Lo spirito di contradizione/Atto II

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Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Ferrante ed il Conte Alessandro.

Ferrante. Caro conte Alessandro, vi son bene obbligato.

Vedo con quanto amore vi siete interessato.
Altri non vi voleva a persuader Fabrizio,
Che un uomo, qual voi siete, di cuore e di giudizio.
Conte. Amico, vel confesso, poco non mi ha costato
A vincer colle buone quell’animo ostinato.
Ma l’amicizia nostra, la stima che ho di voi,
Anche il signor Gaudenzio con i consigli suoi,
Tutto fè’ che all’impegno mi disponessi ardito,
E per mia buona sorte alfin ne son riuscito;
Dunque, com’io diceva, si stenderà il contratto
Nella stessa maniera, come da pria fu fatto.
Voi sottoscriverete, e vostro figlio ancora.

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Ferrante. Conte mio benedetto, cosa dirà mia nuora?

Sapete che in mia casa costei è un precipizio.
Se torna a imbestialire, cosa dirà Fabrizio?
Conte. Firmate la scrittura, non qui, ma in altro loco.
Celata alla signora tenetela per poco.
Poi, se vi contentate, lasciate che con lei
Possa mettere in pratica certi disegni miei.
Chi sa che non mi riesca cambiarla intieramente?
Ferrante. No, con quella testaccia voi non farete niente.
Conte. Posso provar.
Ferrante.   Provate.
Conte.   Ma non vorrei, che in petto
Avesse vostro figlio di me qualche sospetto.
Ferrante. Mio figlio? poveraccio! è il miglior uom del mondo.
Non so che non farebbe per vivere giocondo.
Buona cosa, per dirla, ch’ella in tutt’altro è pazza.
Ma in materia d’onore è un’ottima ragazza.
Per altro, in quanto a lui, se fosse in altro caso,
Da lei si lascierebbe condurre per il naso.
E poi voi siete il fiore degli uomini onorati;
Può con voi mio figliuolo star cogli occhi serrati.
Ma questa è nata apposta solo per contradire.
Voi perderete il tempo, e vi farà impazzire.
Conte. Le femmine conosco più assai che non credete.
So il debole di tutte, fidatevi, e vedrete.
Ferrante. Eccolo lì il demonio. (osservando fra le scene)
Conte.   Ho ben piacer davvero.
Ferrante. Amico, a rivederci: io parlovi sincero.
Con lei, meno ch’io posso, voglio trovarmi insieme.
Vo dal signor Fabrizio a far quel che più preme.
Voi potete restare, se di restar vi aggrada.
Per non aver che dire, meglio è ch’io me ne vada. (parte)

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SCENA II.

Il Conte Alessandro, poi la Signora Dorotea.

Conte. Per servire all’amico vuò mettermi al cimento;

Ma lo vo’ fare ancora per mio divertimento.
Ad insegnar, se posso, vuò colla mia lezione
A vincer delle donne l’usata ostinazione.
Dorotea. E bene, signor Conte, si è soddisfatto ancora
Il suocero indiscreto di dir mal della nuora?
Conte. Finora fra me stesso vi ho assai compassionata.
In verità, signora, siete sagrificata.
Dorotea. Di me che vi diceva quel vecchio ignorantissimo?
Conte. Seco mi ha trattenuto a favellar moltissimo.
Lasciamo andar le cose, che non importan molto.
Ma in ciò, mi compatisca, è un operar da stolto.
Maritar la figliuola, lo dico e lo protesto,
Senza il consenso vostro è un torto manifesto.
Dorotea. Siete male informato sopra di un tal proposito,
E per farmi la corte, voi dite uno sproposito.
Maritando la figlia non ho tal pretendenza.
Che venga il genitore a chiedermi licenza.
Conte. Non m’intendea di dire, che dipendesse affatto,
Ma rendervi doveva intesa del contratto.
Non chiamarvi al congresso a cose terminate.
Dorotea. Conte, voi non sapete quello che vi diciate.
Mi han chiamato benissimo in tempo ch’io poteva
Dir voglio, e dir non voglio; e far quel ch’io voleva.
Conte. E voi prudentemente avete proibito
Il foglio sottoscrivere al docile marito,
E con ragione oppostavi al nuzial contratto,
Quel che da lor si fece, venne da voi disfatto.
Dorotea. Facciano quel che vogliono, non contradico mai;
Ma, signor, questa volta me ne hanno fatto assai.
Conte. Cosa mai vi hanno fatto? ditelo in confidenza.

