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Le ore inutili/L'uomo tinto

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L'uomo tinto

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L'intrusa Il gioiello dell'ava

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L’UOMO TINTO.

— Eccolo! Eccolo! — annunziò la giovine signora sporgendo il busto dalla balaustrata dell’alta terrazza. E con la mano sottile, dalle unghie molto rosee, additò qualcosa di nero che camminava con lentezza per la strada bianca, laggiù. Nell’atto l’ampia manica del suo chimono di crespo azzurro scivolò e apparve la morbidezza chiara del suo braccio tornito che molte armille d’oro tintinnanti cingevano al polso.

Il giovane che le stava alle spalle buttò la sigaretta e l’afferrò all’avambraccio quasi con durezza.

— Perchè ti occupi di quel vecchio avanzo d’umanità miseranda?

— Miseranda? — ella ripetè, volgendosi a balenargli in faccia il suo riso. — Dicono che quel vecchio avanzo d’umanità possegga [p. 148 modifica] parecchi milioni accumulati in mezzo secolo di losche speculazioni e d’esosa avarizia.

— Fa schifo. Dev’essere un ebreo usuraio.

— Usuraio certo, ma ebreo no. Appartiene anzi a una cospicua famiglia e si fregia d’un titolo nobiliare.

— Davvero? Me ne rallegro tanto.

— Si chiama il marchese Licandri. Suo padre fu ambasciatore, sua madre era una principessa polacca.

— Non si può affermare che il discendente abbia aggiunto lustro alla gloria degli avi. Ma chi ti ha così ampiamente informata sul passato e sul presente di quell’individuo?

Parlando egli le cinse la vita col braccio e la costrinse a rientrare nella saletta da pranzo dove, sulla tavola ancora apparecchiata e lucente di cristalli e di metalli, la cameriera serviva il caffè.

La giovane coppia, sposata da un anno e mezzo e tuttora immersa in tenerezze blande di nuzialità, abitava da una settimana in quel grande casamento moderno a molti piani e a molti strati umani sovrapposti, dove si rifugiava a vivere la sua ristretta esistenza borghese un piccolo mondo ancora ad essi sconosciuto.

— Chi m’ha informata? — ripetè Nora [p. 149 modifica] Dellaris, la donna dal chimono azzurro, sedendo dinanzi alla sua tazza e rimestando lungamente il caffè. — Un’antica amica di mammà che tu non conosci, perchè ora vive in campagna, ha abitato per alcuni anni in questa casa e conosce minutamente la storia e la genealogia di tutti coloro che vi abitavano al suo tempo. — Sostò un momento, inghiottì un sorso e proseguì con un sorriso acuto: — È una donna che meriterebbe di essere assunta come agente informatore al servizio di qualche polizia segreta, tanto è avida di conoscere i fatti altrui, tanto è ostinata nel rintracciarli e sagace nello scoprirli.

— Io la definirei più semplicemente un’intrigante curiosa e pettegola, — dichiarò suo marito con aria sprezzante.

— Hai torto. È una persona interessante perchè conosce od ha l’aria di conoscere i suoi simili come il romanziere conosce i personaggi dei suoi libri.

— E allora ho ragione di chiamarla pettegola. È evidente che, quando non sa, inventa.

— Credo che inventi di rado. Possiede il fiuto d’un vecchio cane da caccia che non s’inganna seguendo una pesta. Mio fratello se ne servì molte volte quando andava in cerca di persone facoltose e generose per.... [p. 150 modifica]

La voce di Nora s’abbassò e s’interruppe. Ella chinò il viso rabbuiato su la sua tazza sfuggendo per un momento allo sguardo di Riccardo che gettava all’aria larghe boccate di fumo torcendo la bocca con disprezzo.

— Per farsi pagare i debiti, — egli concluse con una smorfia espressiva, e soggiunse a mezza voce: — e per fuggirsene poi chi sa dove, a finire i suoi giorni chi sa come. — Buttò la sigaretta, la guardò fumigare e spegnersi sul portacenere d’argento, e s’alzò parlando con ostentata gaiezza: — Dunque, che cosa ti ha narrato la tua informatrice su quel blasonato rudere umano?

