Le Istorie Trentine in compendio ristrette/Epoca seconda
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EPOCA SECONDA.
Tutta la provincia trentina
viene in potere de’ Romani.
La Rezia, in ispezie la settentrionale, ch’è anche a’ dì nostri un povero paese, fu più povero ancora ne’ tempi de’ quali abbiamo discorso. Questo spiega come i Romani, che tanto si affaticarono per conquistare altre molte regioni da Roma assai più che la Rezia lontane, di soggiogare questa non si curarono. Ma dopochè i Cimbri e i Teutoni con altri popoli germanici, calando anche da questa parte, minacciarono di usurpare le loro più belle e fertili italiche provincie, e dappoichè Giulio Cesare (famoso duce romano) ebbe conosciuto per esperienza qual gente fossero i Germani, si dovette in Roma prendere la risoluzione di conquistare ad ogni costo le retiche alpi tutte a fine di farsene barriera a sicurezza d’Italia, e potere di quivi operare contro i popoli di Germania, non forse per farvi bottino, chè poveri erano anch’essi, ma per renderli, come speravasi, impotenti ad eseguire le temute invasioni.
Con questo intendimento adunque, e non per punire le sceleratezze de’ Rezii, come calunniando questi e adulando i Romani procurò di dar ad intendere Dione Cassio, il primo de’ Romani imperatori, Ottaviano Augusto, mandò i suoi figliastri Druso e Tiberio a soggiogare gli abitatori delle alpi retiche e delle altre ancora. E come le Retiche erano le più popolose, e la resistenza che gli abitanti opposero agl’invasori fu da questa parte la più vigorosa, questa si disse la guerra retica.
Druso venuto nel Trentino combattè prima presso Trento, o come scrive Dione presso le alpi trentine, che sono le montagne prossime alla città, contro ai Rezii che verso lui venivano, e dopo lunga pugna li mise in fuga. Poco dopo tornati essendo i Rezii all’attacco, fece egli nuova irruzione, e venne a battaglia in più luoghi, principalmente ne’ contorni dove furono poi le città di Bolgiano e Merano, contro gl’Isarci, i Venosti, i Passeriati, e forse contro i Brissenti, se però questi erano gli abitatori de’ monti intorno a Brixen.
Un ponte che portò il suo nome, Pons Drusi, eretto o sull’Isarco, o come più probabile sembrò al Conte Giovanelli, sull’Adige presso al forte castello Formicario, è, come anche lo accenna la natura de’ luoghi, prova certa che in que’ dintorni si combattè. Fin dove si avanzasse egli dopo le vittorie ivi riportate, dove s’incontrasse col fratello Tiberio, che veniva dalla sottomessa Vindelicia, a compiere insieme la conquista di tutta la Rezia, gli Scrittori nol dicono.
Quello in che tutti si accordano è che queste libere genti opposero agli assalitori ostinata resistenza. Difendevansi disperatamente ne’ loro forti castelli posti sopra alte rupi, de’ quali non pochi furono poi da’ vincitori demoliti. Finalmente convenne loro cedere dappertutto all’arte e alla forza prevalente de’ Romani al vincere assuefatti. E quello che toccò ai Rezii più di ogni altra cosa doloroso fu il dover piangere la schiavitù de’ loro più forti giovani, i quali al dire di Dione, finita la guerra furono condotti via in altri paesi, ed erano in grandissimo numero. Qualcuno disse per congettura che si trasportarono in Sicilia a lavorarvi la terra. Se alcun d’essi ne sia ritornato non si sa.
Vellejo Patercolo racconta il fatto della conquista della Rezia e della Vindelicia colle seguenti parole: Risolvette l’Imperatore di far esperimento di una guerra di non piccola importanza e ne diede il carico a Tiberio e al fratello di questo Druso Claudio. Divise dunque le parti, e attaccati li Rezii e i Vendelicii, per assalti dati a molte città e castella, e per ordinate battaglie, con maggior pericolo che danno dell’esercito romano, e con moltissime uccisioni, domarono felicemente quelle genti per le posizioni loro, che difficilissime erano ad assalirsi, in piena sicurezza, frequenti per numero, e truci per ferità. A me sembra considerando questo passo di aver letto una relazione di gazzetta, nella quale si annunzia che fu vinto un esercito di valorosi, ed occupata un’ampia provincia colla sola perdita di tredici morti, e quarantacinque feriti! Ebbero anche i Romani i loro bravi gazzettieri!
Non pago Augusto di avere spopolata la Rezia, fece tosto, per paura di nuovi movimenti degli irritati, aprire, come narra Strabone, comode nuove strade in tutte le direzioni. Le quali opere, sebbene i Rezii, che furono a travagliarvi costretti, credessero essere fatte, ed era vero, per toglier loro ogni speranza di libertà, furono per la maggior attività di commercio che naturalmente ne conseguitò, non meno ad essi che ai vincitori utilissime. Così a questo mondo non accade sventura che non produca poi qualche sorta di bene.
Fu proposto il dubbio se durante la retica guerra tutti i Trentini restarono tranquilli, o se almeno qualcuna delle valli non prima sottomesse dai Romani vi prese parte combattendo contro essi! A me sembra che i Nauni, poiché stanno di mezzo fra i Camuni, i Venosti, e gl'Isarci, contro i quali i Romani pugnarono, sieno stati anch'essi tra quelli che fecero opposizione. Per ciò non mi comparisce tanto certo quanto altri il fanno che in Plinio, là dove sono enumerati i popoli alpini sottomessi da Augusto, invece di Naunes si debba leggere Genaunes, o che questi, se così convenisse leggere, non sieno gli abitanti della Naunia. Quel Genaunes può essere una contrazione di Gens Naune, che significa la gente della Naunia. Certo quella strettissima valle tedesca (Valgenaun) nella quale vuolsi che fossero i Genaunes contener non poteva allora, come non li contiene adesso, que' molti feroci ed implacabili contro i quali se la prese il poeta Orazio perché fecero costar cara ai Romani la vittoria. Quelli erano un pugno di gente; e all'incontro la Naunia, che molto si estende in ampiezza, poteva opporre un gran numero di combattenti. Se così fosse come pare a me, dovremmo allora dire che il primo conflitto alle alpi trentine fu sostenuto dai Nauni e da quelli delle Giudicarie, a' quali tutti erano frammisti i valorosi Galli. Anche quelli della valle di Fiemme, che si crede essere stati i Flamonienses ricordati da Plinio, possono avere preso parte al primo combattimento, ed essersi poscia uniti agl'Isarci, ai Brissenti, ed ai Brauni per sostenere all'Isarco l’urto de' Romani facendo, come sta scritto; quel fiume rosso del sangue retico e romano.
