Lo spirito di contradizione/Atto III

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Atto III

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Atto II Atto IV

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

La Signora Dorotea ed il Conte Alessandro.

Dorotea. Tant’è, conte Alessandro; finor fui sofferente,

Finora in questa casa trattai placidamente.
Ma la dolcezza è inutile, e chiaramente io veggio
Che il simular i torti con questa gente è peggio.
Infin i servitori mi perdono il rispetto;
Quando di me si tratta, fan tutto per dispetto.
E se al signor Ferrante le mie doglianze io porto,
Darà ragione ai servi, e mi dirà che ho torto.
Conte. Chi è mai quell’insensato, chi è mai quell’uom da niente
Che a voi non dia ragione, sì saggia e sì prudente?
Seppi l’impertinenza che i servidori han fatto,
Non devonsi i ribaldi soffrire a verun patto.

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Io dal signor Ferrante immantinente andai;

Una soddisfazione gli chiesi, e l’impetrai.
L’audace Gasperina, Volpino impertinente,
Saran da questa casa scacciati immantinente.
Dorotea. Come? la cameriera scacciar dal mio servizio,
Senza ch’io lo consenta? Nascerà un precipizio.
Lo so che di levarmela tentan per ogni strada.
Gasperina mi serve; non vuò che se ne vada.
E se di allontanarla alcun sarà sì ardito,
Me ne renderà conto il suocero e il marito.
Conte. Non sapea che per essa aveste tal passione.
Se vi serve, tenetela; anch’io vi do ragione.
Basta per soddisfarvi del ricevuto oltraggio.
Che di qua sia scacciato il servitor malvaggio.
Subito, innanzi sera...
Dorotea.   No, no, questi signori
Non vo’ che possan dire, che io scaccio i servitori.
Cercano ogni pretesto per screditarmi al mondo;
Conosco a sufficienza della malizia il fondo.
Diran che mi predomina la collera e l’orgoglio.
Han da restare in casa; lo dico, e così voglio.
Conte. Sempre più, mia signora, prendo di voi concetto.
Veggo che possedete un lucido intelletto.
Io non era arrivato a quel che voi pensate.
Veggo che la giustizia e la ragion amate.
Dorotea. Mi scaldo in sul momento, poi generosa io sono.
Conte. Ben, che vengano i servi a chiedervi perdono.
Dorotea. No no, saran capaci fingere un pentimento.
Ed occultar nell’animo il perfido talento.
Conte. Regolatevi a norma del lucido pensiero.
(Questa è bene una testa original davvero). (da sè)
Dorotea. Conte, a pranzo con noi stamane io v’invitai;
Ma qui di dare in tavola non la finiscon mai.
Conte. So che il comando aspettano solo da voi, signora.
Dorotea. Perchè aspettar ch’io il dica, se trapassata è l’ora?

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E pur la mala cosa trattar con simil gente,

Vonno far i dottori, e non intendon niente.
Prima che voi veniste, avevan preparato.
Perchè non dare in tavola, or che siete arrivato?
Conte. Perchè sono ignoranti.
Dorotea.   No, perchè in questo tetto
Tutto quello che fanno, lo fanno per dispetto.
Chi è di là?

SCENA II.

Foligno e detti.

Foligno.   Mi comandi.

Dorotea.   Non si desina ancora?
Che si fa questa mane?
Foligno.   Subito, sì signora.
Venite a preparare. (verso la scena)
Dorotea.   Parti buona creanza!
Va a preparar, villano, la mensa in altra stanza.
Foligno. Dove comanda?
Dorotea.   In sala.
Foligno.   Cosa dirà il padrone?
Sa che l’aria per solito gli accresce la flussione.
Dorotea. Senza il signor padrone si mangierà da noi.
E non abbiam che fare con i cancari suoi.
Foligno. La camera vicina dall’aria è più coperta.
Dorotea. Voglio mangiare in sala colla finestra aperta.
Foligno. Con il freddo che corre?
Dorotea.   Ne dici una di vera?
Sembrati che sia freddo? Se par di primavera.
Conte, non è egli vero?
Conte.   Oggi, per verità,
Non è il solito freddo nè men per la metà.
Il barometro mio per tempo ho visitato:
Veduto ho dal mercurio segnare il temperato.

