Le cerimonie/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA I

Camilla, Vispo e Trespolo.

Camilla.   Di quanto mi racconti se’ tu poi

certo?
Vispo.   Guarda, perché certo a me han detto
che Massimo avea rotto.
Trespolo.   Avea, gli è vero;
era guasta ogni cosa, né Leandro
potea rappattumarla; ma venuto
quel baione di Bruno, ordí sí bene
certa novella sua con mille chiacchiere
facendo comparir che quel salire
in tal modo era stato per grossissima
scommessa, e tanto imbrogliò e tanto disse
che, favorendo la padrona, quale
credo guasta nel fegato, ogni cosa
tornò in pristino ed hanno posto l’ordine
d’essere fra poco insieme ancor.
Vispo.   Vien gente;
va via, ché non ti veggano.
Camilla.   Va súbito
a recar tal notizia alla signora
madre.

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Trespolo.   Io vo; son da piú che un porta lettere.

Camilla.   Non è ancor fatto; chi sa! posson nascere
piú cose ancora. Forse Orazio diede
in cotal bizzarria sol per mandare
a monte.
Vispo.   Sí, ma il tempo è troppo breve,
siamo alle strette.
Camilla.   Ritirati, viene
Aurelia.

SCENA II

Aurelia, Massimo e Camilla.

Massimo.   Appunto mia nepote ed io

eramo incamminati verso casa
sua.
Camilla.   La signora madre è qui da suo
cugino?
Aurelia.   Come sta la mia signora
Antea? Mi par cent’anni ch’io non l’abbia
veduta, benché siamo state insieme
stamattina.
Camilla.   Ella sempre le fa grazia.
Aurelia.   Che ventaglio tien mai questa figliuola?
Caldo grande eh?
Camilla.   Grandissimo.
Aurelia.   Io mi vo
stancando in farmi vento.
Camilla.   Faccia conto
ch’io fo lo stesso.
Aurelia.   Ma quel suo ventaglio
servirá meglio; parmi sia piú grande
degli altri. Favorisca.
Camilla.   È moda nuova.
si serva pure; l’ha portato a casa

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nostra un mercante, cui per ora è stato

spedito.
Aurelia.   E quello senza dubbio, è quello.
Nuova invenzion, d’avorio tutto, nastro
d’argento; di qua forse nasceranno
le stravaganze. In grazia, come chiamasi
il mercante che tien galanterie
sií bizzarre?
Camilla.   Non so, non gli conosco
questi mercanti.
Aurelia.   Quanto costa? Io credo
l’abbi avuto a buon prezzo.
Camilla.   Né pur questo
le posso dir, perché lascio che ci
pensi mia madre.
Aurelia.   Le fa fresco o caldo
questo ventaglio?
Camilla.   Parle forse pesi
alquanto?
Aurelia.   Or pigli pur, lo tenga caro.
Signor zio, in grazia di quel bel ventaglio
io penso che mandiamo alla malora
i nostri matrimoni.
Massimo.   O gran faccenda!
Perch’è alquanto scialoso e parvi che
si avvezzi a spender troppo. Non importa,
non importa. Allorché sará mia moglie,
porterá quel che a me parrá.
Aurelia.   Ma ella
non è ancora informata, come quello
è un regalo che il mio signore sposo
ha fatto alla sua signora sposa.
Massimo.   O cosa vienvi in mente!
Aurelia.   Vienmi in mente
ciò ch’è fuor d’ogni dubbio. Stamattina,
quando Leandro mi parlò delle cose

