Monete dei romani pontefici avanti il mille/Leone III

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Leone III

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Adriano I Stefano IV

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LEONE III

795-816.


Il dì 26 di dicembre del 795 fu eletto a sommo pontefice Leone III romano, ed il giorno susseguente solennemente consecrato. [p. 35 modifica]

Subito mandò al re Carlo le chiavi della confessione di S. Pietro ed il vessillo di Roma, con questo significando che lo riconosceva per patrizio, rogavitque ut aliquem de suis optimatibus Romam mitteret, qui populum romanum ad suam fidem atque subiectionem per sacramenta firmaret1, ed il re risposegli che audita decretali cartula, cioè l’atto della sua elezione, molto si era rallegrato seu in electionis unanimitate, seu in humilitatis nostrae obedientia et in promissioms ad nos fidelitatis, e che gli mandava l’abate Angilberto per trattare con lui di quanto spettasse ad exaltationem sanctae Dei Ecclesiae, vel ad stabilitatem honoris vestri, vel Patritiatus nostri firmitatem necessarium intelligeritis. Sicut enim cum beatissimo praedecessore vestro sanctae paternitatis pactum inii, sic cum beatitudine vestra eiusdem fidei et caritatis inviolabile foedus statuere desidero2.

Tutto questo venne dal Muratori riportato3 per provare la sovranità di Carlo sopra Roma, senza badare alla relazione che evvi tra le parole di Eginardo e la lettera del re, dalle quali assieme paragonate invece risulterebbe che vi si trattava del giuramento da prestarsi dai Romani al loro patrizio, ed alla stretta alleanza che tra il papa ed il re si voleva continuasse come ai tempi d’Adriano.

Riguardo però a questo testo di Eginardo sul giuramento dei Romani, o vi è anticipazione sull’epoca, probabilmente riferendosi a quella dell’incoronazione di Carlo in imperatore, oppure vi è confusione nell’esposizione, non parendo che ad ogni nuovo papa dovessero i Romani ripetere il giuramento già detto; tuttavia non importando ciò gran fatto al caso nostro passiamo oltre.

Questo pontefice indi pensò ad abbellire le chiese di Roma ed il palazzo Lateranense, nel quale fece costrurre un magnifico triclinio che volle ornato di mosaici, in uno de’ quali era rappresentato il Salvatore seduto nell’atto di dare colla destra le chiavi ad un papa in ginocchioni con nimbo attorno alla testa, e colla sinistra un vessillo ad un principe pure ginocchioni con corona in capo, ed a luogo del nimbo un quadrato, e col nome CONSTANTINUS. In altro S. Pietro seduto che colla destra dà il pallio ad un papa, accanto al quale sta scritto SCIMVS D N LEO PP, e colla sinistra un vessillo ad un principe ginocchione, cui presso leggesi D N CARVLO REGI; ambedue poi hanno il quadrato dietro la testa a luogo del nimbo.

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Il Muratori, sempre per provare il dominio di Carlo anche prima d’essere imperatore sopra di Roma, parla di questi due mosaici4 e dice, che dopo Constantinus stava una V per Quintus, e cita in appoggio del suo detto tra gli altri il Ciampini, senza aver osservato che nella incisione da questi dataci manca assolutamente la leggenda riferita5.

Il Rasponi invece che con molta critica li aveva già illustrati6, nota esservi il nome di Costantino solo, epperciò dovere rappresentare Costantino il grande, ed in quanto al pontefice quantunque alla sua età più non se ne leggesse il nome, tuttavia un cent’anni prima il Massarelli, che questi mosaici aveva descritti, vi leggeva quello di S. Silvestro, col quale e coll’altro di Carlo Magno, Leone aveva voluto si rappresentassero i due principali benefattori della Chiesa unitamente ai papi da essi beneficati. Con questo viene distrutta l’opinione del Muratori che in Roma ancora si riconoscesse l’autorità di Costantino V, il quale era già mancato dal 775, regnando da quell’anno al 780 Leone IV, dal 780 al 797 Costantino VI e dal 797 all’802 Irene sola, inoltre gli sfuggì che in quest’epoca non era ancora in uso il distinguere con numeri i vari principi dello stesso nome.

Aggiunge il nostro autore, che il quadrato dietro alla testa indicando un personaggio vivente, come si vede nelle due figure di Leone III e Carlo Magno, lo stesso doversi dire di Costantino, ed a tal proposito cita l’opinione del Mabillon e d’altri, ma nel nostro caso è impossibile che la cosa così fosse, che allora Costantino V non esisteva più e gli imperatori bizantini non avevano più alcuna ingerenza in Roma, epperciò se Leone non voleva rappresentare Costantino il Grande, nessun altro cesare di tal nome del suo secolo nè anteriore poteva far effigiare, poichè, oltre che nessun beneficio da questi aveva ricevuto, dal Quinto molte persecuzioni aveva la Chiesa sofferte, onde parmi che l’artista abbi quel principe rappresentato col quadrato come usavasi mettere sopra la testa dei busti in cera dei nuovi imperatori che da Costantinopoli mandavansi a Roma, affine di difenderli dalla intemperie, e così mise il nimbo, segno di santità, al capo di S. Silvestro, e all’imperatore, ugualmente che a Leone ed a Carlo allora viventi, soprapose il quadrato come vedeva ogni giorno sopra i suddetti busti.

