Meditazioni sull'Italia/Terza parte/I

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Terza Parte Terza parte - II
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I


Dialogo fra due Scrittori

del Primo ottocento

1

In ogni civiltà c’è qualche contraddizione che apparisce soltanto all’epoca tarda dei frutti e perciò una civiltà raggiunge il massimo splendore mentre sta facendosi, in un’epoca transitoria.

Primo Scrittore. — Che tempi! La civiltà letteraria non è mai stata così inferma, e trista, com’è oggi. Che briciole ci rimangono, a noi moderni, di quel maestoso festino poetico, che è stato, per tanti secoli, gloria italiana? Possibile, che ancor oggi si debba vivere sulle rendite de nostri padri?

Secondo Scrittore. — Mi pare che il tuo giudizio non sia equanime.

Primo Scrittore. — Ma che vedi tu, che possa stare a paragone con la nostra vecchia e vasta poesia? Manzoni ha pubblicato un romanzo, che probabil[p. 166 modifica]mente hai letto anche tu, poiché in questo anno si è letto un po’ dappertutto: i Promessi Sposi. E’ un buon romanzo, voglio ammetterlo, per quanto ci si senta il lombardo che si diverte coi riboboli toscani, raccattati razzolando nei pagliai della Val d’Elsa. E’ un romanzo storico, ben colorito e scritto in modo divertevole; ma tolta qualche buona macchietta, come quel Don Abbondio, o quel Don Ferrante, mi pare che non ci appariscano dei grandi personaggi, e che d’altra parte sia ridicolo di fare, di due poveri diavoli, piuttosto pallidi e menci, come Renzo e Lucia, addirittura l’architrave di tutta la fabbrica. Che vuol dir questo? Siamo in un’epoca transitoria; si sta riprincipiando a scrivere in un altro modo, e i buoni romanzi non verranno che tra due generazioni. C’è poi quel lamentoso Leopardi, scrittore garbato, pulito e elegante, te lo concedo; ma come frigido, come diaccio e brullo!

Secondo Scrittore. — Pure le Operette Morali...

Primo Scrittore. — Le Operette Morali! Ma che mi vai dicendo? Basta legger questo libretto tutto agghindato e prezioso, per capire come non si sia ancora scoperta la vera, viva, novella prosa, italiana! Quando si sarà detto che le Operette Morali esprimono, in lingua pura, qualche idea ingegnosa, non si avrà più il diritto di aggiunger parola. Si tratta, insomma, di buoni articoli di giornale, che noi leggiamo con gusto, ai nostri tempi, perchè sono [p. 167 modifica] la novità dell’anno; ma chi mai riaprirà queste pagine tra cinquant’anni? O per caso tu credi che con qualche dialoghetto si conquisti l’immortalità?

Primo Scrittore. — Ma le Poesie...

Secondo Scrittore. — Qualche poesia, queste sono con te l’ha scritta, con molta finezza e chiarezza di parole. Ma quante brutte! Che pensi mai, tu, di quella, retorica filastrocca scritta per glorificare, in versi degni dell’opera, il monumento a Dante? O della Canzone all’Italia, in cui questo infelice, dimentico di tutti i freni che impone il buon gusto e il senso comune, ti scrive impavidamente «Soccomberó, sol’io»? Ti grazio tanti altri fiori, e per non apparire spietato e maligno, ti concedo che il conte Giacomo sia un poeta avvertito e anche abbastanza commovente; ma non me lo paragonare a Dante! Il signor Foscolo ha scritto un buon carme, ma non mi negherai che sia il più faticoso della letteratura italiana. Mi sembra, quando leggo un suo endecasillabo, di dar la scalata a una montagna. Di verso italiano non è sulla buona via, se continua a imprigionarsi liberamente in chi sa quali enormi e invisibili impacci, per poi divertirsi a risolverli con laboriose macchinazioni metriche, come un lottatore che gonfia tutti i suoi muscoli quando solleva un manubrio di carta pesta. Tutto questo mi convince che siamo al principio, e che ci sarà forse un giorno una letteratura, ma che per ora non se ne vede che l’aurora; il verso e la prosa devono maturare e divenire [p. 168 modifica]più splendidamente liberi, più festosamente solenni, musicali e umani.

E che dirti delle altre vestigia della civiltà? I romani andavano a piedi e in cocchi; e in questa maniera di viaggiare acquietavano quel sentimento di rivolta contro lo spazio, che è istintivo in ogni essere umano. Ma noi viviamo come nell’aurora di un mondo, in cui tutto sarà più veloce. Il Re di Napoli puó andarsene a Torre Annunziata su due rotaie di ferro, trascinato da una macchina che trasforma in fumo le miglia della strada. Come possiamo placare il nostro dispetto di fronte al solenne gocciolare del tempo, che accompagna, con le scosse burbanzose delle diligenze, la nostra lotta contro la distanza? E che dirti dei governi, che tutti i popoli d’Europa si eleggono liberamente, rinnovandoli sull’uso nuovo, mentre noi dobbiamo ancora obbedire in silenzio agli ultimi avanzi imperiali di un ordine ormai moribondo?

Se sei un uomo ragionevole, converrai con me che non si son mai visti tempi più calamitosi e sterili, e che ora ci rimane soltanto la consolazione di piangere insieme il destino, che ci ha fatti nascere quando bisognava morire.

Secondo Scrittore. — Mi sento in impaccio. Non vorrei rattristarti consolandoti; perchè so per esperienza, che nessun uomo ci riesce cosí sgradevole, come quello che si rifiuta di disperarsi con noi.

