Morgante maggiore/Canto decimoquarto

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Canto decimoquarto

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Canto decimoterzo Canto decimoquinto
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CANTO DECIMOQUARTO.




ARGOMENTO.

     Vergante frustator delle donzelle
Resta giù d’un balcon precipitato
Da Rinaldo, che fa cose più belle,
Dopo che tutto un regno ha battezzato.
Un esercito grande è sulle selle
Al soccorso d’Orlando destinato.
Col suo Rinaldo Luciana sciala,
E d’un bel padiglion te lo regala.


1 Padre del cielo, e re dell’universo,
     Sanza il qual non si muove in aria foglia,
     Non mi lasciar perduto ire a traverso,
     Mentre ch’ancora è pronta la mia voglia:
     Poi che tu m’hai cantando a verso a verso
     Condotto in sino al mezzo della soglia,
     Con la tua man mi guida a salvamento
     Insino al porto con tranquillo vento.

2 L’oste rispose: Chi la mia vendetta
     Facessi, adorerei sempre per santo.
     Disse Rinaldo: Domattina aspetta,
     E tutti a riposar ci andiamo intanto;
     Come fia giorno, i destrier nostri assetta,
     Vedrò s’io dico il vero, o s’io mi vanto.
     Così Rinaldo se n’andava a letto;
     E fece, e riuscigli un bel concetto.

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3 La mattina per tempo fu levato;
     L’oste i cavalli apparecchiati aveva,
     E da costor non volle esser pagato,
     Ma di sua povertà lor proffereva:
     Guata Rinaldo ed Ulivieri armato,
     E molta ammirazion seco prendeva,
     Chè gli pareva ognun fiero e gagliardo,
     E Vegliantin vagheggiava e Baiardo.

4 Rinaldo se n’andò verso il palazzo,
     Al re montava il baron valoroso:
     Era a vederlo tutto il popolazzo:
     Quivi sentiva un pianto doloroso
     Delle donzelle. Il re superbo e pazzo
     Vide costoro, e tutto disdegnoso:
     Chi siete voi, domandava Ulivieri,
     così presuntuosi cavalieri?

5 Rinaldo gli rispose: La risposta
     Farò io per costui che tu domandi.
     E poi che presso alla sedia s’accosta,
     Disse: Per certo di te fama spandi;
     Non so come il ciel facci tanta sosta,1
     Ch’a Belzebù giù in bocca non ti mandi;
     Della tua tirannia, can traditore,
     Dieci leghe lontan mi venne odore.

6 Era la sala piena di Pagani;
     Non gli rispose alcun, ch’avieno sdegno,
     E divorato l’arvien come cani
     Quel signor tristo, d’ogni morte degno:
     Rinaldo seguitò: Colle mie mani
     Per gastigarti sol, Vergante, vegno;
     Ciriffo sono, e per divino effetto
     Mi manda in questa parte Macometto.

7 Adultero, sfacciato, reo, ribaldo,
     Crudo tiranno, iniquo e scelerato,
     Nato di tristo, e di superchio caldo;
     Non può più il ciel patir tanto peccato,
     Nel qual tu se’ pure ostinato e saldo,
     Lussurioso, porco, svergognato,
     Poltron, gaglioffo, poltoniere e vile,
     Degno di star col ciacco nel porcile.

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8 Dunque tu porti in testa la corona?
     Va, mettiti una mitera,2 ghiottone,
     Nimico d’ogni legge giusta e buona,
     In odio a Dio, al mondo, alle persone;
     Ben verrà la saetta, quando e’ tuona;
     Perchè e’ non paghi il sabato Macone,
     E ’l fuoco eterno rigido e penace,3
     Lupo affamato, perfido e rapace.

9 Non pensi tu che in ciel sia più giustizia,
     Malfusso,4 ladro, strupatore e mecco5,
     Fornicator, uom pien d’ogni malizia,
     Ruffian, briccone, e sacrilego e becco?
     Non potrebbe scusar la tua tristizia
     D’una parola sol la voce d’Ecco:6
     Tener le nobil donne Saracine
     Virgini e ’ntatte per tue concubine!

10 E batterle ognidì sì aspramente!
     Ch’io non so a chi pietà non ne venissi,
     S’alcuna pur di lor non ti consente,
     E come il centro non s’apre e gli abissi.
     Vergante uscito parea della mente,
     Ognun tenea a Rinaldo gli occhi fissi,
     E dicean molti: Costui vien da cielo,
     Chè ciò che dice, ogni cosa è il Vangelo.

11 Non sapea che si dir Vergante; e tanto
     Multiplicò la furia e la tempesta,
     Che Rinaldo lo prese dall’un canto,
     E la corona gli strappò di testa,
     E tutto gli stracciò il reale ammanto:
     Ognuno stava a veder questa festa;
     Poi lo portò tra quella gente pazza,
     E d’un balcon lo gittò in sulla piazza.