Intanto papa Leone in una solenne processione poco mancò che non venisse assassinato per opera di alcuni Romani, ma liberato da costoro, [p. 37 modifica]che non temerono di mandare a Carlo una lista d’infami accuse contro di esso, andò a trovarlo a Paderborna, dove fu ricevuto come conveniva al capo della cristianità.

Il re conosciuto tale enormità desiderava di severamente punirne gli autori, ma prima chiamato il parere d’Alcuino suo consigliere, questi gli rispose parergli più prudente di agire con dolcezza coi Romani per timor di peggio, e questo nota il Muratori per poter dire con Eccardo che Carlo amava meglio usar riguardi a quelli che far giustizia al pontefice, il che però quanto fosse vero dalla stessa condotta di quel re è smentito, poichè essendo il papa ritornato a Roma, vi venne ricevuto colle più grandi dimostrazioni d’affetto, ed i messi di Carlo avendo citati gli accusatori a comparire, e questi nulla avendo potato provare di quanto avevano scritto, furono mandati in esilio in Francia.

Avendo indi Carlo radunata nell’800 una dieta a Magonza, nella quale rememoravit de iniuria quam Romani Apostolico Leoni fecerunt7, venne dopo in Italia, e giunse a Roma nei primi di dicembre.

Subito fece una radunanza di vescovi ed altri ecclesiastici e de’ primati del popolo, e sedendo accanto al papa citò i di lui accusatori a comparire, ma nessuno essendosi presentato, Leone salito sull’ambone giurò sui sacri evangeli di non credere d’aver commesso que’ delitti dei quali veniva accusata Allora cantossi solennemente il Te Deum, e così ebbe fine questo accidente.

Essendo poi il re intervenuto il dì di Natale alla messa solenne del papa nella basilica vaticana, finita essa Leone gli pose sul capo una preziosa corona, e nello stesso tempo che il clero ed il popolo colla formola d’uso Carolo Magno Imperatori, Caesari Augusto piissimo et pacifico a Deo coronato vita et victoria lo acclamava imperatore de’ Romani ed immediatamente il papa lo unse unitamente al figliuolo Pipino. Carlo indi prestò il seguente giuramento8. In nomine Christi spondeo atque polliceor ego Carolus Imperator coram Deo et Sancto Petro Apostolo me protectorem ac defensorem fore huius Sanctae Romanae Ecclesiae in omnibus utilitatibus quatenus divino fultus fuero auxilio prout sciero poteroque etc., e con questa stessa formola continuarono a giurare i suoi successori nell’impero prima d’essere incoronati.

Eginardo che trovavasi in Roma, scrisse che Carlo in tal occasione a Pontifice more antiquorum Principum adoratus est, onde molti moderni ne [p. 38 modifica]dedussero la sommissione dei papi all’impero, quando tali parole, come ben dimostri il Santelli9, non significano già che Leone abbia fatto verso di lui alcun atto di soggezione, ma che lo salutò imperatore portando la destra ad os, come usavasi con personaggi elevati.

Il nostro celebre annalista riferisce ora quanta dice l’autore degli annali franchi pubblicati dal Lambecio10, cioè che siccome era presso i Greci cessato il nome d’imperatore, regnando Irene, s’era deciso nel concilio allora tenutosi in Roma, di eleggere ad imperatore Carlo qui ipsam Romam tenebat, parendo giusto che chi comandava a tante provincie già costituenti una gran parte dell’impero tal titolo portasse, al che egli umilmente acconsentì. Il Muratori aggiunge che appunto come padrone mandò a Roma i suoi messi, e poi venne egli stesso a far giustizia dei calunniatori del papa, il quale aveva concertato col clero e popolo d’incoronare inaspettatamente Carlo, al che questi si sottomise perchè vedeva essere l’unanime volere di tutti.

Ma esso doveva conoscere che se Carlo comandava in Roma era solamente in qualità di patrizio, e che dal momento che cessò d’esserlo diventando imperatore, giurò subito di osservare quello che era principal carico del patriziato. Impossibile poi che la sua elezione fosse in un concilio stabilila, narrandoci Eginardo presente ed autore della vita di questo imperatore, che Carlo disse, che se avesse conosciuto prima che il pontefice voleva incoronarlo, quantunque fosse giorno sì solenne, non sarebbe intervenuto alla sua messa, e ciò per umiltà. Che se la cosa fosse avvenuta come dall’annalista Lambeciano si narra, era impossibile che esso non l’avesse subito saputo, ed allora non avrebbe detto tali parole.

Non istà poi il paragone che lo stesso Muratori fa per provare la sovranità di Carlo sopra Roma dal vedersi il suo nome sulle monete dei papi come sopra quelle di Grimoaldo duca di Benevento, chè questi era divenuto vassallo di esso come prima lo era dei re longobardi, quando i papi mai furono vassalli di alcun principe.

Il primo atto del nuovo imperatore fu di giudicare e punire quelli che avevano sì maltrattato Leone e pronunciò contro essi sentenza di morte, commutata ad intercessione del papa in esilio. Continuò poi sempre tra essi la buona armonia che da principio abbiamo veduto esistere, nè punto potè venir alterata dalle prepotenze di alcuni messi imperiali, che si appropriarono multe spettanti alla Chiesa, e destituirono giudici dal papa nominati, insomma [p. 39 modifica]usando nello stato della Chiesa, come avrebbero fatto in quello di Carlo, onde il pontefice gli fece gravi rimostranze, per avere essi oltrepassato i limiti del loro potere in danno della sua sovranità, la quale, come abbiamo già veduto, non essendo allora appoggiata da forza armata propria, abbisognava dell’aiuto di un potente e religioso principe, ciò che appunto deve avere indotto Leone ad innalzare all’impero il re Carlo, affinchè sempre più rimanesse affezionato alla Chiesa romana, e la proteggesse, come infatti avvenne, sia per parte sua che del figliuolo Lodovico.