— Ti ho già ripetuto tutto quanto so, — rispose Nora di nuovo rinfrancata. — Che ha un titolo, molti quattrini, quasi sessant’anni e che si tinge capelli e barba con una miscela di sua fabbricazione che, per ragioni d’economia, si prepara egli stesso nel mistero impenetrabile di casa sua dove nessuno è entrato mai.

— Magnifico! — esclamò Riccardo in una beffarda risata. — Quell’uomo è il poema della sordidezza, è l’apoteosi vivente dell’avarizia.

— Qui nella casa e nei dintorni, — informò Nora, — lo chiamano soltanto “l’uomo tinto„, perchè quell’intruglio quasi nero e molto semplicista di cui s’impiastriccia il viso, sconfina spesso [p. 151 modifica]dai limiti che gli sono assegnati, con un effetto di comicità ed anche di trascurata pulizia più grave anche di quanto forse in realtà non meriti il vecchio marchese Licandri.

— Si direbbe quasi che vuoi assumerne la difesa, — notò il marito alquanto sarcastico.

— Tu scherzi, Riccardo, — ella sorrise con una blanda protesta.

— Sì, scherziamo da dieci minuti tutti e due, smarrendoci in chiacchiere inutili su questo nostro sconosciuto vicino di casa, il quale appartiene a quella numerosa categoria del nostro prossimo che è, e che ci sarà sempre profondamente indifferente. Nora, dammi le tue mani.

Riccardo prese fra le sue le sottili mani ch’ella gli tendeva e si chinò a baciarle nelle palme; poi le accarezzò i capelli e baciò le fresche labbra su cui errava un sorriso distratto.

— Ora vado, amore caro. Il dovere mi chiama, — e s’avviò all’anticamera, infilò il soprabito parlando con leggerezza serena. — Oggi debbo difendere un ladruncolo che tagliò una tasca per rubare un portafogli. Il derubato, che è un ricco signore, non se ne accorse e avrebbe creduto a uno smarrimento se non si fosse trovato il taglio nella giacchetta. Ciò lo indusse a denunciare il furto e a far acciuffare l’abile ladro. [p. 152 modifica]

— Che peccato! — esclamò Nora crollando la testa bionda.

— Che peccato? — rise Riccardo con gaio stupore. — Ma io scopro in mia moglie un’anima di delinquente.

— Rubare ai ricchi non è un atto di delinquenza. È così giusto ed è così umano! — ella sospirò.

— No, mia piccola Nora. Sei troppo graziosa per parodiare Carlo Marx, — l’ammonì suo marito dirigendosi alla porta. — E poi, le donne belle non hanno bisogno di rubare. Ottengono tutto con assai meno fatica e con assai meno rischi.

— Tu credi? — ella domandò senza sorridere e il marito non sentì l’ironia sottile che vibrava nella sua voce.

La salutò dalla soglia con un gaio cenno della mano e corse via canterellando.


Nora Dellaris richiuse la porta alle spalle di suo marito e andò a guardarsi nel grande specchio appeso sull’antica cassapanca dell’anticamera.

— Le donne belle ottengono tutto, — si ripeteva, osservando il suo volto emergente dallo sfondo in penombra. E sogghignò con amarezza a quell’altra Nora che la fissava con due occhi [p. 153 modifica]bui, stringendosi intorno alla persona le pieghe del suo chimono azzurro e sospirando a denti chiusi, come sospira la malinconia aspra e desiderosa.

Sapeva d’essere bella e riconosceva che ben poco le aveva concesso la sorte in omaggio alla sua bellezza. Vi pensava talvolta con una tristezza irosa la quale si placava poi a poco a poco nell’inerzia indolente che viene dalla certezza di trovarsi di fronte alle cose ineluttabili.

Ora le parole leggiere di Riccardo le risuscitavano in cuore l’antico malcontento di donna insodisfatta. E rientrò nella sua camera da letto, s’abbandonò sul lungo divano senza spalliera, alla Récamier, chiudendo gli occhi assorta in una inquieta meditazione.