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portate da Parigi, mi descrisse

distintamente questa, e però quando
il regalo è venuto, ho ricercato
súbito del ventaglio. Ma potea
ben cercarlo, ecco che strada avea fatto.
Massimo.   O che mi dite mai! Qual cosa scopro!
Aureli a.   Eh non importa, non importa.
Massimo.   Importa
benissimo. Ora intendo le freddezze
di questa frasca onde nascono. Or sappia,
signorina, che quel ventaglio ha tanta
virtú ch’a me ancor, benché non l’abbia
in man, fa freddo non che fresco e mi
guarisce del gran caldo ch’io avea intorno
per amor suo.
Camilla.   Avrebbero il folletto
costoro per saper com’io l’ho avuto?
Aureli a.   Signor zio, non facciam qui gazanate;
andiamo in casa e quando arriverá
Leandro, licenziamolo; cosí
faccia lei con Antea; in questo modo
saran pagati ambedue come meritano.
Massimo.   Voi parlate benissimo, andiam pure.
Camilla.   Questo è un cerimonial che non mi hanno
mai piú fatto; è chiarissimo però
ch’essi ben sanno chi m’ha regalato il
ventaglio, né da altri certo possono
averlo mai saputo che da Orazio
istesso. O traditor! si prende spasso
di me e mi mette in favola. Se viene
a parlarmi stasera, come ha detto,
lo tratterò come merita. Vispo,
andiamo, ché tu possa tornar tosto
per la signora madre.
Vispo.   Che vuol dire
ch’é rossa come un gallo?

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SCENA III

Leandro e Bruno.

Leandro.   Or non cred’io

ch’altro diavol ci nasca; ho fatto in modo
che si fará senza d’Orazio e la
mia firma servirá per esso ancora.
In tal maniera nulla ci sará
che possa piú sconciar minestra; e s’anche
ei ci fosse, glien ho giá dette tante
per quella leggerezza, che mi penso
d’averlo messo a segno.
Bruno.   Ella ha fatto
molto prudentemente a non frammettervi
tempo in mezzo; potean da un giorno all’altro
nascer diavolerie; cattive genti
non mancano e a guastare ognuno è buono.
Leandro.   Ma non era per certo questo il caso
da pigliar lepri col carro; ora io credo
aver pur fatto un colpo da maestro,
tirando in casa questa donna; ch’ha
piú che non credi.
Bruno.   Può entrare a sua posta,
la porta è spalancata.
Leandro.   Entriam senz’altro,
che non vorrei mi stessero aspettando.

SCENA IV

Antea e Trespolo.

Antea.   Io ti ringrazio d’ogni cosa, ma

piú ti ringrazierei, se mi recassi
che tai nozze di nuovo si stornassero.

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Trespolo.   La mia padrona fará ogni possibile

per non aver gettata la fatica
in tante belle parole, che si ha
messe in mente. Ora io debbo, avanti d’ire
a casa, fare una bella imbasciata:
c’entra l’onor cinque volte e il vantaggio
quattro; ma in oltre una parola lunga
che ben non mi ricordo.
Antea.   Oh, tu d’ognora
hai da lagnarti di sí fatte cose;
tu vorresti che ognun vivesse a modo
de’ plebei.
Trespolo.   Se io ho in odio queste cose,
i’ so perché. S’ella avesse veduto
quel che ho veduto io, venendo appunto
or da lei!
Antea.   Che c’è stato? c’hai veduto?
Trespolo.   Io passavo davanti a quel palazzo
alto; presso alla porta della stalla
era a fortuna il padrone: è venuto
un uomo con tabarro negro, il quale,
premesso un grand’inchino, gli si è
avventato sparandogli in faccia una
coppia di cerimonie che l’ha avuto
a sbalordire; e quando il gentiluomo
ha cominciato a risponder, si è messo
a star giú chino col capo e col corpo,
di sé facendo un mezz’arco di ponte.
Era quivi quel montone ch’è solito
star co’ cavalli, il qual visto costui
cosí incurvato presentar la testa,
credendo forse volesse cozzare,
gli è venuto all’incontro di galoppo
e l’ha urtato sí forte che il meschino
ito è all’indietro con le gambe all’aria,
battendo in modo sui sassi il pretèrito

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che si discorre da persone savie

come quel non sará mai piú pretèrito.
Antea.   O gran pazzie che tu conti!
Trespolo.   Ella può
farselo raccontare dai ragazzi
raccolti ancora lá intorno.
Antea.   Ora vanne,
ché veggo Vispo e andrò con lui.