12 Tutti color che l’avevon veduto,
     A gran furore sgomberan la sala,
     Dicendo: Da Macon questo è venuto!
     Beato a chi potè trovar la scala.
     Rinaldo, come savio uomo ed astuto,
     Che le parole e l’opere sue insala,7
     Subito andò dove le damigelle
     Avea sentite batter meschinelle,

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13 E vide ch’eran dispogliate ancora,
     E tutto il dosso vergheggiato avieno.
     Partissi, e del palagio usciva fora,
     E vide il popol d’allegrezza pieno,
     E come volentier ciascun l’onora,
     Che tutti reverenzia gli facieno;
     Ed accostossi ov’era alcun barone;
     Poi cominciò questa degna orazione.

14 Quel vero Dio, che fece prima Adamo,
     Poi pel peccato suo volle morire,
     Perchè allo ’nferno dannati savamo,
     E non si può con ragion contraddire
     (Benchè alcun Saracin mi fe richiamo
     Del vostro re), qui m’ha fatto venire,
     Per liberar non sol le figlie vostre,
     Ma perchè a gire a lui la via vi mostre.

15 La qual voi avete per certo smarrita
     Per lunghi tempi; e Macon falso e rio
     Conoscerete dopo la partita:
     Ma il mio Gesù benigno e giusto Dio
     Per la sua carità, ch’è infinita,
     Perchè egli è grazioso e santo e pio,
     Alluminar vi manda, e darvi segno
     Ch’alfin v’aspetta nel suo eterno regno.

16 Non ha voluto comportar l’oltraggio,
     Che vi faceva il signor vostro a torto;
     Questo esser debbe a ogni savio un saggio
     Di sua potenzia, poi ch’io l’ho qui morto
     Nella presenzia del suo baronaggio:
     Da Lui sol venne l’aiuto e ’l conforto,
     Lui mi diè forza che così facessi,
     E fe che ignun non si contrapponessi.

17 Lui vi spirò, potete intender certo,
     Ch’alla giustizia dar dovessi loco,
     Però che troppo l’aveva sofferto;
     Ed or per trarvi dell'eterno foco,
     Vuol ch’io vi mostri il vostro errore aperto,
     Nel qual cresciuti siete a poco a poco:
     Però tornate tutti al cristianesimo,
     Chè non si può in ciel ir sanza battesimo.

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18 Finite le parole, il popol tutto
     Cominciava a gridare a una voce:
     Sia benedetto chi il tiranno ha strutto,
     Ch’è stato a’ suoi suggetti tanto atroce;
     E poi che dè’ seguirne un maggior frutto,
     Adorianm tutti quel che morì in croce;
     Dicci il tuo nome, sol tutti preghiamo,
     E poi per le tue man ci battezziamo.

19 Chè poi che morto hai 'l traditor ribaldo,
     Vogliam, per sempiterna tua memoria
     Un simulacro farti d’oro saldo,
     Dove sia disegnata questa istoria.
     Rispose il prenze a tutti: Io son Rinaldo
     Da Montalban, che v’ho data vittoria,
     Ed or v’arreco l’ulivo e la pace
     Dal mio Gesù che d’adorar vi piace.

20 Allora il popol cominciò a gridare:
     Viva Rinaldo, e viva il tuo Gesue!
     Ognun qui t’ha sentito ricordare
     Già mille volte per le virtù tue.
     E così cominciava a battezzare
     Rinaldo alcun baron con le man sue;
     Ognuno a’ pie’ suoi ginocchion si getta,
     E ’l primo voleva esser per la fretta.

21 In pochi dì fur tutti battezzati.
     L’albergator, che ritenne costoro,
     Quanto poteva più gli ha ringraziati.
     Questa novella sentì il barbassoro,
     E gli altri che Rinaldo avea trovati;
     Alla città venien sanza dimoro;
     E ’l barbassoro avea nome Balante,
     E molto gaudio avea del re Vergante.

22 Or chi vedessi quelle damigelle
     Venirsi a battezzar divotamente,
     E quanto allegre parevano e belle,
     Di lor s’innamorrebbe certamente:
     Elle parien del ciel le prime stelle;
     Le madre, e’ padri, ognun n’era gaudente;
     Gran festa si facea per la cittade,
     E le castella e l’altre sue contrade.

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23 Il barbassoro della gran foresta
     Diceva al prenze: Quanto ti so grado,
     Ch’a quel ribaldo rompesti la testa!
     Sappi ch’io son di nobil parentado;
     Ogni cosa sia tuo ch’è in mia potesta.
     Dicea Rinaldo: Intender mi fia a grado,
     Questa città quanti uomini farebbe
     Da portare arme qual si converrebbe.

24 Rispose il barbassoro: Questa terra
     Ha sotto sè cinqu’altre gran cittate:
     Centomila Pagan faran da guerra,
     Sanza molte castella e le villate;
     Io so che la mia lingua in ciò non erra,
     Ma tu potrai veder le schiere armate.
     Rinaldo, udendo ciò che quel dicea,
     A Gesù Cristo grazia ne rendea.

25 E stettesi alcun giorno a riposare
     Rinaldo e’ suoi compagni allegramente;
     Il popol lo voleva incoronare,
     Ma Rinaldo non volle per niente,
     Dicendo: In libertà vi vo’ lasciare,
     E ’l signor vostro è Cristo onnipotente.
     Poi, quando un tratto vide tempo ed agio,
     Il popol ragunò tutto al palagio.