Ma intorno a questo si tenga chi vuole all'opinione che potrà farsi più verosimile. Quello ch'è certo, e che importa assai di sapere, si è che dopo la guerra retica tutto il Trentino fu assoggettato a' Romani, e che il loro imperatore Augusto vi esercitò signoria e comando qual assoluto sovrano. E per tenere ben in freno così i Trentini come i prossimi Rezii ristaurò, ampliò, ed anche abbellì il castello sulla Verruca ponendovi presidio; ciò ch'ei fece per mezzo del suo legato (Luogotenente) Marco Appulejo figlio di Sesto, come ne insegna una bella nostra lapide. Ne' castelli entro le valli furono posti Speculatores, ossia osservatori, uomini che stavano alla vedetta spiando l'andamento e i movimenti della gente; erano una polizia non secreta, ma posta in sicuro. Se Augusto abbia conferiti ufficii ad alcuni de' nostri per convertirli in spie occulte, o in zelanti lodatori, nol sappiamo.
Dovrò dire che subito dopo la conquista s'incominciò qui a conoscere e poi a parlare la lingua latina? Il Latino era un dialetto poco dissimile dall'Etrusco che quì si parlava da lungo tempo, ed ambi avevano per fondamento la comune lingua d'Italia; sicché tra noi più facilmente che altrove e più presto potè l’idioma de' Romani farsi linguaggio comune. E se vi erano allora di quelli che amano di leggere, gli scritti de' grandi Uomini di lettere che vissero a' tempi di Augusto, e presto dopo, debbono certo avere portato frutti d'intellettuale coltura, e d'incivilimento anche presso la nostra gente.
PERIODO DI PRESSO A QUATTROCENTO ANNI.
E prima d'ogni altra cosa convien dire che Trento fu in que’ tempi città forse più ampia, e più bella che non è al presente, benché nemmeno adesso il pregio della bellezza le manchi. Prova ne sono gli aquedotti scoperti a molta profondità sotto le fondamenta delle case, i frammenti di colonne e di fregi pur rinvenuti sotterra, gli avanzi di un ampio fabbricato che si giudicò essere stato anfiteatro, ed oltre al castello sulla Verruca, a' cui piedi sorgevano edifizii formanti probabilmente parte della città, le solidissime torri che gl'intelligenti riconoscono per romane, senza dire del Campo marzio dove si può credere che fossero altre fabbriche. E quanti altri monumenti non saranno stati distrutti dal tempo, e dai barbari che tante volte, siccome si dirà, diedero il guasto al paese? Per tutto ciò possiamo ben prestar credenza a chi scrisse che Trento fu tra 'l numero delle più popolose, opulenti, e chiare città italiane. Nè sia chi trovi in tal detto esagerazione. Imperocchè già consta da tutta la romana Istoria che le città da' Romani conquistate furono pressoché tutte per suggerimento o voler loro aggrandite, e decorate, ed empiute di popolo. Ciò poi che rende ancora più credibile quanto si offermò è che poche città erano per li Romani d'uguale o maggior importanza che Trento. La sua posizione tra' monti verso Germania, agli attacchi e alle difese opportunissima, essendo i Germani sempre inquieti, rendeva necessario che qui fossero concentrate forze imponenti d'ogni maniera.
E in fatti questo fecero i Romani. Era uso di loro che, finita una guerra d'importanza, e fatta una conquista, mandavano ne' luoghi più idonei cittadini loro, poveri, e ricchi, e soldati benemeriti, a' quali assegnavano campi da coltivare, e che per ciò dicevansi coloni, ossia coltivatori, e il totale di questa gente, e il luogo ove stanziava appellavano Colonia. Questo facevano dappertutto, come assicura Cicerone, dove sospettavano pericolo, acciocché le Colonie difendessero, ivi fortificatesi, l'impero; e ad animarle e interessarle maggiormente accordavan loro esenzioni e privilegii apprezzabilissimi, sicché formavano ognuna una Repubblica. Trento fu già di buon'ora, per le esposte ragioni Colonia romana delle più importanti. E sebbene i Trentini abbian dovuto cedere ai coloni parte del territorio, pure essendosi questi fatti anch'essi trentini, ed avendo associati gli antichi abitatori al godimento de' loro privilegii, tutto il paese venne presto migliorando condizione, almeno per qualche tempo, in grazia appunto di tali privilegii, e ancora coll'aumento in popolazione, e in coltura, che a que' tempi i Romani erano in arti, lettere, e scienze utili coltissimi. Non potendo in un compendio dirne di più, rimetto i Lettori alle erudite opere del barone Cresseri e del conte Giovanelli, i quali dilucidando le nostre lapidi che alla trentina Colonia si riferiscono, esposero chiaramente ed ampiamente quanto riguarda ed onora Trento ne' tempi che discoriamo.
