Le meraviglie di Milano/Divisione del capitolo quinto
Questo testo è incompleto. |
Traduzione dal latino di Ettore Verga (1921)
◄ | Divisione del capitolo quarto | Divisione del capitolo sesto | ► |
DEL CAPITOLO QUINTO I. Quando e da chi fu fondata la città. II. Della presa di Milano e di altre città fatta da Attila e quante volte fu presa e distrutta Pavia. III. Della presa di Milano fatta da re Lamberto; IV. e da re Alboino; V. e dall'imperatore Federigo I. VI. In quale anno Federigo distrusse Milano e della perdita dei tre Magi. VII. Lamento sulla distruzione di Milano. — VIII. In quale anno rientrò il popolo in città e quando cominciò a rifiorire. IX. Della rotta di Federigo I fra Borsano e Legnano e della morte di lui. X. Gesta de' milanesi contro i pavesi. XI. Della rotta dell'imperatore Corrado che fu detto Conan. XII. Guerre contro l'imperatore Federigo II e i suoi fautori. XIII. Esercito mandato contro di lui presso Camporgnano. XIV. Sua deposizione. — XV. Esercito mandatogli contro presso il Ticinello. XVI. Assedio di Parma da lui fatto, in che modo e in che anno fa battuto e sua morte. XVII. Di Uberto della Croce e della sua figliuola. XVIII. Viviano. XIX. Fortezza d'animo dei cittadini e saggezza del signor Guglielmo Pusterla. XX. Le armi dei milanesi. XXI. Numero dei fabbricanti di corazze. XXII. Varie pitture sugli scudi e sulle bandiere. XXIII. La vipera dei Visconti. XXIV. Il Carroccio del Comune di Milano e sue prerogative. XXV. Dei trombettieri.
ELOGIO DI MILANO PER LA SUA FORTEZZA. I. - Facile sarà, discorrere della fortezza di Milano. Da quando fu fondata dai Galli, cioè dall'anno 502 avanti la Nascita di Cristo, corrispondente, come nei libri è scritto, all'anno 200 dalla fondazione di Roma, fu moltissime volte combattuta o colla violenza o coll'inganno e, ridotta alla fame e alla disperazione, fu presa talora, come dicono le storie, dai nemici e dovette sopportare inaudite calamità; eppure ha sempre opposto ai nemici una virile resistenza e ne ha trionfato. II. - E infatti la nostra valorosa città fu presa dal pessimo Attila, re degli Unni, che, dopo lunga guerra, la invase con un immenso esercito, nell'anno del Signore 450, e la distrusse (68). Allo stesso modo egli soggiogò Pavia; la quale, sebbene voglia far credere di essere sempre rimasta, immune, nell'anno 475, come si legge nelle storie, fu messa a ferro e fuoco da Odoacre, poi un'altra volta dai Goti nel 478; una terza volta fu espugnata da re Alboino, una quarta da re Carlo, nel 706, una quinta dall'imperatore Enrico, nel 1001, che la incendiò (69). Insomma essa fu sei volte espugnata e distrutta. Nel medesimo tempo il tristissimo Attila occupò Bergamo, Brescia, Verona, Vicenza e quasi tutte le città d'Italia, ma finalmente, così narran le storie, Giano, re di Padova, gli fe' tagliar la testa; e scontò in questo modo i suoi peccati. Le storie dicono ancora che la nostra città fu tre altre volte in poter dei nemici; una volta tuttavia non perchè sopraffatta, ma perchè ingannata da una falsa offerta di pace; un'altra volta per difetto di difesa; da ultimo perchè stremata dalla mancanza di viveri e priva d'ogni speranza di poterne avere. III. - E cioè: la prima volta fu presa da re Lamberto, usurpatore del dominio d'Italia. Egli, nell'anno del Signore 570, col concorso di tre re e di molti principi tedeschi, infamemente assediò, per dieci anni, la città con una infinita moltitudine di barbari. Finalmente, disperando di poterla soggiogare colla forza, conchiuse, dolosamente, coi cittadini una pace fittizia, cioè col patto che i milanesi gli permettessero di transitare per la città coll'esercito. E così entrò nella città e, traditi i patti, fece sguainare le spade contro i cittadini e distrusse le mura (70). Ma anche in questa occasione, quantunque ingannati dalla falsità del re, i milanesi dimostrarono la loro fortezza, e