26 E ragunato, fece parlamento,
     E disse: Or che di voi fidar mi posso,
     Io vo’ che voi intendiate a compimento,
     Per che cagion di Parigi son mosso,
     E perch’io vivo nel cuor malcontento
     D’un peso che mi grava insino all’osso:
     L’Amostante di Persia ha imprigionato
     Il mio cugin ch’Orlando è nominato.

27 Vorrei che mi facessi compagnia,
     Tanto ch’Orlando mio si riavessi.
     Poi che finita fu la diceria,
     Fu commesso a Balante che dicessi,
     E che per parte della baronia
     Ciò che chiedea Rinaldo gli offeressi:
     Allor Balante ritto si levoe,
     E come savio a parlar comincioe.

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28 Rinaldo, poi che liberati ci hai
     Da Macon, da Vergante, e dallo ’nferno,
     Non pensi tu che noi siam tutti omai
     Sempre tuo’ servi e schiavi in sempiterno?
     Ciò che domandi, a tuo piacere arai,
     Ed ora e sempre, vivendo in eterno:
     Faccisi tosto come vuoi la ’mpresa,
     Chè di tal caso a tutti assai ne pesa.

29 Rinaldo ringraziava tutti quanti,
     E poi per tutti i paesi mandava
     Subitamente messaggieri e fanti,
     E molta gente tosto s’ordinava;
     Vennono a corte a Rinaldo davanti.
     In men d’un mese vi si raccozzava
     Novantamila cavalieri armati,
     E tutti in guerra ben disciplinati.

30 E poi vi venne due giganti fieri,
     Con diecimila armati in sull’arcione,
     In punto ben di ciò che fa mestieri,
     Che rinnegato avien tutti Macone,
     E servivon Rinaldo volentieri
     L’uno e l’altro gigante o torrione;
     De’ quali aveva l’un nome Corante,
     E l’altro s’appellava Liorgante.

31 Costui, che molto amò già il suo signore,
     Poi che vide Rinaldo che l’ha morto,
     Non potè far non si turbassi il core,
     E disse con Balante: E’ morì a torto;
     E perchè io fui suo amico e servidore,
     Malvolentier quest’oltraggio comporto,
     Nè posso far ch’io non ne pigli sdegno:
     Per la mia nuova fe’ con voi non vegno.

32 Disse Rinaldo: E’ sarà forse il vero,
     Che meco non verrai, come tu hai detto,
     E morto resterai, gigante fiero,
     Chè tu non credi in Cristo o in Macometto.
     Era il gigante superbo e leggiero,
     E disse: S’io ti piglio pel ciuffetto,
     Io ti farò sentir ch’io son gigante,
     E forse vendicato fia Vergante.

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33 La poca pazienzia s’accozzoe
     Di Rinaldo, e ’l gigante appunto bene:
     Rinaldo la sua spada fuor tiroe,
     Ed una punta crivellando viene;
     Tanto che in mezzo il petto gliel caccioe,
     E riuscì di drieto per le rene:
     Nè potè Liorgante alzar la mazza,
     Chè come un pollo morto giù stramazza;

34 E parve che cadessi una gran torre.
     La gente corse a sì fatto romore,
     E domandava ognun che quivi corre:
     Che vuol dir questo? e ’nteso poi il tenore,
     Dicevan tutti: E’ non vi si può apporre,
     Poi che Vergante amava il traditore,
     E dicea che fu a torto il dì ammazzato.
     Così Rinaldo assai fu commendato.

35 Poi col consiglio del savio Balante
     Rinaldo a Siragozza un messo manda
     A Luciana famosa e prestante,
     E quanto più potea si raccomanda
     Che venga presto con sue gente avante,
     E di tal cosa romor non ispanda;
     Che si ricordi quel ch’ella ha promesso.
     E in pochi giorni compariva il messo.

36 E Luciana il vide volentieri,
     E disse al padre quel che scrive il prenze;
     Disse Marsilio: Che i tuo’ cavalieri
     Tu metta in punto e tutte tue potenze,
     Ch’io arò sempre in tutti i miei pensieri
     Rinaldo nostro e sue magnificenze;
     Troppo mi piacquon l’opre sue leggiadre.
     E così in punto si misson le squadre.

37 Diceva Luciana: Io voglio ancora
     Che mi conceda che con essi vada,
     E se per me il tuo sangue non si onora,
     Non mi lasciar mai più portar la spada;
     Ma questa è quella volta che rinflora.8
     Disse Marsilio: Fa come t’aggrada,
     Pur che si faccia piacere a Rinaldo,
     Chè di servirlo son più di te caldo.

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38 Diceva la fanciulla a Balugante:
     O Balugante, io vo’ che meco vegna
     Con questa gente ch’io meno in Levante,
     Acciò che sia quest’opera più degna.
     Egli rispose: Pel mio Trivigante
     Volentier ne verrò sotto tua insegna.
     Così furno ordinati prestamente
     Ventimila a caval di buona gente.

39 Così la dama da Marsilione
     Si dipartì co’ cavalieri armati;
     E per insegna nel suo gonfalone
     Eron due cuori insieme incatenati;
     E portò seco un ricco padiglione,
     Del qual saranno assai maravigliati,
     Chè non si vide mai simile a quello,
     Tanto era lavorato, ricco e bello.