SCENA V

Orazio, poi Bruno.

Orazio.   O misero

me! A quest’ora mio padre averá forse
segnata giá la scritta, con che io
mi rimango per sempre condannato
a un matrimonio che non è di mio
genio e privo per sempre della mia
Camilla, qual d’ognora ho innanzi a gli occhi
e da cui mai non parte il pensier mio.
Dure leggi son queste, aspre, crudeli
necessitá.
Bruno.   Fatalitá è qui dentro.
Che strani intoppi!
Orazio.   Qual novella, Bruno?
Bruno.   Maravigliosa, signor; né pur ora
si è fatto nulla.
Orazio.   O che di’ tu? Qual buona
stella s’è mossa in mio aiuto?
Bruno.   Da prima
è andato il signor padre tutto allegro,
come chi va a cosa fatta; ma è stato
accolto con cattivo viso, e dopo
molte smorfie alla fine abbiam capito

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ch’eran su l’alte per aver veduto

alla signora Camilla il ventaglio
descritto avanti dal signor Leandro
e promesso ad Aurelia. Ma a questo
facilmente ho trovato la sua pezza,
asserendo avern’io veduti alquanti
di cosí fatti a un mercante, e il portato
da lei esser rimaso per mio errore
a casa in un armario. Tutta allegra
allor s’è fatta Aurelia. Ma chi mai
potrebbe immaginarsi, onde con tutto
ciò sia venuto lo sconcio? Era quivi
il signor Lindamor, di cui credeasi
(per ragion ch’io non so troppo) richiedersi
il consenso e la firma. Però han fatto
Massimo ed egli un po’ di cerimonie
chi dovea segnar prima e dopo. Massimo
prende la penna e sottoscrive; allora
Lindamor si fa rosso in faccia e, trattosi
da parte con piú atti di dispetto,
dice agli altri che a lui toccava il mettere
suo nome innanzi e che ben s’era giá
accorto in altre occasioni, come
pretende il signor Massimo di essere
qualcosa piú di lui; però tal boria
non volere omai piú menargli buona,
e senza dir né buon di né buon anno,
se n’è ito via.
Orazio.   O che lodate siano
queste follie, giá ch’or mi han fatto un sí
gran benefizio.
Bruno.   Ma il signor Leandro
ha rimediato a tutto; ha dimostrato
che si può far senza quel puntiglioso,
purché certa cauzione si premetta,
ed ha fatto por l’ordine di essere

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insieme ancora a quattr’ore. e non sola‐

mente per sottoscriver, ma per fare
insieme la funzion del dar la mano.
Orazio.   Oimé, disgrazia adunque per me è stata
quest’accidente.

SCENA VI

Leandro e detti.

Leandro.   E un’altra volta il diavolo

ci ha pur messo la coda.
Orazio.   Signor padre,
ella ora può vedere s’ho ragione
d’aborrir questi modi; ho osservato
che con le cerimonie va il puntiglio,
un mal peggior dell’altro.
Leandro.   Taci, taci;
ché io gli aborrisco piú di te. Gli è vero,
è ambizion per lo piú: quegli non vuole
andar innanzi, perché ognuno sappia
com’è parente del padron di casa;
colui si tiene a mente per dieci anni
ch’io gli mancai d’un complimento; quelle
sen vanno in frotta ad ammorbar di visite
gente che non conoscon, perché veggasi
che ci son pur anch’esse.
Orazio.   Brutto viso
m’è stato fatto da qualcuno, e ho inteso
perché non gli ho mandato ad avvisare
il mio arrivo: era meglio ch’io facessi
un manifesto. Disputano un’ora
ch’io vada primo e non voglion ch’io vada;
e s’andrò, cascherá il mondo.
Leandro.   Appunto

