveva negli altri drammi d’Euripide, è qui sparito, e contro le Baccanti cade spuntata la rampogna che nelle Rane Eschilo muove al suo rivale, d’introdurre nei drammi troppe femmine. Perfino Agave compare solo all’ultimo momento; e nessuna scena anteriore effettua la preparazione patetica del finale, che però scoppia tanto piú terribile e raccapricciante.

Questa intensità e questa concentrazione spiegano solo in parte la straordinaria tragicità delle Baccanti. C’è forse altro.

Un lettore moderno non può non sentirsi offeso da molti luoghi di questa tragedia. Diòniso, il Dio verso cui evidentemente è rivolta la simpatia del poeta, a tratti riesce quasi odioso. La sua ferocia nel vendicarsi passa ogni limite. Quando Agave lo ammonisce:

Rancor mortale ai Numi non s’addice,

il nostro sentimento è d’accordo con la sciagurata.

Ad ogni modo, Agave era macchiata di grave colpa, aveva calunniata Semele. Ma Penteo? Si oppone fieramente al Dio; ma la onnipotenza di questo rende vana e quasi puerile la sua opposizione. Onde tanto piú atroce sembra lo scempio del misero, tanto piú crudeli le allusioni sarcastiche [p. 16 modifica]con cui Diòniso gli annunzia che morrà per mano di sua madre. E quando Agave, tornata alla ragione, riconosce la testa recisa del figlio, ed esclama:

Che colpa avea di mia follia Pentèo?,

noi sentiamo, anche una volta, che il nostro cuore vibra con lei.

Ed anche Pentèo aveva, in fondo, la sua colpa. Ma Cadmo? Cadmo, il misero vecchio che s’era spontaneamente indotto a vestirsi da baccante e a seguire il Nume? Egli sarà tramutato in drago, e sua moglie in serpe; e dovranno, oramai cadenti, andare esuli in terre straniere. Perfino il Coro, che a proposito di Pentèo sa mostrarsi non meno spietato di Diòniso, osserva quanto sia stato ingiusto punirlo:

Cadmo, di te mi duol. Giusta la pena
fu pel nipote tuo, ma per te dura.

E Diòniso stesso deve, in certo modo, riconoscer l’eccesso della sua crudeltà, e cerca di scusarsene:

Di Giove è quanto avvien decreto antico.

Ora, crederemo che coscientemente, deliberatamente, Euripide abbia formato giudizio cosí diverso dal nostro, abbia violata una legge di giustizia che pure nella sua mente speculatrice, nel suo sentimento fine e moderno, doveva aver radici profonde?

Non credo. Euripide, come diremo súbito, ha voluto in questo dramma far fede d’ortodossia concettuale ed artistica. E cosí, ha preso il mito quale glie l’offriva la tradizione. Questa narrava che Agave compie’ lo scempio orribile, Pentèo lo patí, Cadmo fu tramutato in drago e andò esule con la [p. 17 modifica]consorte? Ed Euripide rappresenta con l’arte sua quanto il mito gli offre, senza sottoporlo alla critica abituale.

Comunque sia di ciò, certo l’effetto che risulta da questa ortodossia mitica, è possente. Appunto per quel che hanno di meno convincente, di eccessivo, d’atroce, queste situazioni cozzano l’una contro l’altra con violenza straordinaria.

E tanto questa inumana crudezza delle situazioni quanto la semplificazione dei caratteri e la unità della linea, dànno alle Baccanti un carattere arcaico, grandioso e terribile, che le distingue nettamente dagli altri drammi d’Euripide. Giunto all’estremo della vita, il poeta ha voluto levare al Dio dell’arte sua un grande austero monumento, ed ha composto questo non dramma, bensí mistero di Diòniso. Nel mistero, tutto deve essere subordinato alla figura del Dio, che campeggia da cima a fondo, radiosa e terribile. E i cori, che, insinuandosi armoniosi tra scena e scena, abbelliscono e ammorbidiscono la severa linea dell’azione, completano mirabilmente il quadro della vita dionisiaca: danze notturne, fughe attraverso selve, cacce cruente, prodigi compiuti sulla natura, e la nascita di Diòniso e la sua puerizia tutelata dai Cureti, e gli strumenti, le danze, le corse e i riposi montani; è come un gran fregio che corre intorno al gruppo centrale del trionfo di Diòniso, dello scempio di Penteo; ed anche nel fregio trionfa la figura del Nume che leva alta la ferula col fuoco sacro:

Alta squassando Bacco la rutila
vampa che sprizza dalla sua ferula,
si avventa in corsa, con la danza eccita,
con le grida eccita gli erranti, e all’ètere
scaglia i suoi riccioli
molli, ed insieme coi lieti cantici
grida cosí.