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Dorotea. È venuto mio suocero a dirmi un’insolenza.

Conte. Imprudente!
Dorotea.   Poc’anzi, senza rispetto, ardito.
Si è avanzato a deridermi.
Conte.   Oh vecchio rimbambito!
Dorotea. In tempo che sollecita io mi prendea l’affanno
Per lui, per la sua figlia; si pentirà.
Conte.   Suo danno.
Dorotea. Chiamarmi per ischerzo col titol di padrona!
Una donna mia pari così non si canzona.
Un fallo d’ignoranza lo so anch’io perdonare;
Ma poi, quando m’insultano, so farmi rispettare.
Conte. Manchereste a voi stessa soffrendo i loro oltraggi.
Sareste condannata dagli uomini più saggi.
Dorotea. Conte, ve lo protesto, non dico una parola.
Per lo più nel mio quarto sto ritirata e sola.
Lascio che tutti facciano quello che voglion fare;
E se una volta parlo, mi vengono a insultare.
Conte. E voi cangiate stile, parlate con impero;
Fate veder che siete padrona daddovero.
Dorotea. Non ho un can che mi aiuti: son sola, ed essi in tre.
Padre, figlio, sorella, tutti contro di me.
Mi beffano ancor essi, se a’ miei parenti il dico,
E nelle mie occorrenze non trovo un buon amico.
Conte. Conosco il mio demerito, per questo io non ardisco;
Ma se di ciò son degno, servirvi mi esibisco.
Dorotea. Farete come gli altri, che dopo quattro dì
Mi han voltato le spalle.
Conte.   Io non farò così.
Sono colle signore costante e sofferente.
Dorotea. Da me, quei che mi trattano, non hanno a soffrir niente.
Io sto dove mi mettono. Fatemi allesso, o arrosto,
Alla condiscendenza ho l’animo disposto.
Quando a parlar mi chiamano, dico la mia opinione,
Per altro facilmente mi arrendo alla ragione.

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Conte. Più bel temperamento non ho veduto al mondo.

Lo star con voi sarebbe un vivere giocondo.
Se avessi di servirvi il sospirato onore,
Mi chiamerei felice, vi servirei di cuore.
Dorotea. Ben, se la bontà vostra a favorirmi inclina,
Meco potete a pranzo restar questa mattina.
Campo avrem da discorrere.
Conte.   Ma che dirà il marito?
Dorotea. Da lui non vuò dipendere, se un commensale invito.
Conte. Quando così vi piace, a voi farò ritorno.
Ho un affar che mi preme, innanzi al mezzogiorno.
Dorotea. Mezzogiorno è suonato.
Conte.   Perdonate, signora.
Alla campana solita vi manca più d’un’ora.
Dorotea. Queste son quelle cose che mi fanno arrabbiare;
Prima che qua venissi, l’ho sentita a suonare.
Quando lo dico, è vero.
Conte.   Sì, è vero. O che balordo!
L’ho sentita suonare; anch’io me ne ricordo.
Dorotea. (D’un cuore ragionevole in lui mi comprometto).
Conte. (Questa è la via sicura per acquistar concetto).

SCENA 111.

Rinaldo e i suddetti.

Rinaldo. Conte, ho piacer grandissimo che siate ora con noi.

So che ci siete amico, mi raccomando a voi.
Ecco qui: mia consorte, io glielo dico in faccia,
La povera Cammilla precipitar minaccia.
Vuole per un puntiglio tradir la sua fortuna,
E contro noi s’adira senza ragione alcuna.
Dorotea. Senza ragion m’adiro?... (a Rinaldo)
Conte.   Favorite, signore;
Quant’è che non vedeste il vostro genitore?

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Rinaldo. Tre o quattr’ore saranno, ch’egli partì arrabbiato.