La ricchezza! Ella non la possedeva. Non godeva di ciò che un poeta ha definito: quella spaventosa meraviglia che si chiama il denaro. La posizione del marito le concedeva una piccola agiatezza discreta, misurata giorno per giorno col compasso limitato della possibilità. Aveva dinanzi a sè la sicurezza di un domani sempre eguale e sempre mediocre, privo dei bei capricci e delle improvvise follie che la ricchezza consente.

Ed era giovane, poichè non contava ancora [p. 154 modifica]i trent’anni. Si sentiva più giovane pel desiderio di vivere e di gioire che le riempiva le vene. Amava avidamente le cose rare, magnifiche e preziose, sacre alla vanità e al lusso femminile. Le sete molli che accarezzano le carni, i profumi intensi che stordiscono come gli oppiati, i gioielli che splendono sui velluti delle vetrine come stelle su firmamenti bui. E le lucenti macchine sorvolanti sulle vie polverose, i cavalli agili lanciati al galoppo vertiginoso tra eleganti folle in attesa fremebonda, le ville sognanti dietro cancelli dorati, immerse in verzure cupe, rifugi fastosi del godimento, ove la vita sembra trascorrere come una voluttà senza fine.

Nora s’alzò con impeto dal suo divano e mosse alcuni passi per la stanza, come per scacciare da sè quelle visioni tormentose e ostinate. Un mazzolino di ciclami moriva lentamente con l’umile grazia dei fiori di selva in un vasetto di fiorazzo pesarese a vivaci colori posato sul piano della piccola scrivania. Ella lo odorò socchiudendo gli occhi, a lungo, poi staccò alcune di quelle corolle rosee e le sminuzzò fra le dita nervose.

Perchè torturarsi nella vanità irritante di quei pensieri tante volte scacciati come tentatori inutili e grotteschi? Ancora una volta ella [p. 155 modifica]li allontanava con molestia irosa sentendoli puerili e stolti, ma nondimeno, ritta in mezzo alla stanza, con le sopracciglia congiunte sugli occhi fissi al suolo, ella vedeva passare dinanzi a sè, come poco prima dall’alta terrazza, la figura nera di quel vecchio vicino, ricco, avaro e ritinto che le aveva forse ricondotto in cuore l’antico tormento sopito.

Perchè mai quell’uomo, che racchiudeva nei suoi scrigni quella forza stupefacente e prepotente con cui tutto si può ottenere, anche l’illusione della felicità, preferiva invece di vivere come un povero, in una solitudine umile e gretta, ostentando dinanzi al prossimo che lo scherniva quella sua persona meschina, intorno a cui aleggiava un sentor losco di mistero e d’intrigo?

Costui possedeva il mezzo prodigioso con cui ammansare le ferocie dell’umanità, con cui piegare ai suoi piedi in adorazione coloro che adesso lo deridevano e non se ne serviva nè contro di loro nè in pro di se stesso. Vegetava solo, contando il suo danaro, infagottato in vecchi abiti male odoranti, in poche stanzette buie dove nessuno entrava mai, mentre avrebbe potuto vivere in un palazzo sfarzoso, fra domestici esperti in tutte le arti del servire, fra donne esperte in tutte le arti dell’a[p. 156 modifica]mare, godendo nei pochi anni che ancora gli restavano tutte le obliose dolcezze che quel cumulo gelido di carte racchiuse in un mobile tarlato inutilmente gli offriva.

Ed ella si domandava con uno scatto di sdegno quale insensato, quale incosciente, quale bruto fosse dunque costui. Ella si chiedeva che cosa fossero state la giovinezza e la maturità di quest’uomo per ridurlo nella vecchiaia a quella volontaria miseria, a quella rinunzia cercata di tutti i beni considerati necessari o invidiabili nel mondo che lo circondava. Che era dunque mai quest’uomo? Un filosofo, un pazzo, un disilluso?