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A camminar si suda, e nel salir le scale

Mi ho sentito venire un caldo universale.
Andiamo all’aria fresca a respirare un poco.
Dorotea. Portami uno scaldino con un tantin di foco. (a Foligno)
Foligno. Subito, sì signora. (il caldo l’è passato.)
S’ha da dire al contrario. Basta così, ho imparato).
(da sè, e parte)

SCENA III.

La Signora Dorotea ed il Conte Alessandro.

Conte. (Me l’ha detto l’amico, che mi farà impazzire.

Pur non dispero ancora. Ancor vuò proseguire).
Dorotea. (Non ho trovato al mondo un uom più compiacente;
Ch’egli davver mi stima, conosco apertamente).
Conte. (La via di guadagnarla ancor non ho trovata).
Dorotea. (Alla sua gentilezza non voglio esser ingrata).
Conte, non dite nulla? Che fate voi sospeso?
Conte. Signora mia, il protesto, sono da voi sorpreso.
Più che vi tratto, io scopro in voi nuovi talenti;
La rarità mi piace dei vostri sentimenti,
E quel nobile misto di virtuoso sdegno
E di dolcezza amabile mi piace al maggior segno.
Io, vi confesso il vero, stando con voi, mi trovo
Fuor del comun sistema, quasi in un mondo nuovo.
Un uom può ritrovarsi di cento donne appresso.
Poco più, poco meno, sente ogni dì lo stesso.
Vantano tutte l’altre certe virtù comuni.
Che dai soliti vizi non ponno andar immuni;
Voi, con mia maraviglia, avete una virtù.
Che praticando il mondo non osservai mai più:
Una mente prontissima, un intelletto aperto,
Di onore e di prudenza un nobile concerto.
La vostra intelligenza sorpassa ogni confine,
Di qualunque intrapresa voi prevedete il fine.

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Esser sapete a un tempo e risentita, e umana.

Ah, chi può non accendersi d’una virtù sì strana?
Dorotea. Caro Conte, possibile che oggi da me venuto.
Abbiate quel ch’io sono sì presto conosciuto?
Tanti che ho praticato, da che son maritata,
Nel fondo, come voi, nessun mi ha ravvisata;
Avvezzi colle donne deboli per natura.
Suol loro una virtude sembrar caricatura.
Quell’onorato sdegno che risentire io soglio,
Credono che dipenda dall’ira e dall’orgoglio.
Ed il cambiar ch’io faccio in umiltà lo sdegno,
I sciocchi non comprendono, che di buon cuore è un segno.
Conte. Grand’ignoranza invero! io sol per mia fortuna
Scorgo quanta bellezza nel vostro cuor si aduna.
Non vi conosce il mondo, e con mia maraviglia
Siete mal conosciuta perfin dalla famiglia.
Il suocero, il marito, mi perdonino anch’essi.
Sono nel ravvisarvi dall’ignoranza oppressi.
Dovrebbero d’accordo ringraziar la sorte
D’aver sì degna nuora, sì amabile consorte.
Dorotea. Anzi son essi i primi a disprezzarmi ingrati
Con titoli ingiuriosi, da me non meritati.
Conte. Voglio, signora mia, voglio, se il ciel m’aiuta.
Rendervi per giustizia da tutti conosciuta.
Sopra di me l’impegno mi prendo arditamente,
Se il vostro cor l’approva, se l’umiltà il consente.
Dorotea. Conte, gli sforzi vostri temo che riescan vani.
Malagevole impresa è il persuader gl’insani.
Conte. Fidatevi di me; s’io vi conosco appieno,
D’illuminare i ciechi non mi negate almeno.
S’io penso al caso vostro, sentomi venir caldo.
Vuò illuminar Ferrante, vuò illuminar Rinaldo,
E Fabrizio, e Roberto, e Gaudenzio istesso,
E i parenti, e gli amici dell’uno e l’altro sesso;

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Per tutta la città vogli’ essere una tromba,

Non vuò che il vostro merito a un tal destin soccomba.
Voglio farvi risplendere in fatti ed in parole,
Come di mezzogiorno splendono i rai del sole.
Dorotea. (Il credito del Conte mi può servir d’aiuto.
D’un fortissimo appoggio il ciel mi ha provveduto).