Dopo non l’ho veduto.
Conte.   (Dunque non è avvisato). (da sè)
Dorotea. Senza ragion m’adiro? senza ragion m’impegno?
(a Rinaldo)
Ditelo voi, che siete un cavalier sì degno.
(al Conte)
Conte. (S’ei non sa il mio disegno, sono imbrogliato un poco).
Dorotea. Conte, non crederei che vi prendeste gioco:
Che una cosa diceste a me per compiacenza,
E un’altra ne pensasse la vostra intelligenza.
In faccia a mio marito, se il ver detto mi avete,
Vi sfido a confermarlo, da cavalier qual siete.
Rinaldo. Parli il conte Alessandro; sto alla sua decisione.
Conte. (Non vorrei arrischiare la mia riputazione). (da sè)
Signori miei, desidero mirar nel vostro tetto
La quiete, la concordia e il coniugale affetto.
La collera calmate; e poi da cavaliere,
Quando sarete in pace, dirovvi il mio parere.
Fin ch’è l’animo acceso da sdegno e da passione.
Male si può conoscere il torto e la ragione.
Tosto che in amicizia veggovi ritornati,
Svelerò i sentimenti che ho nel cuor mio celati.
Dorotea. Per me, per acquietarmi bastano due parole.
Rinaldo. Parli, chieda, comandi, farò quel ch’ella vuole.
Conte. Le parlò vostro padre con qualche derisione;
Necessario è di darle la sua soddisfazione.
Onde il signor Ferrante, da cui venne il difetto,
Protesti per la nuora la stima ed il rispetto.
Rinaldo. Sì, lo farà mio padre; per lui ve ne assicuro.
Dorotea. Io da ciò lo dispenso; soddisfazion non curo.
Amante non mi credano del fasto e dell’orgoglio.
Conte. Per un atto d’amore.
Dorotea.   No, signor, non lo voglio.

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Conte. Lodo la virtù vostra alla bontà sol usa;

Dal figlio contentatevi ricevere una scusa.
Rinaldo. Sì, moglie mia...
Dorotea.   No certo, tal cosa io non permetto.
Rinaldo. Scusateci, vi prego...
Dorotea.   Ecco, il fan per dispetto.
Sia nel ben, sia nel male, costumano così;
Basta ch’io dica un no, von sostenere un sì.
Conte. Ma via, signor Rinaldo, in ciò datevi pace.
Della disposizione s’appaga e si compiace.
La dama generosa si è di tutto scordato.
Vuol far vedere al mondo, che quel ch’è stato è stato.
Se gli altri la rispettano, ella per tutti ha stima,
E ad abbracciare il suocero vuol essere la prima.
Dorotea. Oh, questo no.
Rinaldo.   Vedete il bel temperamento?
Conte. Mi par di rilevare qual sia il sentimento.
Teme il signor Ferrante austero e sostenuto.
Per questo non si fida di rendergli un tributo.
Dorotea. Al suocero tributi? E chi è il signor Ferrante,
Ch’io m’abbia ad inchinare dinanzi alle sue piante?
È un principe? è un sovrano? di voi mi maraviglio.
Era indegno d’avermi per sposa di suo figlio.
Ho sofferto abbastanza in questa casa ingrata.
Son sazia, sono stanca di essere calpestata.
Dopo un insulto simile, il suocero sgarbato
Doveva risarcirmi senz’essere spronato.
Ora più non mi curo d’altra soddisfazione;
È tardi, ed ho fissato la mia risoluzione,
E voi di vostro padre mai più non mi parlate.(a Rinaldo)
Conte. Udite una parola... (a Dorotea)
Dorotea.   E voi non mi seccate.
(al Conte, e parte)

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SCENA IV.

Il Conte Alessandro e Rinaldo.

Rinaldo. Conte, avete sentito? son di tal gioja indegno.

Mi vien la tentazione di adoperare un legno.
Conte. È ver, ciò non conviene. Ma in un simile stato,
Dubito che a quest’ora l’avrei adoperato.
Rinaldo. Perdonatemi, amico, voi pur nell’occasione
Farmi che la trattiate con qualche adulazione.
Sperai che in sua presenza parlaste un po’ più ardito.
Conte. Voi non sapete ancora quel che si è stabilito.
Andiam, vi dirò tutto. Oggi pranziamo insieme;
Il ben, la pace vostra, moltissimo mi preme.
Sendo voi all’oscuro di quel che far desio,
Ora non ho potuto parlare a modo mio.
Lasciatemi operare. Promettovi bel bello
Farle cambiar sistema, farle cambiar cervello.
Lo so che mi deridono per questo impegno mio,
Ma quelli che mi beffano, non san quel che so io.
(parte)
Rinaldo. Se trova la ricetta per risanarla appieno.
Lo stimo più sapiente d’Ippocrate e Galeno.
Ma credo che una donna perfida come questa.
Possa guarir per tutto, fuori che nella testa, (parte)

SCENA V.

