Mio figlio ferroviere/IV
Questo testo è incompleto. |
◄ | III | V | ► |
IV.
LO SPECCHIETTO PER LA BARBA.
In fondo sono tempi divertenti, e si può aspettare ad accorarsene. Questa considerazione m’ha illuminato la mente stamane mentre mi facevo la barba. Avevo davanti a me, nella sua cornicina di noce intarsiata con un filo d’ottone, lo specchietto rettangolare che alla prima pelurie mi regalò mia madre (era già vecchio), lo specchietto che ha veduto a uno a uno i miei capelli diventar bianchi, e ad una ad una apparire le mie rughe e approfondirsi come cicatrici, e il mio volto di ragazzo trasformarsi di giorno in giorno in questa buffa maschera melensa che certe mattine al primo sguardo io stesso non riconosco, tanto sento d’avere ancóra, al confronto, l’animo fresco e roseo. E mi sono detto: – Caro Pietro, tu ti ci affanni, tu t’aspetti il finimondo, tu ti appelli ai posteri, ma non pensi che, se non era venuta la guerra e poi questo cataclisma che t’ha lasciato solo a casa tua, che t’ha fatto cavaliere, che t’ha mutato il figlio da borghese in proletario e da medico in ferroviere, tu dovevi con quella faccia lì sbadigliare di noja anni e anni finchè la morte ti fosse entrata in bocca per lo sbadiglio? E invece ti sei trovato come in un teatro, seduto gratis nelle prime file, col permesso di sgattajolare in palcoscenico tra un atto e l’altro per sapere un’ora prima degli altri come andrà a finire il prossimo atto, se non proprio la commedia o tragedia che dir si voglia, perchè questo non lo sanno nemmeno gli attori. E così hai ripreso gusto alla vita, tanto che ti diverti a raccontarla in iscritto con l’illusione che, fra mezzo secolo, chi ti leggerà ci si divertirà anche lui. E questo spettacolo di varietà ti capita proprio in questa saggia età in cui non sei più distratto da brame incomposte e, bene o male, il pane e il tetto ce l’hai assicurati usque ad finem, e sei insomma, con Vittorio o con Lenin, con Giolitti o con Turati, un “signore” indipendente e, per giunta, riverito. Rispettato, te l’aspettavi e te lo meritavi; ma non t’aspettavi, tu monarchico, d’essere, per merito del socialismo, riverito, anzi temuto, dal sindaco, dal prefetto e magari dal vescovo, e perfino dall’agente delle imposte che, appena gliel’hai chiesto, t’ha ridotto alla metà il reddito professionale. Caro il mio Pietro, e non vuoi ridere? Ti ricordi che ti gridava tua moglie, alla fino della guerra? – Tu solo con la guerra non hai guadagnato niente. Scrivilo sulla porta di casa, stampalo sulle carte da visita, “solo abitante di questa città che con la guerra non ha guadagnato nè un soldo nè un grazie”. Così se non ti daranno niente, forse ti collocheranno in un museo col tuo cartellino appeso al collo. – Adesso, non te lo dice più. Tempi divertenti. Tutto sta nello scegliersi il punto di vista. Stamattina, sarà stata una digestione più facile, sarà stata la dolce temperie di questo maggio che rimporpora il sangue anche nei cervelli dei vecchi, m’ero messo dal punto di vista buono. E con quell’invettiva di Giacinta m’è tornata in mente anche l’apostrofe del nostro sindaco dopo la presa di Gorizia (il nostro sindaco, anni quarantadue ma richiamabile perchè ufficiale territoriale, esonerato perchè sindaco; suo fratello, esonerato perchè ingegnere comunale; suo cognato, esonerato perchè esattore delle imposte). – E a noi, – si chiese quel valentuomo la sera del 9 agosto 1916 al caffè mentre da tutta la penisola giungeva l’eco del giubilo e dello scampanìo per quella prima tangibile vittoria, – e a noi che per amore della pubblica cosa, per non lasciare cadere in frantumi la macchina sociale, abbiamo avuto l’abnegazione, diciamo pure la virtù di restare a casa nostra, d’attendere impavidi al nostro lavoro, di rinunciare sereni alle glorie della