Privilegii non dissimili da quelli accordati a Trento godevano pure li Nauni, detti in latino Populus Naune, Populus naunitanus, imperocchè la Naunia, la più ampia delle trentine valli, fu Municipio, che al dire di Aulo Gellio era poco meno che Colonia, ed oltre a ciò aveva un Emporio, collegio ovvero convegno di mercadanti che trattavano insieme le bisogne commerciali. Non si può dubitare che non appartenga alla Naunia la Tavola in rame che di tutto questo ne assicura (si può leggere intera nel libro su la Naunia del nobile Giacopo de Maffei da Revò) perché questa valle fu veramente in quel tempo, come si vedrà più innanzi, assai popolata, ed eranvi molti castelli, e vi avevano collegi di ministri pel culto.
Abbiam detto delle vie che nelle alpi fece aprire Augusto, ed osservato che esse facilitando il commercio furono di utilità. Utili maggiori, ma pur anco danni, apportarono quelle che nel Trentino furono costrutte e munite ben presto dopo. Una partivasi da Verona, e facendo mansione (stazione) ad Palatium (ch'è Avio, ovvero Ala) guidava a Trento. Un'altra conduceva similmente a Trento partendo da Oderzo, e passando per Feltre, e di là venendo ad Ausugium, ch'era dove ora è Borgo in Valsugana, o lì presso. Da Trento poi conducevano ambe queste vie ad Endide, ch'è Egna; da Endide a Sublavione, che il conte Giovanelli sostiene essere stata Muja, oggi Mais, vicin di Merano, ed altri Sabiona, oggi Seben; da Sublavione a Vipitenum, ch'è l'odierno Sterzing a' piè del monte Brennero verso noi; da Vipiteno poi guidava a Valdidena, che è Vilten di là di quell'Alpe, sul piano dov'è Innsbruck. Notate che sebben Innsbruck sia detto latinamente Oenipons, questo non è quell’Oenipons nominato come stazione su le vie romane coll'indicazione ad Pontem Oeni, perché dov'ora è Innsbruck era in que' tempi Valdidena, e perché la stazione ad Pontem Oeni era su la via che veniva dalla Pannonia (Ungheria) in Germania, e trovasi posta lontano da Valdidena di ben quattro stazioni, giù basso fuori de' monti. Un'operetta del conte Giovanelli intitolata: Sopra la Via Claudia Augusta da Trento a Vipiteno: potrebbe leggersi con piacere e profitto dai nostri per le belle notizie che in quella ne offre riguardanti il Trentino, s'Egli non l'avesse scritta in Tedesco. Di quelle notizie noi approfitteremo ancora tra poco.
In Trento e nel suo territorio, specialmente nel settentrionale, stanziarono in que' tempi molte soldatesche, e pur molte transitarono per di qua portandosi in Germania, o tornandone per le dette vie. Soggiornava qui la terza legione (reggimento) italica; e le nostre lapidi conservano più nomi de' loro comandanti. Dicemmo che entro alle valli erano Speculatori, e questi facevano dimora per loro sicurezza in castelli fortificati. Castello romano fu Vervassium presso la terra ora detta Vervò nella Naunia; ne sono prova le iscrizioni sopra lapidi ivi stesso rinvenute, delle quali qualcuna è ora in Verona. Da una lapide scoperta in Revò, pur nella Naunia, si rileva, che anche ivi, e il luogo è adatto, erano Speculatori. Questo ci fa credere che alcuni castelli lungo le vie nella Valsugana, nella Lagarina, e nelle valli di Sarca abbiano anche ivi servito a tal uso. Tali si posson credere que' che eran posti sopra eminenze.
Ma se tutto il detto giovò a tenere tranquilli i Trentini, poco valse ad atterrire e frenare i popoli della Germania che, insofferenti di giogo, e vogliosi di calare, secondo il costume antico, nella bella e ricca Italia, assalirono più volte la Rezia settentrionale, e fin qua entro, e più a basso portarono stragi e ruine. Il valente Frapporti (ne' suoi Discorsi su la trentina Istoria) compendia quegli avvenimenti così: E' la storia delle invasioni concisa e sconnessa, ragione per cui evitando nojose ripetizioni dirò in un fiato quanto sarebbe mestieri enumerare in piccoli incisi. Sotto Marco Aurelio spingevansi i Germani nel Norico e nelle Rezie, e ne li cacciavano i suoi Legati. Caracalla profligava i novelli invasori la seconda volta. Sotto Gallieno, ormai non contenti delle provincie, scendevano a dirittura a disertare tutta la superiore Italia. Reduci ricchi d'immensa preda, ricalavansi poco dopo, e al Benaco erano frenati e sconfitti da Claudio secondo. Ma tornando bentosto più furibondi, tutto depredavano fino al Po, dove in tre battaglie li disfece Aureliano. Brillava per l'Italia un raggio di speranza sotto il valorosissimo Probo, e questi, non pur d'Italia, ma snidavali dalle Rezie, ch'egli afforzava di nuove opere contro gli assalti loro. Ripigliavano il vecchio costume sotto Costanzo, e frenavanli i suoi Comiti. Ma insuperabile ebbe a riuscire la loro piena sotto Valentiniano e Valente, e si dovette per quasi un decennio lasciar loro scorrere a piacere e disertar le provincie, finché non riuscì disfarli a Teodosio. Sperimentato come gl'Itali si potessero vincere anche in casa loro, fecero un passo più innanzi, e posero a dirittura fermo piè di qua del Danubio, inondando, e tenendo le Rezie come luogo di asilo e riscossa. Notisi che il Frapporti per Rezie intende la Vindelicia, e il paese montano di là del Brennero.
Chi vorrà di tali invasioni far un computo, si assicurerà che elle sommano al numero di nove, e veduto come tutte o immediatamente, o mediatamente colpirono il Trentino, sarà mosso a deplorare la sventura de' nostri antichi padri a' quali toccò di ricevere così spesso le visite e soffrire le rapine di que' Barbari.