Di nuovo ella si scosse e sogghignò di se medesima e del suo vaneggiare. Entrava il sole dall’alta finestra aperta sul cielo chiaro, alcune rondini guizzavano per l’azzurro con strida giulive di bimbe inseguite, un orologio non lontano suonò in cadenza squillante tre colpi. Nora rammentò che doveva uscire poco più tardi e incominciò lentamente a vestirsi. Vi pose una cura minuziosa, quasi amorosa come sempre quando s’occupava della propria persona. Infilò le lunghe calze di seta, aerea trama nera sul biancore opaco della carne, e le scarpette lucenti su cui il largo nodo si posava, come una farfalla bruna sopra un fiore notturno. [p. 157 modifica]E quando ebbe indossato l’abito di velluto molle appena chiuso alla cintura e il cappello stretto da cui sfuggivano alcune ciocche bionde, s’avviò verso l’uscita calzando indolentemente i guanti di camoscio bianco. In anticamera diede qualche ordine alla cameriera e si trovò sulle scale sfolgorate dal gran sole che penetrava dalle finestre a vetri colorati.

Scendeva senza affrettarsi, calcando ogni gradino, col suo passo abbandonato e pigro di donna che spesso sogna e meglio che nella vita ritrova se stessa in qualche angolo incantato della fantasia. Scendeva languidamente nella chiarità calda di quel pomeriggio d’avanzata primavera, chè le torbide meditazioni di poco prima, pur già lontane e quasi dimenticate, le avevano lasciato dentro un amaro di cose insodisfatte, un rimpianto non ben definito, ma tuttavia acre e bramoso.

Sentiva in sè l’oppressione delle sue volontà inappagate e inappagabili sotto forma di quella inquietudine oscura che quasi sempre l’accompagnava, ma che oggi non riusciva a dominare, nemmeno con l’aridità voluta dal suo scetticismo.

Quando fu in fondo alle scale e prima di percorrere l’androne che s’apriva sul viale deserto, si fermò e chinò il capo intenta ad abbottonare [p. 158 modifica]sul polso uno dei suoi lunghi guanti scamosciati. Ma quando sollevò lo sguardo, lo fissò dinanzi a sè pieno di meraviglia.

Il suo vicino di casa, il marchese Licandri, l’uomo tinto, percorreva l’atrio invaso dalla luce variopinta delle vetrate a colori. Si avanzava lento verso di lei, appoggiato al suo bastone di canna d’India, a brevi passi misurati e a testa alta, fissandole in volto due rotondi occhi azzurri, due pupille chiare, quasi fanciullesche nella devastazione senile del viso, e quello sguardo che non si staccava da lei e pareva al tempo stesso implorare perdono per la propria insistenza inopportuna, manifestava un’ammirazione stupita e profonda, traduceva l’adorazione muta d’un uomo che contempla una cosa bella e se ne compiace, che osserva un tesoro non suo e se ne duole.

Anche la giovine donna lo guardò e si meravigliò di non trovarlo così ributtante come lo immaginava. La povertà dell’abito, la trascuratezza disordinata della persona, la barba a chiazze nerastre che gli invadeva metà del volto le sembrarono quasi bizzarrie sdegnose di uno spirito strano che abbia in disprezzo l’umanità.

Sempre fissandola egli le passò accanto, si levò il cappello in un gesto rispettoso di sa[p. 159 modifica]luto e le parve in quell’atto meno sinistro e meno brutto, con l’alta fronte scoperta e i capelli buttati all’indietro. Portava un colletto molle arrovesciato sopra una cravatta nera e svolazzante, una redingote sciupata e d’antico taglio, scarpe di grosso cuoio su cui ricadevano i pantaloni troppo lunghi. Così magro, giallastro e dimesso pareva un vecchio professore a riposo, o un vecchio artista deluso e affamato. Poteva forse anche sembrare una persona rispettabile senza quell’incerto colore di nero-fumo che gli si diffondeva intorno alle orecchie e alla nuca e rappresentava per lui una lontana illusione della giovinezza da tanto tempo perduta: strana contradizione, stonatura grottesca con quella sua figura meschina d’usuraio, con quella sua anima avida d’avaro.

Esisteva dunque in quell’uomo, oltre al tenace amore per il denaro, anche il bisogno di dissimulare la sua vecchiaia, indizio confuso ma certo d’un sopravvivere d’aspirazioni o di desideri in contrasto con l’egoistica linea di vita che egli pareva seguire.