guerra, non dovrà il Governo dare una ricompensa? – Lo nominarono infatti, dopo poco, cavaliere ufficiale, ed ora egli permette che per brevità lo si chiami commendatore: il nostro benemerito commendator Pópoli. Mia moglie aveva allora creato qui nell’orto una piccola conigliera, tanto per offrirci un po’ di carne nei pranzi delle feste riconosciute. Quando quelle instabili e fetide bestiole mi guardavano cogli occhi rossi, muovendo di continuo, quasi a parlarmi, le umide labbra da cui pendeva un cencio di lattuga, io mi chiedevo, continuando l’apostrofe del signor sindaco: – E a queste povere bestie che muojono per farci vivere, non dovrà il Governo dare una ricompensa? – Una sera, per uno di quei ghiribizzi da monello che sono indegni della mia età, avendo Giacinta portato in casa per sgozzarlo uno di quegli innocenti, io gli legai al collo un nastro bianco e rosso, e così decorato volli che vivesse un giorno di più. Dovreste aver veduto le feste che gli fecero i compagni quando egli tornò nel recinto con quelle insegne! Ahimè, ahimè, ora son cavaliere anche io come il mio povero coniglio, e questi scherzi non me li posso permettere più. Stamane ho fermato qui i miei ricordi, di colpo, perchè non volevo guastarmi l’umor lieto con cui m’ero levato e vestito, anzi volevo mantenerlo fresco fresco per raccontare oggi il pranzo dato in onore dell’onorevole Mastiotti qui in casa mia, il quale pranzo tanto giovò a consolidare in paese la fama e l’autorità di mio figlio. Fino all’ultima ora si temette che quell’illustre uomo, socialista, massimalista, comunista, leninista ferocissimo allora (adesso è turatiano, ma ha sempre pronta una vampata di nostalgia) mancasse alla parola che aveva data a Nestore e al segretario della nostra Camera del lavoro. Era andato a fare un’inchiesta in un villaggio della pianura, a Castelpiano, dove un carabiniere, avendo ricevuto durante un comizio un sasso sulla faccia, aveva osato sparare la sua rivoltella e colpire all’alluce del piede destro il portalettere socialista e nel cappello un capolega: donde era stato accusato non solo d’atrocissima ferocità ma anche di cinico sangue freddo, perchè del capolega aveva mirato al capo e del portalettere al piede, proprio cioè a quelle parti del loro corpo consacrato che erano più indispensabili alla loro professione. Ribattevano, al solito, i reazionarii, che il loro carabiniere per difendersi la vita e per non ferire nessuno aveva sparato prima a terra e dopo in alto, e che del resto non avrebbe potuto prendere la mira dato che aveva gli occhi e tutto il volto rigati di sangue. L’onorevole Mastiotti era venuto lui da Roma a giudicare, poichè dei due deputati socialisti di questa città uno era andato in Austria a far da balia a quei cari bimbi, e un altro in Basilicata per un’altra inchiesta sopra un compagno accusato, alla Camera, d’aver venduto a sè stesso, essendo sindaco, un bosco comunale. Sarebbe giunto in tempo per il nostro pranzo? E avrebbe sentenziato che per punire il carabiniere e noi suoi manutengoli, si doveva fare lo sciopero? Io non ho telefono perchè il Comune, per quanto io mi sia sforzato a spiegargli l’utilità (pel pubblico) del telefono in casa d’un medico condotto, non me l’ha mai voluto concedere. Ma le staffette andavano e venivano dalla sottoprefettura a casa mia sempre più frequenti, man mano che il sole calava dietro i monti e il deputato socialista saliva dalla pianura. Ogni posto telefonico ne segnalava con precedenza assoluta il passaggio, di borgo in borgo, al rappresentante del Governo del re. E mia moglie correva in cucina a ripetere quelli annunci incessanti. Il deputato viaggiava nell’automobile chiusa che gli aveva data il prefetto, e sul Corso ad ogni staffetta quelli del Caffè, quelli della farmacia, quelli dell’albergo