Il Trentino era, secondo che già osservammo, posizione tale da doversene fare gran conto volendo o difendere le altre italiche provincie, o muovere di qua per tenere in soggezione i Germani. Per ciò non è dubbio che nel tempo di quelle invasioni non si allestissero qui grandi apparati di guerra. Ammiano Marcellino racconta che Giuliano Cesare, poiché gli Svevi facevano incursioni nelle Rezie, credette necessario lasciare le delizie di Roma, sono le sue parole, per venire a Trento a fin di disporre de' mezzi con che sedare e quelli, ed altri movimenti de' Barbari. Anche l’imperatore Graziano venne poco dopo in persona a Trento, e di qui passò a Bauxare, allora castello o borgata e più tardi città di Bolzano, per visitare i luoghi forti, e provvedere ai bisogni delle difese. Vedete l’opera di Giovanelli: Su la via Claudia Augusta.
Per quanto dicemmo delle romane Vie nel Trentino, delle invasioni de' Germani, e della opposizione che da questa parte si dovette loro fare, nasce il desiderio di sapere fin dove si estendessero allora verso il settentrione i confini, della trentina provincia, e quali e dove fossero i luoghi fortificati e presidiati per la difesa. Leggiamo che di là di Endice, (Egna, difesa probabilmente dal castello Enne) su la destra dello Adige era il luogo detto Vadum (Vadena) sito dove si guazza, si passa per l’acqua facilmente, difeso da Fetibus: ch'erano due castelli con presidio; che più su di Vadum fu il Castello fortissimo Formicarium, e forse ivi presso il Ponte di Druso; che di là del pure ben sito e fortificato Bauxare, più in fuori nella stretta valle dell'Isarco, ivi dov’è ora la Chiusa, eravene un altro col nome di Serarium; che nel piano dell'odierno Mais, di qua di Merano, trovavasi la murata città di Maja; che presso al luogo dov'è al presente la città di Merano, all'apertura della valle Passiria sorgeva un altro castello con ponte sul Passero, e finalmente che sul colle soprastante a Merano torreggiava Teriolis ampio e forte, gran deposito d'armi, e di viveri, tremendo per la sua posizione, al quale non si poteva giungere da chi scendea dalla valle de' Venosti senza superare Teloneum altro luogo fortificato con ponte sull'Adige all'apertura di quella vallea. Que' castelli, molti e fortificati, avevano presidii che dovevano assicurare e favorire ogni sorta di trasporti a Vipiteno, od a Brigantium (Bregenz), difendere l'ampio tratto del bello e fertile paese che forma adesso i territorii di Bolgiano e Merano, opponendosi ai Rezii boreali, e ad altri nemici che tentato avessero di scendere dalla valle de' Venosti o da quella degli Isarci, ed ove fosse abbisognato accorrere in ajuto del corpo, che stando in Vipiteno guardava il Brennero, quando non avesse potuto avere soccorso per la via che là faceva capo da Aquileja ed Agunto per la valle della Rienza, cioè per la Pusteria. Di tutto questo si farà certo chi, dopo aver presa cognizione de' luoghi vorrà leggere o farsi spiegare i due scritti del nostro conte Giovanelli sopra la Via Claudia Augusta, e sopra un'Ara dedicata a Diana, trovata su la via che porta nella Venosta in vicinanza di Teriolis presso al Telonium or detto la Tell.
Trento però era il luogo dove gl'Imperatori stessi venivano a fare gli ordinamenti per la guerra, il luogo d'onde partivano per que' castelli e, più in fuori fino in Germania le armate, il luogo dal quale si spedivano ordini, viveri, ed armi, la città se non unica, almeno certo primaria e principale della Rezia di qua della somma Alpe. Non si può quindi mettere in dubbio che i confini del Trentino in que' tempi non si estendessero appunto fin là, fino alla gran catena degli alti gioghi che l'Italia dalla Germania geograficamente dividono.
Conviene tuttavia notare che, poiché la Germania e la Rezia settentrionale furono sempre insofferenti di giogo, inquiete, e tumultuanti, di che sono prove le rivolte e le invasioni di cui sopra si parlò, i Romani non ebbero mai in quelle regioni stabile, sicuro, e tranquillo dominio, chè anzi fu loro sempre contrastato fino alla totale distruzione del loro impero da' Germani e da altre genti ad essi commiste con orrende stragi operata. Onde forza è conchiudere che l'influenza da Trento esercitata sulla Rezia di là di Serarium e di Teriolis era influenza puramente militare e questa ancor temporaria. Là fuori, se n'eccettuate i nomi di stazione sulle vie, e forse alcune lapidi scritte, poco o nulla rimase di romano; e della stessa lingua, che divenne comune in Spagna e nelle Gallie, non altro vi si adottò che ben poche parole. Parlo della Rezia verso settentrione, e non dell'occidentale, dove i Grigioni restarono per lingua romani. Dobbiamo dir dunque e tenere per vero sol questo, che il Trentino come provincia, val dire come corpo civile, politico, amministrativo, si estese fino a Teriolis e Serarium includendo questi due castelli, e tutti gli altri non pochi eretti entro lo spazio che forma oggi li territorii di Bolgiano e Merano. Vedremo che anche ne' posteriori tempi il Ducato, e poi Principato Trentino, e la Diocesi trentina, ebbero da quella parte pressoché sempre poco più o poco meno, la medesima estensione. E se la lingua tedesca fece poi un avanzamento in giù, di che assegneremo altrove le chiare ragioni, i nomi della più parte de' luoghi per tutto il Meranese conservarono sempre, e conservano tuttavia, a certissima irrecusabile prova di quanto esponiamo, la loro origine italica, etrusca, o romana.
Fatta esposizione degli avvenimenti riguardanti la nostra Patria durante la romana dominazione, l'ordine vuole che diciamo del bene che goderono, e del male che dovettero in que' tempi soffrire i Trentini. Sono tra noi di quegli uomini che non vogliono udir parlare di male, sdegnansi con quelli che non trovano tutto ammirabile e lodevole ciò che venne dai Romani, e vorrebbero almeno che messo in bella vista il molto di bene da loro operato, si tacesse del male. Queste parzialità, alle quali si lasciarono indurre non pochi, guastarono le Istorie, che divennero o panegirici, o irose declamazioni. Io debbo e voglio essere imparziale, quindi non sarò ne panegirista ne declamatore.