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cosi è avvenuto a me. Vi son cittá

dove potrian sovra tutt’altri gli uomini
esser felici, e per novelle tali
perdono il bene della societá
e si fanno ridicoli e infelici.
L’inventar modi per disgustar gli altri
quivi è un mestier. s’insegnano puntigli
fino ai cavalli, ognun vuol esser d’ordine
differente dall’altro: distinzioni
non dubitar che in tutto e ognor piú lepide
e diurne e notturne non si stronchino.
Ma badiam ora al fatto nostro: tu
impalmerai questa sera la tua
sposa se l’arcidiavolo non c’entra
con tutte le sue corna; io vado a casa,
tu non mancar fra mezz’oretta d’esservi
per quelle lettere di cui t’ho parlato.

SCENA VII

Orazio, poi un personaggio nuovo.

Orazio.   O fortuna, fa nascer qualche impiccio

di nuovo. Or tempo è giá, secondo l’ordine
posto, ch’io vada a parlar con Camilla.
Se fossi certo ch’ella per me avesse
la passion ch’i’ ho per lei, non c’è ripiego
che non prendessi, né risoluzione
ch’io non facessi.
Personaggio.   Servo divotissimo
Orazio.   Oh disturbo!
Personaggio.   al signor Orazio.
Orazio.   Egli è
un de’ parenti che m’ha dato noia
questa mattina. Signor, mi conviene
portarmi tosto...

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Personaggio.   L’affezionatissima

mia servitú
Orazio.   Le dico ch’io...
Personaggio.   pur cerca
di palesarsi sempre...
Orazio.   Premuroso
affare...
Personaggio.   Però vengo ad offerirmi
Orazio.   Ma se...
Personaggio.   e a confermarmi.
Orazio.   Io non posso.
Personaggio. E a contestarmi
Orazio.   Oimé!
Personaggio.   e a vincolarmi.
Orazio.   Ce n’è piú?
Personaggio.   Ed insieme anche a pregarla
di volermi insegnare come possa
assicurarmi del fedel recapito
d’una mia a Parigi.
Orazio.   A me la mandi,
e tanto basta.
Personaggio.   Degnisi per grazia
di favorirmi,
Orazio.   Ma se dico...
Personaggio.   poi‐
ché la premura è grande,
Orazio.   Ma mi ascolti
una volta.
Personaggio.   — ed il rischio.
Orazio.   Ma se dico...
Personaggio. Le resterei per sempre schiavo.
Orazio.   Che
occorre?
Personaggio.   Ma sarebbe forse troppo
incomodo, e però...
Orazio.   E però andatevene

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a le forche, o seccatine insoffribile.

Che cerimonie asinesche di non
ascoltar mai il compagno e andar sempre
seguitando in duetto! Ma i momenti
sen vanno intanto; affretterò al possibile.

SCENA VIII

Altro personaggio, detto.

Personaggio.   Appunto in traccia di lei io veniva

a questa parte.
Orazio.   O gran fatalitá!
Con quel rispetto che debbo alla sua
persona, le dirò come or non posso
trattenermi.
Personaggio.   Può bene, non si tratta
di bagatelle: assai s’è dibattuto
in consulta, ma in somma vogliam tutti
il suo parer; l’esser lei stata fuori
tanto tempo può averla arricchita
di molti lumi.
Orazio.   O misero di me!
Personaggio.   I dubbi son rilevanti. Sempronio
è in carrozza con Tizio e Mevio: sta
nel terzo luogo, essendo la carrozza
d’un suo parente ed essendo con essa
ito a levargli. Trova Mario a piedi,
e l’invita a montare. In questo militano
due contrarie ragioni; l’esser piú stretto
parente del padron della carrozza
per star nell’ultimo e il sopravenire,
e ’l far figura di padron Sempronio
per star di sopra. Come s’ha a decidere
qual ripiego?