della Luna, e tutti i negozianti, e gli stessi passanti domandavano ansiosi: – Ci sarà lo sciopero? – Verso le sette un plotone di fanteria seguito da un centinaio di curiosi andò a nascondersi nel cortile della Cassa di Risparmio che, come ho detto, ha il suo palazzo su questa piazzetta; e per prudenza richiuse dietro a sè il portone. Alle sette e mezzo apparvero sulla piazzetta quattro guardie regie; e, approfittando della luce che gli lasciava l’ora legale, il fotografo Carlini che s’è stampato sulle carte da visita “corrispondente della Domenica del Corriere”, alzò sul treppiede la sua più bella macchina, puntandola proprio contro la nostra umile porta dipinta di verde dieci anni fa e sulla tabella smaltata che reca in azzurro il mio nome. Mia moglie che alle sei s’era addobbata a festa col suo vestito di velluto nero, alle sette, per consiglio di Nestore, s’era cambiata e vestita più proletariamente di lana. Alle otto meno un quarto un’altra staffetta accorse in bicicletta ad annunciarci che, invece di salire direttamente in città, l’automobile aveva svoltato per la strada di San Marco. Fu un gran colpo, e in cucina fu abbassato il fuoco nei fornelli e su tutti i volti scese una nube. A San Marco, perchè? Tutto era tranquillo a San Marco. Peggio, nelle ultime elezioni il partito popolare vi aveva avuto la maggioranza. Nestore, seduto in salotto con due suoi colleghi della Camera del Lavoro, ostentava una calma sovrana e parlava dello sciopero dei ferrovieri in Inghilterra computando sopra un foglio il ragguaglio tra i loro salarii in scellini e i salarii dei nostri ferrovieri in lire, senza colpa nostra, italiane. All’improvviso s’udì un gran rombo come se una macchina onnipotente si sforzasse a ingrandire d’un colpo la straduccia in salita e la meschina piazzetta che menano dal Corso a casa mia. Era l’automobile: l’automobile del Prefetto e della rivoluzione. L’automobile, più gli applausi. — Tu aspéttalo qui in salotto, con la mamma, – mi suggerì Nestore con quella sottile conoscenza degli uomini che già v’ho vantata abbastanza. Vedevo tra le persiane socchiuse la folla che applaudiva e gridava, il tetto dell’automobile nera che la fendeva maestosa, il fotografo che gesticolava; eppure sentivo che qualcosa mancava alla festa. Che cosa? Che cosa? Nestore già mi presentava all’ospite insigne quando mi balenò la risposta al quesito assillante: mancava la marcia reale. Miserie della vecchiaja che non sa liberarsi dalle abitudini e dai ricordi dei tanti anni vissuti, e mescola ingenua il torbido passato al radioso avvenire. Ma era molto simpatico quell’onorevole uomo a cui Nestore per dovere di disciplina dava del tu. Posato, roseo e rotondo, cogli occhi chiari, i baffi brizzolati, e i capelli tagliati a spazzola, sembrava un pensionato dei regio Governo, non un apostolo della rivoluzione rossa. E rideva sempre. S’era súbito seduto sul divano dando larghe manate ai cuscini perchè accompagnassero comodamente le borghesissime curve dei suoi fianchi, e m’aveva voluto accanto a sè continuando anche su me quelle sue affettuose manate come per accomodare anche me affabilmente ai suoi gusti. – Caro cavaliere, caro cavaliere.... – Non conosceva i nostri paesi e mi descriveva liricamente la veduta della valle al tramonto, col fiume giù nel fondo che luccicava e i monti Martani dorati dagli ultimi raggi e le colline viola: – Gran bel paese, perdio, e bella gente! Facce aperte, ragazze fiorose.... Una fischiata acutissima lacerò l’aria, e io saltai in piedi. Ma quello ridendo mi afferrò per le braccia e mi ripose sul divano. — Niente, – osservò senza voltarsi il segretario della Camera del lavoro: – Fischiamo la guardia regia. In quella entrò, seguìta da mia moglie, una signora che tanto era magra e biliosa quanto Mastiotti era