Lamberto, per giusto giudizio divino, ebbe la fine che si meritava : mentre dormiva fu ammazzato come un cane da un figlio di Ilduino, servo di Dio, e il suo corpo fu dato in pasto agli uccelli. IV. - Venne poi Alboino, re dei Longobardi, e, non avendo trovata alcuna resistenza perchè i cittadini erano stati in gran numero uccisi da re Lamberto, si impadronì della nostra città. Ed occupò anche Pavia e molte altre città. Ma poco dopo la moglie, fattolo massacrare a tradimento, pose fine al suo furore. V. - Infine lo scellerato imperatore Federigo I, ribelle alla Chiesa, raccolto, dopo la distruzione di Spoleto, un grande esercito, tribolò per sette anni i milanesi (71). VI. - Infine accampò presso la città colle sue armate composte di quindicimila cavalli e di un numero infinito di fanti, nelle quali erano rappresentate quasi tutte le città della Lombardia, e v'eran toscani mescolati ai tedeschi; v'erano il re di Boemia e moltissimi duchi, marchesi, conti, vescovi e abbati. La città fu da ogni parte circondata. I cittadini, fin che poterono, accanitamente resistettero, ma la cruda fame, compagna di grandi sciagure, capace di per sè di fiaccare, senz'altra lotta, guerrieri indomiti entro le mura delle fortezze, reclamò la resa. Costretti dalla mancanza di vettovaglie, ottenuta da Federigo e da tutti i principi del suo seguito la promessa che la città non sarebbe distrutta, il primo marzo dell' anno 1161 (72) i cittadini si misero nelle mani di Dio e dell'imperatore. Ma l'imperatore invece atterrò le mura altissime e gli edifici e per cinque anni continui angustiò i cittadini ; inoltre, e questa fu per noi la più triste umiliazione, il vescovo di Colonia ci rapì, per mandarli ahimè ! nella sua città, i corpi dei tre Re Magi che nel 314 il beato Eustorgio aveva miracolosamente portato da Costantinopoli a Milano (72). Sì, questa fu proprio la più triste nostra umiliazione, perchè la città fu ricostrutta meglio che prima non fosse, ma il tesoro di sì preziose reliquie è sempre rimasto lontano da noi. VII. - O Milano, o città insigne, irrorata dal sacro sangue di santi martiri, o Milano che, come leonessa, solevi avere la suprema gloria di fortezza fra tutte le città della Lombardia, perchè giacesti oppressa in tanto obbrobrio di schiavitù? dove sono le alte e solide mura che ti cingevano? dove le superbe torri? dove le consuete feste o i decantati trionfi? La tua arroganza è ora troncata alle radici. Dimmi, forse, insuperbita per la tua immensa fama, non riconoscesti essere la tua grandezza un dono di Gesù Cristo, o furono alcuni tuoi peccati che indussero il Signore a prostrarti umiliata, oppure non a tua colpa va attribuita la tua disgrazia? Ma se questa tua immensa passione, questa tua caduta fossero gli effetti della lotta da te valorosamente combattuta, contro i ribelli della Chiesa, sarebbero per te un tal titolo da tramandare ai posteri la fama del tuo valore. A rendere ancor più evidente la grandezza della tua virtù valga il ricordo dei seguenti fatti. VIII. Liberata dalla schiavitù dopo cinqu'anni dalla tua cattura, subito, quasi non avessi sentito gli effetti di tanta strage, cominciasti a rinnovarti, a rifiorire; ti affrettasti a riordinare le tue milizie; poi, serenamente obliando i passati mali, con vigile cura provvedesti ai bisogni presenti e volgesti securamente lo sguardo all'avvenire. Come la spada fabbricata di saldo e puro metallo, se piegata con forza, riprende da sè, d'un balzo, la sua posizione naturale, così la città nostra, perchè il suo valore, messo alla prova, più luminoso apparisse, si curvò quasi fino a terra, ma, svanita la minaccia dell'imperatore, per naturale impulso, balzò d'un tratto in piedi. E infatti l'anno dopo, 1168, ricuperò le terre perdute e le costrinse a giurare obbedienza ai suoi ordini; e, riparate le sue forze, cominciò a combattere aspramente la prepotenza del