Le cerimonie/Atto quinto

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Atto quinto

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Atto quarto

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ATTO QUINTO

SCENA I

Camilla e Vispo.

Camilla.   Forse non sarai stato ben attento

al posto.
Vispo.   Non mi son partito mai,
sempre fisso sul canto ed osservando
se veniva. Abbia omai per sicuro
ch’ei non c’è comparito.
Camilla.   Or bene accorda
anche questo con l’altra indegnitá
de l’aver detto ad Aurelia il presente
fattomi. Per la prima volta ch’io
ho dato orecchio e ci sono incappata,
n’ho documento bastante; sen vada
pure, che di me certo non potrá
prendersi gioco in avvenir, né io
gli parlerò mai piú.
Vispo.   Fará benissimo;
chi si parte da’ matti fa buon viaggio.
Dicesi ch’ei sia scemo, e poi non sa
le convenienze; quando mi mostrai
sì compiacente vêr lui, non mi diede
né pure un grosso.

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Camilla.   E da questo misuri

tu le persone.
Vispo.   Senza questo ancora
le dico che in un dí n’ha fatto tante
ch’era d’avanzo la metá. Faceagli
oggi certun proferte con la pala,
andando a par con lui per via; mentr’era
sul fervore del dire, Orazio svolta
pian piano un conto e lo pianta; seguiva
quegli infizioso e gestiva, quand’ecco
si volta e vede di parlare ai muri,
l’altro non c’era piú. Un tal lodavalo
assai, come si usa; ei: — Che spropositi! —
e gli volta il piú bel di Roma. Un altro
non ritmava d’invitarlo a pranzo
fuor di tempo; egli allori — Vossignoria,
non fará tal sussurro, quando sappia
ch’io venir possa. —
Camilla.   Veramente
son modi un poco aspri, ma ci sono
de’ bagiani che il mertano e che provocano
l’impazienza; c’è un tal che invitar suole
una stagione per l’altra e racconta
le portate che vuol vi siano, e quando
vien quel tempo, di nuovo invita, ma
sempre per la stagion seguente.
Vispo.   E quella
de la strada? Ho incontrato il signor Lelio
buon cittadino, il qual per cerimonia
ha fatto cenno di dargli la strada.
Ma volea e non volea, or accennando
passar di sopra or di sotto; a tai moti
Orazio fermo: — Via ben, dice, a dritta
o a sinistra, ch’io vo, se m’intendete,
a tutte le maniere. —
Camilla.   O strambo! E come se

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l’è comportata Lelio che star suole

sul punto?
Vispo.   Lelio a l’impensata formola
sí stordito restò che, avanti si
riscotesse per far risentimento,
Orazio avea giá volto ed era a mezzo
de l’altra strada.
Camilla.   Or faccia egli a suo senno,
e faccia bene o mal ch’io nulla il curo;
anzi sollecitar vo’ anch’io che seguano
le mie nozze con Massimo nel tempo
de le sue.
Vispo.   Ecco appunto il signor Massimo.

SCENA II

Massimo, e detti.

Massimo.   Vien dal giardino, mi penso, signora

Camilla.
Camilla.   Sí signor, son stata a prendere
un po’ di fresco; ora torniamo a casa,
mia madre è poco innanzi.
Massimo.   Io vado appunto
per darle parte che fra poco in casa
mia si fará la funzion sposalizia
di mia nipote, a cui la pregherò
volere intervenir. La sua presenza,
onorando noi tutti, accrescerá
— dirò meglio — ricolmerá le nostre
consolazioni e le amplificherá.
Camilla.   Avrallo in grado la signora madre.
Massimo.   Susseguirá, come spero, ben subito
l’adempimento de’ miei voti. Io sono
ben certo che l’error da me commesso