Essendo nel gennaio dell’814 venuto a mancare quest’imperatore sì benemerito della Chiesa, gli successe nell’impero e nel regno di Francia Lodovico, ed in quello d’Italia Bernardo. Questa morte fece rialzare la testa ad alcuni potenti romani nemici del pontefice, i quali congiurarono contro la sua vita, ma esso li fece prendere, giudicare secondo le leggi romane e condannare a morte. Secondo l’anonimo autore11 della vita di Lodovico, a questi parve troppo rigorosa la pena ad essi inflitta da un papa, ma dopo ben verificato il fatto, venne quanto da Leone erasi operato pienamente da lui approvato.

Frattanto la vita di Leone veniva estinguendosi, e sul giugno dell’816 si spense.

Abbiamo veduto, descrivendo le monete da Adriano coniate dopo cessata la sovranità de’ Bizantini in Roma, che in esse la sua effigie ed il suo nome solamente incidevansi; per le stesse ragioni simili devono essere state le monete fatte battere da Leone sino all’epoca dell’incoronazione di Carlo, ma disgraziatamente nessuna a me essendone pervenuta, passerò a parlare di quelle coniate dopo l’anno 800, le sole che conosciamo.

Siccome il leggersi da quest’epoca sulle monete dei papi anche il nome degli imperatori fu causa che alcuni scrittori impugnassero contro essi questo diritto regale, e che altri poi per difenderli nell’estremo opposto cadessero, mi pare che non sarebbe fuori di proposito avanti di descrivere questa bella serie di monete, di brevemente vedere quali fossero le diverse opinioni che su tal materia, per non parlar d’altri di minor conto, emisero i tre principali autori che appositamente scrissero sull’origine e diritto di questa zecca, volendola uno esclusivamente imperiale, altri del senato romano, ed un terzo onninamente papale; ma siccome tal regalia va annessa alla sovranità del territorio nel quale si battè la moneta, ne derivò che, per provare la propria opinione, ciascuno di essi dovette cercare di dimostrare che la sovranità di [p. 40 modifica]Roma spettava o all’imperatore od al senato od al pontefice; in conseguenza affine di meglio confutare quanto di erroneo ci pare di vedere in ciascheduno, dobbiamo toccare nuovamente questa materia, della quale abbiamo già avanti discusso.

Comincieremo adunque dal vedere sopra qual fondamento si appoggi l’opinione dell’autore che volle vedere a quest’epoca il senato e popolo romano signore di questo ducato. Questi è il celebre conte Carli sì benemerito della numismatica italiana12.

Il Carli crede che per causa dell’eresia degli iconoclasti promossa da Leone Isauro e da Costantino Copronimo, il popolo romano da essi si staccasse, e che cominciasse dall’eleggere dei duchi proprii nelle città della repubblica, e che intorno all’anno 728 avesse principio il riacquisto della sua libertà. Soggiunge poi che il senato ed il popolo ritornarono agli uffici antichi senza dipendere da alcuno, a sè restituendo tutta quella libertà che dai cesari loro era stata tolta, e confermata indi con giuramento da Carlo Magno e suoi successori prima d’essere incoronati; e che era il popolo che chiamavasi di S. Pietro come il Veneto dicevasi popolo di S. Marco, e conchiude dicendo che la zecca, per quanto gli sembra, non era nè dell’Imperatore, nè del Papa, ma del Senato di Roma, ad ambedue rispettivamente soggetto. Il che non corrisponderebbe a quanto prima afferma essere quel popolo indipendente.

Che Roma dal momento che veniva mancando l’autorità degli imperatori di Bisanzio riacquistasse libertà è certo, ma però prima sotto la protezione e poi sotto la dipendenza dei papi, e siccome il senato, cui credo fosse affidata l’amministrazione della città, sotto il dominio de’ Greci riceveva dai duchi la sua direzione, dopo dai pontefici dipendeva. Le parole del giuramento che dice dato da Carlo e suoi successori di conservare honorem et libertates urbis non si trovano punto osate al tempo dei Carolingi ma appartengono ad epoca posteriore, ed appunto Cencio Camerario che le riporta nel Cerimoniale Romanum da esso compilato, scriveva nei primi anni del sec. xiii. È probabile che la zecca pure amministrasse il senato, ma l’utile che ne ricavava ai papi rimettendo, non già che la dirigesse qual rappresentante il popolo romano, niente esistendo che possa lasciarlo solamente sospettare prima del secolo xii, quando il senato tentando di costituirsi indipendente coniò moneta a nome proprio, e le storie di questi tempi ci fanno conoscere a quale stato d’abbassamento questi tentativi d’indipendenza [p. 41 modifica]conducessero quella città, la quale in quei secoli non poteva fiorire che come sede del capo del cattolicismo.

In quanto alla Respublica Romanorum abbiamo già veduto che tal parola non aveva più l’antico significato, e che ora prendevasi per la popolazione di Roma anche dipendente dalla Chiesa, ed il paragone tra popolo di S. Pietro con quello di S. Marco non può sussistere, nulla essendovi di comune, e stando troppa distanza di tempo tra quello e questo.