medesimo imperatore, e con indomita costanza difese l'italiana città di Alessandria da lui stretta con accanito assedio. IX. - Nel 1176, il giorno di sabato 29 maggio, il medesimo imperatore invaso furiosamente col suo esercito il contado di Milano, col proposito di distruggere un'altra volta la città, s'accampò a Cairate; ma i milanesi con estremo impeto lo affrontarono tra Borsano e Legnano, lo misero in fuga col suo esercito dopo aver uccisi, feriti o fatti prigionieri gran numero di tedeschi o d'alleati. E fu quella una meravigliosa, memoranda lotta. Inoltre, come raccontano le patrie istorie, con immensa, gloriosa fatica, resistettero a lui e ai suoi fautori, dovunque pugnando come leoni (74). L'imperatore finalmente, nell'anno 1192, trovandosi in Armenia, cadde in un fiumiciattolo e vi trovò, per giudizio divino, la morte (75) X - Narrar tutte le gloriose imprese compiute già prima dai milanesi richiederebbe un discorso troppo lungo. Basterà esporne brevemente alcune. Nel 1109 i milanesi combatterono contro i pavesi quella guerra che oggi chiamasi la guerra di campo (76) e li batterono facendo prigioniero persino il loro vescovo. E di nuovo li batterono presso Martinengo (77) facendo prigioniera quasi tutta la fanteria. E di nuovo nel 1154, a dispetto dei pavesi e dei loro fautori che combattevano pel trionfo dell'imperatore, riedificaron Tortona da Federico distrutta. Espugnarono poi Cerano, e poco dopo, rotti i pavesi nei sobborghi stessi di Pavia, ne gettaron buon numero in carcere. L'anno dopo assediarono il bello e fortissimo borgo di Vigevano e, battuti valorosamente i pavesi, se ne impadronirono e lo sottomisero. E già prima avevano disfatti i lodigiani (78) e avevano distrutto Como, e sgominati i cremonesi e trattine molti prigionieri: e a Carcano messo in rotta con tutto il suo esercito l'imperatore ribelle alla Chiesa romana. XI. - E bisogna ricordare che prima ancora, cioè al tempo di Eriberto, Arcivescovo della nostra città, l'imperatore Corrado Conan, come si legge nel libro delle imprese de' milanesi (79), a capo di un immenso esercito, aveva posto il campo a tre miglia dalla città e s'era spinto ad incendiare i sobborghi ; ma i milanesi gli inflissero tali danni che, stanco e scornato, dovette ritirarsi a Pavia, quindi, incamminatosi per la Germania, fu colto da un malore e si spense (80). Queste e molte altre imprese ampiamente, descrivono le patrie storie. Da Adamo fino ai nostri giorni, e son passati 6501 anni, nessun'altra città situata in pianura, ad eccezion di Roma, la quale si sia trovata in tanti e così gravi frangenti e da tanti e sì protervi nemici sia stata combattuta, ha, per quanto ne so io, così strenuamente resistito come la nostra. E anche maggiore è il suo merito perchè quasi tutti gli stranieri contro i quali essa ha combattuto, dalla fondazione della Chiesa romana fino ad oggi, erano nemici della Chiesa. Per questo, appunto, come si legge nel primo libro « Della edificazione di Milano », anticamente gli imperatori romani, per segno d'amicizia e testimonio di nobiltà e di prodezza, mandavano innanzi alle milizie partenti per la guerra i milanesi col vessillo di mezza lana (81). XII. - Nei tempi moderni Federico II, nel 1218 coronato da papa Onorio III, ma, da quel perfido che era, allontanatosi poi da Dio, e ingolfatosi nell'errore fino a diventar nemico della Chiesa e nostro, e amico dei nemici di Cristo e della Chiesa, tentò con tutte le sue forze di distruggere la nostra città; fece quanto potè, ma alla fine si ebbe quanto meritava. Perduta ogni speranza in Dio, Chiesa, colpito da un morbo abominevole, un cancro, si dice finisse turpemente, come i suoi peccati esigevano (82). Sento in cuor mio il bisogno di descrivere con quanto sforzo e con quanto valore questa città resistette al suddetto Federigo, dove e quando con pochi armati, con sua grande gloria, ebbe