SCENA IV.

Foligno e detti.

Foligno. Ecco, se lo comanda, il caldanin col foco.

Dorotea. Portalo via, la testa ho riscaldata un poco.
Conte. Non vel dissi, signora, che l’aria è riscaldata?
Dorotea. No, non è ver. Poc’anzi sentivami gelata.
Ma riscaldarmi io sento, amabil cavaliere,
Dalle vostre parole dolcissime sincere.
Portalo via, ti dico.
Foligno.   (Si scalda molto presto).
Vuole che diano in tavola? Il desinare è lesto.
Dorotea. Il suocero ove mangia?
Foligno.   In camera soletto.
Dorotea. Conte, cosa ne dite? fa tutto per dispetto.
È possibile mai, s’io dico una parola,
Che soddisfar mi vogliano neanche una volta sola?
Anch’io tant’altre cose per compiacer sopporto.
Per desinare in sala credo non saria morto.
Conte, voi per mia parte dite al suocero mio,
Che s’ei non viene in sala, sto nel mio quarto anch’io.
Son buona, son discreta fino ad un certo segno.
Ma se mi fanno un torto, colla ragion mi sdegno.
Voi che mi conoscete, ditegli a aperta ciera,
Ch’io son, come mi vogliono, e docile, ed altiera;
E che se i lor dispetti mi fan venir la rabbia.
Dirò anch’io: chi la pace non vuol, la guerra s’abbia.
(parte)

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Foligno. (Che tu sia benedetta!)

Conte.   (Non mi credeva mai)
Di faticar cotanto; ma ho guadagnato assai.
Finora ai miei disegni sol per metà si è arresa.
Spirito non mi manca per terminar l’impresa). (parte)
Foligno. Io starei giorno e notte ad ascoltarla attento;
Che giovane di garbo! che bel temperamento!
Crediam che ve ne siano dell’altre come lei?
Io credo che ogni sette, se ne ritrovin sei. (parte)

SCENA V.

Sala con tavola preparata.

Cammilla e Rinaldo.

Cammilla. Dunque, signor fratello, per esser maritata

Deggio aspettar l’assenso aver da mia cognata?
E s’ella per il solito di contradir si oppone,
Non troverò nessuno che facciami ragione?
Noto vi è il mio costume: sapete ch’io non soglio,
Quando gli altri dispongono, dir voglio, e dir non voglio.
A Dorotea medesima per obbligo ed affetto
Mostrato ho all’occasione la stima ed il rispetto.
E se di madre il carico per cortesia si piglia.
Vivere può sicura, ch’io le sarò qual figlia.
Ma se cangiar si vede1senza ragione alcuna,
Perdere non intendo per lei la mia fortuna.
L’ho detto al genitore, lo dico a un mio germano,
Ricorrerò a chi spetta, se mi querelo in vano.
Rinaldo. A ragion vi dolete, lo vedo e lo confesso.
Lo confessa e lo vede il genitore istesso.
Ora il conte Alessandro posto si è nell’impegno
Della femmina altera di moderar lo sdegno.

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Fabrizio si è calmato, Roberto vi sospira.