40 E ’n pochi giorni volava la fama
     Al prenze, come vien la damigella;
     Subitamente molti baron chiama,
     E fece i principal montare in sella,
     E così incontro n’andarno alla dama:
     Rinaldo, come appariva la stella,
     Dicea: Rinato è Cristo veramente,
     Ch'apparita è la stella in Oriente.

41 Giunse la donna, e ’n terra è dismontata;
     Della qual cosa Rinaldo si duole,
     Chè la sua gentilezza è superata;
     Dismonta presto, e con destre parole
     Si scusa, e parte9 la fanciulla guata,
     Come sta fissa l’aquila nel sole;
     E dèi pensar che la dama il saluta,
     E ch’e’ rispose: Tu sia ben venuta.

42 Rimontati a caval, tutti n’andorno
     Nella città con festa e con onore;
     E poi ch’al gran palagio dismontorno,
     Disse la dama: O mio caro signore,
     Io t’ho arrecato un padiglione adorno,
     Il qual sempre terrai per lo mio amore:
     Con le sue mani l’ha fatto Luciana,
     Contesto d’oro e seta soriana.

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43 E fecelo spiegare in sua presenzia.
     Quando Rinaldo il padiglion vedea,
     Maravigliossi di tanta eccellenzia,
     E disse: Certo, io non so qual Iddea
     Avessi fatto tal magnificenzia,
     Se fussi Palla. E grazia gli rendea,
     Dicendo: Per tuo amor tal padiglione
     Sempre terrò, chè così vuol ragione.

44 Egli era in questo modo divisato:
     In su la sala magna fu disteso,
     In quattro parte, ov’era figurato
     Quattro elementi;10 e ’l primo pare acceso,
     Ch’era per modo ad arte lavorato,
     Che si sare’ per vero foco inteso,
     Pien di faville e raggi fiammeggianti,
     Ch’ognuno abbaglia che gli sta davanti.

45 Quivi eran certi carbonchi e rubini,
     Che campeggiavan ben con quel colore,
     Certi balasci e granati sì fini,
     Che in ogni parte rendeva splendore:
     Quivi eran Cherubini e Serafini,
     Come è nel foco dello eterno amore:
     Quivi è la salamandra11 ancor nel foco,
     Che si godea contenta in festa e ’n gioco.

46 Nella seconda parte è l’aer puro,
     Azzurro tutto, e ’l ciel con ogni stella,
     La Luna, e ’l Sole, e Venere, e Mercuro,
     E Giove appresso, e Vulcan che martella;
     Saturno e Marte in aspetto più duro,
     Dodici segni, ed ogni cosa bella,
     Che tutto non è tempo a raccontare;
     Poi gli uccei sotto si vedean volare.

47 L’aquila in alto con sue rote andava
     Guardando fiso il Sol, com’ella è avvezza,
     Tanto che ’l Sol le penne gli abbruciava,
     E rovinava in mar giù dell’altezza;
     Quivi di nuove penne s’adornava,
     E riprendeva poi sua giovinezza:
     E la nuova fenice, come suole,
     Portava il nido alla casa del sole.

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48 Ed avea tolto incenso e mirra prima,
     E cassia e nardo, e balsamo, ed amomo,
     Ed arsa, e poi rinata in sulla cima.
     Quivi è il falcon salvatico, e quel domo,
     E l’un par che colombi molto opprima,
     E l’altro fa con l’aghiron giù il tomo.
     Quivi è l’astor, col fagiano, e ’l terzuolo,
     Che drieto alla pernice studia il volo.

49 Quivi era lo sparvier, quivi la gazza,
     Che par che si volessi inalberare,
     E mentre che fuggia, forte schiamazza;
     Quivi è la lodoletta a volteggiare,
     E drieto il suo nimico che l’ammazza;
     E lo smeriglio si vede squillare
     Di cielo in terra, e la rondine ha innanzi,
     E par che l’uno all’altro poco avanzi.

50 Quivi si vede i grù volare a schiera,
     E quel che va dinanzi par che gridi;
     E l’oche han fatto alla fila bandiera,
     E come questi par che l’una guidi:
     Quivi è la tortoletta a primavera,
     E par che in verdi rami non s’annidi,
     Più non s’allegri, e più non s’accompagni,
     E sol nell’acqua torbida si bagni.

51 Quivi si cava il pellican del petto
     Il sangue, e rende la vita a’ suoi figli:
     Evvi lo stando e la starna in sospetto,
     Ch’ogni uccel che la vede non la pigli;
     E ’l nibbio si vagheggia a suo diletto,
     A ogni mosca chiudendo gli artigli;
     E gira l’avoltoio, e l’abuzzago;
     E ’l gheppio molto del vento par vago.

52 Ed anco il milion si va aggirando,
     E la ghiandaia va faccendo festa,
     E la gazza marina vien gridando,
     E scende in basso con molta tempesta;
     E la cutretta la coda menando
     Si vede, e rizza l’upupa la cresta;
     Quivi si pasce di sogni il moscardo,
     Perch’e’ non è come il fratel gagliardo.