Gasperina e Volpino.

Volpino. Il padron questa mane per tempo vuol pranzare.

Venite qui, aiutatemi la mensa a preparare.
Gasperina. Ben volentier, Volpino. Facciam quel che conviene.
Volpino. Povera Gasperina, mi volete voi bene?

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Gasperina. S’io non te ne volessi, sempre non cercherei

L’occasione, il pretesto, d’essere dove sei.
Volpino. Senti quel che ti ho detto; te lo confermo ancora.
Sarò tuo, se lo brami.
Gasperina.   Per me, non vedo l’ora.
Volpino. L’ho detto al padron vecchio, che mi vuol bene assai,
E a rendermi contento disposto io lo trovai.
Gasperina. Alle padrone ancora non dissi il mio pensiero;
Ma quando lo sapranno, saran contente, io spero.
Volpino. La signora Cammilla sarà condiscendente;
Quell'altra è che comanda: dirlo conviene a lei.
Gasperina. Contraria in questa cosa temerla io non dovrei.
Tutti di lei si lagnano; pare una donna inquieta,
Io con me la ritrovo affabile e discreta.
Il debole conosco; vuol esser secondata.
Ed io fin da principio quest’arte ho praticata.
Col ghiaccio e colla neve, nel verno ancor più crudo,
S’ella mi dice è caldo, rispondole ch’io sudo.
E allor che nell’estate arde la terra e il cielo,
S’ella sostien che è freddo, fingo sentire il gelo.
Così della signora l’animo ho guadagnato;
E ogni favor che ho chiesto, non mi fu mai negato.
Tante volte mi ha detto, che per ricompensarmi
Del mio fedel servigio pensava a collocarmi;
E che se un’occasione il ciel mi concedeva.
Una discreta dote ancor mi prometteva.
Volpino. A lei quando lo dici?
Gasperina.   Anche oggi, se vuoi.
Volpino. Prepariamo la tavola, che parlerem dopoi.
(vanno a pigliare una tavola ch’è indietro, e la tirano innanzi.)
Gasperina. Se mi dà cento scudi, parmi una cosa onesta.
Volpino. Sono pochi per altro... Vado a pigliar la cesta.
(entra per prendere l’occorrente)
Gasperina. Cento scudi in danari, e in mobili altri cento:
Sembrami che Volpino dovrebbe esser contento.

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Alfine io son chi sono. Non sposa una canaglia.

Volpino. Cento scudi son pochi. Mettiamo la tovaglia.
(viene colla cesta, ne cava la tovaglia, e la distendono)
Gasperina. Ho della biancheria, degli abiti e dell’oro.
(mettono le salviette)
Perchè cinque salviette?
Volpino.   Vi è un forestier con loro.
Gasperina. E chi è?
Volpino.   Il conte Alessandro.
Gasperina.   E poi, caro Volpino,
Per me voi non avete a spendere un quattrino.
Volpino. Se vengono figliuoli?
Gasperina.   Non moriran di fame.
Starà qui il signor Conte?
Volpino.   No, in mezzo alle due dame.
Gasperina. La posata del vecchio?
Volpino.   Mettiamola di qua.
Gasperina. Se verranno figliuoli, il ciel provederà.
Volpino. Vado a prendere il pane.
Gasperina.   No no, Volpino mio.
Voi mettete le sedie; il pan lo prendo io.
(parte per il pane)
Volpino. È ver, tutti consola del ciel la providenza...
Ma vedo che tant’altri perduta han la pazienza...
(portando le sedie)
Basta, le voglio bene... Se ho da far lo sproposito.
Meglio è farlo con lei, che è donna di proposito.
Gasperina. Se verranno figliuoli, che vengano pur su;
Andrò a servir per balia, guadagnerò di più.
(viene colla cesta del pane, e lo distribuisce)
Volpino. Per balia? oh questo poi... Pan fresco?
Gasperina.   Non ce n’è.
Volpino. Se tu anderai per balia, non servirai per me.
Gasperina. Discorrere potremo...
Volpino.   Vado a cavare il vino.

