Orlando furioso (1928)/Canto 5

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Canto quinto

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Canto 4 Canto 6

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CANTO QUINTO

1
     Tutti gli altri animai che sono in terra,
o che vivon quïeti e stanno in pace,
o se vengono a rissa e si fan guerra,
alla femina il maschio non la face:
l’orsa con l’orso al bosco sicura erra,
la leonessa appresso il leon giace;
col lupo vive la lupa sicura,
né la iuvenca ha del torel paura.

2
     Ch’abominevol peste, che Megera
è venuta a turbar gli umani petti?
che si sente il marito e la mogliera
sempre garrir d’ingiurïosi detti,
stracciar la faccia e far livida e nera,
bagnar di pianto i genïali letti;
e non di pianto sol, ma alcuna volta
di sangue gli ha bagnati l’ira stolta.

3
     Parmi non sol gran mal, ma che l’uom faccia
contra natura e sia di Dio ribello,
che s’induce a percuotere la faccia
di bella donna, o romperle un capello:
ma chi le dá veneno, o chi le caccia
l’alma del corpo con laccio o coltello,
ch’uomo sia quel non crederò in eterno,
ma in vista umana un spirto de l’inferno.

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4
     Cotali esser doveano i duo ladroni
che Rinaldo cacciò da la donzella,
da lor condotta in quei scuri valloni
perché non se n’udisse piú novella.
Io lasciai ch’ella render le cagioni
s’apparechiava di sua sorte fella
al paladin, che le fu buono amico:
or, seguendo l’istoria, cosí dico.

5
     La donna incominciò: — Tu intenderai
la maggior crudeltade e la piú espressa,
ch’in Tebe o in Argo o ch’in Micene mai,
o in loco piú crudel fosse commessa.
E se rotando il sole i chiari rai,
qui men ch’all’altre region s’appressa,
credo ch’a noi malvolentieri arrivi,
perché veder sí crudel gente schivi.

6
     Ch’agli nemici gli uomini sien crudi,
in ogni etá se n’è veduto esempio;
ma dar la morte a chi procuri e studi
il tuo ben sempre, è troppo ingiusto et empio.
E acciò che meglio il vero io ti denudi,
perché costor volessero far scempio
degli anni verdi miei contra ragione,
ti dirò da principio ogni cagione.

7
     Voglio che sappi, signor mio, ch’essendo
tenera ancora, alli servigi venni
de la figlia del re, con cui crescendo,
buon luogo in corte et onorato tenni.
Crudele Amore, al mio stato invidendo,
fe’ che seguace, ahi lassa! gli divenni:
fe’ d’ogni cavallier, d’ogni donzello
parermi il duca d’Albania piú bello.

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8
     Perché egli mostrò amarmi piú che molto,
io ad amar lui con tutto il cor mi mossi.
Ben s’ode il ragionar, si vede il volto,
ma dentro il petto mal giudicar possi.
Credendo, amando, non cessai che tolto
l’ebbi nel letto, e non guardai ch’io fossi
di tutte le real camere in quella
che piú secreta avea Ginevra bella;

9
     dove tenea le sue cose piú care,
e dove le piú volte ella dormia.
Si può di quella in s’un verrone entrare,
che fuor del muro al discoperto uscía.
Io facea il mio amator quivi montare;
e la scala di corde onde salia,
io stessa dal verron giú gli mandai
qual volta meco aver lo desïai:

10
     che tante volte ve lo fei venire,
quanto Ginevra me ne diede l’agio,
che solea mutar letto, or per fuggire
il tempo ardente, or il brumal malvagio.
Non fu veduto d’alcun mai salire;
però che quella parte del palagio
risponde verso alcune case rotte,
dove nessun mai passa o giorno o notte.

11
     Continuò per molti giorni e mesi
tra noi secreto l’amoroso gioco:
sempre crebbe l’amore; e sí m’accesi,
che tutta dentro io mi sentia di foco:
e cieca ne fui sí, ch’io non compresi
ch’egli fingeva molto, e amava poco;
ancor che li suo’ inganni discoperti
esser doveanmi a mille segni certi.

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12
     Dopo alcun dí si mostrò nuovo amante
de la bella Ginevra. Io non so appunto
s’allora cominciasse, o pur inante
de l’amor mio, n’avesse il cor giá punto.
Vedi s’in me venuto era arrogante,
s’imperio nel mio cor s’aveva assunto;
che mi scoperse, e non ebbe rossore
chiedermi aiuto in questo nuovo amore.

13
     Ben mi dicea ch’uguale al mio non era,
né vero amor quel ch’egli avea a costei;
ma simulando esserne acceso, spera
celebrarne i legitimi imenei.
Dal re ottenerla fia cosa leggiera,
qualor vi sia la volontá di lei;
che di sangue e di stato in tutto il regno
non era, dopo il re, di lu’ il piú degno.

14
     Mi persuade, se per opra mia
potesse al suo signor genero farsi
(che veder posso che se n’alzeria
a quanto presso al re possa uomo alzarsi),
che me n’avria bon merto, e non saria
mai tanto beneficio per scordarsi;
e ch’alla moglie e ch’ad ogn’altro inante
mi porrebbe egli in sempre essermi amante.

