Le cerimonie/Atto primo

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Atto primo

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Le cerimonie Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA I

Orazio e Bruno.

Orazio. (esce parlando con persona ch’è dentro la scena).

Ho giá inteso signore... Obligatissimo.
Non occor altro... Ma se dico che
non occor altro... Ma perché vuol farmi
quest’accompagnatura, quando vede
che non m’è a grado?... O in malora lasciatemi
andar pe’ fatti miei. Non gli avess’io
mai dimandato a costui; qual seccagine!
Bruno, vengono mai costoro?
Bruno.   Ancora
non gli veggo spuntare: io non ho dubbio
però di nulla. Due di que’ facchini
giá gli conosco; anzi il piú grande, quegli
che saltò prima in barca, spesso pratica
per casa. Tuttavia non è da andare
senza la roba piú innanzi, cred’io.
Fidarsi è bene e non fidarsi è meglio.
Orazio.   Ci possiamo arrestare un poco in questa
piazzetta.
Bruno.   Ma perché, signor padrone,
(mi perdoni) trattar sì bruscamente

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quel galantuom che con sue cirimonie

si proferiva a servirla?
Orazio.   Ma essendo
vo’ indietro, io gli ho chiesto de la via:
insegnata che l’ha e ringraziato
da me, non ci era modo che potessi
staccarmelo d’attorno; anzi per filo
volea seguirmi fino dove ir debbo.
Che noia d’uomo!
Brino.   Sì, ma finalmente
era un far cortesia, un mostrar buon genio.
Mi spiace questo primo incontro; presto
veda — si fa ad acquistar concetto
di stravagante, stizzoso, fantastico.
Orazio.   Di quanto spetta a voi prendete cura,
che tanto basterá. Or sapete voi
che di questa piazzetta io risovvengomi?
Oltre quel canto solea star certa donna
che vendea frutte bellissime, ond’io
spesso avea seco negozio. Ora parmi
ch’ir saprei da me a casa.
Bruno.   È maraviglia,
essendo stato in etá così tenera
mandato via; ma in questo luogo appunto
frutte ella or troverá troppo migliori,
perché sappia che in quella casa sta
la sua sposa.
Orazio .6 Lá in quella?
Bruno.   Certamente.
Buono è l’augurio. Ma che vuol mai dire
ch’io non la veggo giulivo, in quel modo
che par si converrebbe a chi ritorna
dopo tant’anni alla patria ed è in punto
di riveder la casa e d’abbracciare
il signor padre e tutti i suoi?
Orazio.   Che dite

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voi? Io ne son allegro molto bene

e pruovo quel contento ch’è dovere
in tal caso. Vero è, negar nol posso
che un non so che di dolor, di sospetto
ci si frammischia ancora. O Bruno, voi
non sapete la vita ch’io facea
in Parigi: mio zio, presso del quale
io stava, era uom dolcissimo; lasciavami
tutta la mia libertá. Non so se
il signor padre sará dell’istesso
umore. Oltre a che nelle grandissime
cittá troppo piú piacer si hanno
che in le mezzane, com’è questa nostra.
Non poco ancor mi dá pensiero questo
volermi accasar súbito. Che fretta
di legarmi? E mio padre, che ha da sé
fatta l’elezione, avrá — mi penso —
guardato al tuo interesse piú che al mio.
Non mi sa anco piacere questo nome
di vedova.
Bruno.   Orsú, stia di buon animo,
lo le prometto che svanirá subitamente
ogni sua tristezza, quando vegga
la persona: una vedova di venti‐
quattr’anni, fresca e ritondetta come
rosa, che suol mettersi tosto in campo,
ovunque di bellezze si ragioni.
Orazio.   Basta, vedremo. Ora io non vo’ piú
star qui, né aspettar altro. Andate voi
e vedete che sia; io troverò
da me la casa, e al peggio andar chi ha lingua
in bocca va fino a Roma.
Bruno.   Dispiacemi
non ritrovarmi al primo accoglimento,
e poiché ho avuto sorte di condurla
così felicemente, non poterla

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presentare al padron che per la gioia

andrá quasi in deliquio; ma non vuolsi
per veritá abbandonar i forzieri.
Ella prenda per qua che, a pena vòlto
il primo canto a destra, entra nel corso,
e non può piú sbagliare. Io men vo ratto.
Orazio.   Ed io pur m’incammino. Ma in qual bella
figlia m’avvengo io?

SCENA II

Camilla, Antea e Orazio.

(Nell’uscire cade il ventaglio a Camilla).