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Gasperina. Vo’ dire un’altra cosa, ascoltami, Volpino.

Volpino. So che ha fretta il padrone. Non vo’ che si lamenti.
Gasperina. Qualcosa mi daranno ancora i miei parenti.
E tu pur, maritandoti, procura che i padroni
Suppliscano alle spese almen delle funzioni.
Volpino. Lo faran volentieri; so che son di buon core.
Gasperina. Via, facciamolo presto.
Volpino.   Son pronto a tutte l’ore.

SCENA VI.

La Signora Dorotea e detti.

Dorotea. Oh che prodigio è questo! che cosa inusitata!

La tavola per tempo stamane è preparata.
Volpino. Oggi il padrone ha fretta.
Dorotea.   Il padron? chi è il padrone?
Volpino. Non è il signor Ferrante, che ordina e dispone?
Dorotea. Ti avviso per tua regola, se non lo sai, stordito.
Che ordina e dispone ancora mio marito.
Volpino. Ed il signor Rinaldo col padre unitamente
Mi hanno sollecitato.
Dorotea.   Ed io non conto niente?
Volpino. San che per ordinario vossignoria si lagna,
Che sempre in questa casa tardissimo si magna:
Onde di contentarla si credono così.
Dorotea. Vogliono desinare innanzi al mezzodì?
Volpino. È sonato, signora.
Dorotea.   Non è ver.
Volpino.   L’ho sentito.
Dorotea. Tu sei un temerario, un villanaccio ardito.
Gasperina. Compatisca, signora, il povero ragazzo.
Gliel’ha detto il padrone.
Dorotea.   Il suo padrone è un pazzo.
Sparecchiate la tavola.
Volpino.   Ma! già che è preparata.
Dorotea. Voglio da questa camera la tavola levata.

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Gasperina. Leviamola, Volpino. Vuol essere obbedita.

Volpino. (Sempre, corpo del diavolo! si ha da far questa vita).
Dorotea. Cosa dici?
Volpino.   Non parlo. (va levando le sedie)
Dorotea.   Ti spiace la fatica?
Imparerai a farlo, senza ch’io te lo dica.
Gasperina. Ha ragion la padrona, non la volete intendere?
In ogni circostanza da lei si ha da dipendere.
(prende la cesta per riponere il pane, e Volpino leva le sedie)
Dorotea. Così è, Gasperina, l’ho detto e lo ridico.
Padroni e servitori non mi stimano un fico.
Gasperina. Signora, ei non mi sente; vi giuro e vi prometto.
Forse Volpino è quello che ha per voi più rispetto.
Dorotea. Non è tristo ragazzo.
Gasperina.   Sa quel che gli conviene.
Dorotea. Esser non può altrimenti, se tu ne dici bene.
Facile a contentarti degli altri io non ti vedo.
Tu pensi com’io penso, e anche perciò ti credo.
Gasperina. Il pane alla credenza. Volpino, riportate.
(gli dà la cesta del pane)
Volpino. Finiam di sparecchiare.
Gasperina.   Itene, e poi tornate.
Volpino. (Veggo che Gasperina nel comandar si addestra.
Non vorrei che imparasse sotto una tal maestra).
(da sè, e parte per riporre il pane)
Gasperina. Lo vedete, se è buono? subito mi ha obbedito.
Dorotea. Così meco facesse Rinaldo mio marito.
Par ch’ei sia nato apposta per farmi delirare.
Gasperina. Signora, di una grazia vi vorrei supplicare.
Dorotea. Chiedi pur, Gasperina, per te che non farei?
Gasperina. Vo, signora padrona, pensando ai casi miei.
Ogni anno passa un anno. Vorrei accompagnarmi,
E meglio di Volpino non so desiderarmi.
Dorotea. Per me son contentissima. Sai che ti voglia bene?
Gasperina. Poverino! mi adora.

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Dorotea.   Sollecitar conviene.