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E tra i cori e l’azione, appare ritratta in ogni suo particolare la mutevole fisonomia di Diòniso quale ho cercato tracciarla. La parte comica è, naturalmente, sparita. E tuttavia tracce ne permangono, per esempio nella scena del travestimento di Penteo, che diede il modello ad una scena delle Tesmoforiazuse d’Aristofane.

Il mito di Diòniso aveva molti elementi magici. Euripide li sviluppa mirabilmente, e ne avvolge tutta la tragedia d’una prestigiosa atmosfera. Fin dalle prime battute ci sentiamo presi in un mondo d’allucinazione, ed incomincia a insinuarsi nell’animo nostro un indefinibile senso d’inquietudine. Cadmo e Tiresia, vegliardi, appaiono in veste di baccanti, pronti alla danza. Il presunto ciurmadore, Diòniso, che neanche le Baccanti sue seguaci conoscono per Dio, giunge avvinto di catene, e ride: rideva anche nel momento che lo fecero prigione. Quando Penteo lo fa trascinare nelle stalle, e legare, l’ordine naturale si sommuove: dalla tomba di Semele si levano altissime fiamme, la terra traballa, la reggia di Penteo arde e crolla. Giunge dal Citerone il pastore, e narra i prodigi delle baccanti. Penteo s’induce a vestirsi da donna, allucina, e crede scorgere due soli, e Diòniso tramutato in toro: l’allucinazione diviene follia, e i suoi discorsi d’ora in poi son privi di senso. Quando sono tra i monti, Diòniso ghermisce l’altissima vetta d’un abete, e la flette al suolo. All’urlo eccitatore del Nume, le belve, le foglie, i venti, tacciono, e una luce soprannaturale arde tutto l’ètere. Agave compare recando infitta sul tirso la testa del figlio, e giubila.

E segue la meravigliosa scena fra Agave e Cadmo. È un vero e proprio esorcismo. Cadmo impone alla figliuola di fissar lo sguardo nell’ètere, per immergerla in una specie di [p. 19 modifica]catalessi, per ricondurre il suo spirito dal terribile groviglio di sensazioni folli ad uno stato originario neutro, per renderlo una pagina bianca. E su questa incomincia a tracciare, linea per linea, la terribile sigla che conduce Agave al tragico rinsavimento. È una scena shakespeariana; e l’attrice che sapesse degnamente renderla, potrebbe, con l’urlo d’Agave, far correre negli spettatori un brivido soprannaturale.

Col rinsavimento d’Agave, l’incantesimo è rotto, e tutto rientra nell’ordine naturale. Ed anche il lettore sente infine, con un sospiro di sollievo, spezzato il sortilegio che cosí a lungo lo aveva irretito.

Nella prefazione generale ho parlato delle native facoltà poetiche d’Euripide, intensificate dai suoi studî giovanili. Nelle Baccanti piú che in ogni altro dramma se ne vedono nitidi ed efficaci i riflessi.

I due racconti dei messi sono insuperabili esempî di quanto possa la parola per emulare l’evidenza della pittura. E per ogni parte del dramma circola questo fermento pittorico, e ne rende ogni elemento oltremodo vivido e caratteristico. Basterebbero i versi coi quali Penteo descrive Diòniso (230):

un fattucchiere ciurmador di Lidia,
di bionde chiome ricciole fragranti,
vermiglio in viso e voluttà spirante
dalle pupille.

Son pochi tratti: eppure la sua figura ci sorge innanzi indimenticabile; e non rimase certo senza influsso sul tipo di Diòniso che effigiò l’arte posteuripidea, ben diverso dall’antico Diòniso barbato. E un tardo scrittore, Callistrato, descrivendo [p. 20 modifica]il Diòniso di Prassitele, asseriva che esso era nel marmo quale Euripide lo aveva effigiato nel verso2.