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Orazio.   Che un d’essi vada in serpa

e l’altro in coda.
Personaggio.   In oltre Tizio ch’era
secondo adduce che, passando al quarto
luogo Sempronio, resta consumata
sua ragion di star presso al primo e debba
avvicinarsi all’ultimo; all’incontro
Mevio ch’era nel primo, rimutandosi
gli altri, si crede anch’ei dover passare
nel secondo o nel terzo. Questo caso,
come la vede, vuol buona aritmetica.
Dubbio secondo: —
Orazio.   Oimé, che cosa è questa?
Deh per grazia, signor, per caritá...
Personaggio.   Dubbio secondo: Albin riceve visita.
Nel fine, quando accompagnar dovrebbe,
si sente per disgrazia impetuosamente
chiamar — gran caso! — al luogo topico.
Quid agendum? Se va, non accompagna
e manca indegnamente ai convenevoli;
se accompagna, si espone a brutto rischio
e scioccamente manca ai necessarii.
Scolovendro, ch’è assai pronto d’ingegno,
ha suggerito che per tai pericoli
si tenga in pronto una comoditá
da due stanghe infilata, con le quali
alzato il paziente sopra d’essa
venga portato fino dove ha debito
d’accompagnare e così soddisfaccia
all’uno e all’altro nell’istesso tempo.
Ma Misiterio sottilmente oppone:
non è dover che per quel tratto gli uni
vadano con le proprie gambe e l’altro
con le gambe d’altrui stando a sedere,
e a questo l’uso d’una sola voce
fra tanto si conceda, a quel di due.

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Questo caso ricerca medicina,

convien saper di tutto. Dubbio terzo: —
Orazio.   Ma ben son io balordo...
Personaggio.   Abbia pazienza,
ché i casi appena son quarantaquattro.
Orazio.   Quarantaquattro corna che vi spondino,
andate alla malora. O ciel! cosí
mi convien perder questi preziosi
momenti! Correrò per rimediare
al tempo che ho perduto.

SCENA IX

Altro personaggio, detto.

Personaggio.   Schiavo di

vossignoria illustrissima.
Orazio.   Che dunque
contra me si scatenan tutti i diavoli?
Personaggio.   Illustrissima e inoltre eccellentissima.
Orazio.   Il malanno. Io men vo per qua.
Personaggio.   Che forse
non mi conosce? Io non mi son persona
da strapazzar così.
Orazio.   Chi siete voi?
Personaggio. Io sono lo spettabile Archivista
dei Titolarii.
Orazio.   Che il buon prò vi faccia,
io nulla ho a far con voi.
Personaggio.   Non si cimenti
e non pensi partir, che ho lá raccolti
tutti i miei titolabili ministri
e la terriano a forza; le prometto
sbrigarla in due parole.
Orazio.   Ma che diamine
volete voi da me?

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Personaggio.   Si va cercando

il placet e l’assenso ora dagli uomini
sensati, navigati e macinati.
Ascolti bene. Osservandosi come
nuovi ogni di stravolgimenti nascono
nella generazion pazza dei titoli,
e quanto conto e rumor soglian farne
tutti coloro ai quali men competono,
si è finor convenuto ne gli articoli
su questa carta distesi, e per primo:
supplicherassi il governo, perché,
lasciando correre i comparativi,
sia messo un dazio sui superlativi.
Secondo: si dará dritto ai postieri
d’efigger soldi sei per ogni titolo
che troveranno su le soprascritte:
All’illustrissimo et eccellentissimo
Signor Signore Padron Colendissimo
L’Eccellentissimo Signor Baron tale.