Quest’opinione, lasciata in dubbio dallo stesso suo autore, dicendo che il senato era soggetto al papa ed all’imperatore, fu pure toccata dal Vitale13, che però crede che la potenza senatoria solamente si sviluppasse nei secoli posteriori, nei quali non trovansi più esistere monete di papi.

Vengo ora all’altro autore, cioè al Le Blanc14, il quale cercò di provare che il dominio di Roma spettava intieramente agl’imperatori franchi, appoggiandosi perciò sulle monete stesse dei papi perchè portavano anche di quelli il nome.

Comincia dal dare come favola la donazione di Costantino, indi prova il supremo dominio che vi avevano i suoi successori, poi i re Goti, indi gli imperatori bizantini sino a Carlo Magno. In fine dice come Pipino e Carlo, battuti i Longobardi ed impadronitisi de’ loro stati, donarono alla Chiesa Ravenna e la Pentapoli. Qui sta il primo errore, che, come già abbiamo veduto, prima di Carlo il dominio bizantino più non esisteva in Roma, e ad esso era subentrata l’autorità papale e non già per usurpazione, ma stante la noncuranza e l’abbandono nella quale questa provincia era lasciata dai Greci e la calda difesa e protezione che ne presero i papi, onde erano da tutti riguardati come padri, ad essi soli i popoli, nelle invasioni dei Longobardi, indirizzandosi per essere difesi ed aiutati.

Nel capo IV poi vuol provare che Carlo ancora prima di essere imperatore era assoluto signore di questa città, e che in conseguenza vi esercitava una piena autorità, vi regolava gli affari della santa sede, e che era in diritto di confermare l’elezione dei pontefici senza aver avuto bisogno di privilegio alcuno secondo esso per parte di Adriano.

Al che si può opporre che nè Pipino, nè Carlo Magno prima di essere imperatori non pretesero mai avere alcun diritto sopra Roma, come si può vedere negli scrittori contemporanei, e quando Carlo vi amministrò la giustizia [p. 42 modifica]lo fece, come si è già dimostrato, in qualità di patrizio, dignità conferita dal papa a Pipino ed a’ suoi figliuoli nel 75415, e che fu indi, in quanto a Carlo e suoi successori, estesa all’amministrazione della giustizia.

Un’altra cosa fa contro il Le Blanc circa a questa pretesa sovranità, ed è il leggersi sulle monete e negli atti d’Adriano dopo il 774 il solo suo nome, chè da quest’epoca i papi considerandosi come sovrani, e stimando vacante l’impero, non datarono i loro atti dagli anni del regno di alcun sovrano.

In nessun autore trovo che regolasse gli affari della santa sede, epperciò la riconosco per asserzione di nessun valore; in quanto poi al diritto di confermare l’elezione dei papi, ciò non trovasi preteso dagli imperatori Carolingi sino a quando Eugenio II loro lo concesse conoscendo la loro religione, affinchè impedissero che non venisse consecrato un papa simoniaco eletto dalle fazioni, come vedremo.

Indispettito che il pontefice di sua spontanea volontà avesse Carlo innalzato alla suprema dignità d’imperatore colle stesse parole da questo scritte pro stabilitate totius Imperii a Deo nobis commissi, voile dimostrare che ciò non riconosceva dal sommo pontefice, non accorgendosi che con esse dichiarava di tenere da Dio l’impero, che glielo diede per mezzo del suo vicario. Soggiunge che esso non fu che un vano titolo, non avendogli procurato un palmo di terra più di quel che possedeva, e cita, in proposito per dimostrar l’indifferenza di Carlo per l’impero, il passo d’Eginardo già riferito (pag. 38), il quale invece fu da questi scritto per dimostrare la somma sua modestia ed umiltà; si badi poi se in tal secolo, nel quale la dignità d’imperatore si considerava come di gran lunga superiore a tutti i re, fosse probabile che si tenesse in quel conto, che dimostra d’averla avuta il re franco il Le Blanc.

In ultimo cita un preteso decreto riferito da Graziano, secondo il quale Adriano ed un concilio romano diedero a Carlo il diritto di eleggere il papa e di regolare gli affari della sede apostolica, ma è inutile di esso discutere, dopo ch’è provato essere apocrifo.

Nel capo V riporta circa la conferma dell’elezione de’ papi quanto noi diciamo parlando di ciascheduno separatamente, però guardasi dal dire come questo diritto agli imperatori sia venuto, qual ne era lo scopo, e che se Eugenio ciò loro concesse, fu perchè conosceva la loro religione, e la necessità d’impedire coll’appoggio ed autorità di sì potenti principi cattolici, [p. 43 modifica]che nelle elezioni s’introducesse la simonia o le forzassero la potenza delle fazioni.

Lo stesso continua a trattare nel capo VI, indi riporta alcune monete di papi coi nomi anche degli imperatori Carolingi, soggiungendo che questi, oltre il far osservare in Roma le loro leggi, e di amministrare la giustizia, vollero anche che le monete fossero segnate col loro nome, come prima aveva detto che Carlo Magno ed i suoi successori a ciò obbligarono i papi quando loro diedero li stati che ora possedevano.

Quanto sia falso questo, lo prova l’esistenza delle monete d’Adriano, nelle quali il solo suo nome leggesi e lo stesso son certo debbasi trovare su quelle di Leone III anteriori all’801, quando venga fatto di scoprirne.