florido ed ilare. — Cavaliere, mia moglie. Lei, sì, conosceva questi paesi. È stata maestra a San Marco prima di sposarsi. Non c’era più tornata da.... Ho da dire da quanti anni? Per questo siamo arrivati in ritardo, che ho voluto ricondurre mia moglie a San Marco dopo tanti anni. Tanti, per modo di dire. Le hanno fatte molte feste, anche la maestra d’adesso, che pure, povera donna, è “popolare”, siciliana e, s’immagini, parente di don Sturzo, con lo stesso naso, diciamo pure, dantesco. La moglie dell’onorevole era andata in camera da letto per togliersi il cappellino e rassettarsi la tolettina gialla e marrone di raso e velo. Non le bastava, e continuava a darsi dei colpetti con due dita sui riccioli, sulle vesti, sulle frange come per constatare di volo d’avercele sempre appuntate addosso ai suoi vecchi ossicini. Il marito, lei, non la toccava con le sue manate affettuose: talvolta cominciava il gesto ma si fermava a cinque centimetri da lei, spaventato, e la sua mano calava su chiunque altro si trovasse a portata di mano con un ardore raddoppiato. In quelli arresti e pentimenti s’intuiva l’effetto d’una lunga serie di lezioni, intimazioni e minacce della sua, credo, legittima metà. E per quella faticata obbedienza il nostro augusto ospite mi diventò anche più simpatico. Ma mi vinse quando gridò con voce di comando: — Si va o non si va a tavola? L’automobile, caro cavaliere, dà appetito. Dirò meglio: mi aumenta l’appetito perchè i conduttori di anime devono essere tutti e sempre di stomaco buono. Fui tentato di chiedergli se quella frase doveva intendersi anche al morale, ma in quel punto il cameriere prestatoci dall’albergo della Luna spalancò la porta e annunciò a voce ferma, guardandoci in faccia, con un’autorità che mi piacque e mi confortò: – Il signor deputato è servito. – Temetti che l’ospite si lamentasse almeno di quel signore e di quel servito. Niente: continuava pure avviandosi e ridendo, a spiegare la sua idea sulla necessità, perchè un tribuno sia capace di ben governare, che lo stomaco di lui sia capace di ben digerire; ed esemplificava coi parroci, monsignori, vescovi, che la Chiesa ha sempre voluti di sicura salute e di solido corpo. Si sedette alla sinistra di mia moglie, mentre io di faccia a lui dovetti sedermi alla sinistra della sua, e si trovò sotto gli occhi, dall’altro lato di Giacinta, il povero Filiberti segretario delle Camera del Lavoro che più smunto e fegatoso non potrebbe essere. Con un’agilissima capriola si corresse in un lampo: — Fanno eccezione i santi. Ma quelli non li nomina la Chiesa, li accetta. Filiberti, ad esempio, sarebbe un santo, non un curato. Quello, scontroso come tutti i tisici, ormai s’era offeso, e non perdonava. Con la vocina fessa rispose: — Tu invece sei un cardinale. Non lo diciamo sempre, Nestore, che i nostri deputati sono i nostri cardinali? Nestore abbozzò un sorriso. Il deputato che già intercalava due cucchiajate di minestra a due sorsi di vino, coprì la vociuccia di Filiberti con la sua tonante cordialità: — Mangiare in casa d’un medico, è la perfetta beatitudine. Si mangia senza sospetti e senza paure. Tutto è sano e salubre, – e continuò svolgendo ampiamente quest’altro tema e ornandolo con alcuni confronti tra la sana onesta cucina del proletariato e la corrotta artefatta cucina dei signori. Io osservavo Nestore. Tra lui e il cameriere era un continuo parlarsi cogli occhi. Si vedeva che Nestore l’aveva istruito minutamente. Ogni volta che quello accorreva a riempire il bicchiere del deputato, guardava Nestore come ad assicurargli: – Non dimentico niente. – Doveva essere stato Nestore a ordinargli di venire in giacca nera e non in marsina; e a permettergli invece quel borghesissimo annuncio: “Il signor deputato è servito”. Astuto Nestore. Egli s’era proposto