Ma piú che altro questa abilità pittorica è volta a rappresentare il singolare magico paesaggio.

Date le speciali condizioni del teatro greco, il drammaturgo non poteva sperare una realizzazione scenica che in qualche modo equivalesse agli sfondi, quasi sempre meravigliosi, sui quali, nell’allucinazione dell’estro, aveva vedute svolgersi le vicende dei suoi drammi. Perciò tentava di fissarli nella trama dei versi.

E, d’altra parte, il genere drammatico è per sua natura contrario alle troppo lunghe descrizioni di paese: bisognava dunque ottenere un grande effetto con pochi mezzi.

Si può dire che Euripide eccelle in quest’arte. E nelle Baccanti, stravince.

Se analizziamo, le sue descrizioni non sono lunghe.

                                   In una gola
cinta di rupi, fra spicciar di linfe,
sotto l’ombra dei pini, eran le Mènadi. —

E pria posammo in un vallone erboso,
muti, smorzando il battito dei piedi.

                         ghermita d’un abete
la somma vetta che toccava il cielo.

Brevi cenni. Eppure tutti i critici hanno osservato, e ogni lettore e ogni spettatore sente tutta questa tragedia pervasa da odor di pini e da orrido incanto di solitudini alpestri. [p. 21 modifica]È proprio cosí. Quei pochi tratti sono tanto precisi, efficaci, incisivi, che tutto il dramma è pieno del Citerone, del Citerone maledetto — come geme infine Agave — che diviene infine una specie di pauroso idolo invisibile imminente su tutta l’azione.

Difficilmente si potrebbe immaginare un soggetto che meglio delle Baccanti si prestasse a grandi effetti musicali. Appunto in seno ai riti dionisiaci crebbe e si svolse quel tipo speciale di musica che dall’Oriente irruppe nella Grecia, simile a torrente primaverile, e che alla tradizionale melodia sobria ed austera ne sostituiva una piena di foga e di slancio, alla cetera limpida e composta, disciplinatrice d’anime, il flauto che con la voce intima passionale sconvolgeva profondamente i cuori.

Euripide, abile musicista, e seguace, come vedemmo, o, almeno, ammiratore dell’ardito innovatore Timoteo, dipinto dalla tradizione quasi come un Wagner di quei tempi, dove’ certo trarre partito dei mezzi che gli offriva la nuova tecnica. Purtroppo, tutta questa parte della sua creazione, che doveva elevare molto il complesso valore della tragedia, e insieme mascherare alcune prolissità e negligenze assai visibili in qualche parte corale, è irremissibilmente perduta.

Ma già l’analisi degli schemi metrici ci fa vedere che la cura posta da Euripide nel musicare questo lavoro fu straordinaria. Solo l’esame del testo può mostrare con quanta precisione i ritmi seguano e figurino il vario atteggiarsi dell’azione. Qui mi limito ad osservare che l’abbondanza delle misure 3/4 in levare, da me rese in genere con movimenti dattilici e anapestici, caratterizza le danze e tutta la vita dionisiaca; e che la quadratura, che si può quasi sempre ricostruire sopra una relativa semplicità di figurazioni, conferma quanto già [p. 22 modifica]congetturammo, che anche in questo ultimo lavoro Euripide dove’ seguire il movimento generale dell’arte dei suoni, che via via si ispirava ad una piú sottile ricerca di accenti espressivi, e ad una conseguente semplificazione ritmica.

Non deve poi sfuggire la singolare ripetizione di alcune parole, certamente voluta, e che accenna ad un effetto musicale ben familiare ai moderni. Le parole «al monte al monte» tornano due volte (121, 162), e quattro sono accennate (86, 95, 138, 142) nella pàrodos, per riapparire due volte (961, 969) nella feroce canzone in cui le baccanti si eccitano allo scempio di Penteo.

Nessun dubbio che alla ripetizione di parole corrispondesse ripetizione di melodia. E senza fantasticare di motivi conduttori, potremo però asserire che si aveva qui un tèma, il tèma dell’estro bacchico, che ricorreva quando lo richiedesse la situazione.