ragione di immensi eserciti. Ma poichè sarebbe troppo lungo il raccontare tutti i particolari, mi limiterò a ricordare brevemente la devastazione e la sottomissione del Vescovado dei Cremonesi e dei loro fautori fatte dai milanesi nel 1217 (83), e la guerra combattuta contro i medesimi nel 1234 a Genivolta, nella quale i milanesi devastarono nuovamente tutto il loro territorio (84), e l'aver messo, nel 1239, a ferro e a fuoco i territori di Bergamo e di Lodi, e la completa distruzione di Lodi vecchio dove le sole chiese furono risparmiate (85). Taccio d'altre imprese e preferisco rammentare l'invasione del nostro territorio fatta nel 1239 con un esercito di toscani, alemanni, pugliesi, saraceni da Federigo II il quale, distrutto il borgo fortificato di Melegnano, pose gli accampamenti a Locate. XIII. - L'esercito dei milanesi gli mosse incontro fino alla villa di Camporgnano (86) si accampò ad un miglio appena dal campo imperiale. L'imperatore, dubitando del successo d'uno scontro coi nostri, avanzò per quattro miglia verso le cascine di Scanasio e lì pose le tende (87). I milanesi, sempre mantenendosi in posizioni tra la città e il campo nemico, si accamparono a Fontecchio decisi a difendere virilmente la patria e, deviate con somma abilità le acque dei fontanili verso l'esercito nemico, ne allagarono il campo, e lo costrinsero a ritirarsi sulle posizioni di prima di contro alle quali si disposero i nostri. E badate che l'esercito ambrosiano era di gran lunga inferiore a quello dell'imperatore la cui sola cavalleria contava più uomini che presso di noi la cavalleria e la fanteria insieme. Eppure l'imperatore, dopo aver passato nel nostro contado trentaquattro giorni, sbigottito dalla audacia e dalla costanza dei milanesi, e specialmente della Compagnia dei forti, che erano fanti scelti fra i più robusti ed agguerriti, sprezzanti d'ogni pericolo, perfettamente armati, e avevan giurato di non risparmiare un sol nemico, se ne partì rattristato per la vanità del suo sforzo. I milanesi, esultanti, tornarono alle loro case. XIV. - Nei due seguenti anni distrussero molti villaggi del Comasco, e si spinsero, tutto incendiando e devastando, fino alle porte di Como. Ma, più mi preme ricordare che quell'imperatore, nemico della Chiesa e nostro, fu dal papa Innocenzo IV scomunicato e privato della dignità imperiale, e da allora in poi i fedeli cristiani non lo chiamarono più imperatore ma il deposto. XV. Cionondimeno egli, nell'anno medesimo, raccolto un immenso esercito, invase un'altra volta il contado di Milano (88) fermandosi sulla riva del Ticinello, disposto a passare il fiume per distruggere dalle fondamenta la nostra città. Subito i milanesi posero le tende sulla riva opposta e, dovunque egli lo tentasse, gli contrastarono il passo. Finalmente, disperando di raggiungere il suo scopo, divise l'esercito in due parti : tenne con sè la maggiore, e l'altra, composta di cremonesi, pavesi e bergamaschi, mandò, sotto il comando di Enzo, suo figlio naturale, ad Abignano, nella parte opposta del contado, perchè varcasse l'Adda nuova [Muzza]. Mossero contro quest'ultimo due Porte della nostra città, la Comasina e l'Orientale (89), coi contadini dei borghi e delle ville della Martesana, sino a quel fiume, e si accamparono di fronte ai nemici. Re Enzo, vedendo che non c'era nulla da fare, una certa notte con tutta la sua cavalleria passò segretamente l'Adda al guado di Cassano, e, aggredite le scarse schiere dei milanesi, fece molti prigionieri. Ma, preso egli stesso dal nostro Capitano, Simone da Locarno, fu rinchiuso nel campanile di Gorgonzola, e dovette patteggiare la sua liberazione colla promessa di rilasciare tutti i nostri prigionieri : rilasciato, a questo patto, fu rimandato al suo esercito, e diede subito ordine di liberare i prigionieri; ma i cremonesi e l'esercito intero si rifiutarono di ubbidire. Quindi