Omettendo di tenergli dietro nei capi VII ed VIII ne’ quali passa in rivista quanto può tornar utile al suo scopo nella vita di ciaschedun pontefice sino al secolo xii, ciò che vedremo di essi scrivendo, veniamo al capo IX ed ultimo della sua dissertazione, nel quale dice che due furono i patriziati di Carlo Magno, il primo da quando ne fu investito in compagnia del padre nel 754 sino al 774, ed il secondo da quest’anno, cioè quando si impossessò del regno de’ Longobardi, sino al suo impero.

In quanto al primo, abbiamo già veduto che finchè visse il padre fu esso che l’esercitò, e dopo la sua morte continuò egli esattamente ad usarne in nulla dal padre variando sino a che venne eletto imperatore.

Secondo il Le Blanc invece, questo secondo patriziato era dall’altro diverso, perchè solamente dal 774 usò ne’ suoi atti di tal titolo, però ciò dall’uso di diritti potrebbe provarsi, e questo non trovasi.

Per provare che Roma durante questo patriziato gli fu soggetta, adduce l’autorità di Paolo diacono cui fa dire che i Romani gli si sottomisero, e soggiunge che non potevano farne a meno, appartenendogli già per diritto di conquista, chè quando non li avesse soccorsi contro i Longobardi sarebbero immancabilmente sotto essi caduti, indi rapporta ciò che dice il Sigonio, cioè che allora essendo venuto a Roma fu dai principali della città decretato che fosse patrizio loro.

Primieramente non trovo negli scritti di Paolo ciò che gli fa dire; in secondo luogo non trovo che mai abbia conquistato i Romani, ed è ridicola la causa che dà per prova; infine la citazione del Sigonio autore del secolo xvi, che non prova punto quanto narra, a nulla vale.

Nemmeno vale la citazione della cronica d’Angoulemme, che i Romani elessero Carlo sibi advocatum S. Petri contra Reges Longobardorum, deinde [p. 44 modifica]sibi in patricium Romanorum, che abbiamo già veduto da varii contemporanei e migliori scrittori ciò essere avvenuto per parte dei papi, che questo autore confuse coi Romani.

Nulla infine diremo detta nuova citazione del decreto di Graziano che abbiamo già detto essere riconosciuto apocrifo.

Pel Le Blanc come per tutti quelli che scrissero circa il dominio dei papi furono sempre uno scoglio que’ famosi patti di Carlo Magno con Adriano I e Leone III, ma secondo le stesse parole di quel re già sopra da noi riportate erano ad patriciatus nostri firmitatem ...... sicuti cum praedecessore vestro sanctae paternitalis pactum inii, e da quanto consta dalli storici ad essi coevi e specialmente da Anastasio bibliotecario, non appare che vi fossero specificati oneri a carico dei papi, o diritti per parte di quel re, fuori dell’amministrazione della giustizia, anche come vedremo col concorso dei messi pontificii, e difesa de’ papi ed in conseguenza del popolo romano.

Quando poi Leone spontaneamente, e come per ricompensare il re Carlo dei tanti benefizii fatti alla Chiesa lo incorono imperatore, dignità a tutti i re superiore e che in que’ secoli sì immenso prestigio aveva, conservandogli l’avvocazia della Chiesa deve avergli di fatto accordate tutte quelle distinzioni ed onori che verso gli imperatori bizantini usavansi, e che a sì alto grado doveansi, e tra gli altri il datare dagli anni del suo impero tutti gli atti pubblici, ed il mettere sulle monete accanto al proprio il suo nome, però giammai in questo secolo troviamo che gli imperatori negli stati della Chiesa abbiano nominato duchi o governatori, o stabilito imposte, o fatto alcun atto sovrano nella sua amministrazione politica, come ora direbbesi, e finanziaria, onde non può stare il paragone che quest’autore fa della signoria de’ papi con quella dei duchi di Benevento, essendo questi pretti vassalli dei re d’Italia, che li destituivano quando loro piaceva, invece che i pontefici tutta la deferenza che dimostrarono per i Carolingi era per i benefizii da essi ricevuti e per averne l’assistenza quando ne abbisognavano, così vedremo che ad altri si rivolsero, quando si videro dagli imperatori abbandonati.

Se il Le Blanc tutta vuol dare ai re franchi la sovranità di Roma, un altro scrittore cadendo nell’estremo opposto volle fare i papi sovrani molto prima che realmente lo fossero, e loro dare ciò che mai ebbero.

Questi, che è l’Acami16, comincia dal far salire l’origine della zecca pontificia a Zaccaria, quando abbiamo veduto che non battè moneta, tessera essendo il pezzo che lui chiama denaro. [p. 45 modifica]

Per provare che già prima possedevano stati proprii, cita Paolo diacono dove dice che Ariperto restituì a S. Pietro Patrimonium Alpium Cottiarum, senza accorgersi che Patrimonio, pel quale si intendevano beni allodiali, non poteva prendersi per Provincia; inoltre senza conoscere il cambiamento avvenuto nel basso impero nella denominazione di alcune provincie d’Italia, crede che appunto vi s’intendino le valli dell’alpi già formanti il regno di Cozio, quando invece così chiamavasi quel tratto dell’Apennino che da Tortona estendevasi a Savona e Genova. Crede pure che avesse una vera sovranità sopra i quattro castelli presi alla Chiesa dai Longobardi, e per la restituzione dei quali Gregorio III scrisse ai vescovi della Toscana Suburbicaria, concludendo che perciò ben prima della donazione di Pipino, vi doveva avere il diritto di zecca, quando si sa che quanto prima possedevano sia nella Sabina, che nella provincia dell’alpi Cozie, nella Calabria e nella Sicilia, lo era in qualità privata, non già come sovrani.