Camilla.   Oh! Oh!
Orazio.   Permettami.
signora, ch’io ’l raccolga e gliel presenti.
Camilla.   Grazie, signor.
Orazio.   Grazia reputo io
fatta a me dalla sorte un sì felice
incontro.
Camilla.   Troppo onore, serva.
Orazio.   In tanta
fretta? Non potrò io d’alcuna cosa
servirle?
Antea.   Ella condoni, o mio signore,
e scusi la rozezza della figlia
che per la sua gioventú e poca pratica
non sa complimentar, come sarebbe
dovere e non sa dir che due parole,
quando a la somma gentilezza sua
che si è fatta conoscer sopragrande
e che ha voluto soprafare il nostro
poco merito, debbonsi espressioni
senza misura, né mai si potrebbe

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supplire al debito o agguagliare i nostri

obblighi, anzi le nostre obligazioni.
Orazio.   Che filastrocca è questa? (fra sé) Non vorranno
concedermi però ch’io, qual mi trovo
in arnese da viaggio come or ora
sbarcato, serva o l’una o l’altra?
Antea.   Non
certamente, signore. Un tanto incomodo?
per chi non ha nessun merito?
Orazio.   Questo
non m’è incomodo alcuno.
Antea.   Anzi grandissimo.
Orazio.   Sia come vuole; io bramo quest’incomodo.
Antea.   Tolgalo il ciel, questo non sará mai.
Poi l’uso del paese no ’l consente
troppo; le figlie stanno qui con certa
riserva, né sarebbe convenevole
che si vedesse una fanciulla a mano
con forastier non conosciuto.
Camilla.   Accertisi
che la signora madre il ver gli dice.
Orazio.   Io dunque a torto pago ora la pena
del parer ciò che non son: questo ostacolo
al poterle servire sará tolto
ben tosto.
Camilla.   Come? Forse ella non è
forastier?
Antea.   Non so giá d’averla mai
veduta io, e pur credo di conoscere
le persone distinte qual lei reputo,
o tutte o quasi tutte.
Orazio.   Se riguardasi
l’arrivar nuovo in un paese, in questo
posso passar per forastiero, essendone
partito prima ch’altri aver potesse
mia conoscenza; ma per altro poi

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io qui son nato e qui, se piace al cielo,

debbo passare i giorni miei.
Camilla.   Signora
madre, sarebbe mai questo il figliuolo
di Leandro, ch’egli ha mandato a prendere
e che si stava di dí in dí aspettando?
Antea.   Da ver tu pensi bene; è facil cosa
ch’e’ sia, corrispondendo interamente
l’etá, ’l garbo che di lui si prèdica.
Signor mio, potrebb’egli essermi lecito,
però con tutte le riserve debite
e senza suo disturbo o pregiudizio
di quella stima grande ch’io professole,
il farle una richiesta?
Orazio.   Io non ci veggo
difficoltá veruna, dica pure.
Antea.   Strano parrá ch’io di saper desideri
le cose sue ed osi pur richiederla
di ciò che a me non s’appartien.
Orazio.   Che mai
vorrá saper costei? Si spieghi francamente,
ch’io le prometto rivelarle
tutti i segreti miei dal grande al piccolo.
Antea.   Per veritá è un avanzarsi troppo,
io ’l conosco e conosco la mia grande
ardimentositá.
Orazio.   Non lasci in grazia
d’ardimentositare a suo piacere,
e ormai non mi dia piú la corda.
Antea.   Io bramo
sapere di qual parte ella or si venga.
Orazio.   E ci voleano tutti quei preamboli?
Vengo di Francia.
Antea.   Ella dunque sará,
s’io non m’inganno, figliuol d’un mio
padron caro; sará il signor Orazio.

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Orazio.   Per l’appunto, signora, io son quel desso.

Camilla.   Me ne consolo grandemente.
Antea.   Adunque
il non averla conosciuta m’ha
fatto fin qui commettere error grande,
perch’io doveva rallegrarmi súbito.
Ma mi rallegro ora per allora.
Io sono Antea Spingardi e me le fo
conoscer serva; questa è mia figliuola
Camilla. Io debbo molto alla sua casa,
e però in ogni tempo e in ogni luogo
ed in ogni occasione.
Orazio.   Or potrò pure
sperar...
Camilla.   Avverta, la signora madre
le parla ancor.
Orazio.   Non ha finito ancora?
Antea.   Cercherò comprovarmi, e tanto piú
ch’ora son per accrescersi i motivi
e nascer nuovi titoli, ond’io sempre
studierò tutti i modi per distinguermi
infra tutti color che la distinguono.
Orazio.   Signora sì, come comanda, io le
son schiavo. Or non sarammi giá, cred’io,
disdetta di venirla a riverire
a casa e di passar qualche ora seco.
Camilla.   O qui non si usa ciò con le fanciulle;
può intendersi però con la signora
madre.
Orazio.   Ma dovrò io passar per tutte
quelle trafile di cerimoniali?
Camilla.   Ella in ciò veramente eccede un poco;
ma è suo costume e bisogna però
lasciarla far. Per questo conto io certo
le darei poca noia, anch’io ci sono
naturalmente contraria.