Il celebre nostro Barbacovi da Tajo (nelle sue Memorie del Trentino e della Naunia) che ne' privilegii delle Colonie e de' Municipii vedeva guarentita la civil libertà, e per questa nutrito l'amore di patria, e nelle istituzioni e leggi romane trovava sorgenti pure di pubblica felicità, disse, e con lui dicono altri, essere stato il tempo della romana dominazione per Trento e pel Trentino un vero secolo d'oro. E noi dovremmo essere d'accordo con lui, che fu nella giurisprudenza e nella politica dotto e praticissimo, se non sapessimo che l'ambizione de' pretendenti all'impero cagionò sovente guerre micidiali e sconcerti gravissimi; se non constasse che molti imperatori furono tiranni senza umanità, i quali opprimevano o lasciavano opprimere i popoli in guise barbare; e se non fosse noto che negli ultimi tempi l’epicureismo (il vivere sensuale) de' ricchi, guastando orribilmente i costumi soffocò nei più ogni amore di patria, ogni cura del pubblico bene, ogni scintilla di compassione per la umanità sofferente. Quale felicità può egli godere un popolo in mezzo a tanto disordine? Il Frapporti esprime i mali d'Italia sotto gl'imperatori in questi termini: Spopolamento, egestà, languore, abbandono dell'arti, e dell'agricoltura, inerzia, demoralizzazione, disperazione, furono le conseguenza, nè v'ha chi l'ignori, degli arbitrii di chi vi poteva, delle violenze degli eserciti, dell'atrocità delle civili discordie, della gravezza delle esazioni, e della crudeltà nel riscuoterle. Il dottissimo Garzetti avea poco prima con altre parole detto lo stesso. Aggiungete a tutto ciò i mali sofferti più che da altri dai Trentini per le invasioni frequenti de' Barbari, delle quali è detto sopra, e il secolo d'oro vi comparirà secolo di ferro.
Vero è che i mali non furono nè continui nè generali, e che sotto qualche buon Principe un poco si respirò. Vero ancor che da molti di que' mali il Trentino fu per la sua posizione preservato. E vero è pure che i Trentini ebbero appunto per ciò alcuni vantaggi particolari. E per primo è credibile che, essendo Trento colla dependente provincia confine italico verso la Germania, e trovandosi quasi tutto il paese fornito d'italiani prodotti, spezialmente di vini eccellenti, ed essendo aperte buone vie per là fuori, abbiano i Trentini avuto molta attività di commercio colla Rezia settentrionale, e con altri popoli germanici, in quegli intervalli di tempo in cui per la sospensione delle tedesche invasioni godevasi pace. Del commercio interno possiamo dire con sicurezza, che dovendo Trento essere molto popolata da cittadini agiati, statuali (impiegati) della colonia, soldati, e viaggiatori che qua facevano capo dalle descritte vie, e potendovi liberamente concorrere que' del contado e i valligiani industriosi o commercianti, ovvero amatori di novità, di sollazzi, e di feste, vi fu gran movimento.
L'Emporio della Naunia debb'essersi occupato principalmente delle vendite e compre di legname, di grano, e di bestie da macello. Le anticaglie d'ogni sorta che ivi si scopersero, e si vanno scoprendo di quando in quando molte e preziose, e soprattutto la magnifica descrizione, che nel quarto secolo ne fece in sue epistole il Vescovo nostro san Vigilio, ne obbligano a tenere per cosa certa che quella valle fu, dominandovi i Romani floridissima. Del suo Municipio che a' suoi vantaggi vegliava e contribuiva abbiamo già detto.
E se tale fu la condizione della Naunia, è da credersi che, in proporzione d’ampiezza, di abitanti, e di mezzi, sia stata pari quella dell’altre valli. I Romani protessero da principio l’agricoltura, e i loro coloni contribuirono a darle credito e incoraggiamento portandola anche tra noi a notabile grado di perfezione. Qui non furono mai possessori di vasti poderi lavorati negligentemente da miseri schiavi. Le terre furono, come sono tuttora, divise tra molti, e quindi coltivate per la più parte con amore, e fervore. E quando non venivano i Barbari a rubare grano e bestiame, chi ne aveva in avanzo poteva con utile venderlo in città, o farne smercio a quelli ch’erano incaricati di fornire di viveri i presidii de’ castelli e gli eserciti, se però i fornitori erano giusti.
Di Trentini che durante il governo de’ Romani siensi per onorate opere distinti non trovo fatta menzione. Ammiano Marcellino ce ne fa conoscere uno, del quale saria bene tacere, se non fosse dovere dell’Istoria l’imparzialità. Costui chiamavasi Festino. Era di bassa condizione. I suoi talenti, e ’l suo prudente contegno gli furono di tale raccomandazione che giunse ad ottenere il carico di amministrare la Siria; e per li meriti quivi acquistatisi fu promosso alla sublime dignità di Proconsole in Asia. Ma per sua sventura ebbe a Signore Valentiniano primo, principe avaro, insensibile, ostinato, che poi morì in conseguenza di un veemente trasporto di collera, e l’ambizione gli fece contrarre strette relazioni con un certo Massimino, uomo superbo e crudele. Festino si fece imitatore dell’amico e del padrone, e disonorò con molte sceleraggini e atrocità il nome suo e della patria. Faccia Dio che qualche altro Festino non abbia a sorgere fra noi! Che questi Festini apportano più danni alla patria loro che una pestilenza!