di lasciare al pranzo quel tanto di grasso e di borghese che poteva lusingare e saziare il deputato e i compagni, attribuendone la colpa a me, dopo tutto, padrone di casa; e nello stesso tempo di togliergli quelle vane apparenze – marsina e guanti bianchi del cameriere, vino spumante, invito d’estranei al partito – che, se raccontate, potevano offendere i compagni e il deputato. Quando vidi che ormai tutto andava liscio e che anche al vino rosso tutti davano la stessa pratica ammirazione che al vino bianco, còlto un attimo di silenzio, osai insinuare una domanda: — Com’è andata l’inchiesta, onorevole? Filiberti e gli altri compagni (ve n’erano tre) aggrottarono la fronte autorevole. Nestore mi lanciò un supplice sguardo. Il deputato cambiò tono, depose la forchetta, e alzando la palma della mano come a impedire che l’incauta domanda giungesse fino a lui, mi rispose: — A tavola, niente politica. Lei parla mai d’operazioni chirurgiche a tavola? Nestore affermò, severo: — Di queste faccende si parlerà alle dieci alla Camera del Lavoro. L’ospite assentì ma, perchè non restasse pur l’ombra del mio errore, mi osservò bonario: — Dica la verità. Più che i fatti di Castelpiano, a lei importa la possibilità d’uno sciopero di protesta. Ah, borghese, borghese, borghese, – e ridendo mi minacciava con la forchetta. — Si sa, i fatti ormai sono quello che sono.... — Lasci andare, dottore. Lo sciopero sarà quel che sarà. Lo sciopero è prima di tutto la pena che il tribunale proletario infligge alla società borghese; poi è un corso accelerato per insegnare al popolo come si fa la rivoluzione; infine uno sciopero è utile quando si chiude in modo da lasciare adito a un altro sciopero. Dunque bisogna che loro ci si abituino. È chiaro? — Per me, no. Ma è colpa mia, – e glielo dichiarai così modestamente che egli rise, e col bicchiere in mano, tra i sorrisi esperti di Nestore e degli altri compagni, gentilmente mi dette questa spiegazione: — La borghesia crede che tra uno sciopero e un altro non vi sia nesso e che, domandoli o sopportandoli l’uno dopo l’altro, pian piano essa riesca a stancare il proletariato o a vederlo placato nella soddisfazione per quel che ha ottenuto. Non è vero. Vigiliamo noi. Guardi quel ritratto che ella giustamente tiene in un posto d’onore: il ritratto di Vittorio Emanuele secondo. Io rispetto quei re, prima di tutto..» — Perchè è morto, – insinuò il Filiberti, ma l’altro non gli badò: — ....perchè è stato un galantuomo, e poi perchè è stato un gran diplomatico, e noi dobbiamo imitarlo. Lui che cosa voleva fare? L’Italia? Ebbene ad ogni guerra, si chiudesse con una vittoria o con una sconfitta, egli aveva cura di lasciare nel trattato di pace l’appiglio per un’altra guerra, per la guerra che ancóra gli era necessaria a raggiungere l’indipendenza del suo paese. E così facciamo noi per arrivare in un nuovo regime alla totale indipendenza dei lavoratori. Per esempio: si chiude oggi lo sciopero dei postelegrafonici? Bisogna chiuderlo in modo che almeno in una clausola essi ottengano un salario o un vantaggio che non ancóra sia stato ottenuto, mettiamo, dai ferrovieri. Si chiude lo sciopero dei metallurgici di Milano? Bisogna che, o nell’orario e nella costituzione delle commissioni di fabbrica o nei salarii minimi o nel caroviveri, essi abbiano qualcosa di più dei metallurgici di Brescia o di Torino. Ed ecco il prossimo sciopero assicurato. Non c’è santi, non ne escite più.... — Per me.... — Sì lo so, lei è un borghese più d’abitudini che di fatto. Lei è un lavoratore, e per di più, spero, organizzato. Dico voi borghesi, tanto per intenderci. E ripeto: voi borghesi non ne escite più. Un dente dopo l’altro, la ruota gira. — Ma intanto si logora. Non c’è una ruota borghese e una manovella proletaria, o una ruota