si partì colle sue genti. E Federigo, dopo trenta giorni, giudi- cando impossibile effettuare il suo orgoglioso disegno, deluso e triste, levò il campo. XVI. - Tre anni dopo assediò Parma [1247], ponendo ogni sua cura nel rafforzare l'esercito, e fondò, laddove si era accampato, una nuova città chiamata Vittoria. Ma Parma era valorosamente difesa da seicento milanesi e da trecento piacentini col legato apostolico Gregorio da Montelungo. Finalmente, coll'assistenza di Dio e il costante aiuto de' milanesi, si riuscì a battere le truppe di Federigo, moltissimi de' suoi soldati furono uccisi, moltissimi fatti prigionieri. Il carro dei Cremonesi detto Carroccio fu portato dagli stessi milanesi in Parma; fu presa la città di Vittoria, spogliata del tesoro di Federigo e di tutti gli altri beni, quindi da cima a fondo distrutta. Federigo, vergognosamente vinto, perduti tutti i suoi beni, riparò in Puglia, dove nel 1250, colpito da grave malattia, disperato, scomunicato, privo dei sacramenti, finì la sua vita, commutando, come dice la Cronaca (90), la sua morte carnale nella morte eterna. Solo alcune, non tutte, le valorose gesta dei milanesi ho brevemente narrate. Chi desidera saperne di più legga le storie ambrosiane. Ma perchè nessuno creda che io abbia deliberatamente taciuto le vergogne i danni sofferti dalla nostra città, sappia, e creda, se vuole, che, avendo io letto, o udito raccontare le imprese guerresche dei milanesi, quantunque abbia avuto notizia di molte avversità, non ho mai letto o inteso che, quando si son trovati a combattere in pari condizioni coi nemici, siano mai fuggiti, nè che alcun popolo abbia su di loro riportata vittoria. Confesso di aver letto che molte volte la sorte fu loro contraria; ma non c'è da meravigliarsene: quale altra città, sbattuta da tanti e sì impetuosi venti, non ha subito danni ? La stessa Roma, pur essendo densa di popolo, di tutto fornita, pur essendo per la sua potenza temuta da re e popoli e famosa in ogni parte del mondo, ha avuto le sue avversità, le sue fughe e ha dovuto soffrire da parte dei nemici catture, ferite, uccisioni e altre offese. E basta di questo argomento. Fu detto con quanto valore abbia un tempo combattuto contro i nemici la nostra città. Ora, essendo più ricca di popolazione, di edifici, di vettovaglie, quali re, quali tiranni, qual popolo potranno mai soggiogarla? Nessuno se i cittadini, volgendo a' propri danni le spade, non vorranno scannarsi a vicenda. XVII. - A questo punto non so rinunziare a parlar d'un fenomeno meraviglioso. Molti dei miei concittadini d'ambo i sessi, ormai decrepiti, ricordano un nobilissimo uomo, Uberto della Croce, figlio della nostra terra, la cui forza non ha mai trovato l'uguale nel mondo. Di questa forza voglio dare brevemente le prove in tutto conformi alla verità. Era uomo di illustre e potente stirpe, ma la sua maggior potenza stava nella sua vigoria dacchè gli atleti delle altre città appetto a lui erano come fanciulletti di fronte ad uomini fatti. Egli fermava colle braccia cavalli in corsa, e li forzava a restare immobili : portava, su per le scale fino ai piani superiori giumente di mugnai ben cariche di farina o di frumento; stando egli fermo sur un piede, l'altro levato in aria, senza appoggio, nessuno, così dicono, per quanta forza avesse, riusciva a smuoverlo; legato l' un braccio e l' altro presso le articolazioni delle mani, e sei uomini a destra e sei a sinistra tirando, co' piedi ben puntati a terra, le funi, ei riusciva a portare con ambe le mani il cibo alla bocca; in una certa battaglia, trovatosi solo, accerchiato da una densa turba di pavesi, colla sua terribile clava la mise in fuga. La sua statura era tale che se uno lo guardava davanti parevagli pendesse all'indietro e viceversa. Era un gran mangiatore : divorava pasti bastevoli per quattro uomini; era capace di mangiare in una sola