Ciascun, cara Camilla, a consolarvi aspira.
Soffrite ancora un poco, vediam se Dorotea
Placida corrisponde alla comune idea;
Ma quando poi si ostini...
Cammilla.   Via, che farete allora?
Rinaldo. Farò quel che conviene.
Cammilla.   Voi troverete2 ancora.
Giovine più di voi son di molt’anni, il veggio.
Poco conosco il mondo, e consigliar non deggio;
Ma dall’amor fraterno spinta a parlar sincera.
Voi mi perdonerete, s’io vi favello altera.
Vergogna è che un par vostro, padrone in queste soglie,
Si lasci il piè sul collo mettere dalla moglie.
Se mi toccasse in sorte un uom sì poco esperto.
Non seguirei l’esempio di mia cognata al certo,
Ma quanto compiacermi saprei di sua bontà,
Sarebbemi altrettanto odiosa la viltà.
Amatela la moglie con il più forte impegno.
Siate condescendente, ma fino a un certo segno.
Con voi se la consorte indocile si mostra.
Se vuole soperchiarvi3, la colpa è tutta vostra;
È quasi è compatibile il suo costume ardito.
Se in pace lo sopporta il semplice marito.
Rinaldo. Piano, che non vi senta. (guardando d’intorno)
Cammilla.   Povero mio germano.
Temete ch’ella venga con il bastone in mano?
Rinaldo. È ver ch’è una testacela, ma non è poi sì stolta.
Cammilla. Se verrà col bastone, sarà la prima volta?
Rinaldo. Orsù, parliamo d’altro.
Cammilla.   Sì sì, d’altro parliamo.
Oggi con questo freddo interizzir dobbiamo?
Per lei s’ha da mangiare in un salone aperto?

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Povero genitore, ei non ci viene al certo.

Rinaldo. Eccolo con il Conte.
Cammilla.   Scommetto ch’egli ancora
Viene a sagrificarsi per contentar la nuora.

SCENA VI.

Il Signor Ferrante, Il Conte Alessandro ed i suddetti.

Ferrante. Conte, non so che dire. Soffrir mi converrà.

Ma s’io prendo un malanno, chi mi risanerà?
Cammilla. No, caro signor padre, espor non vi consiglio
La preziosa salute a un prossimo periglio.
Ferrante. Che volete ch’io faccia? Vuol così la mia sorte.
Sian ben serrate almeno le finestre e le porte.
Cammilla. Per qual necessitade patir vi contentate?
Conte. Signora, per il padre sì timida non siate.
Non distruggete un’opra, che bene ho principiata.
Siate condescendente voi pur colla cognata.
Fidatevi di me per questa volta sola.
Ne vedrete il buon esito. Vi do la mia parola.
Rinaldo. Il Conte è un uom di spirito, è un amico sincero.
Cammilla. Del suo buon cor non dubito; ma non per questo
io spero.
Ferrante. Se ho da patir il freddo, che si mangiasse almeno;
Col bere e col mangiare il gel si sente meno.
È avvisata mia nuora?
Conte.   Eccola ch’ella viene.
Ferrante. Subito la minestra; ma che sia calda, e bene.
(ad un servitore che parte)

SCENA VII.

La Signora Dorotea e detti.

Dorotea. Serva di lor signori; pregoli di scusare,

Se oggi un po’ più del solito mi son fatta aspettare.
Come sta il signor suocero?

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Ferrante.   Da vecchio, figlia mia.

Dorotea. Vecchio il signor Ferrante? non dica una bugia.
Ferrante. Pur troppo sulle spalle sento il peso degli anni.
Dorotea. Quanti ne avrà?
Ferrante.   Settanta.
Dorotea.   Dubito che s’inganni.
Ferrante. Anzi, credo che siano settanta uno.
Dorotea.   Oibò.
Ella sbaglia di molto.
Ferrante.   Il conto ora vi fo.
Sono venuto al mondo nell’anno ottantasei.
Siam del cinquantasette.
Dorotea.   Or mi riscalderei.
Se una bugia mi dicono, io presto vado giù.
Voi non potete avere che sessant’anni al più.
Conte, che dite voi?
Conte.   Di più non averà.
Ferrante. (Vuol contradir perfino sulla mia stessa età).
Dorotea. Sì, v’intendo, signore, lo so perchè volete
Farvi in questa occasione più vecchio che non siete.
Un rimprovero è questo alla mia indiscretezza.
Che senza aver riguardo di un uomo alla vecchiezza,
Voglia in sala vederlo dal freddo intirizzire.
Ferrante. Oh no, figliuola mia, non mi par di patire.
(tremando)

SCENA VIII.