Passò oltre, salì i pochi gradini che lo conducevano al suo alloggio, un piccolo appartamento a terreno che s’apriva sul pianerottolo semibuio. Trasse dalla tasca una chiave, aprì adagio la porta dissimulata nell’ombra e si ri[p. 160 modifica]volse un’ultima volta ad ammirare la bella signora bionda, tuttora ferma nella gran luce variopinta che scendeva dalla vetrata.

Ella, a testa china, di sotto il suo velo arabescato, di sotto alle ciocche dei suoi capelli, gli lanciò uno sguardo furtivo, balenante di curiosità, mordendosi il labbro quasi in un trattenuto sorriso.

L’uomo si levò di nuovo il cappello e rimase così, appoggiato allo stipite della sua porta aperta come ad un invito, rimase a contemplarla dalla soglia della sua casa misteriosa dove nessuno era entrato mai, finchè ella non ebbe percorso l’atrio deserto che risuonò sotto il tacchettio dei suoi tacchi parigini, finchè ella non fu scomparsa nell’arco verde del viale.


Passarono gli anni. Il vasto casamento moderno che rifugiava sotto il suo tetto immenso tanta diversa umanità, mutò e rimutò più volte i suoi ospiti, oscurò di polvere grigia i colori smaglianti delle sue vetrate, ingiallì con la patina del tempo la bianca vernice delle sue pareti, vide entrare coppie di sposi impazienti dopo le nozze, vide uscire neonati vocianti portati al battesimo, vide andarsene morti taciturni, nelle chiuse bare coperte di drappi neri.

Ma non ostante il tempo che tutto cambia [p. 161 modifica]e molto distrugge, qualcuno rimaneva ancora dopo anni e anni a vivere entro le stesse stanze la sua esistenza consueta, dietro una delle porte allineate sui pianerottoli, sulle quali la targhetta di metallo col nome inciso in nero sembrava il numero d’ordine cucito sul berretto del detenuto.

L’uomo tinto abitava sempre nel suo buio alloggetto del pianterreno, la coppia Dellaris non aveva abbandonato il suo chiaro appartamento dell’ultimo piano. Ma il nome del vecchio marchese ricchissimo e avarissimo non tornava più nei loro discorsi. Lo guardavano ormai dall’alta terrazza uscire e rientrare, lo vedevano passare e ripassare nero, curvo e sfuggente sotto i loro occhi, senza interesse e senza curiosità, figura ormai sbiadita, profilo comune nel piccolo cerchio del loro orizzonte quotidiano.

Talvolta Riccardo, il marito, gli dirigeva ancora nei giorni d’umor gaio qualche innocua ingiuria o qualche allegro motteggio sperduto tra il fumo della sua sigaretta, ma Nora pareva non udire e non rispondeva. Ella s’era leggermente ingrassata pur conservando sempre la bella linea elegante d’un tempo. Le rimaneva tuttavia in fondo allo sguardo, sotto la ruga profonda che univa i due sopraccigli, [p. 162 modifica]quella sua luce torbida d’inquietudine che gli anni avevano fatta più intensa e più fosca.

Quando si trovava sola con sè stessa ella pareva torturarsi nell’attesa dubbiosa di qualche avvenimento, che mutasse la sua vita, che la lanciasse per vie sconosciute, che vestisse di realtà una sua inconfessata speranza. E vibrava tutta come vibra lo stelo della pianta acquatica, scossa da una corrente profonda.

Spesso Riccardo la canzonava affettuosamente per la sua sensibilità eccessiva che la faceva sobbalzare sconvolta e pallida a ogni suono improvviso e a ogni gesto inaspettato ed ella tentava di sorriderne con lui, spianava per un momento la ruga meditativa della sua fronte lanciando una risatina squillante che non oltrepassava il chiuso nodo della sua gola, ma dietro le spalle del marito gli gettava uno dei suoi sguardi obliqui dove si raccoglieva una silenziosa commiserazione, un’ironica pietà. E allorchè egli con un ultimo bacio tenero e un ultimo saluto leggiero usciva diretto al suo studio d’avvocato, Nora si chiudeva nella sua stanza, si vestiva con cura minuziosa, dava in anticamera alcuni ordini alla cameriera, quindi scendeva cauta, quasi furtiva le lunghe scale, cercando d’attutire nel passo premuto sulla [p. 163 modifica]pietra il ticchettio sonoro dei suoi tacchi parigini.