proletaria e una manovella borghese. — Ho capito: la solidarietà sociale, la miseria per tutti, la moneta deprezzata per tutti. Pregiudizii. La moneta è un’astrazione. Vivono in Austria con la corona a un centesimo o due? Vivono in Russia col rublo sotto zero? La moneta è una finzione come il passaggio agli esami col sei o col sette. Si stabilisca che il punto massimo è cinque, e i migliori alunni passeranno col tre, trionfanti. Che invece di dire un centesimo si dica una lira o invece di una lira cento lire, che importa? Importa al regime borghese che ha un capitale, che ha un patrimonio, e non lo vuol vedere diminuito; ma abolito il risparmio e ricondotta la moneta a una finzione comoda, a una scheda degli uffici statistici per attestare il lavoro fatto e per conteggiare gli scambii.... Era beato. Tutti, anche il cameriere col piatto dell’arrosto nelle mani, lo ascoltavano a bocca aperta, ed egli navigava dall’una all’altra delle sue labili verità come da un’onda all’altra, spinto dallo zeffiro della sua parola. Io, no. Io facevo dei gesti per fermarlo, cominciavo una frase per interromperlo; ma per educazione i miei gesti erano misurati, la frase timida. Ed egli non mi badava. Nestore, sì, che mi conosceva e temeva di vedermi esplodere in qualche: – Non è vero! – brusco ed imperativo. Il pericolo lo rese audace. Fu lui ad interrompere il suo apostolo; ma, poichè s’era accorto che la sola autorità che quello temesse era la moglie, lo interruppe d’un colpo, fulmineamente, così: — La signora si sente male! Tutti tacquero, tutti si volsero a guardarla, qualcuno perfino s’alzò, e mia moglie lanciò un piccolo grido. Nestore, raggiunto lo scopo, seguitò in tono minore, tranquillamente: — ....Non mangia niente. Io me n’ero accorto, ma quella m’aveva risposto agra agra che era di stomaco debole. Viceversa beveva d’ogni vino, succhiandoselo a sorsellini che pareva le bruciassero le labbruzze vizze, e ad ogni sorso deponeva il bicchiere con un’aria di mai più, come se vi avesse trovato fiele e non moscato o trebbiano; poi lo riprendeva per altre due poppatine, un minuto dopo. Cinque o sei bicchieri aveva bevuto a quell’ora, ed era inutile che proprio io medico le stessi a domandare con che mai s’era indebolito lo stomaco. Ma all’interruzione di Nestore intervenne il marito magnanimo per spiegarci, alzando gli occhi con un sospirone, che la povera donna s’era rovinata lo stomaco a scuola con l’insegnare e col parlare, curva sulla cattedra per ore, giorni, mesi ed anni. Borghesi lerci, Governo ingrato. E fu tutt’un sospiro da un convitato all’altro. Lo stesso Filiberti, astioso ed incredulo com’era, sospirò, felice di sentire che anche quella era malata e senza speranza. Per fortuna venne il dolce: una crostata di mandorle e visciole che, prima della conversione di Nestore, Giacinta sfornava solo di natale e di pasqua come una cosa santa. — Un po’ di dolce préndilo, cara. Lascia la pasta che è indigesta e prendi la marmellata, – le consigliò il marito. L’avesse detta un altro quell’eresia sulla pasta indigesta.... Giacinta osservò soltanto, timidamente: — Guardi che anche la pasta è ben cotta, e crocchia. Alle frutta, l’onorevole prima accese come noi un mezzo toscano; poi si battè la fronte con le dita e gridandomi: – Non accenda, cavaliere, non accenda, – trasse dalla tasca interna della giacca due sigari ravvolti in un pezzo dell’Avanti, due grossi sigari con l’anello rosso e oro: – Prenda uno di questi. Ce li ha offerti il segretario particolare del Presidente del Consiglio quando jeri siamo andati da lui per lo sciopero dei lanieri. Sono della regia ma, sembra, ottimi. Io sono abituato al mio toscano e non transigo, ma li conservo per gli amici ghiotti. Prenda, la prego. Li prenda tutti e due. Quel bravuomo li tiene nel cassetto