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poc’anzi pel sospetto del ventaglio

me l’avrá perdonato come effetto
di gelosia, ch’è quanto dir d’amore.
Camilla.   Ogni operazion del signor Massimo
m’ha sempre dato occasion di conoscere
la bontá che ha per me.
Massimo.   O quanto par mi
saria ben fatto ch’ella pur venisse;
e dopo il primo sposalizio all’altro
si desse parimente effetto.
Camilla.   Poi
che s’ha a fare, il farl’oggi o pur dimani
parmi l’istesso; la signora madre
non penso sia per averci veruna
dificoltá. Può venir da lei meco.
Massimo.   Io dunque con affetto rispettoso
e con rispetto affettuoso le
presenterò, se permette, la mano
per venirla servendo.
Camilla.   Mi fa grazia.
Massimo.   Ella s’appoggi pur senza riserva,
ch’io son molto ambizioso di prestarle
questo picciol servigio e vorrei sempre
qualche occasione di testimoniare
il reverenzial mio desiderio.
Camilla.   La prego non m’opprimer col profluvio
de l’eleganze sue, de’ suoi concetti,
perch’io mi ci confondo e qualche volta,
se debbo dirlo, mi c’infastidisco.
Massimo.   Quant’io so dir non è mai che una minima
parte di quel che dir dovrei; spiegabile
non è da lingua alcuna il suo gran merito,
né le parole il mio desir secondano.
Camilla.   Andiamo in grazia, andiamo innanzi. Vispo.

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SCENA III

Bruno e Trespolo.

Bruno.   E cosí dunque tu credi si facciano

due matrimoni a un tratto.
Trespolo.   Certamente,
perché so che il padron cosí desidera
e ogni cosa è apprestata; canterassi
a quattro e ci vorrá, cred’io, un maestro
di cappella per far che tutti vadano
a tempo. Se le canzonette piacciono,
saranno replicate, e averá in fine
il maggior viva chi fará piú repliche.
Bruno.   Mi par che a questo sapor tu ti sia
messo in galleggio; penso ch’abbi in traccia
per te ancora una sposa.
Trespolo.   Io? Qualche gonzo.
Non ne fa Trespol di queste, non m’ha
insegnato cosí quella buon’anima
di mio padre.
Bruno.   Che t’ha egli insegnato?
Trespolo.   M’insegnò con l’esempio, ei non si volle
maritar mai.
Bruno.   O buon! Rimaritarsi,
vuoi dire; dopo della prima moglie
non si sará piú ammogliato.
Trespolo.   Io vi dico
che non si ammogliò mai, intendete?
Bruno.   O bravo!
intendo: fai molto bene a vantare
questa prudenza sua.
Trespolo.   E raccontava
ch’anche il padre di lui non avea mai
avuto moglie.

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Bruno.   Meglio; e però è giusto

che prosegua cosí tua nobil razza.
Trespolo.   Quel ch’ora i’ penso è a buscar mance assai.
O se sapessi una dozina almanco
di quelle belle parole che dice
la padrona!
Bruno.   Di’ un poco: a che ora è posto
l’ordine?
Trespolo.   Non si presto per dar tempo
a piú cose; ma bisogna ch’io men vada.
A rivederci.
Bruno.   Addio.

SCENA IV

Leandro e Orazio.

Leandro.   I’ ho ben caro

che tu sia qui; bisogna esser solleciti,
poiché fra poco andremo al palio.
Orazio.   Io giá
sarei tornato da un’ora, se l’essere
stato per suo comando a cena dal
signor Valerio non m’avesse a forza
trattenuto finor.
Leandro.   L’averti un uomo
di tanta autoritá, cosí distinto,
solennizando in certo modo con
tal convito il tuo arrivo in patria, m’ha
posto in necessitá di non lasciarti
mancare.
Orazio.   Ma con quanta sofferenza,
m’è convenuto pagar quest’onore!
In prima era giá in tavola da un pezzo
che ancor si contendea distribuendo

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le persone nei siti; io mi son posto