Una delle piú trite questioni intorno alle Baccanti riguarda la conversione d’Euripide. Euripide, il critico e dispregiatore dei Numi, si mostra qui invece pedestre zelatore della ortodossia. Come si spiega?

Si presenta súbito la risposta che qui il poeta sia perfettamente obiettivo, e che la responsabilità di quelle dichiarazioni ortodosse spetti intera ai personaggi che le pronunciano.

Ma chi esamini senza partito preso, deve riconoscere che il poeta simpatizza palesemente con Diòniso, e che questa simpatia gli è pretesto a sostenere l’ossequio in genere ai Numi. Se non che, a guardare un po’ attentamente la maniera con cui tale principio è sostenuto, sembra chiaro che Euripide, piú che fare una professione di fede, abbia assunto un atteggiamento polemico. [p. 23 modifica]Infatti il punto capitale su cui si picchia e si ripicchia è che gli uomini si debbono astenere da ogni sottigliezza.

197. Né intorno a lor sottilizziam. Le avite
credenze, antiche quanto il tempo stesso,
niun argomento abbatterà, per quanto
si stilli acume da sottili menti.
380. Savio non è chi troppo è savio, e l’occhio
oltre agli umani limiti
volge.
410. Ben saggia cosa «l’intelletto e l’anima
lunge tener da gli uomini
che presumono troppo.
877. Mai nulla che travalichi
le antiche leggi non si brami e investighi.
896. Ma chi felice vive del fuggevole
giorno, beato io reputo.

Ora, tutti questi appunti non possono toccare il povero Penteo. Al massimo pecca di prosunzione. Ma questa prosunzione non deriva da speculazione filosofica; né si potrebbe dire che il misero sottilizzi mai. Non travalica le antiche leggi, anzi si oppone alle nuove. E abbastanza strano è che Cadmo parli di credenze antiche quanto il tempo stesso, giusto a proposito di un Nume nuovissimo.

In realtà, questa polemica non parrebbe diretta contro la prosunzione di Pentèo, bensí contro la prosunzione dei filosofi coetanei d’Euripide e contro la loro mania di speculare e sottilizzare. E poiché Euripide appartenne anch’egli alla loro schiera, e con le sottili sue lucubrazioni aduggiò spesso i suoi [p. 24 modifica]drammi, parrebbe si dovesse concludere che queste Baccanti siano una palinodia. Palinodia intellettuale ed artistica ben piú che religiosa. E cosí completa, che molte delle massime enunciate da Euripide potrebbero essere state scritte da Aristofane, il suo fierissimo nemico.

Misi in scena le Baccanti, nella mia versione, e con la musica dei cori e delle danze anche composta da me, il 18 maggio 1912, al Teatro Verdi di Padova. Furono súbito ripetute alla Fenice di Venezia, e al Politeama Rossetti di Trieste.

L’anno seguente, 1913, furono riprese, insieme con l’Alcesti, il Ciclope, e le Nuvole di Aristofane, al Teatro del Popolo di Milano; e ripetute all’aperto, il maggio successivo, al Teatro Romano di Fiesole, il giugno allo Stadio di Roma.

Il 1914 furono rappresentate all’Arena di Verona.

E dopo la guerra, il 1921, al Teatro Greco di Siracusa, dove la parte di Agave fu interpretata da Teresa Franchini, e il 1922 al Carlo Felice di Genova.

Già fin dal 1911 avevo messe in scena, anche al Teatro Verdi di Padova, le Nuvole di Aristofane. Ma per la pronta ripercussione che ebbero un po’ dappertutto, queste Baccanti furono come l’araldo delle Rappresentazioni classiche in Italia.


Note

  1. Intorno ai misteri si può leggere l’ottimo libro di Vittorio Macchioro, Zagreús. Si può anche vedere, in questa collezione, la prefazione alle tragedie d’Eschilo.
  2. Stat. 8: ἦν δὲ ἀνθηρός, ἀβρότητος γέμων, ἰμέρῳ ῥεόμενος, ιἷον αὐτὸν Εὐριπίδης ἐν Βάκχαις εἰδοποιήσας ἐξέφηνε.