della sua scrivania, insieme a sigarette sopraffini; e per ognuno che ne offre a un deputato socialista, ne mette uno da parte della stessa specie e qualità per offrirlo a un deputato popolare. La giustizia! La giustizia, s’intende, del Governo borghese che va tutta in fumo. S’era alzato, ma Nestore e Filiberti gli facevano notare che mancava ancóra un quarto alle dieci e che alla Camera del Lavoro era opportuno andare piuttosto un quarto d’ora dopo che un quarto d’ora prima. Nestore gli era vicino, in piedi, un poco più basso di lui. Il deputato gli mise un braccio sulle spalle, affettuosamente, e rivolto a me dichiarò: — Bell’intelligenza, questo figliolo. Lo porteremo avanti. E del resto non ha bisogno di noi vecchi perchè andrà avanti da sè. L’esempio che ha dato alle classi borghesi scegliendosi la professione che s’è scelta ed esponendosi alle più rabbiose rappresaglie, è noto a tutti i socialisti d’Italia, – e con la palma gli batteva sulle spalle e sulla testa: – L’ha mai inteso parlare? Intendo, parlare alle masse. Io l’ho sentito a Pisa, alla Federazione Macchinisti. Ti ricordi, Nestore? “Io non sono un avvocato, sono un ferroviere, sono un macchinista. Io conosco le leve che bisogna muovere per mandare avanti la macchina del socialismo sul nostro binario. Le leve sono queste. Uno....”. Chiaro, leale, ardito. Bravo Nestore! , – e gli rotava la mano tra i capelli che Nestore ha lucidi e neri: – “Io non sono un avvocato”. Bravo Nestore! Gli avvocati sono la peste del socialismo. Ti fa meraviglia, eh, ragazzo mio, che io mi ricordi parola per parola quel tuo discorso? Ma un capitano deve aver buona memoria, prima di tutto. E io mi vanto di ricordare il nome di tutti i socialisti che ho conosciuti, anche fuori del mio collegio. Tutti! Allegro, facondo, instancabile, quello doveva concepire la rivoluzione come una gran burla da fare alla nazione; e chi più ne inventava, più era bravo. Il partito socialista gli doveva sembrare qualcosa di simile ai quattro che tengono nel gioco del lenzuolo le quattro cocche: l’Italia sul lenzuolo, e loro a tirare, e l’Italia a saltare, ricascando ora sopra un fianco, ora sopra l’altro, ora supina, ora bocconi; e loro a ridere, e l’Italia a strillare. In fondo ci si divertiva tanto, tra gli applausi, i discorsi, la medaglietta, le quindicimila lire, le indennità, gl’inchini, gli spari, il vino buono, le automobili dei prefetti, che ad annunciargli: – I borghesi sono tutti in ginocchio e domani il Governo rivoluzionario assumerà il potere, – si sarebbe messo a gridare come un ragazzo strappato al suo gioco: – No, ancóra un poco, ancóra un altro anno.... Era colmo d’aneddoti, di campagna e di città, su tutti i tumulti, i trambusti, gli scioperi di questi ultimi mesi. Ma preferiva gli aneddoti comici che ci narrava serio serio con un crescendo di solennità perchè la risata finale, sua e degli uditori, facesse più effetto. Mi rammento la descrizione d’un bagno di latte, preso dentro un tino da mosto, da un capolega dei contadini del Lodigiano, non so più quando, durante uno sciopero pel quale il latte non doveva essere nè venduto nè cagliato, ma piuttosto gittato per le strade e pei campi. Quel capolega era affetto da una prurigine o da un erpete, e una donna gli aveva da tempo consigliato un bagno di latte. Approfittò di quella fortuna e restò, salvo il sonno, per quarantotto ore in quella tinozza facendovi rinnovare il latte ogni due ore. Mangiava, scriveva, parlava, concionava, lanciava ordini da dentro la tinozza che di giorno faceva portare a forza di braccia sull’aja all’ombra dei pagliaj. C’era folla attorno, di leghisti, di donne, di ragazzi, di portordini, anche di borghesi e di preti. I deputati locali andarono a parlargli fermando l’automobile davanti al recipiente, ma dopo un