dove Valerio m’ha detto senz’altro,
ma ecco vien la moglie e fa levarmi
gridando: — Non è questo il primo luogo,
s’inganna mio marito; — allora dispute:
«è quello perch’è in fronte de la sala;
è questo perch’è in faccia all’uscio per
cui or s’entra; quel sito è piú comodo;
questo è piú fresco». Al fin m’è convenuto
levarmi e andar da l’altra parte, dove
mi son trovato in un riscontro di
vento ch’a un’altro saria forse stato
caro, ma a me non l’era punto e forse
mi sveglierá la mia flussione ai denti.
Se n’è avveduto quel che m’era appresso,
ch’era un guercio d’umor gioviale.
Leandro.   Egli è
Tirapario, uom grazioso; è mio amico.
Orazio.   E m’ha detto all’orecchio: — Amico, voi
l’avete a buon mercato; è poco male
un po’ di fresco di piú; nella guerra
de’ complimenti io ci ho lasciato un occhio.
Era d’inverno e a un lungo pasto vollero
per onorarmi ch’io sedessi da la
parte del fuoco. C’era un po’ di male
giá cominciato ed il calore, aggiunto
quel del vino e dei cibi, in guisa acrebbero
che al fin mi si serrò per sempre, come
vedete, la fenestra. — Si andava
mangiando intanto con molti noiosi
frammessi: «prenda lei, mangi lei,
o vuol di questo? o di quest’altro?» E trenta
altre interrogazioni.
Leandro.   Io mi ricordo
che, alloggiando da certo amico mio,
andato a letto ch’i’ fui, un buon uomo

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mi svegliò per interrogarmi s’io

dormiva bene.
Orazio.   E il voler che si mangi
d’ogni cosa? e di quello che non piace,
replicando ch’è buon, quand’io nol voglio?
E voler che si mangi piú di quello
che la salute o che il piacer comporti?
Leandro.   Strano è per certo che contrarian sempre
al genio di ciascun, talch’egli è forza
rinegar sempre la sua volontá.
Orazio.   E che noia l’andar guardando ognora
quel ch’io mi faccia? «E non le piace adunque
quella vivanda?» Or s’anche non mi piace,
non mi faccian perciò querela. E quando
ho dimandato da bere? Il mio guercio
m’ha detto pian che non bisogna essere
il primo; primo io credea avess’a essere
quel che ha piú sete, e se niuno è primo,
schiaterem tutti. Dimando al mio solito
del vin piccolo e fa cenno il padrone
che mi dian di quel grosso ch’io abborrisco:
bella finezza, ma asserisce poi
che quello è piccolissimo. E quel tedio
d’«ella non mangia, ella non ha mangiato
niente», quando ho mangiato oltre misura?
Leandro.   Questa è solenne clausola.
Orazio.   E a che serve
quel far tanto apparato? e portar roba
per quaranta?
Leandro.   Par che, spendendo molto,
piú onor si faccia a chi s’invita.
Orazio.   Ma
se così è, mi diano un pranso onesto,
e ’l rimanente che pur vonno spendere
me lo diano in danari.
Leandro.   O tu se’ lepido!

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Senti, in fatto di tavola anche gli altri

paesi hanno le sue; giá la gabella
de’ brindisi sul bere è da per tutto.
E quanto impaccio è mai non poter bere,
quando n’hai voglia, senza dir su prima
quella legenda! Aggiungi ch’or t’imbrogliano
i vari stili e formole, ed or che
non sai da cui tu cominciar ti debba.
E in Germania? Ove star conviene attenti
finché l’altro ha bevuto, e poi ripetere
un’altra riverenza in piegatura?
E giá comincia anche qui quella smorfia.
E se verrá qualcuno da la Cina,
ci porterá anche quelle e prenderemle.
Che dirai de l’aver per complimento
da star tre ore a tavola, siccome
avrai veduto appunto nel paese
onde vieni? E dover stare osservando
a fabricar le salse ed aspettando
che s’architetti l’insalata e meschisi
l’olio e l’aceto con piú lavorio
di chi compone i balsami? E dovere
dar suo plauso adattato ad ogn’intingolo,
che t’obbliga a imparar tanti ridicoli
nomi e a sapere gli arcani del brodo
e le virtú dei sapori e le occulte
qualitá dei pasticci. Ma noi ora
perdiamo il tempo. Andiamne.

SCENA V

Aurelia, Massimo e Trespolo.