Primo Scrittore. — Dí pure. Io non mi offenderó [p. 169 modifica] affatto degli inni con cui glorificherai il tempo in cui siamo nati. Tu sai bene che l’uomo non soffre profondamente di tutti i mali di cui si lamenta con i suoi simili; e che io non sono, nel profondo del mio spirito, più infelice, perchè sono nato in tempi incivili che se fossi nato a Roma nell’era di Augusto. Per questo sono magnanimo.

Secondo Scrittore. — Allora ti dirò, che il tuo ragionamento mi sembra ragionevole, ma non chiaroveggente. Tutti hanno sempre creduto di vivere in una epoca transitoria; ma nessuno ha ancora pensato che sono sempre transitorie le epoche grandi.

O maestoso Ottocento! Verrà un giorno, in cui si dirà che questo primo mezzo secolo, ancora rigato dagli ultimi bagliori d’oro del vecchio mondo, e già gonfio di umori novelli, già ebbro di infiniti orizzonti scoperti, era stato il momento più splendido della civiltà italiana; in cui si dirà che il conte Leopardi scrivendo l’Infinito, s’è coronato con quell’alloro, che ornò le tempie di Dante; che il signor Manzoni ha lasciato, coi Promessi Sposi, un capolavoro immortale certo assai più grande delle corbellerie di Lodovico; che il signor Foscolo colava i versi nel bronzo, e che i suoi endecasillabi alle montagne si potevano rassomigliare perch’erano eterni!

E i poeti, che avranno disciolta questa metrica un pó muscolosa, in ritmi languidi, e avranno rinunziato, come dici tu, a risolvere laboriosamente quei misteriosi impacci, che si ponevano senza che [p. 170 modifica] il lettore potesse conoscerli, se non dallo sforzo fatto per superarli, piangeranno sulla loro libera facilità di parlare. E gli ultimi letterati bene educati, che vorranno ragionare di idee, si ricorderanno con tristezza, tra il vociferare ignorante, pretenzioso, e villano della plebe, che ha invaso la repubblica delle lettere, del tempo in cui era governata da poche persone di usi civili, e di larga coltura. Non solo, ma anche se le rotaie lustre che rilucono da Napoli, a Torre Annunziata, copriranno tutta la penisola di una ragnatela splendente, che darà agli italiani la gioia di essere onnipresenti, anche se i mari saranno valicati in pochi giorni; anche se si potrà viaggiare sotto le acque e tra cielo e cielo; anche se tutti saranno più ricchi, che ora non siano, le persone sagge rimpiangeranno questa nostra «epoca transitoria», questi nostri «tristi tempi».

Ed ora ti dico perchè: l’acme di una civiltà, non si ha quando tutti i suoi frutti sono maturati, ma prima. Quando una civiltà ha raggiunto il maggior punto di sviluppo, che poteva raggiungere, quando dà tutto quel che può dare quando ogni principio si è svolto fino che poteva, meccanicamente, ed è arrivato a quelle conseguenze solenni che sono le ultime, io ti dico: è cominciata la decadenza.

La verità è che non si puó vivere in un mondo, in cui ogni principio è stato sviluppato logicamente. In ogni civiltà c’è qualche contraddizione, che apparisce soltanto all’epoca tarda dei frutti; e perció [p. 171 modifica]una civiltà raggiunge il suo massimo splendore, non quando è arrivata a una perfetta maturazione, ma prima, mentre sta ancora facendosi, e cioè in un’epoca transitoria. Per questo nessuno si accorge, quando il cielo gli ha concesso un così dolce e raro privilegio, di vivere nei secoli grandi; ma tutti, aspettano sempre che il mondo s’arricchisca ancora e si disperano già di vederlo impoverito. Tragico destino veramente, che non ci fa godere della grandezza, perchè ogni momento gaudioso della storia non ci appare che come il vestibolo di un mondo più vasto, e luminoso, che si dissolve, quando stiamo per raggiungerlo, come un miraggio. Ma il nostro destino è tanto più tragico, se si pensasse che distruggiamo il nostro futuro, con le stesse forze con cui abbiamo costruito il presente.

Perchè non si sarebbe potuti arrivare a quella grandezza transitoria, se non con quegli stessi elementi, che, ingrandendosi, si sono contraddetti e distrutti. La fine e non la gloria della letteratura italiana è già contenuta negli endecasillabi di Leopardi e nella prosa di Manzoni. E le rotaie che riuniscono Napoli a Torre Annunziata non promettono già una grande aurora italiana, ma appunto perchè li illumina ancora la tua speranza, annunziano il crepuscolo della nostra civiltà, i giorni tristi in cui tutta l’Italia sarà rigata da codesti canaluzzi immobili e diacci, e nessuno sarà contento di vivere! Noi siamo in uno dei momenti più dolci della storia, [p. 172 modifica]appunto perchè la letteratura, la politica, l’economia, le comunicazioni, invece d’essere fatte, stanno facendosi. Cerchiamo dunque, unici in mezzo a tanta folla di ciechi, di godere della nostra felicità.

Primo Scrittore. — Impossibile. Tu stesso, che parli a questo modo, non la godi che con la ragione. Rassegniamoci a essere come tutti coloro che vissero nei secoli grandi, non meno dolenti degli uomini che vissero in tempi calamitosi.

  1. Da «Solaria» — Firenze, Ottobre 1927.