Più cose potrebbonsi dire volendo parlare delle novità qui da' Romani introdotte circa le dottrine religiose, le cerimonie del culto, e i suoi ministri. Ma qual utile si trarrebbe poi dall'avere esatte notizie intorno a quelle miserie! Troppo ne scrissero già molti, più pagani che cristiani, senz'altro frutto che esaltare l'immaginazione de' Lettori, e insinuar loro sentimenti di ammirazione per ciò che si dee compiangere come effetto dell'ignoranza delle genti, e invenzione de' furbi e malvagi che le ingannavano. Poco dunque io ne dirò, e tuttavia quanto basta.
All'antichissimo culto di Saturno aggiunsero i Romani quello de' loro Dei, non già di tutti, ch'erano tanti da non potersi fare loro le spese; o bensì di tutti, ma in grosso, erigendosi altari Diis Deabusque (agli Dei e alle Dee) acciocché peravventura qualcuno trovandosi non curato, non avesse a montare in collera, e fare qualche precipizio! Saturno però, come più vecchio di parecchi altri si tenne in possesso di tutti que' diritti che gli erano stati accordati dall'umana ignoranza e miseria. Troveremo che esso aveva ministri al suo culto e adoratori zelantissimi spezialmente nella Naunia e in Rendena.
Non consta che tra noi si erigesse alcun tempio ad Imperatori divinizzati; ma non è da dubitare che l'adulazione o la paura non abbian fatto in qualche modo quello ch'è di loro costume. Zelanti per interesse o per timore non mancano mai in nessun luogo. Sembra al barone Cresseri che la inscrizione a Faustina moglie di Marco Aurelio, qui conservata, siasi esposta agli occhi del pubblico quando l’acciecato buon uomo ordinò che quella dissoluta femmina fosse onorata qual Dea!
Una religione la quale non domanda che esterne cerimonie e pubbliche feste, e nulla dice di culto interno e di morale, una religione che onora quali Dei i viziosi, e tal era la romana per rispetto a molte sue divinità, è religione, che non solo non fa gli uomini migliori, ma suscita e fomenta in essi le ree passioni. Non facciamo dunque parola de' costumi de' nostri antichi di quella religione professatori: erano costumi d'idolatri: un poco di bene comandato dal decoro, dalle convenienze sociali, dall'interesse; dai naturali sentimenti di onestà, da alcune buone leggi, ed un poco, anzi molto, di male da altre leggi, e dalla religione medesima ordinato, o permesso.
Alcuni filosofi tentarono di supplire i difetti della religione insegnando la Morale, che vuol dire prescrivendo regole di lodevole, saggia, e buona condotta. Ma qual Morale fu quella? Le scuole degli Stoici e degli Epicurei, l'una insegnando che per vivere tranquillo e felice bisogna non curarsi di nulla, e l'altra godere di tutto, rendevano l'uomo egoista insensibile non d'altro occupato che di sé. Di Dio, e di vita futura nè pur un pensiero, neppur una parola. Se qualcuno; come Cicerone, e dopo lui Marco Aurelio, dava alcuni buoni precetti utili a chi li pratica, e all'universale, pochissimi erano quelli che sapessero e potessero leggere ed intendere i loro scritti, e que' che potevano preferivan di leggere Naturalisti, Istorici, e Poeti, come sempre si usò, e come si usa pur al presente, che a leggere libri morali il più della gente si annoja. Quelle altre letture valgono a render cara e comune la civiltà, ingentiliscono a poco a poco le nazioni, ma non hanno il potere di far gli uomini Buoni nè nel senso filosofico nè nel religioso di questa parola.
Le vere e sane Dottrine, la buona ed utile Morale, non possono venir che dall'Alto, e non è possibile che si faccian conoscere e professare dalla gran massa del popolo se non pel solo mezzo della predicazione avvalorata da buoni esempi di condotta da parte de' predicatori. Questo era privilegio riservato al solo Cristianesimo fondato da un Dio predicatore. Il Cristianesimo predicato da uomini santi mandati da Lui ai popoli soggetti al romano impero, proponendo a credere veri Dogmi (dottrine) e ingiungendo la pratica di sana e santa Morale, rettificò il pensare, e condusse al bene l’operar delle genti. Esso pose fine ai funestissimi romani divorzii che il matrimonio avean convertito in concubinato; alla eccessiva paterna autorità di cui troppo si abusava per molte cause con ispietatezza, vendendo e fin uccidendo i propri figliuoli; all'uso inumano di possedere e trattare uomini col nome di schiavi come si possedono e trattano bestie, e talvolta ancora peggio; ai brutali passatempi di ordinare accoltellamenti di gladiatori, e di assistervi come a grato rallegrante spettacolo; e a più altre costumanze de' troppo ammirati e lodati Romani dalla natural legge, e da ogni umano sentimento vietate. Quali virtù di umanità, di fratellanza, di beneficenza, e di amore verso il celeste Padre degli uomini abbia il Cristianesimo fatte succedere a quelle paganiche abbominazioni, ogni Cristiano il sa.
Credesi che il vescovo di Aquileja Ermagora ajutato dal suo diacono Fortunato sia di là venuto già ne' primi tempi del Cristianesimo a predicare ai Trentini. Le nostre antiche tradizioni e memorie ricordano i nomi di molti Pastori d'anime che dopo Ermagora diressero la Chiesa di Trento: ed io non saprei qual frutto si abbia a negare ch'ei fossero Vescovi. A que' tempi, quando un vescovo faceva in qualche città conversioni, se non poteva ei medesimo rimaner ivi, sull'esempio degli Apostoli ordinava, o subito dopo mandava un altro vescovo che, creatisi diaconi e sacerdoti, potesse continuare la santa opera. Era forse Trento, era il Trentino città e paese in cui non si dovesse o potesse la regola dagli Apostoli stabilita osservare?
Le sollecitudini di que' primi non ottennero però la conversione di tutto il paese, nè poterono impedire che la eresia degli Ariani, i quali movevano dubbi intorno la divinità di Gesù Cristo, non s'introducesse nella città. A rendere cristiano cattolico tutto il Trentino bisognò che il coraggio e la virtù de' martiri splendessero agli occhi di quelli che amavano meglio di starsi non curanti delle tenebre che di camminar nella luce.