Nel mentre poi che vuole attribuire ai pontefici cose che non avevano, non vuole denari papali li argenli solidorum CC romaninos denarios spendibiles citati in diploma di Lotario dell’84017, quando appunto dicono duecento soldi d’argento in denari romani spendibili, e questi erano di chi vi aveva zecca, così non comprese che per Monetan Romanam nominata cogli altri proventi del patrimonio di S. Pietro che Giovanni VIII nel concilio di Ravenna dell’877 rivendicava alla Chiesa s’intendeva l’utile che si ricavava dalla zecca di Roma.

Nel restante quest’autore, meno alcune esagerazioni, imprende a propugnare molti diritti che anche noi riconosciamo per legittimi, citando quelli autori, che noi pure nel seguito riferiremo.

Dopo esposto le opinioni de’ principali scrittori che trattarono del diritto ed origine della zecca pontificia, descrivo le monete che, per quanto è a mia conoscenza, sotto ciaschedun papa in essa si batterono coi nomi dei diversi imperatori loro contemporanei, cominciando da quelle di questo Leone.

Di queste, le tre prime (Tav. I, Ni 11, 12 e Tav. II, N° 1) sono simili nel tipo ma varianti un poco nel conio, e sopra di esse da una parte leggesi in giro CARLVS e nel campo in forma di monogramma le lettere IPA per Imperator colla varietà di tre quattro globetti attorno: dall’altra leggesi attorno al campo SCS PETRVS e nel mezzo pure in monogramma [p. 46 modifica]LEO PA per Papa, notando che dei tre tratti orizzontali necessari per formare la lettera E, in due pezzi manca il terzo inferiore.

Il peso è di grani 30 pel primo, 28 pel secondo e 31 pel terzo, e la bontà pare di argento fine.

Queste monete che non possono a meno di essere di Leone III, essendo il solo durante il cui pontificato abbia imperato un Carlo, devono essere state battute tra il gennaio dell’801 e quello dell’814, quando mancò di vita quest’imperatore.

Ci rimane a cercare, secondo quale legge esse siano state lavorate.

Nè pel tipo nè pel peso al sistema bizantino avvicinandosi, dovrebbero appartenere a quello de’ Franchi, e specialmente somigliare ai denari da Carlo Magno battuti ne’ suoi stati d’Italia, ed appunto vi troviamo con questi una grandissima analogia sia nella forma dei caratteri, che nella loro disposizione, e nel loro peso.

Ora ciò osservato, procuriamo di conoscere come sia questa legge. Abbiamo un capitolare di Pipino del 75618, nel quale leggesi: Constituimus ut amplius non habeat in libra pensante nisi xxii solidos, et de ipsis xxii solidis (monetarius) accipiat solidum unum, et illos alios domino cuius sunt reddat. Inoltre troviamo in capitolare di Carlo il Calvo dell’86419, che sebben posteriore, appare in questa parte copiato da altro non conosciuto di Carlo Magno, Ut in denariis novae nostras monetae ex una parte nomen nostrum habeatur in gyro, et in medio nostri nominis monogramma, ex altera vero parte nomen civitatis, et in medio crux habeatur.

Quest’ultimo riguarda solamente il tipo, e vediamo che i papi ad esso in parte vollero attenersi, ma l’altro stabilisce il peso di questi pezzi che i Franchi chiamarono denari, dodici de’ quali formavano il soldo convenzionale, e così essendo la libbra composta di 22 soldi, vuol dire che abbisognavano per formarne una 264 denari, de’ quali 12 ritenendo il zecchiere, gli altri dava a chi portava argento fine per ridurlo in menete.

Dico argento fine, non già che veramente fosse a 12 denari, ossia privo di qualunque lega, ma stante l’impossibilità nella quale allora erasi per portarlo a tal perfezione, come tale era convenuto riceversi quando conteneva solamente un ventiquattresimo di lega, cioè era a denari 11, 12.

In quanto alla libbra di Pipino, si sa essere stata la romana, che come [p. 47 modifica]abbiamo già veduto era di grani 6048, onde cadun pezzo riusciva del peso di grani 23 incirca.

Questa legge ebbe vigore sotto Carlo Magno sino incirca all’anno 80020, quando senza che sia a noi pervenuto il capitolare che arrecò tal variazione, Carlo fece lavorare nuovi denari, dei quali 240 ossia 20 soldi formavano la libbra, secondo abbiamo dall’anonimo agrimensore21 che visse nel secolo ix, e scrisse che tal legge fu in vigore sotto i primi imperatori Carolingi.

Questa libbra però non doveva più essere l’antica, trovando che Carlo Magno ne prescrisse una nuova librata pondere publico, quod Carolus Magnus instituerat come scrisse un altro autore quasi contemporaneo22, ma non essendo detto come all’altra corrispondesse, procureremo di conoscerlo dal peso stesso dei denari di Carlo e di Lodovico suo figliuolo.