Aurelia.   Ed io vi dico,

ch’essendo due gli sposalizi, debbono
i rinfreschi esser due, e tanto piú

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ch’ora vuol il bel vivere che non

si stia giá mai piú di due ore senza
mangiare o bere.
Trespolo.   Discorre benissimo
la padrona, e dovrebbe in questo mese
esser doppio anche il mio salario.
Massimo.   Sta
attento tu e, quando senti la
carrozza, corri, ch’io voglio esser giú
a lo smontar che faranno e servirle
di braccio.
Aurelia.   Torna poi tosto a osservare,
correndo ad avvisarmi in tal misura
ch’io le possa incontrar nel punto che
alzano il piede a l’ultimo gradino.
Trespolo.   Non fallerò, avrò meco la pertica.
Massimo.   Or bisogna pensar che qui non servono
i complimenti usati, è singolare
l’occasione e l’incontro.
Aureli a.   Io giá ci ho
pensato e ancor ci penso.
Trespolo. (tornando indietro). Se venisse
avanti il can della signora Antea,
debbo avvisare?
Massimo.   No, balordo, basta
che n’avvisi Melampo.
Aurelia.   Senta un poco,
signor zio; a rimboccar che faranno
la porta de la sala madre e figlia:
«L’ossequio de la nostra casa viene
ad incontrar l’onore ch’or ci fa
la casa loro, e poiché adesso prendono
il possesso di questa casa loro...».
No, ché c’è un’altra volta «casa loro».
Massimo.   Ed anco non mi piace quell’«ossequio»
ora ch’è giá mia moglie.

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Aurelia.   O si sa bene

che in complimento le parole non
diconsi come significative.
(cosi da sé presto, presto) «La divozion di casa nostra viene
a incontrar le lor grazie, ora che vengono
il possesso a pigliar di casa loro
da la sua gentilezza»; o veramente:
«da le lor perfezioni prenderanno
documento i difetti nostri e il doppio
contento a noi sará di doppia gloria».
Qui Antea vorrá dir su alcuna di quelle
sue lungaggini, ed io ripiglierò:
«Dunque»...
Massimo.   Ma converrebbe saper cosa
dirá, per adattare la risposta.
Aurelia.   O sí ch’io voglio dipender da lei.
Trespolo.   Oh presto! Le signore son giá in sala.
Massimo.   Come? O miseri noi! Cosí ci avvisi?
Trespolo.   Io era scappato un sol momento in
cucina, e la disgrazia ha fatto che
son giunte in quell’istante; e quel barone
de l’altro servidore non ha detto
niente.
Aurelia.   O gran caso! Ecco precipitati
i nostri savi ordinamenti tutti
per questo sciagurato, ecco perdute
le mie fatiche.

SCENA VI

Antea, Camilla, Vispo e detti.

Aurelia.   Serva divotissima.

Massimo.   Perdóno in grazia, signore, perdóno;
un infamissim uomo che dovea

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stare in attenzion del loro arrivo ..

Camilla.   Eh che importa!
Antea.   Io credea quasi non fossero
in casa.
Aurelia.   Il servitor sará cacciato
via subito.
Trespolo.   O meschino me, or che al fine
era per fare un buon pasto!
Camilla.   No no,
io lo domando in grazia.
Massimo.   Si fará
come piú sará in grado a la signora
Camilla, vêr la quale in ogni cosa
tanto sempre sarò condescendente,
quanto senza riserva idolatrante.
Trespolo.   Dopo i banchetti io me n’andrò da me.
Antea. (senza darsi tempo) Signora Aurelia, ecco dunque ch’io vengo
Aurelia.   Anzi l’ossequio de la casa nostra
Antea. a rassegnar me stessa e la figliuola.
Aurelia.   Viene incontra a l’onor di casa sua.
Vispo.   A tempo a tempo, signore, da capo.
Antea.   E perché il nostro molto poco merito
Aurelia.   Da le lor perfezion potranno prendere.
Massimo.   Né io, signore mie, debbo star mutolo.
Vispo.   Trespol, tacendo, noi parremo asini,

Antea. (insieme affatto) vien onorato sì dal signor Massimo,
Aurelia. documento i difetti nostri, e 'l doppio
Antea.   io mi dichiaro lor serva perpetua,

Aurelia.   contento a noi sará di doppia gloria.
Vispo.   O bella sinagoga!

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SCENA ULTIMA

Leandro, Orazio, Bruno e detti.