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53 Il picchio v’era, e va volando a scosse,
     Che ’l comperò tre lire e poco un besso;12
     Perchè e’ pensò ch’un pappagallo fosse,
     Mandollo a Corsignan, poi non fu desso;
     Tanto che Siena ha ancor le gote rosse:
     Quivi è il rigogoletto, e ’l fico appresso;
     E ’l pappagallo, quel che è da dovero,
     E il verde, e ’l rosso, e ’l bigio, e ’l bianco e ’l nero.

54 Gli stornelletti in frotta se ne vanno,
     E tutti quanti in becco hanno l’uliva;
     Le mulacchie un tumulto in aria fanno:
     La passer v’è maliziosa e cattiva,
     E par sol si diletti di far danno;
     E ’l corbo come già dell’arca usciva;
     Evvi il fatappio, ed evvi la cornacchia,
     Che garre drieto agli altri uccelli e gracchia.

55 Quivi superbo si mostra il pagone,
     E grida come gli occhi in terra abbassa,
     Garzetto, e l’anitrella, e ’l grande ocione,
     Quivi la quaglia, che pareva lassa,
     Volando d’una in altra regione;
     Quivi è l’oca marina che ’l mar passa;
     L’anitra bianca, e ’l maragon calarsi,
     Parea che in giù volassin per tuffarsi.

56 L’acceggia, la cicogna, e ’l pagolino,
     La gallinella con variate piume,
     L’uccel santamaria v’era, e ’l piombino;
     E ’l bianco cigno, che dorme in sul fiume,
     Parea che fussi alla morte vicino,
     Però cantassi come è suo costume:
     Quivi col gozzo e col gran becco aguzzo
     Si vedea l’anitroccolo, e lo struzzo;

57 Barattole, germani, e farciglioni,
     Altri uccei d’acqua, non saprei dir tanti;
     Certi ugelletti che si dice alcioni,
     Che fanno al mar sentir lor nidi e canti;
     Altri uccellacci chiamati griccioni:
     Lungo sarebbe a contar tutti quanti,
     Che stan per fiumi, per paduli e laghi,
     Perchè de’ pesci e dell’acqua son vaghi.

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58 E ’l marin tordo, ’l bottaccio, e ’l sassello,
     La merla nera e la merla acquaiuola,
     Poi la tordella, e ’l frusone, e ’l fanello,
     E il lusignuol c’ha sì dolce la gola;
     Il zigolo, il bravieri, e ’l montanello,
     Avelia, e capitorza, e sepaiuola,
     Pincione, e niteragno, e pettirosso,
     Il raperugiol che mai intender posso.

59 Quivi era calandra, e ’l calderino
     Il monaco, che è tutto rosso e nero,
     E ’l calenzuol dorato, e il lucherino
     E l’ortolano; e ’l beccafico vero,
     Insino al re delle siepe piccino,
     La cingallegra, il luì, il capinero,
     Pispola, codirosso, e codilungo,
     E uno uccel che suol beccare il fungo.

60 Rondoni e balestrucci eran per l’aria;
     Poi in altra parte si vedea soletta
     La passera penserosa e solitaria,
     Che sol con seco starsi si diletta,
     A tutte l’altre nature contraria:
     Evvi il cuculio con sua malizietta,
     Che mette l’uova sue drento alla buca
     Della sua balia, che è detta curuca.

61 Il pipistrello faceva stran volo;
     E degli uccei notturni sbandeggiati
     L’allocco, il barbagianni, e l’assiuolo,
     Civetta, e gufo, e gli altri sventurati:
     Non ne mancava al padiglione un solo,
     Di que’ che fur nell’arca numerati:
     Ultimamente v’è il cameleone,
     Bench’alcun dice vi fussi il grifone.

62 Vedeasi in mezzo rilucente e bella
     Nella sua sedia Giunon coronata,
     E Deiopeia13 e l’altre intorno a quella,
     E molto dalle ninfe era onorata.
     Eol parea che tentassi procella,
     E che picchiassi la porta serrata,
     E Noto ed Aquilon già fuori usciéno,
     Ed Orion d’ogni tempesta pieno.

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63 Poi si vedeva Dedalo, che ’l figlio
     Avea smarrito, e batteasi la fronte,
     Chè non credette al suo savio consiglio;
     Vedesi il carro abandonar Fetonte,
     E ’l fero scorpio mostrargli l’artiglio,
     E com’e’ par che in basso giù dismonte,
     E la terra apre per l’ardor la bocca,
     E Giove il fulminava della ròcca.

64 La terza parte è figurata al mare:
     Quivi si vede scoprir la balena,
     E far talvolta navili affondare,
     E dolcemente cantar la serena,
     Che i naviganti ha fatti addormentare:
     Il delfin v’è14 che mostrava la schiena,
     E par ch’a’ marinai con questo insegni,
     Che si provegghin di salvar lor legni.

65 Il marin vecchio fuor dell’acqua uscia,
     E ’l pesce rondin si vedea volare,
     Ma il pesce tordo così non facia:
     Vedeasi il cancro l’ostrica ingannare,
     E come il fuscelletto in bocca avia,
     E poi che quella vedeva allargare,
     E’ lo metteva nel fesso del guscio,
     E poi v’entrava a mangiarla per l’uscio.