Foligno e due altri Seroitori con i piatti caldi, e detti.

Foligno. (Mette in tavola i tre piatti.)

Dorotea. Tre piatti in una volta? (a Foligno)
Foligno.   Creduto ho di dovere
Di servir in tre piatti, per via del forastiere.
Dorotea. Bella foresteria, che al cavalier voi fate!
Dargli per cerimonia vivande raffreddate!

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Venga un piatto alla volta. Conte, che ve ne pare?

Conte. Certo, un piatto alla volta. Questo è il vero mangiare.
Ferrante. Anch’io così l’intendo. Pria la minestra, e poi...
Dorotea. No, la minestra in fine. Conte, che dite voi?
Conte. Dico che va benissimo. La Francia a noi maestra;
Ora accostuma all’ultimo la zuppa o la minestra.
Ferrante. Ma non è ben dapprima lo stomaco scaldarci?
Dorotea. Non signore; alla moda dobbiamo uniformarci.
Lascia il salame in tavola. Porta il resto in cucina.
(Foligno leva due piatti, e li dà ai servitori)
Ferrante. (Povero me! pazienza).
Cammilla.   (Che cara cognatina!)
Rinaldo. Via sediamo, signori.
Dorotea.   Come! in questa mattina
Non vengono a servire Volpino e Gasperina?
Ferrante. Non vuò che quei bricconi, che vi han perso il rispetto,
Ardiscano venire dinanzi al mio cospetto.
So il mio dovere in questo, e li saprò punire.
Dorotea. Chiamateli. Che vengano in tavola a servire.
(ad un servitore, che parte)
Ferrante. Ma perchè li volete?...
Dorotea.   Le mie ragioni ho pronte.
Se a voi note non sono, ve le può dire il Conte.
Conte. Pensa ben la signora, opera da sua pari;
Saprà col suo talento punir quei temerari.
Voi non la conoscete. Dirò per istruirvi...
Dorotea. Basta così, sediamo. (siede)
Conte.   Eccomi ad obbedirvi, (vuol sedere)
Rinaldo. Questo è il loco del Conte.
Dorotea.   No, no, sedete qui.
Rinaldo. Quello è l’ultimo loco.
Dorotea.   Si pratica così.
Cammilla. (E una cosa, per dirla, ridicola all’eccesso).
Ferrante. Io dunque...
Dorotea.   Voi, signore, venitemi dappresso.

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Ferrante. Ma perchè non volete quel povero infelice?

(accennando Rinaldo)
Dorotea. Ecco, tosto ch’io parlo, ciascun mi contradice.
Che dite voi del suocero? non può veder la nuora.
(al Conte)
Ferrante. No, Dorotea carissima, il suocero vi adora.
(va a sedere a lei vicino)
Eccomi a voi vicino; basta che voi parliate.
Tutto a eseguir son pronto; di ciò non dubitate.
Dorotea. Conte, gli posso credere?
Conte.   Voi avete una mente,
Che da sè può discemere assai felicemente.
Dorotea. Eccovi del salame. (a Ferrante)
Ferrante.   Non fo per rifiutarlo.
Ma non ho denti in bocca bastanti a masticarlo.
Bisogno ho di scaldarmi con un po’ di minestra.
Dorotea. Foligno.
Foligno.   Mia signora.
Dorotea.   Apri quella finestra.
Ferrante. No, per amor del cielo.
Dorotea.   Eccolo a contrariarmi.
In sì picciola cosa nemmen vuol soddisfarmi?
Conte. Caro signor Ferrante, voi avete un gran torto.
Ferrante. Mi dia un colpo alla prima, se mi vuol veder morto.
È ver, lo torno a dire; ho settant’anni addosso,
Ma vuò partir dal mondo quanto più tardi io posso.
(parte)
Dorotea. La vecchiaia è la madre della malinconia;
Che ne dite, cognata?
Cammilla.   Dico, signora mia.
Che l’aria dell’inverno sul collo non mi piace.
Se il freddo vi diletta, godetevelo in pace. (parte)
Dorotea. Conte, che bella grazia!
Conte.   Per dir la verità,
Quest’è ver la cognata mancar di civiltà.