Leandro.   Mi fo servo

a questa nobil radunanza.
Orazio.   Io pure.
Massimo.   Ben venuti, signori.
Aurelia.   Riverisco
e l’uno e l’altro.
Trespolo.   O quante riverenze!
Or comincia il balletto.
Massimo.   Il nostro giubilo
or fia compito e insieme le comuni
felicitá. Non par, signor Leandro,
che nel sembiante di suo figlio splenda
quell’allegrezza che sarebbe propria
del tempo. Né pur si accosta a la sposa.
Leandro.   Oh, un ragazzo com’egli è! Ve n’ha
alcuni che son come le fanciulle;
ei non s’è ancor domesticato mai
con donne.
Massimo.   Tanto meglio.
Leandro.   Via, melenso,
risvégliati. Che modi? Par ch’io t’abbia
fatto allevare in un bosco.
Orazio.   Signora,
eccomi...
Aurelia.   Signor mio, io sto pensando
quanto debbo esser lieta in conseguire
un consorte sí degno e sí stimabile e
colmo di tanta meritevolezza.
Orazio.   Anch’io son tutto allegro, come la
vede.

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Massimo.   Or avanza lá quel tavolino,

Trespol.
Orazio. (a Camilla) Che veggo? Anch’ella è qui? Ahi questo
servirá a farmi tanto piú sentire
la mia disgrazia.
Massimo.   Secondo il concerto
che abbiam fra noi, Leandro, prima di
toccar la mano, saran regolati
ne la scrittura ambedue que’ capitoli
che sono stati mal espressi. Alburio,
notaio esperto ed onorato, è qui
per farlo.
Leandro.   Molto bene; è giusto che
la sicurezza di vostra nepote
sia cautelata in tutti i modi.
  Orazio, Camilla, Antea da una parte;
  Aurelia, Leandro, Massimo da l’altra.
Massimo.   Or dunque
scrivete pur, come vi ho detto: Aurelia
è qui presente.
Orazio.   Signora Camilla,
par ch’ella mi riguardi con disdegno.
Debbo perderla ed anche esserle in ira?
Antea.   Dèe riguardarvi con amor? Ouand’ella
è qui per isposare un altro, e voi
per isposare un’altra?
Orazio.   Cosí vuole
il mio crudo destino.
Antea.   Anzi pur dite
che avete voi cosí voluto. Se
foste venuto a parlar seco, come
avevate promesso e non aveste
col contare ad Aurelia del ventaglio
fatto creder che inganno fosse il vostro,
la sarebbe ita forse in altro modo.
Orazio.   Io ingannare? La cosa del ventaglio

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fu da mio padre indicata, il venire

a parlar seco mi fu contrastato
con tanto mio dolor che non so esprimerlo.
Aureli a.   (voltandosi ed osservando) Pare che Orazio abbia qualche negozio
con l’altra sposa e con sua madre.
Bruno.   Io l’ho
avvisato dell’esser essa quella
che dèe sposarsi dal signor suo zio;
però la va complimentando.
Aurelia.   O bene
mi piace molto che si faccia onore,
e par che il faccia con grazia.
Camilla.   Che dunque
non mi burlava?
Orazio.   Io burlarvi, amor mio?
io che dal primo punto in cui vi ho
veduta, non ho piú potuto mai
pensare ad altro?
Leandro.   Or va ben.
Massimo.   Tanto basta.
A l’altro: in questo non bisogna, Alburio,
risparmiar le parole.
Aurelia.   Io mi metto
ne le lor mani e mi riporto a loro.
Massimo.   Non ci vuol altro che dichiarar bene,
come abbiam detto.
Aurelia.   Or via scrivete adunque.
Camilla.   Queste espressioni non sono piú a tempo,
né ora sono a proposito.
Antea.   Eh che se
Orazio parla di cuor veramente,
e s’è di quello spirito ch’uom dice,
è tempo ancor.
Orazio.   Ma che potrei mai fare?
Qual rimedio c’è piú?