66 Raggiata e rombo, occhiata e pesce cane;
     La triglia, il ragno, il corvallo e ’l salmone;
     Lo scorpio colle punte aspre e villane;
     Ligusta e soglia, orata e storione;
     E ’l polpo colle membra così strane,
     E ’l muggin colla trota e col carpione;
     Gambero, e nicchio, e calcinello, e seppia,
     E sgombero, e morena, e scarza, e cheppia.

67 E tonni si vedien pigliare a schiere,
     E cornioletti, e lamprede, e sardelle
     Ed altri pesci di tante maniere,
     Che dir non puossi con cento favelle,
     Per fiumi, e laghi, e diverse peschiere,
     Però che son più i pesci che le stelle:
     Anguille, e lucci, e tinche, e pesci persi,
     Pensa che quivi potevon vedersi.

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68 E che vi fussi boncio, e barbio, e lasca.
     Alefe finalmente v’era scorto,
     E come sol dell’acqua quel si pasca,
     E tratto fuor di quella parea morto;
     Vedevasi la manna che giù casca,
     E ’l pesce per pigliarla stare accorto,
     E come il pescator molto s’affanni
     Con rete ed esca, e con mille altri inganni.

69 Poi si vedea Nettunno col tridente
     Guardar con atti ammirativi e schifi,
     Quando prima Argo nel suo regno sente,15
     Che lo voleva a Colchi guidar Tifi;
     Scilla abbaiar si sentia crudelmente,
     E i mostri suoi digrignavano i grifi;
     Vedeasi Teti, e vedevasi Ulisse
     Come più là che i segni d’Ercol gisse.

70 Cimoto16 e Triton placar la tempesta,
     Glauco17 poi si vedeva ondeggiare;
     Esaco18 afflitto con molta molesta
     Cercando Esperia ancor sott’acqua andare;
     Talvolta Galatea fuor trar la testa
     Che fe già Polifemo innamorare:
     Notavan per lo mar con ambo mane,
     Converse in ninfe, le nave troiane.

71 Poi si vedeva nave in quantitate
     Gir sopra l’acqua, e molti legni strani,
     Balenier, grippi, e galeazze armate
     E brigantin, carovelle e marrani,
     Liuti, saettie, gonde spalmate;
     E sopra fuste menarsi le mani;
     Battelli, e paliscarmi, e schifi, e barche
     D’uomini e merce e varie cose carche.

72 L’ultima parte toccava alla terra:
     Quivi si vede tutte l’erbe e piante,
     E come il globo si ristringe e serra,
     E le città famose tutte quante,
     E gli animali, e come ciascuno erra
     Chi qua chi là per Ponente e Levante,
     Per Mezzogiorno, e chi per Tramontana,
     Ogni fera domestica e silvana.

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73 Il liofante parea molto grande,
     Calloso e nero e dinanzi d’un pezzo,
     E come quegli orecchi larghi spande,
     E stende il grifo lungo, ch’egli ha vezzo
     Pigliar con esso tutte le vivande.
     E nol potea toccar se non un ghezzo;19
     Fuor della bocca gli uscivan due zanne,
     Ch’eron d’avorio, e lunghe ben sei spanne.

74 Evvi il leone, e ’l dippo gli va drieto,
     Evvi il caval famoso sanza freno,
     E l’asinello e ’l bue sì mansueto,
     E ’l mul che tutto par di vizj pieno;
     Vedevasi il castor molto discreto,20
     Che de’ suoi danni eletto aveva il meno,
     E strappasi le membra genitale,
     Veggendo il cacciator, per manco male.

75 Il leopardo pareva sdegnato,
     Perchè e’ non prese in tre salti la preda;
     E ’l liocorno21 è in grembo addormentato
     D’una fanciulla, e par ch’egli conceda
     Esser da questa tocco e pettinato;
     Ma non si fidi all’acqua, e non gli creda
     Se non vi mette il corno prima drento,
     E se quel suda sta a vedere attento.

76 Tutto bizzarro e pien di furia l’orso;
     E ’l lupo fuor del bosco svergognato,
     Gridato dalla gente e da’ can morso;
     E ’l porco che nel fango è imbrodolato;
     Quivi era il cavriuol che molto ha corso,
     E poi s’è posto a ber tutto affannato;
     E ’l cervio, che ’l pastor che canta aspetta,
     Insin che l’altro intanto lo saetta.

77 E ’l bufol che ne va preso pel naso,
     E la capretta e l’umil pecorella,
     Ch’avea le poppe munte e ’l dosso raso;
     La lepre paurosa e meschinella
     Par che si fugga, temendo ogni caso;
     Quivi era il dromedario, e la cammella,
     Che con lo scrigno mansueta e doma
     Lasciava ginocchion porsi la soma.

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78 La volpe maliziosa era a vedere,
     E ’l can pareva fedele e leale;
     Èvvi il coniglio, e scherza a suo piacere;
     Molto sentacchio pareva il cignale;
     Poi si vedeva la damma e ’l cerviere,
     Che drieto al monte scorgea l’animale;
     Quivi era il tasso porco e ’l tasso cane,
     Che si dormien per le lor buche o tane.