Il Fossati23 avendo riconosciuto il peso di 236 denari di Lodovico il Pio, e vedendo che presane la comune davano il peso medio di circa 34 grani caduno, credette che tale dovesse essere il loro peso legale, ma se avesse osservato che almeno un centinaio pesava grani 32, peso che trovò il Guerard24 nel più gran numero dei denari di Carlo, e che riconobbi anch’io sopra una quantità di denari dei tre primi Carolingi delle zecche di Milano, Pavia e Trevigi, avrebbe trovato che la libbra nuova doveva essere di grani 7680, ossia di oncie 13.8 peso di Troyes.

Ora crediamo di poter dire che questa fosse la legge che regolava la monetazione di Roma sotto papa Leone III, non tenendo conto di uno o due grani che trovansi mancanti ne’ suoi denari, differenza soventi volte causata dall’esserei pezzi un po’ consumati, ed anche dalla tolleranza larga sempre in questi tempi, e sopratutto a quanto pare in questa zecca, dove, come vedremo, da’ suoi successori presto venne la moneta alterata.

Quello che non abbiamo potuto verificare è, se questo papa ed i primi che gli succedettero abbino anche coniato mezzi denari, come fecero i re franchi, tanto più che era assolutamente necessaria una moneta più minuta; io lo credo, e se nessuno sinora se ne conosce, l’attribuisco alla maggior [p. 48 modifica]facilità di essere stati consumati dall’ossido, visto quanto siano rari gli intieri doppi di grossezza, epperciò meno facili ad essere corrosi.

Dopo aver parlato dei denari che conosciamo effettivi di Leone e Carlo Magno, dobbiamo ancora riportarne un altro pure di questo papa datoci già dal Garampi25, sulla cui autenticità non può esser dubbio, che oltre il citare i musei d’onde trasse i pezzi che pubblicò, è abbastanza noto per la sua probità ed intelligenza.

Questo denaro (Tav. II, N.° 2) ha da una parte una figura in piedi, senza che si conosca se avesse corona in capo per essere in quella parte lisciò il pezzo, e tenente colla destra la spada e colla sinistra un oggetto che pare una lancia con fiamma, od un vessillo con attorno un giro di perle, e dall’altra SCS PETRVS con in mezzo un monogramma che il Garampi lesse IOPA, ciòè Johannes Papa. Però l’intagliatore del conio nella lettera P del monogramma lasciò la parte inferiore della curva alquanto aperta, aggiungendovi un tratto sporgente obbliquamente senza discernere cosa potesse essere.

Quando volle cercare che significasse tal figura, sospettò il nostro autore che appartenesse a Carlo Magno, avendo veduto nel Le Blanc26 un consimile pezzo, nel quale però questi aveva letto CAROL, lasciando dopo un vuoto per indicare che il seguito della leggenda mancava per essere guasto il pezzo, e nel monogramma chiaramente vide ROMA.

Il Vignoli27 che lo ripubblicò sulla di lui fede, compì di suo capriccio questa leggenda così: CAROLO R LEO PP, cioè Carolo Regi Leo Papa, le quali parole quantunque il Muratori riproducesse28, tuttavia gli parvero impossibili, e credette si dovesse leggere CAROLVS IMP AVG, ma quando fosse stato così senza il nome del papa, avrebbe tal pezzo appartenuto alla classe delle medaglie, come è effettivamente quella dallo stesso Le Blanc rappresentata sul frontispizio della detta sua dissertazione.

Si noti che quest’autore non conosceva i monogrammi papali, come egli stesso varie volte confessa, e prova della sua poca intelligenza in tal parte è che nemmeno seppe leggere i nomi de’ papi Gregorio IV e Benedetto III scritti con lettere distinte, onde si deve andar molto guardinghi nell’accettare per buone le leggende che ci dà di queste monete, vedendo inoltre che a caso classifica senza alcuna descrizione e quasi [p. 49 modifica]nemmeno parlandone, tra le monete di Carlo Magno, Lodovico e Lottario quelle dai papi battute coi loro nomi, attribuendo persino a Carlo Magno un denaro di Giovanni VIII vivente nell’880, e sul quale non è nominato l’imperatore.

Da questo vediamo qual fede si possa prestare al disegno del denaro in questione, sul quale lesse CAROL, quando sulle monete italiane di Carlo Magno mai trovasi la lettera O, usata solamente da Carlo il Grosso, epperciò assai dubito che essendo liscio nel contorno il suo pezzo, vista quella figura e tal rovescio, ne trasse partito al suo scopo, cioè di provare l’assoluto dominio di Carlo sopra di Roma.

L’Argelati29 riporta un pezzo che pretende lo stesso che quello del Le Blanc, e che dice esistere presso l’avvocato Custodi. Vi legge Carolus senza alcun titolo, e nel campo una V che spiega Vivat Carolus; ma il Carolus colla O allora non era usato, l’assenza de’ titoli cosa impossible, e il rovescio colla P aperta, che si vede copiato su quello del Garampi, quando l’altra del Le Blanc ha ROMA, mi fanno fortemente sospettare che il pezzo sia lo stesso del Garampi, o che ne sia stato alterato il disegno, epperciò credo di ommetterlo descrivendo le monete papali.

M’atterrò in conseguenza a quello del Garampi, il quale solamente si sbagliò nell’interpretare il monogramma, probabilmente per esser il denaro molto logoro, quantunque però vedesse che doveva esservi il nome d’un papa, ma quando meglio avesse esaminato la P, avrebbe osservato che il tratto della curva sporgente trovavasi pure sul monogramma dei denari di Leone III, così neppure vide il tratto che è attaccato all’estremità inferiore dell’asta che prese per una I, quando invece doveva avere la forma d’una L, ed allora riconoscendo che vi si leggeva LEO PA, si sarebbe rassicurato che la figura rappresentata era positivamente quella di Carlo Magno.