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Antea.   Mi fate ridere:

innanzi al fatto c’è rimedio sempre.
Voi non l’avete sposata per anco
Aurelia.
Orazio.   No, ma quanto manca?
Aurelia.   (rivoltandosi ancòra) Ancóra
non se ne sbriga?
Antea.   Io mi rallegro molto
con lei, signora Aurelia; il suo sposo
non è rozo altramente, conte è stato
detto, in materia di cerimoniale.
Complisce ora con noi molto graziosa‐
mente.
Aurelia.   N’ho molto gusto, ma non vogliono
i complimenti esser troppo lunghi.
Antea. Ma vien perché ci son anch’io, né voglio
ch’ei mi ci faccia star.
Leandro.   Quella riserva
non mi par necessaria in questo caso.
Massimo.   È clausola ordinaria; ma se vuole
che si tralasci, non importa. Aurelia
per altro ha caro si metta, non è
vero?
Aurelia.   Mi par ci stia bene; però
signor zio, faccia lei.
Orazio.   Piacesse al cielo
ci fosse modo.
Antea.   Il modo, Orazio, è in pronto
Se non avete ancor sposata quella,
sposate questa in quest’istante. Datele
la fede ora e la mano, e sará fatto
il becco all’oca.
Orazio.   O che propone mai!
Che sarebbe di poi? come potrei
salvarmi da mio padre?
Antea.   Vostro padre

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v’ama teneramente; al fin voi fate

un maritaggio convenevolissimo,
gli metteremo intorno i parenti,
gli amici. Che sará mai? Cosa fatta
capo ha; ci vuol spirito e non altro.
Orazio.   E chi sa poi, se de l’istesso genio
sia la signora Camilla?
Camilla.   Potrebbe
bene a quest’ora averlo conosciuto.
Non desidero altro; e non avendo
padre, quando ubbidisco alla signora
madre, non ho da cercar altro.
Orazio.   Or dunque
sia in buon punto: la mano ecco e la fede;
non prenderò altra donna mai.
Camilla.   Né io
altr’uomo mai.
Massimo. (rivoltandosi). O lá che giocolino
è cotesto.
Aurklia.   Ma ormai le cerimonie
van troppo avanti.
Antea.   Ell’è una cerimonia
franzese; nel finire i complimenti
volea baciarle la mano.
Leandro.   Gli è vero,
si fa cosí dai franzesi.
Aurelia.   Son dunque
cerimoniosi ancor piú di noi
coloro.
Bruno.   Sì, signora, con le mani
e con le braccia de le donne fanno
cerimonie grandissime.
Leandro.   Ora tutto
va ben, sottoscriviamo.
Massimo.   Eccoci pronti.
Leandro.   Lodato il cielo, è pur fatta!

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Massimo.   Io ne sono

a pien contento.
Leandro.   Io tocco il ciel col dito.
Aurelia.   Somma è la mia allegrezza.
Orazio.   Ma la mia
supera ogn’altra.
Leandro.   Or vedi, se si è
svegliato il modestino, che parea
s’inritrosisse a l’odor de le nozze!
Or via ben, tocca a te di far la prima.
Orazio.   Che mi comanda, signor padre?
Leandro.   O adesso
che ti comando! T’avrò da insegnare?
Massimo.   La mano a mia nipote, e tutto è al termine.
Orazio.   La mano? Che dobbiam forse ballare?
Son pronto.
Leandro.   Sí ballare! E che? non sai
come si fan gli sposalizi, sciocco?
Orazio.   Sposalizi?
Aurelia.   O che vien dal mondo nuovo?
Orazio.   Funzion di sposalizio io non potrei
farla con la signora Aurelia.
Aurelia.   Cosa?
Leandro.   Che di’ tu?
Orazio.   Non potrei, perché l’ho fatta
pur or con questa giovane.
Leandro.   Che?
Massimo.   Come?
Aurelia.   Tristo, era questo il complimento?
Bruno.   In fede
mia, quel colloquio non mi piacea punto,
Leandro.   Ah indegno!...
Orazio.   Deh perdóno, signor padre,
perdóno; forza di destin, d’amore,
lo andava a morte in pochi dí, s’ogn’altra
che questa era mia sposa.