79 E lo spinoso, e l’istrice pennuto,
     E sopra il bucolin del topo il gatto
     Con molta pazienza, come astuto,
     Tanto che netto riuscissi il tratto;
     Bevero, e ’l ghir sonnolente e perduto;
     E puzzola, e faina, e lo scoiatto:
     Evvi la lontra, e va cercando il pesce,
     Ed or sott’acqua ed or sopra riesce.

80 Gatto mammon, bertuccia, e babbuino,
     Mufo, camoscio, moscado, e zibbetto,
     La donnoletta, e ’l pulito ermellino
     Che parea tutto bianco e puro e netto;
     La martora si sta col zibellino;
     Eravi il vaio, e stavasi soletto:
     E molto bello e candido il lattizio;
     Ed altre fiere poi, piene di vizio.

81 La lonza maculata, e la pantera,
     E ’l draco ch’avea morto il liofante,
     E nel cadergli addosso quella fera
     Aveva ucciso lui, come ignorante,
     Che del futuro accorto già non s’era;
     Evvi il serpente superbo, arrogante,
     Che fiammeggiava fuoco per la bocca,
     E col suo fiato attosca ciò che tocca.

82 E ’l coccodrillo avea l’uom prima morto,
     Poi lo piangeva, pien d’inganni e froda;
     E ’l tir, ch’avea lo ’ncantatore scorto,
     Acciò che le parole sue non oda,
     Aveva l’uno orecchio in terra porto,
     E l’altro s’ha turato colla coda:
     Poi si vedea col fero sguardo e fischio
     Uccider chi il guardava il bavalischio.

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83 Con sette capi l’idra, e la cerastra,
     La vipera scoppiar nel partorire;
     La serpe si vedea prudente e mastra
     Tra sasso e sasso della scoglia uscire;
     L’aspido sordo, freddo più che lastra,
     Che con la coda voleva ferire;
     La biscia, la cicigna, e poi il ramarro,
     E molti altri serpenti ch’io non narro.

84 Ienna vediesi della sepultura
     Cavare i morti rigida e feroce,
     La qual si dice, che v’ha posto cura,
     Ch’ella sa contraffar l’umana voce;
     La cientro colla faccia orrida e scura,
     E iacul tanto nel corso veloce,
     E la farea crudel che per Libia erra:
     L’ultima cosa è la talpa sotterra.

85 Poi si vedeva andar pel mondo errando
     Ceres dolente, misera e meschina,
     E in ogni parte venia domandando,
     S’alcun veduto avessi Proserpina;
     Dicendo: Io l’ho perduta, e non so quando.
     E la fanciulla bella e peregrina
     Vedevasi di rose e violette
     Contesser vaghe e gentil grillandette;

86 Poi si vedea Pluton, che la rapia.
     E così stava il padiglione adorno;
     I carbonchi e le gemme, ch’egli avia,
     Facean d’oscura notte parer giorno,
     Tal che sì bel mai più vide Soria:
     Trecento passi o più girava intorno,
     Le corde aveva e gli altri fornimenti
     Di seta e d’oro, e più che ’l Sol lucenti.

87 Non si potea saziar di mirar fiso
     Rinaldo il padiglion; poi disse: Certo
     Questo fe Luciana in paradiso,
     Non fu già Filomena in un deserto:
     Nè mai sarà il mio cor da lei diviso,
     E so che per me stesso ciò non merto;
     Ma minor dono e di manco eccellenzia
     Non si conviene a tua magnificenzia.

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88 Questo sempre terrò per lo tuo amore
     Questo terrò sopra ogni cosa degno,
     Questo terrò con singulare onore,
     Questo terrò di tue virtù per segno;
     Questo terrò ch’albergherà il mio core,
     Questo terrò, perchè del tuo sia il pegno;
     Questo terrò vivendo in sempiterno,
     Questo terrò poi in cielo o nello inferno.

89 Disse la dama: Ascolta quel ch’io dico;
     Io ti vorrei poter donare il sole,
     E non sare’ bastante a tanto amico;
     Il tuo cor generoso, come suole,
     Si mostra pur magnalmo22 al modo antico.
     Ma intender chi l’ha fatto, il ver si vuole:
     S’io dissi Luciana, io presi errore:
     Con le sue proprie man l’ha fatto Amore.

90 Or qual sare’ quel cor qui d’adamante,
     Di porfiro o diaspro o altra petra,
     Che non s’aprissi, e mutassi sembiante?
     E’ traboccò giù l’arco e la faretra,
     E le saette d’Amor tutte quante.
     Volea pur dir, ma la voce s’arretra,
     Rinaldo qualche cosa alla donzella,
     Ma non potè, chè manca la favella.

91 Ben s’accorse colei, che era pur saggia,
     Che per soperchio amor non rispondessi;
     E disse: Sare’ io tanto selvaggia,
     Ch’a così degno amante non piacessi,
     Purchè mai tempo e luogo e modo accaggia?
     E qual sare’ colei che nol facessi,
     Salvando sempre e l’onore e la fama?
     E ’ngrato è quel che non ama chi l’ama.