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Orazio.   La sua

vivacitá, la sua disinvoltura
lo mostrano abbastanza. Tosto ch’io
avrò baciata la mano a mio padre,
signora Antea, non mancherò giá d’essere
a farle riverenza, e voglio credere
non disgradirá poi ch’io frequenti
la sua casa.
Antea.   Conosco che vorrebbe
dar negli eccessi in compitezza; questo
è un confonderci troppo, onde bisogna
prima contrapesar l’insufficienza
nostra e la sua bontá.
Orazio.   Questo bisticcio
s’intende voglia dir di si o di no?
Camilla.   Tenderá al no mi penso, tuttavia
le nozze che si vanno a lei e a me
destinando, faran tanta attinenza,.
Orazio.   Che dunque è giá promessa?
Antea.   Or ci conviene
con sua licenza proseguire il nostro
viaggio, signor Orazio; la premura
di visitare una parente inferma
ci ha tratte contro l’uso fuor di casa,
cosi di buon mattino.

SCENA 111

Bruno e detti.

Bruno.   Ancora qui,

signor? Come sta ciò con l’impazienza
d’andare a casa, in cui era?
Orazio.   M’è caro
siate tornato súbito, gli avrete
scontrati.

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Bruno.   Subito, dice? A rincontro

m’è convenuto andar fino alla barca,
ove i facchini eran tornati, avvistisi
aver di manco una scatola; in oltre
m’è stato forza d’altercare un pezzo
col barcaruol per calo di monete
che pretendea gli rifacessi. Ora ho
avviato ogni cosa per un vicolo
scortatore, e vo innanzi per bussare
a la porta e dar primo la novella.
Orazio.   Andate, ch’io vi seguo. All’una e all’altra
bacio le mani.

SCENA IV

Antea e Camilla.

Camilla.   Disinvolto giovane

per certo; avrá occasion d’esserne lieto
suo padre che non ha usato risparmio
alcuno per tenerlo tanti anni
fuori.
Antea.   Ben fatto e spiritoso, ma
non è ancora da tavola rotonda;
non è capace ancor di farsi onore in
un complimento. Hai sentito com’io
l’ho soverchiato e se l’ho fatto stare
a dovere? Di ceder gli era forza
e declinare il discorso.
Camilla.   Le sue
nozze con la signora Aurelia sono
stabilite del tutto?
Antea.   Non ci manca
che il consenso di lui.
Camilla.   Mi pare assai

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che impaziente, com’ei mostra d’essere

e sí nimico a cerimonie, possa
accomodarsi con Aurelia, che
n’è maestra sí grande e che con tutta
la sua bellezza è pur tanto stucchevole.
Antea.   O qual difficoltá! E poi, quand’egli
saprá quanto sia ricca, vedrai bene
come sará di genio suo. Ti credi
forse, perché t’ha riso alquanto in volto,
che anteponesse te? Non ti svagar la
mente e non ci far su disegno in vano.
Per me l’avrei ben caro, ché sarebbe
altro partito veramente; ma
tu sai come si può giá dir fermato
il tuo contratto con Massimo, ed ora
ch’è giunto Orazio, egli fará il possibile
perché si dia effetto immediata‐
mente al di lui matrimonio con sua
nipote Aurelia, e vorrá nell’istesso
tempo celebrar teco il suo.
Camilla.   Egli esce
appunto e vien verso qua.
Antea.   Volea stupirmi
che non fosse avvisato d’esser noi
qui innanzi casa sua, e non si facesse
tosto veder.

SCENA V

Massimo e dette.

Massimo.   Servitor profondissimo

delle signorie lor.
Antea.   Gli fo pienissima
riverenza, signor Massimo.