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Rinaldo. Di grazia, compatitela; Cammilla fu avvezzata

A vivere dall’aria difesa, e ritirata.
Anch’io, per dire il vero, l’aria soffrir non soglio.
Ma sto qui, non mi parto.
Dorotea.   Andate; io non vi voglio.
Rinaldo. Ma perchè?...
Dorotea.   Con il padre ite, e colla sorella.
Rinaldo. Ditemi la ragione...
Conte.   Itene. Oh, questa è bella.
La signora non parla senza la sua ragione,
E un torto a lei commette chi al suo voler si oppone.
Un marito discreto, che peni a disgustarla,
Si alza immediatamente, se ne va via, e non parla.
Dorotea. Bravo, Conte, davvero.
Rinaldo.   (Del Conte io so l’impegno;
So che per questa via conduce il suo disegno). (da sè)
Dorotea. Udiste il suo consiglio? Provate a secondarlo. (a Rinaldo)
Rinaldo. Mi alzo immediatamente, me ne vo via, e non parlo.
(parte)
Dorotea. Ora mi ha dato gusto. (si alza)
Conte.   Credetemi, signora, (si alza)
Che gli altri in poco tempo si cangieranno ancora.
Veggo che il mio sistema inutile non è.
Lasciatemi operare, fidatevi di me.
Dorotea. Della vostra prudenza assicurata io sono.
A voi cogli occhi chiusi mi arrendo e mi abbandono.
Se gli altri mi diranno che il sole è risplendente,
Credere che sia tale saprò difficilmente.
Ma quando a voi piacesse dirmi che il bianco è nero.
Conte, vi ho tanta fede, che mi parrebbe il vero.
Conte. (Voglio darle la prova se parlami sincera).
Signora, ecco Volpino, ecco la cameriera.
Dorotea. Che ho da far di costoro?
Conte.   Se sono rei, punirli;
E se sono innocenti, tenerli e compatirli.

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Dorotea. Andiam nella mia camera a finir di pranzare.

(al Conte)
(Questo freddo, per dirla, non si può sopportare).

SCENA IX.

Volpino, Gasperina e detti.

Gasperina. Signor, mi raccomando. (al Conte)

Conte.   Avanzatevi pure.
Dorotea. Basta così; ho capito senz’altre seccature.
Siete due temerari, ma compiacente io sono.
Ed in grazia del Conte, vi assolvo e vi perdono.
(parte)
Volpino. Ringrazio vossustrissima.
Gasperina.   Grazie alla sua bontà.
Conte. (Ora della grand’opra son giunto alla metà.
S’ella di me si fida, la donna è guadagnata.
O non son io chi sono, o la vedrem cangiata). (parte)
Volpino. Parmi ancora impossibile, che quel cervel sì strano
Del cavaliere in grazia sia divenuto umano.
Gasperina. Non ti maravigliare, le donne son così;
Di no dicono a cento, a un sol dicon di sì.
Il suocero, il marito, con lei non fanno niente;
Quel che può dominarla, è il cavalier servente. (parte)
Volpino. Non so se Gasperina abbia intenzione anch’essa
Di seguire la regola della padrona istessa.
Ma se di comandarla io non sarò padrone,
Lascierò che la domini il cavalier bastone.

Fine dell’Atto Terzo.


Note

  1. Così l’edd. Guibert-Orgea«, Zatta ecc. Nell’ed. Pitteri si legge: Ma cangiar si vede ecc.
  2. Così nel testo.
  3. Così le edd. Guibert-Orgeas, Zatta ecc. Nell’ed. Pitteri si legge: Se vuol suppeditarvi ecc.