Gasperina. Eccolo ch’ei ritorna. Volete ch’io gliel dica?
Dorotea.   Diglielo, ti permetto.
Gasperina. Il ciel vi benedica.
Volpino. Ma voi non fate niente.
Gasperina.   Finora ho fatto assai.
Alla nostra padrona la cosa io palesai.
Ella benigna al solito, al solito pietosa,
Lascia ch’io mi mariti, e che di te sia sposa.
Volpino. Davvero?
Dorotea.   Io non mi oppongo; anzi, in segno di affetto.
Qualche poco di dote ad ambidue prometto.
Volpino. Posso ben a ragione chiamarmi fortunato.
Se a tutta la famiglia tal matrimonio è grato.
Contento il padron vecchio, contento il figlio ancora,
Restavami l’assenso aver dalla signora.
Dorotea. suocero e il mio sposo sono di ciò avvisati?
Volpino. Sì signora, con essi gli affari ho accomodati.
Ora tutto è compito, se voi me l’accordate.
Dorotea. Di ciò ne parleremo. La mensa sparecchiate.
(sostenuta)
Volpino. Non ne siete contenta?
Dorotea.   Prendo tempo a pensare.
La tavola frattanto seguite a sparecchiare.
Volpino. Gasperina...
Gasperina.   Signora... (a Dorotea, pateticamente)
Dorotea.   Voi mi parete ardita;
Quando vi do un comando, vogli’ essere obbedita.
Gasperina. Via, levate quei tondi. (a Volpino)
Volpino.   (Veggovi dell’intrico).
(leva i tondi e le posate, e rimette il tutto nella cesta bel bello)
Gasperina. Mi parete cangiata.
Dorotea. Sì, mi cangiai, tel dico.
Costui che da mio suocero mostra tal dipendenza,
È sedotto a sposarti per farmi un’insolenza.

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Veggon che mi sei cara, e studian la maniera

Di aver dal lor partito ancor la cameriera.
Sola veder mi vogliono, oppressa e disperata.
Ma questa volta, il giuro, non l’hanno indovinata.
Disponi della dote, consento a ogni partito.
Ma non sperar ch’io soffra Volpino a te marito.
Volpino. Ed io con sua licenza... (staccandosi dalla tavola)
Dorotea.   Non replicare, indegno.
Volpino. (Torna a sparecchiare.)
Gasperina. Voi mi avete promesso. (a Dorotea, con forza)
Dorotea.   Vuoi ti1 risponda un legno?
(a Gasperina, sdegnata)
La tavola tu pure a sparecchiar ti affretta.
Volpino. (Questa me l’aspettava). (levando i tondi)
Gasperina.   (Fortuna maladetta).
(levando i tondi)
Dorotea. Trovati un altro sposo, vedrai se la padrona
Ha per te dell’amore.
Gasperina.   Neanche un re di corona.
(sparecchiando)
Dorotea. Se ti verrà più intorno quel finto, quel briccone,
Averà che far meco.
Volpino.   Comanda il mio padrone.
(sparecchiando)
Dorotea. Se la mia cameriera mi farà un’insolenza,
Io saprò castigarla.
Gasperina.   Mi dia la mia licenza, (sparecchiando)
Dorotea. Temeraria, hai coraggio di favellar così?
Volpino. S’ha a parecchiar la mensa tre o quattro volte al dì?
Dorotea. La licenza mi chiedi? (a Gasperina)
Gasperina.   Pieghiamo la tovaglia.
(a Volpino)
Dorotea. Parla. (a Gasperina)

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Volpino.   Leviam la tavola. Non le badar.

(a Gasperina, portando la tavola dov’era prima)
Dorotea.   Canaglia.
Gasperina. La ringrazio, signora, del titol che mi ha dato, (parte)
Volpino. Son povero figliuolo, ma giovine onorato. (parte)
Dorotea. Tutti son miei nemici, tutti contro di me.
Anche la serva ingrata; ma so ben io il perchè.
L’esempio dei padroni rese quel labbro ardito.
Sì, di tutti i disordini è causa mio marito.
Egli seconda il padre per i disegni sui;
Voglio ch’ei me la paghi; mi sfogherò con lui.

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Nell’ed. Pitteri è stampato, per isbaglio; che ti. Edd. Guibert-Orgeas e Zatta: Vuoi che risponda ecc.