Otto via sei, se pur non falla l’Abaco,
dará quarantaotto; e se le lettere
saran di buone feste o d’affar simile,
chi le mette alla posta paghi il doppio.
Terzo: sian scelti dalla turba degli
adulatori, cagion d’ogni male,
ogn’annrio tre per impiccargli il Giovedí
grasso. Quarto: non si possan piú il‐
lustrissimar garzoni di bottega,
ma solamente padroni; e cotesti
ancor con tal riserva che non siano
attualmente in azione. Exempli gratia,
colui che vende formaggio non possa,
finché l’ha in mano, goder questo titolo,
ma sol posato che l’ha in su la tavola.
Non siano parimente piú illustrissime
le serve delle donne da strapazzo,

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ma si riservi tal titolazione

alle padrone esercenti. Quinto: —
Orazio.   O
il mio pezzo di matto, credi tu
ch’io mi voglia star qui, badando ancora
a tue buffonerie?
Personaggio.   Non s’impazienti,
ora vengono i buoni e non son piú
d’ottantatre capitoli.
Orazio.   Ora ti
darò ben io capitoli. O destino
che strani incontri son questi? Mi debbono
dar per li piedi gli ubriachi tutti?
E forse intanto la mia cara aspetta,
e piaccia al ciel ch’io sia piú a tempo.
  (fugge)

SCENA X

Un altro, con accompagnamento; detto.

Personaggio.   Appena

da la vicina mia scuola di ballo
veduta ho la riverita sua
persona, ch’io con non poca allegrezza
sono uscito co’ miei scolari per
riverirla e pregarla d’una grazia.
Orazio.   Il ballerino ancora? O stelle!
Personaggio.   Non
mi nieghi cortesia, perché io sono
antico servidor di casa sua,
e ’l signor padre la riprenderebbe
forte, se non mi udisse.
Orazio.   E che volete?
Personaggio.   Prima d’esporle il mio interesse, lasci

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ch’io ripulisca questo lembo de la sua

giubba. Ove mai s’è appoggiata? Ma
che veggo? Anche il cappello è un poco brutto
di polvere, sará caduto in terra;
ora io lo netto.
Orazio.   O che vi venga il canchero,
dite su: che volete?
Personaggio.   Ella ben sa
che l’uomo in questo mondo e ancor la donna
non posson mai far cosa piú laudabile
né più da tutti apprezzata e ammirata
d’una bella e punita riverenza,
torcendo, anzi storpiando i piedi in fuori,
poi strachinando il corpo, ripiegandolo,
divincolandolo e meglio che anguilla
facendolo guizzar. Beato chi
le sa variare in sdrucciolo, in pendio,
divaricando le ginocchia, in fianco,
strisciando il piede innanzi, andanti, et cetera.
Ora io dieci diverse ne ho insegnate
a questi miei alunni, e vorrei ch’ella
ch’or viene di Parigi, cioè dal fonte
de la scienza, le osservasse e mi
facesse grazia dirmi se ci sono
tutte, o se quivi alcun’altra di nuovo
ne sia stata inventata.
Orazio.   Una di nuovo
ten farò io con quattro piedi ne la
pancia, se non dai luogo.
Personaggio.   Vada, vada,
ch’a me non m’occor altro.
Orazio.   Certamente
c’è chi per la mia impazienza in fatto di
cerimonie si prende spasso e mi fa fare
questi tiri per burla; ma se posso
venirne in chiaro, me la pagherá.

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Ed io son sí balordo che per la

novitá e stravaganza delle cose
che dicono, mi lascio portar via
e mi trattengo. Ma al primo che mi
vorrá fermare, caccerò la spada
nei fianchi e marcerò.

SCENA XI

Bruno, detto.

Bruno.   Signor Orazio,

signor Orazio.
Orazio.   Che c’è?
Bruno.   Il signor padre
l’aspetta giá da un pezzo e grida.
Orazio.   O misero
me! Ma io ho posto un ordine per
le ventiquattro, né posso preterire.
Bruno.   Non è piú a tempo, s’era a le venquattro
è giá un’ora di notte e sa ben quanto
premono quelle lettere; la posta
parte fra poco.
Orazio.   O ciel, videsi mai
disgrazia piú fatale de la mia!
(Segue ballo in riverenze di varie maniere.