volta, e con molto pane, almeno trentadue uova fritte in padella. Raramente fece pompa in pubblico della sua forza senza una giusta causa, mai si dice ne abusasse per recar danno altrui; era con tutti cortese. Fioriva costui nel 1215. Ebbe da una concubina una figlia così vigorosa che levava da terra un grande vaso contenente tre staia di vino, al cui peso non avrebbe resistito un uomo, e ne beveva come uno farebbe da un bicchiere. XVIII. - Si raccontano cose miracolose anche di Viviano nato nel nostro contado, vicino al bel borgo di Lecco (91). E si dice che in Milano sian nati molti altri uomini senza pari al mondo, ma a parlarne rinuncio. Che dirò della forza d'animo dei nostri concittadini d'un tempo? quanti e quali martiri diedero alla fede di Cristo che nella nostra città e altrove riportarono gloriose vittorie? Vitale, nostro concittadino, e Sebastiano che predicarono la fede cattolica, quegli a Ravenna, questi a Roma, meritarono in queste città la corona del martirio. Protasio e Gervasio, figli di Vitale, predicanti a Milano, patirono pure il martirio per la fede di Cristo. Maurilio, vescovo, predicò nell'Anjou, Simpliciano, nostro arcivescovo, colle sue prediche a Roma reintegrò la Chiesa romana, che era divisa da molte eresie, e molti convertì alla fede. Gajo, fustigato, fu da qui mandato in esilio. Castriziano, milite novizio nel campo della religione, ottenne molte conversioni. E Calimero, per aver predicato e convertito infedeli, fu accecato, per la sua fede, flagellato, condannato all'esilio, gettato in un pozzo col capo all'ingiù, ed ebbe infine la corona del martirio. Il beato Materno, cacciati da Tortona gli idolatri, vi predicò, e sostenne per la religione molte avversità. Il beato Dionigi, arcivescovo di Milano, esiliato, gettato in un orrido carcere, fu alfine per la fede di Cristo consacrato al martirio. E il beato Ambrogio, uno dei quattro dottori della Chiesa, ridusse molti sperduti sulla via della verità, convertì il beato Agostino e liberò la nostra città dagli Ariani. Il beato Senatore predicò la religione Cristiana in Oriente. Ambro- gio centurione, nostro concittadino, fu martirizzato a Ferentino (92). La beata Sofia, oriunda della nostra città, e le sue tre figliuole furono in Roma così insigni predicatrici da convertire più di sedicimila persone d'ambo i sessi. Tutti questi atleti della religione furon nostri concittadini. E ve ne furono tanti altri che se volessi, ad uno ad uno, ricordarli darei noia ai leggitori. XIX. - Ma non credo si debba tacere che la nostra città generò non solo uomini di singolar forza e valore, ma anche uomini dotati dalla natura di rara saggezza. Tra questi ultimi, che son moltissimi, ne ricorderò uno solo, il nobilissimo cavaliere, nostro concittadino, Guglielmo Pusterla, che molte persone oggi ancora viventi conobbero, il quale, senza aver studiato, ne sapeva più di tutti, dotti e indotti. Quasi tutto quello che un uomo senza studi può conoscere egli conobbe. Non si credeva che nei nostri paesi alcuno gli fosse pari in sapienza, tanto che, quando era Podestà di Bologna, accanto a dottori di leggi, questi, vedendo un uomo illetterato saper tante cose, lo chiamavano per antonomasia "il sapiente de' laici" (93). E altrettanto, se volessi andar per le lunghe, potrei dir di molti altri letterati o illetterati. XX. - Descritte le virtù militari dei milanesi, vediamo ora la magnificenza delle armi e dei guerreschi ornamenti che portano nelle loro spedizioni. In qual mai città del mondo si può trovare un popolo così decorosamente armato di ferro? Non lo si troverà mai, o ben di rado. Non solo di cavalieri, ma anche di fanti tu vedresti in guerra magnifiche schiere, vestite di armi corrusche; loriche, corazze, lamiere, celate, elmi, elmetti; guanti d' acciaio, collari, gambali, femorali e ginocchiali; fanti muniti di lancie, aste, spade, pugnali, clave, scudi