Vigilio nobile romano, venuto in Trento, e quivi per la sua scienza e virtù eletto vescovo in età giovanile, fu quegli che colla santità della vita, e coll'efficacia della parola richiamò gli Ariani alla vera antica universale credenza, e convertì a Cristo le genti ancora idolatre, estendendo le sue sollecitudini fin giù nelle valli del Veronese e del Bresciano.
Santo Ambrogio arcivescovo di Milano, col quale teneva corrispondenza, gli inviò di là tre pii e zelanti cherici, Sisinio, Martirio, ed Alessandro, i quali Vigilio mandò nella Naunia confortandoli a predicarvi la buona novella. Quelli, dopo avere convertiti parecchi, ed edificata già una chiesetta nella quale davano istruzione e facevano insieme a' nuovi cristiani la preghiera, furono messi a morte in odio della Religione da villici ne' giorni in cui questi facevano le feste e processioni dette Ambarvalia (che vuol dire andar in giro pe' campi) onorando Saturno dio degli agricoltori, che particolarmente nella terra di Romeno vicina al luogo ov'eretta era la chiesa cristiana, aveva ministri destinati al suo culto; detti in una lapide ivi rinvenuta Lumennones.
Vigilio, avuta contezza dell'uccisione de' santi suoi missionari; portossi prontamente colà pien di zelo e di coraggio, ed ottenne in breve che tutta l'ampia valle abbracciò il Cristianesimo; e in segno della sincera sua conversione eresse croci in vani luoghi; costume che si mantenne fino a questi nostri giorni, in cui a professione di perseveranza le croci si fanno di pietra. Alla conversione de' Nauni contribuì la carità di Vigilio, e d'altri Vescovi, che come ne assicura santo Agostino, impetrarono da Onorio imperatore il perdono per quelli che uccisi avevano i santi cherici. Perdonare e far bene a' nemici era in quel tempo, e sarà sempre, miracolo commoventissimo.
Nel luogo ove i tre Martiri furono messi a morte, luogo che mutò il nome di Meto in quello di Sansisinio, detto poscia malamente fin al di d’oggi Sanzeno, operò Vigilio che fosse eretto un tempio nel quale ei collocò reliquie de’ Martiri; delle quali parte mandò a Simpliciano successore di santo Ambrogio, dono carissimo ai Milanesi, che ascrissero alla protezione di questi Santi la vittoria riportata contro un tedesco Imperatore; parte ne trasmise a san Gaudenzo vescovo di Brescia; parte a san Giovanni Grisostomo in Costantinopoli; e parte ne ripose nel tempio ch’edificò in Trento nel luogo dove ora si ammira la magnifica nostra cattedrale. Di questi tre Martiri fecero menzione parecchi scrittori contemporanei, sicché la fama se ne divulgò per tutto il mondo cattolico. San Vigilio scrisse di loro anch’egli nelle sue epistole che si leggono raccolte presso il Ruinard ne’ suoi Atti sinceri de’ martiri. Girolamo Tartarotti da Rovereto pubblicò sul martirio de’ Santi nauni un libro che merita di essere per la edificazione de’ nostri Diocesani ristampato, non però senza note di qualche Naune meglio di Lui conoscitore de’ luoghi.
Vigilio morì alla fine martire anch’esso nella valle di Rendena dove ha sorgente il fiume Sarca, per mano di que’ villici idolatri che ultimi restavano da convertirsi. Si portò egli, benché presago di ciò che gli sarebbe avvenuto, sulle rive del Sarca, là dov’era una statua di Saturno da loro adorato. Per mostrare ad essi come nulla fosse la potenza di quel loro dio, percossa la statua, rovesciolla nel fiume. E saliva sulla base di quella per annunziare loro la vita, le opere, e la dottrina di Cristo figlio del Dio unico e vero. Ma sdegnati quelli per l'insulto fatto al loro idolo, ed entrati in furore, gli scagliarono contro una tempesta di sassi, e non cessarono dall’assassare finchè nol videro morto. Il corpo di Lui fu raccolto da' fratelli suoi e da altri fedeli che lo avevano accompagnato, e con solenne pompa trasportato nel tempio da Lui edificato in Trento. Presto dopo conobbero anche quei di Rendena il loro errore, e chiesero istruzione e battesimo. Queste cose avvennero verso la fine del secolo quarto.
Il Frapporti fece di san Vigilio il seguente elogio:
Fu Vigilio uom grande in tutto il senso della parola. A lui nella prima gioventù il senno colla fermezza della virilità non mancò: a somma altezza d'animo somma umiltà e mansuetudine somma congiunse: nè dalla lode della pietà e delle pastorali virtù quella della dottrina e delle lettere scompagnò. Più che laudabile fu per lo zelo maraviglioso, come quegli che, trovato nella Diocesi ristrettissimo il numero de' credenti, in venti anni di episcopato chiese eresse e cappelle per tutta la Diocesi, nè men di trenta nelle vicine di Brescia e di Verona, tutta la città convertì, tutto il contado lasciò cristiano, tutte le tridentine valli guadagnò, parte collo spiro della parola, parte colla sovrumana efficacia del versato sangue. Fu in vita, ed in morte e dopo morte veneratissimo.
Onoransi anche nella trentina Diocesi quali Santi Claudiano, Magoriano, e Massenza, questa madre, e quelli fratelli di san Vigilio. De' quali io scriveva quello che se ne sa nel libriccino Vite de’ Santi della Diocesi di Trento.