poco egli li cacciò gridando che il puzzo della benzina gli guastava il latte. E quelli partirono ridendo, e i ragazzi e le donne si davan la mano e gli ballavano attorno. — Alla fine dello sciopero aveva una pelle tenera come quella d’una ragazza. Gliel’ho veduta e toccata anche io perchè è pronto a levarsi la camicia ad ogni richiesta. E giura che se gli torna quello sfogo, lui riproclama lo sciopero. Lo avvertii che erano le dieci e un quarto. Si avviò, poi si fermò come se si fosse dimenticato di qualcosa, e dalla tasca dei pantaloni tirò fuori un involtino con tante bustine minuscole: in ognuna c’era, molto grazioso, di smalto rosso e nero, un distintivo comunista, con la falce e il martello. E ce ne donò uno a ciascuno, me compreso. — Lo prenda anche lei. Un giorno le potrà essere utile. Non faccia complimenti. Questi amici lo sanno: li fabbrico io. Cento operai ho nella mia fabbrica di medaglie e distintivi e portafortuna: tutti, si sa, cointeressati all’azienda. Un’azienda modello: piccola, ma modello. Vuole qualche azione? Accettiamo azionisti borghesi. No? Lo dicevo per ridere. A proposito, – e mi teneva sottobraccio e mi spingeva nel vano della finestra, – chi potrebbe essere in questa cittadina il nostro rappresentante? Non solo per vendere al minuto, che per quello son buoni tutti, ma per assumere ordinazioni, da circoli, confraternite, società politiche, ginnastiche, turistiche? Bravo, ci pensi, e poi mi scriva. Una persona seria, a modo, ben veduta. Socialista? No, non importa. Per un lavoro come questo è preferibile che appartenga a un partito medio, radicale o liberale: meglio, a nessun partito. Grazie, sa. M’affido a lei. La moglie la lasciò con Giacinta che, povera donna, aveva gli occhi già gonfi dal sonno. A mezzanotte sarebbe tornato da noi, avrebbe trovato l’automobile per raggiungere alla stazione il diretto di Roma alle 24 e minuti. Io l’accompagnai fuori. Aveva già un piede in strada quando afferrò Nestore pei risvolti della giacca: — E il cameriere? Voglio ringraziare il cameriere. Pippo era in cucina a mangiare. Accorse infilandosi la giacchetta. E là dove noi poveri borghesi avremmo deposto furtivamente un foglio da cinque lire, l’onorevole mise addirittura le cinque dita della sua destra, stringendo con fraterno vigore la mano di Pippo e ripetendogli la sua riconoscenza e soddisfazione. Uscii ultimo e, voltandomi per chiudere la porta, vidi nell’androne il povero Pippo che a testa bassa cercava se sul pavimento fosse caduto il foglio che non s’era ritrovato nelle mani. Quelli se ne andarono alla Camera del Lavoro; io su al Circolo dove fui súbito attorniato dai soci che volevano notizie. – Ci sarà lo sciopero? Non ci sarà? – Giuravo di non saper niente e non ci credevano. Un’ora dopo giunse il sottoprefetto dalla prefettura e ci annunciò che alla Camera del Lavoro la riunione presieduta dal mio ospite giocondo aveva deliberato lo sciopero di ventiquattr’ore dei postelegrafonici per solidarietà col portalettere ferito all’alluce del piede, e dei contadini per solidarietà col capolega ferito al cappello. Anche il prefetto sapeva del pranzo e tirandomi da parte mi chiedeva ansioso: – L’onorevole Mastiotti che ha detto di me? È soddisfatto? Aspettai che fosse ben passata la mezzanotte per tornare qui a casa e andai difilato in camera da letto. Mia moglie sfinita ma soddisfatta si stava spogliando. — Giacinta, che è questo puzzo di cognac? — Che vuoi, quella povera donna soffre tanto di stomaco che, quando siete usciti, m’ha chiesto un po’ di cognac e l’ho mandato a prendere giù da te. — Sia fatta la volontà di Dio. Quanto n’ha bevuto? — Si torceva, poveretta. Ma con tre o quattro bicchierini, piano piano s’è calmata, s’è accomodata sulla poltrona, e quando il marito è tornato a prenderla, dormiva.