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Leandro.   Io son sí attonito,

Sí fuor di me...
Massimo.   In questo modo? In questo
si tratta co’ par nostri? Tradimenti
un sopra l’altro? E in casa mi si viene
a far di queste?
Orazio.   Io ve ne chieggo mille
perdoni, io giuro...
Massimo.   Vi meritereste,
quanti vi siete, non uscir di qua
se non co’ piedi innanzi; ma pur voglio
frenarmi infin che siete in casa mia.
Fuori però, malnati, itene tosto
alla malora; avrò, avrò ben modo
di far pentire quelle triste femmine;
e quanto a Orazio vedrem dimattina
come maneggi la sua spada; per
poco si vanterá di questa burla.
Aurelia.   O questo no, signor zio, troppo onore
gli fareste con questo; si parrebbe
che noi facessim di costor gran conto.
Vadansi pur al diavolo; per me
chi non mi vuol non mi merita. Forse
mi mancheran cento miglior partiti?
Non son io chiesta e ricercata ognora?
Ch’avev’io a far di quel ragazzo malagrazia,
senza creanza e senza sale
in zucca? Nol torrei per servidore.
Dite lo stesso voi di quella frasca
che non ha per tre once di cervello:
non meritava d’avervi. Andiam via.
Massimo.   Son d’accordo, gli è ver; ma c’è l’ingiuria,
la derision, l’inganno.
Aurelia.   O quanto a questo,
se non faranno il lor dovere e in modo
amplissimo, saprem quel che va fatto.

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Ora andiam. Trespol, fa che sgombrin súbito,

cacciagli fuor di casa a brutto onore.
(Tornando indietro gli fa una riverenza smorfiosa al solito.)
Col padre, il quale veramente non ha
colpa veruna, non tralascio di
fare il dover di civiltá.
Leandro.   O in quale
abisso io mi ritrovo adesso di
confusione? Qual misto di dolore
e di vergogna e di rabbia! Ah ribaldo!...
Antea.   Signor Leandro mio veneratissimo,
si trattenga, la prego, non si lasci
portar da l’ira; questa è l’occasione
di mostrar sua prudenza. I matrimoni
son destinati; chi potria impedirgli?
Questi figliuoli si videro a pena
che restar presi l’un de l’altro. Al fine
che gli può dispiacer nel parentado
nostro? E che fa un poco di roba di
piú, che ancor non sará senza gran liti
e senza molti imbrogli?
Camilla.   Queste lagrime
fanno fede quant’io sia afflitta del
suo disgusto; non merito per certo
di diventar sua nuora, ma benché
priva d’ogn’altra qualitá, l’accerto
che la piú riverente ed ubbidiente
di me non troverebbe.
Orazio.   Signor padre,
eccomi genuflesso: è stato un impeto
improviso e non ho operato io;
il contragenio da una parte e ’l genio
da l’altra. Io do parola infin che vivo...
Bruno.   Signor padron, si pieghi; c’è qualcosa
di straordinario in questo accidente:
le cose fatte al fin lodar bisognale.

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Leandro.   Non mi cruccio del fatto, non mi dolgo

de la scelta, non ho che opporre a questo
parentado; ma non dovea uccellarmi
in questa forma, non dovea ridurmi
a tal termine e far sì brutto inganno
e così strana scena; avea a svelarmi
la sua passione.
Orazio.   Oh, signor padre, non
c’è stato tempo, io non ho...
Leandro.   E con Massimo
non passerá cosi, si converrá
venire al sangue.
Antea.   Quanto a questo io prendo
sopra di me di mettergli a la vita
persone che lo acquetino.
Orazio.   Han per altro
detto assai bene il fatto lor.
Antf.a.   Daremgli
soddisfazion amplissime, ed in fatti
egli è ben di dovere: io gli farò
dugento riverenze e gli dirò
su tre carte d’un libro c’ho a memoria
tutto, ed ha complimenti oltramirabili.
Trespolo.   Signori miei, a che gioco giochiamo?
Ancora qui? Avete inteso l’ordine?
Io prenderò la stanga de la porta.
Bruno.   Andianne ormai, e poiché in oggi tante
si sono fatte cerimonie inutili,
lasciamo che il signor Orazio vada
a farne quattro di quelle che sono
utili e benemerite del mondo.
Camilla.   Uditori cortesi, se la favola
non v’è in tutto spiaciuta, fate grazia
che da l’applauso cen possiamo accorgere.