luccicanti; vedresti le schiere di cavalieri splendenti da capo a piedi pel fulgor delle armi; e l'ondeggiar de' cavalli coperti di splendidi finimenti; tutti guerrieri senza pari, non solo per nobiltà di stirpe, ma anche per dignità di costumi e perizia dell'armi, quali invero si convengono a così grande ed insigne città. Nè ciò fa meraviglia, perché i nostri cittadini, onorevoli uomini, superano tutte le altre genti per civiltà e larghezza e, in tempo di guerra, amano le belle armi e i superbi destrieri e più d'ogni altro bramano possederli. Dov'è un valor naturale, a tempo opportuno si palesa. Inoltre nella nostra città e nel contado è abbondanza d'armaiuoli che fabbricano senza tregua armature d'ogni foggia, che poi i mercanti portano a vendere, in numero infinito, nelle città vicine e nelle lontane. XXI. - E infatti i fabbricanti di corazze son più di cento, e ciascuno tien sotto di sè moltissimi operai intenti al mirabile artificio delle « macchie ». Innumerevoli sono quelli che fanno scudi ed armi d'altro genere (94). XXII. - Scudi e vessilli portano dipinte insegne diverse secondo le sei porte principali della città. La porta Orientale ha lo scudo bianco con leone dipinto in nero; la Nuova ha quattro quadratelli bianchi e neri : nero il superiore a sinistra e l'inferiore a destra, bianchi gli altri due. La Comasina quadratelli alternati bianchi e rossi [scacchiera]. La Vercellina ha lo scudo bipartito, rosso in alto, bianco in basso. La Ticinese tutto bianco, la Romana tutto rosso. Altrettanta varietà d'insegne hanno le porte nei loro vessilli, oltre ai quali, quando si raduna l'esercito, altri ne vengono dati dal Comune a ciascuna Porta con croci rosse in campo bianco. XXIII. - Dal Comune stesso viene offerto ad uno della nobilissima stirpe dei Visconti che ne sembri il più degno, un vessillo con una biscia dipinta in azzurro che inghiotte un saraceno rosso; e questo vessillo si porta innanzi ad ogni altro; e il nostro esercito non si accampa mai se prima non vede sventolare da un'antenna l'insegna della biscia. Questo privilegio si dice concesso a quella famiglia in considerazione delle vittoriose imprese compiute in Oriente contro i Saraceni da un Ottone Visconti, valorosissimo uomo (95). XXIV. - Quando l'esercito intiero muove in campo, è portato fuori un carro da tutti ammirato, il cosidetto Carroccio, coperto da ogni parte di scarlatto e ricco di ornamenti, tirato da tre paia di grandi e robusti buoi coperti di gualdrappe bianche segnate di croci rosse. Dal mezzo di esso si erge un'alta, diritta e bellissima antenna, del peso di quattro uomini, portante sulla cima una croce dorata. Da questa antenna pende, tremolando all'aria, un grandissimo, candido vessillo con la croce rossa i cui bracci raggiungono le quattro estremità. Molti uomini da ogni parte con funi mantengono diritta l'antenna. Il Maestro del Carroccio, onorevole personaggio, cui spetta per tradizione di famiglia questo privilegio, ogni volta che esce dalla città contro i nemici viene così ricompensato : il Comune gli dà subito una corazza e una magnifica spada, poi otto soldi di nostra moneta per ogni giorno di sua permanenza al campo. Il Comune elegge pure e ricompensa un cappellano che ogni giorno cele bra, presso al Carroccio, la messa.
XXV. - Il Podestà che governa il nostro Comune è sempre seguìto da sei tubatori di onorevole condizione, ciascuno dei quali ha dal Comune o quattro, o tre, o almeno due cavalli : essi non adempiono solo l'ufficio di tubabori e banditori, ma, quando sia necessario, anche quello di prodi cavalieri ad onor della patria. Due di costoro hanno lo speciale incarico di distribuire le tende all'esercito, e ricevono dal Comune un decoroso stipendio.
Della fortezza della nostra ammiranda città ho detto abbastanza. Più non dico per non tediarvi. Ora passerò a dimostrare la sua costante fedeltà.