Ma un giorno, era una mattina piovosa e fredda di marzo e Nora s’alzava appena dal letto, le entrò in camera tutta sgomenta la figlia del portiere, una giovinetta quindicenne ch’ella quasi non conosceva, per avvertirla tremando e balbettando che il vecchio signore del pianterreno stava male, male da morire e la chiedeva con insistenza presso di sè.

Riccardo era partito la vigilia per una città di provincia dove discuteva una causa d’affari ed ella non esitò. Acconsentire al desiderio del vicino poteva sembrare un semplice e doveroso atto di pietà verso un infermo. Si vestì di scuro, discese con le ginocchia malferme e la schiena percorsa da brividi di gelo ed entrò nella stanza buia dove il marchese Licandri agonizzava solo.

Ne uscì a sera tarda, quand’ebbe chiusi con le sue dita gli occhi del morto e accesi due ceri ai piedi del piccolo letto di ferro dov’egli giaceva.


Ella visse i giorni che seguirono in una trepidazione angosciosa, in un’ansietà fremebonda e quando, dopo una settimana, Riccardo tornò, [p. 164 modifica]le trovò una faccia così pallida e due occhi così febbrili che se ne commosse.

— Se io fossi un marito presuntuoso direi che tu hai sofferto della mia assenza, — le osservò accarezzandole il mento, come si fa coi bimbi riottosi. Poi guardò l’orologio, infilò il soprabito e si diresse al suo ufficio, percorrendo quasi di corsa le scale e canterellando un motivo d’operetta.

Ma trascorse alcune ore egli rincasò e si precipitò con un viso stravolto nella camera di sua moglie. Nora distesa fra molti cuscini sul suo divano basso alla Récamier lo vide entrare senza muoversi, senza batter ciglio, poichè ella sapeva, poichè ella aspettava!

— M’hanno dato in questo momento una notizia inverosimile. Ho visto una carta che deve essere falsa, — le mormorò cupo, afferrandola a una spalla e attese ch’ella gli si volgesse stupita a interrogarlo.

Ma Nora taceva con la ruga profonda scavata fra i sopraccigli congiunti.

— Tu sai, dunque, tu sai che quel vecchio sordido ha lasciato un testamento in tutta regola col quale ti nomina sua erede universale?

— So, — confermò Nora chinando il capo.

— E sai anche, — continuò Riccardo senza [p. 165 modifica]più dominare il suo sdegno e il suo furore, — che ti ringrazia per la tua amicizia durata sei anni e ti dimostra la sua gratitudine legandoti il suo schifoso denaro?

— So, — ripetè Nora affondando il gomito in un cuscino e appoggiando la tempia al pugno chiuso.

— Ed è molto, — proseguì Riccardo in un ghigno iroso, — è molto questo sozzo denaro. Il tuo tradimento vergognoso fu un ottimo affare per te. Ti sei venduta bene, lo riconosco. Ma mi fai orrore, lo sai? Sai che se io ti dicessi tutto il ribrezzo che c’è in me....

Ella lo interruppe e s’alzò di scatto.

— Non occorre. Lo immagino perfettamente, lo riconosco giusto e me ne vado per evitarti la fatica di tradurre in parole e in atti i tuoi sacrosanti sdegni.

Riccardo, in piedi di fronte a lei a braccia conserte, l’ascoltava sbalordito.

Ella gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, con le labbra stirate a un sorriso ch’era una smorfia dolorosa.

— Abbiamo vissuto insieme quasi otto anni, — gli mormorò crollando il capo, con una sconfinata tristezza, — e tu non supponesti mai d’ospitare in casa tua e nel tuo letto una creatura miserabile, una vipera che ogni giorno si [p. 166 modifica]nutriva del proprio veleno, una belva che ogni giorno si dilaniava coi suoi stessi denti. Addio, Riccardo. Tu meritavi una compagna migliore di me. E perdonami se non so nemmeno chiederti perdono.

S’avvolse con rapidi gesti in un mantello. S’attorcigliò un velo intorno al capo e fuggì correndo incontro al suo nuovo destino.