Nello stesso errore cadde il Vignoli30, che illustrando un denaro di Leone IV, non badò a questi tratti, onde fece disegnare le lettere IO PA, ma poi visto che il nome dell’imperatore era Lottario, regnando il quale non visse alcun papa Giovanni, senza badare a quanto sul disegno vedevasi, al detto Leone lo attribui.

Pubblicando perciò il denaro del Garampi, crediamo di dover rettificare le due lettere P ed I mal lette, e così ci resta un monogramma uguale a quelli degli altri denari di Leone III.

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Nessun dubbio che la figura rappresentata sia di Carlo messa a luogo del nome, e probabilmente fu coniato nell’occasione della solenne sua incoronazione, messigli in mano la spada ed il vessillo quale Tutor et Defensor Romanae Ecclesiae, come lui stesso intitolavasi.

Morto Carlo Magno nel gennaio dell’814, Leone il nome del suo successore mise sulle monete (Tav. II, N° 3) cioè LODOVVICVS e nel campo lo stesso monogramma usato dal padre, e conservando il primiero rovescio, così credo sia dello stesso peso degli altri, quanunque non lo abbia potuto verificare.

Prima di por termine alle monete di questo papa, crediamo di dover confutare l’attribuzione data da un moderno autor francese31 alla zecca di Roma di un denaro già però prima pubblicato dal Le Blanc32 sulla altrui fede.

Ha nel diritto il busto di Carlo laureato con attorno DN KARLVS IMP AVG REX F ET L, cioè Dominus noster Karlus Imperator Augustus Rex Francorum et Langobardorum, e nel rovescio un tempio simbolo della Chiesa, con attorno × PIANA RELIGIO. L’attribuisce esso decisamente a Roma, quando nessun denaro di tal zecca vi è che gli rassomigli, avendo sempre il nome de’ papi, invece che da Carlo Magno sino al secolo xiii moltissimi denari trovansi sia degli imperatori che dei re d’Italia con questo tipo, e se de’ Carolingi sovente con simil testa, i quali sinora non si possono classificare sotto alcuna zecca, ma che io credo siano stati battuti nel regno Longobardo, poichè di essi un buon numero appartiene a que’ re d’Italia che non furono imperatori, e regnando i quali i papi monete battevano in Roma col solo loro nome, onde probabilmente spettano alla classe de’ denari coniati in Palatio nostro, cioè Palatini, sui quali non mettevasi nome alcuno di città.

Note

  1. Pertz, ut supra. T. I. Annales Einhardi, pag. 183.
  2. Duschesne, Hirtoriae francorum scriptores. T. II, pag. 686.
  3. Annali, agli anni 795 e 796.
  4. Annali, all’anno 798.
  5. Vetera monumenta. Romae, 1747. Pars II, pag. 128 e Tav. XL.
  6. De basilica et patriarchio lateranensi. Romae, 1656, fol., pag. 334.
  7. Annales Lambeciani, Muratori, Rer. Ital. script. T. II. Pars II, col. 114.
  8. Rasponi, come sopra, pag. 142
  9. Oltraggio fatto a Leone III ed a Carlo Magno in un quadro. Roma, 1815. 4°
  10. Muratori, R. I. S. T. II, P. II, col. 115.
  11. Pertz, Scriptorum. T. II.
  12. Dell’istituzione delle zecche d’Italia. Mantova, 1754, pag. 131.
  13. Vitale, Storia diplomatica de’ senatori di Roma. Ib., 1791. V. II, 4°
  14. Dissertation historique sur quelques monnaies de Charlemagne, de Louis Debonnaire, de Lotaire et de leurs successeurs frappées dans Rome. Amsterdam, 1692. 4°
  15. Pertz, Script. T. 1. Annales Melenses, p. 332.
  16. Dell'origine ed antichità della zecca pontificia. Roma, 1752. 4°
  17. Muratori, Rerum italicarum scriptores. T. II, Pars II, col. 398.
  18. Pertz, Monumenta Germaniae historica. Legum. T. I, pag. 31.
  19. Idem, pag. 490.
  20. Guichard, Du sistème monétaire des Francs sous les deux premières races. Revue numismatique. Blois, 1837.
  21. Fossati, De ratione nummorum, ponderum et mensurarum in Gallis, sub primae et secundae stirpis Regibus. Atti della R. Accad. di Torino, Serie II, T. V.
  22. Chronica Slavorum, seu Annales Helmodii Presbyteri. Francofurti, 1581, pag. 119.
  23. Come sopra, pag. 80.
  24. Revue numismatique. Blois, 1837, pag. 415.
  25. De nummo argenteo Benedicti III. Romae, 1749, pag. 157
  26. Dissertation historique etc., pag. 21.
  27. Antiquiores pontificum romanorum denarii. Romae, 1734, pag. 19.
  28. Antiquitates Italicae medii aevi. T. II. Dissertatio XXVII. Romani Pontifices N° iv.
  29. De monetis Italiae dissertationes. Mediolani, 1750. T. III, pag. 63. Tav. I. Roma.
  30. Antiquiores pont. rom. denarii. Pag. 35.
  31. Combrouse, Atlas du catalogue des monnaies nationales de France. Paris, 1840. Tav. 162.
  32. Traité des monnaies de France. Pag. 102, N° 7.