92 Rinaldo ringraziò pur finalmente
     Delle parole grate ch’avea dette
     Ultimamente la donna piacente,
     Bench’egli avessi al cor mille saette.
     Fu commendato da tutta la gente
     Il padiglione, e ’n camera si mette;
     E cominciossi a trattar molte cose
     Che fien nell’altro dir maravigliose.

Note

  1. [p. 319 modifica]facci tanta sosta. Indugi cotanto.
  2. [p. 319 modifica]mitera. Quel berrettone di foglio che ponevasi anticamente in testa a’ condannati alla frusta, asino, o berlina.
  3. [p. 319 modifica]penace. Che dà pena.
  4. [p. 319 modifica]Malfusso. Il Vocabolario non ha questa voce. Credo sia formata, per ischerzo, da malo e fuso, quasi dicesse malvagio fuso, appropriato ad uomo per la sua struttura che ha una certa similitudine con quell’istrumento lungo e diritto, e alquanto corpacciuto nel mezzo, che si chiama fuso; e fuso si dice similmente del fusto di una colonna, o simile cosa.
  5. [p. 319 modifica]mecco. Adultero, dal latino mœchus.
  6. [p. 319 modifica]Ecco. Eco, ninfa figliuola dell’aria e della terra. Avendo imprudentemente sparlato di Giunone, fu da quella obbligata a non dover se non ripetere le ultime sillabe di quei che la interrogavano. Spregiata da Narciso, si ritrasse ad abitar per selve e montagne, finchè per lungo piangere disseccata, rimase conversa in rupe. Vedi Metamorfosi, Libro III.
  7. [p. 319 modifica]insala. Acconcia con buon modo e accortamente.
  8. [p. 319 modifica]rinflora. Rifiorisce: intendi l’onore del sangue, cioè della schiatta di Marsilio.
  9. [p. 319 modifica]e parte. E insiememente, nel medesimo tempo.
  10. [p. 319 modifica]Quattro elementi. Credevasi in antico che gli elementi di tutte le cose fossero quattro: aria, acqua, terra e fuoco.
  11. [p. 319 modifica]salamandra. Specie di lucertola simile al ramarro, pezzata di nero e di giallo, alla quale è stata dagli antichi attribuita la proprietà di vivere in mezzo alle fiamme.
  12. [p. 319 modifica]besso. Sciocco.
  13. [p. 319 modifica]Deiopeia. Una delle quattordici Ninfe che accompagnavano Giunone. Fu da questa dea promessa in moglie a Eolo, se egli avesse distrutta la flotta d’Enea. (Virgilio, Eneide, Libro I.) Era figliuola di Nereo e di Dori.
  14. [p. 319 modifica]Il delfin v’è ec. Imitazione dantesca:

    Come i delfini, quando fanno sogno,
    A’ marinar con l’arco della schiena
    Che s’argomentin di campar lor legno.
                        Inferno. XXII.

  15. [p. 319 modifica]Quando prima Argo. La nave degli Argonauti, nocchiero della quale era Tifi.
  16. [p. 319 modifica]Cimoto. Cimotoe figliuola di Nereo e di Dori. Il suo nome significa corso de’ flutti.
  17. [p. 319 modifica]Glauco. Divinità marittima; in origine pescatore di Antedone nella Beozia.
  18. [p. 319 modifica]Esaco. Figliuolo di Priamo e di Aresbe o della ninfa Alixotoe. Innamorato della ninfa Espera, fuggì di Troja con essa, la quale essendogli morta del morso di un serpente, fu preso da tanto dolore che gittossi nel mare; ma Teti, rattenendolo a mezzo della caduta, lo trasformò in uno smergo. Dotto nell’interpetrare i sogni, allorchè Ecuba sua matrigna essendo gravida di Paride sognò di partorire una fiaccola che tutta Troja incendiava, le predisse come quel figliuolo che doveva nascer di lei, avrebbe arrecato l’eccidio a quella città. Ovidio, Metamorfosi, Libro XI.
  19. [p. 319 modifica]ghezzo. Ghezzo significa propriamente nero, da niger, nigri, nigricius, negricius, negrezzo, grezzo, ghezzo. Così il Menagio. S’adopera anche, come in questo luogo, per indicare i popoli detti Mori, de’ quali si dice anche i Negri, i Mori.
  20. [p. 319 modifica]Vedevasi il castor ec. È usanza di questo animale che quando si vede inseguito dal cacciatore, si strappa coi denti i testicoli, quasi sapesse che solo per ottener l’umore in essi racchiuso (che è il muschio) il cacciator lo persegue.
  21. [p. 319 modifica]E ’l liocorno. Unicorno; animale che ha un sol corno e dritto in fronte. Credevasi che ei si prendesse assai diletto delle donzelle vergini, e che nelle braccia di quelle si addormentasse, dove agevolmente i cacciatori così addormentato pigliavanlo. Vedi Plinio e altri, e le Opere diverse di Francesco Sacchetti. I Greci lo chiamavano con egual nome μονόκερως.
  22. [p. 319 modifica]magnalmo. Magnanimo.