Nel medesimo libretto scriveva similmente ciò che mi parve non soggetto a dubbio di san Romedio eremita nella Naunia. Qui, poichè la nostra gente fu fatta persuasa ch’egli fosse contemporaneo e amico di San Vigilio, prevedendo che, non parlandone in questo luogo, mi saria forse questa ommissione da taluno rimproverata, dirò quello che di questo Santo fu scritto dai Dotti rifiutando ciò che non ha verosimiglianza, e aggiungerò quel tanto che ha caratteri di verità. E prima faccio osservare che nè il Reschio scrittore bressanonese, nè il nostro Padre Bonelli, ambi pii, e creduli anzi che no, credettero di dovere prestar fede a tutto quello ch’è riferito nelle sue leggende (Leggenda vuol dire narrazione intorno la vita di un Santo). Essi confessarono che vi si legge molto d’incredibile. Il Reschio poi dubita che Romedio sia vissuto ai tempi di san Vigilio, perchè nè egli san Vigilio, nè i posteriori Scrittori dal quinto fin al decimo secolo fanno di esso menzione, e perchè il detto nella leggenda che Romedio fece dono a san Vigilio di suoi fondi e servi, non prova nulla, giacchè è cosa nota che la formola, od espressione: donare ad un Santo: significa: donare alla Chiesa che ha nome da quel Santo. Il dotto critico Girolamo Tartarotti da noi lodato, non potè credere nemmen egli che san Romedio sia stato contemporaneo a san Vigilio; e tanto scrisse a cercare di persuadere che le sue leggende non meritano fede che, volendo far conto del suo dire, bisognerebbe disperar di sapere di questo Santo alcun che di vero. Ma finalmente parlando della leggenda del Monaco Bartolomeo da Trento viene poi egli a concedere: Che sotto il velame della nostra leggenda qualche radice di verità si appiatti. Ora questa radice di verità che non ammette dubbio è che: Romedio, il quale nella nostra Diocesi e in quella di Bressanone si onora già da più secoli qual Santo, fu un Nobile secolare o, come diciamo, laico, che menò vita solitaria, e morì eremita penitente nella Naunia là dov'è l'antico suo Santuario, il quale conferma colla sua antichità e celebrità la tradizione costante di ambe le due ampie Diocesi, che fa Romedio eremita secolare quale il fanno le sue leggende. Se il dotto critico avesse posto mente a "questa antica e forte radice di verità", si sarebbe sparmiato molta fatica, e molte amarezze.
Poco importa conoscere in qual tempo Romedio sia vissuto. A noi basta sapere ammaestrati dalla tradizione delle due Diocesi, ch'Egli fu veramente povero volontario, gran penitente, osservatore non solo della cristiana legge; ma ancora degli evangelici consigli, da più secoli come santo ammirato, onorato, supplicato da molta gente di ogni condizione; e che non pochi vissero, e vivono nella persuasione di avere per intercessione di Lui ottenute da Dio grazie speziali.
Io non trascurerò di far conoscere in tutto il seguito di questa Istoria quello che importa che bene si sappia intorno alla Istoria nostra ecclesiastica, cioè circa le cose spettanti a Religione. Ma, dovendo in tutto esser breve, avverto i Lettori che vogliono istruirsene più fondatamente, ch’Ei troveranno di che appagare la pia loro curiosità nelle opere del reverendo Padre Bonelli da Cavalese; e quelli che intendono il Tedesco, nel libro intitolato: Die Kirche des heiligen Vigilius: opera che presenta un compendio giudizioso di quanto leggesi nel Bonelli, con l’aggiunta di non poche e molto importanti notizie.
Osserviamo intanto a conclusione di questo periodo che, essendo scritto in Cielo dover il romano impero essere invaso e fatto in brani da feroci Barbari in gran parte pagani, che infiniti mali fecero ai popoli sottomessi, fu per questi inestimabile benefizio di Dio l’essere stati prima da Lui chiamati alla conoscenza della santa e beante sua religione; imperocchè tutti ebbero da essa e coraggio e conforto a soffrir rassegnati que’ moltiplici mali; e forse non pochi fra quelli che caddero vittime della ferocia degli invasori nemici di Cristo e della sua dottrina sono beati martiri in Cielo.
NOTA
Nel primo fascicolo alla pagina 32 si legge: Si è mai udito che un uomo solo abbia dato il suo nome ad una provincia! Doveva dire e dico adesso. Si è mai udito che un duce vinto in battaglia e fuggitivo coi seguaci suoi avanzati alla strage abbia dato il suo nome ad un vasto paese già molto prima popolato? Poteva la Rezia essere deserta e senza nome verso la fine del quarto secolo di Roma? Alla pag. 36 invece di penultimo leggete perultimo.
- Testi in cui è citato Cassio Dione Cocceiano
- Testi in cui è citato Velleio Patercolo
- Testi in cui è citato Strabone
- Testi in cui è citato Giangiacomo Cresseri
- Testi in cui è citato Benedetto Giovanelli
- Testi in cui è citato il testo Periodi istorici e topografia delle valli di Non e Sole nel Tirolo meridionale
- Testi in cui è citato Jacopo Antonio Maffei
- Testi in cui è citato il testo Sopra la Via Claudia Augusta da Trento a Vipiteno
- Testi in cui è citato Giuseppe Frapporti
- Testi in cui è citato il testo Discorsi su la trentina Istoria
- Testi in cui è citato il testo Su la via Claudia Augusta
- Testi in cui è citato Francesco Vigilio Barbacovi
- Testi in cui è citato il testo Memorie storiche della città e del territorio di Trento
- Testi in cui è citato Giovanni Battista Garzetti
- Testi in cui è citato Ammiano Marcellino
- Pagine con link a Wikipedia
- Testi in cui è citato Girolamo Tartarotti
- Testi in cui è citato il testo Memorie istoriche intorno alla vita e morte de’ SS. Sisinnio, Martirio ed Alessandro
- Testi in cui è citato il testo Vite de' Santi della Diocesi di Trento
- Testi in cui è citato Joseph Resch
- Testi in cui è citato Benedetto Bonelli
- Testi SAL 100%