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Massimo.   Fausto

sará per me questo dí senza dubbio,
mentre nel suo principio il primo incontro
è di quelle persone ch’io onoro
sopra tutt’altre al mondo, e dalle quali
dipende il far felice e fortunata
tutta la mia vita, e ver le quali io spasimo
di poter dimostrar l’incomparabile
ossequio mio.
Antea.   Anzi toccherá a noi
di ringraziare il ciel di questa sorte,
presentandoci sí per tempo un tanto
soggetto ch’è presso tutti in sí alta
considerazione e che da noi
si riverisce e venera.
Camilla.   Un direbbe
questa è la prima volta che si veggono.
L’istesse nenie ogni giorno da capo.
Massimo.   Giá che son quasi alla mia porta, non si
degneranno d’entrare e di lasciarsi
tenuamente servire d’una chicara
di cioccolata?
Antea.   Rendiamo infinite
grazie, premura omai ci stringe di
veder Lucinda, cui si va aggravando
il male.
Massimo.   Ben mi son pensato fosse
questo il motivo della gita. Come
l’hanno passata nel caldo insoffribile
di questa notte?
Antea.   È stato affannoso.
Massimo.   La signora Camilla, cui piú bolle
il sangue, avrá preso poco sonno.
Camilla.   Anzi ho dormito benissimo; non mi
suol avvenire di perdere il sonno.
Massimo.   Ei suol ben avvenire a qualcun altro

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ed anche senza il caldo: chi non ha

pensiero alcuno e di nulla si cura,
dorme tranquillamente.
Camilla.   Io non so
che sia degli altri; ma io non ho in questo
da dolermi del mio temperamento.
Antea.   Signor Massimo, i’ ho una buona nuova
da dargli.
Massimo.   E qual sara?
Antea.   È arrivato
il figlio di Leandro.
Massimo.   Oh, mi perdoni:
io gii ho parlato ieri sera e dissemi
all’incontro, com’è parecchi giorni
che non n’ha avviso alcun.
Camilla.   Ma noi l’abbiamo
veduto qui or ora.
Massimo.   E potrá essere?
Antea.   Cosí è senz’altro; in lui sbarcato appena
siamci a caso avvenute, e sol per lui
ci siamo trattenute in questo luogo.
Massimo.   O quanto ne son lieto! Quanto m’è
caro! M’è caro per la gioia che
n’avrá Leandro, per quella ne avrá
mia nipote e per quella ancora piú
che spero ne consegua a me, troncando
ogni dilazione a’ miei contenti.
Giovane di buon’aria?
Antea.   Anzi bonissima.
Nel complir non abbonda molto; ma
questo il fará col tempo.
Massimo.   E sí con l’uso.
Or se non fosse che per verun conto
non debbo mai, né posso abbandonarle,
ne porterei la novella ad Aurelia.
Ma non voglio commetter mancamento.

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Camilla.   Ecco, vuol farlo, e ci frametterá

cinquanta negative.
Antea.   Vada, vada;
ogni fretta è ben giusta in questi casi.
Massimo.   Ma la mia attenzion sempre è piú giusta.
Antea,   Il diferir sarebbe grand’errore.
Massimo.   Ma assai maggior mancare al proprio debito.
Antea,   Chi può dar nuova tal non perda tempo.
Massimo.   Nol1 perde chi nel suo dover l’impiega.
Camilla.   La causa è incamminata.
Massimo.   Anzi all’incontro
d’accompagnarle ora mi corre l’obbligo
fino alla casa di Lucinda.
Antea.   O questo
io nol permetterò in nissuna forma.
Camilla.   Ecco nuova querela.
Antea.   Noi di qua
non partiremo, se non siam sicure
ch’ella entri in casa e rechi alla signora
Aurelia il fausto avviso.
Massimo.   Ma se poi
cosí comanda, converrá ubbidire.
Ma almeno ch’io le vegga incamminate.
Antea.   Voglio esser certa, non ritardi punto;
e però è forza s’incammini il primo
ed entri in casa.
Camilla.   Ed ecco un terzo capo
di controversia. Ma, signora madre,
seguitando cosí, noi troveremo
Lucinda non piú inferma, ma guarita
o morta.
Antea.   Sempre tu con le tue frette;
non bisogna mancare ai convenevoli,
intendi? Mai.
Camilla.   Deh quanto sconvenevoli
paiono a me sí fatti convenevoli!

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Massimo.   Signora Antea, non mi costringa in somma

ad operar tanto indecentemente.
Camilla.   Zitto, ch’or mi sovviene un mezzo termine.
Partiamo tutti a un tratto, e perché ciò
segua senza disordine, si accomodi
da questa parte la signora madre
e cosí da quest’altra il signor Massimo,
io batterò le mani, ed in quel punto
di qua e di lá si prenderan le mosse.
Massimo.   Gioviale umor ch’è quel della signora
Camilla!
Antea.   Giá si sa, tu sempre hai voglia
di matteggiare.
Camilla.   E se il mio mezzo termine
non piace, ne ritrovino un migliore
ch’io fra tanto m’avvio.
Antea.   Convien seguirla
la mattarella; ma ella pur sen vada.
Massimo.   Io vado; ma di grazia, oimé per grazia.