15
     Io, ch’era tutta a satisfargli intenta,
né seppi o volsi contradirgli mai,
e sol quei giorni io mi vidi contenta,
ch’averlo compiaciuto mi trovai;
piglio l’occasïon che s’appresenta
di parlar d’esso e di lodarlo assai;
et ogni industria adopro, ogni fatica
per far del mio amator Ginevra amica.

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16
     Feci col core e con l’effetto tutto
quel che far si poteva, e sallo Idio;
né con Ginevra mai potei far frutto,
ch’io le ponessi in grazia il duca mio:
e questo, che ad amar ella avea indutto
tutto il pensiero e tutto il suo disio
un gentil cavallier, bello e cortese,
venuto in Scozia di lontan paese;

17
     che con un suo fratel ben giovinetto
venne d’Italia a stare in questa corte;
si fe’ ne l’arme poi tanto perfetto,
che la Bretagna non avea il piú forte.
Il re l’amava, e ne mostrò l’effetto;
che gli donò di non picciola sorte
castella e ville e iuridizïoni,
e lo fe’ grande al par dei gran baroni.

18
     Grato era al re, piú grato era alla figlia
quel cavallier chiamato Arïodante,
per esser valoroso a maraviglia;
ma piú, ch’ella sapea che l’era amante.
Né Vesuvio, né il monte di Siciglia,
né Troia avampò mai di fiamme tante,
quante ella conoscea che per suo amore
Arïodante ardea per tutto il core.

19
     L’amar che dunque ella facea colui
con cor sincero e con perfetta fede,
fe’ che pel duca male udita fui;
né mai risposta da sperar mi diede:
anzi quanto io pregava piú per lui
e gli studiava d’impetrar mercede,
ella, biasmandol sempre e dispregiando,
se gli venía piú sempre inimicando.

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20
     Io confortai l’amator mio sovente,
che volesse lasciar la vana impresa;
né si sperasse mai volger la mente
di costei, troppo ad altro amore intesa:
e gli feci conoscer chiaramente,
come era sí d’Arïodante accesa,
che quanta acqua è nel mar, piccola dramma
non spegneria de la sua immensa fiamma.

21
     Questo da me piú volte Polinesso
(che cosí nome ha il duca) avendo udito,
e ben compreso e visto per se stesso
che molto male era il suo amor gradito;
non pur di tanto amor si fu rimesso,
ma di vedersi un altro preferito,
come superbo, cosí mal sofferse,
che tutto in ira e in odio si converse.

22
     E tra Ginevra e l’amator suo pensa
tanta discordia e tanta lite porre,
e farvi inimicizia cosí intensa,
che mai piú non si possino comporre;
e por Ginevra in ignominia immensa
donde non s’abbia o viva o morta a tôrre:
né de l’iniquo suo disegno meco
volse o con altri ragionar, che seco.

23
     Fatto il pensier: — Dalinda mia, — mi dice
(che cosí son nomata) — saper déi,
che come suol tornar da la radice
arbor che tronchi e quattro volte e sei;
cosí la pertinacia mia infelice,
ben che sia tronca dai successi rei,
di germogliar non resta; che venire
pur vorria a fin di questo suo desire.

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24
     E non lo bramo tanto per diletto,
quanto perché vorrei vincer la pruova;
e non possendo farlo con effetto,
s’io lo fo imaginando, anco mi giuova.
Voglio, qual volta tu mi dái ricetto,
quando allora Ginevra si ritruova
nuda nel letto, che pigli ogni vesta
ch’ella posta abbia, e tutta te ne vesta.

25
     Come ella s’orna e come il crin dispone
studia imitarla, e cerca il piú che sai
di parer dessa, e poi sopra il verrone
a mandar giú la scala ne verrai.
Io verrò a te con imaginazione
che quella sii, di cui tu i panni avrai:
e cosí spero, me stesso ingannando,
venir in breve il mio desir sciemando. —

26
     Cosí disse egli. Io che divisa e sevra
e lungi era da me, non posi mente
che questo in che pregando egli persevra,
era una fraude pur troppo evidente;
e dal verron, coi panni di Ginevra,
mandai la scala onde salí sovente;
e non m’accorsi prima de l’inganno,
che n’era giá tutto accaduto il danno.

27
     Fatto in quel tempo con Arïodante
il duca avea queste parole o tali
(che grandi amici erano stati inante
che per Ginevra si fesson rivali):
— Mi maraviglio (incominciò il mio amante)
ch’avendoti io fra tutti li mie’ uguali
sempre avuto in rispetto e sempre amato,
ch’io sia da te sí mal rimunerato.

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28
     Io son ben certo che comprendi e sai
di Ginevra e di me l’antiquo amore;
e per sposa legitima oggimai
per impetrarla son dal mio signore.
Perché mi turbi tu? perché pur vai
senza frutto in costei ponendo il core?
Io ben a te rispetto avrei, per Dio,
s’io nel tuo grado fossi, e tu nel mio. —

29
     — Et io (rispose Arïodante a lui)
di te mi maraviglio maggiormente;
che di lei prima inamorato fui,
che tu l’avessi vista solamente:
e so che sai quanto è l’amor tra nui,
ch’esser non può, di quel che sia, piú ardente,
e sol d’essermi moglie intende e brama:
e so che certo sai ch’ella non t’ama.

30
     Perché non hai tu dunque a me il rispetto
per l’amicizia nostra, che domande
ch’a te aver debba, e ch’io t’avre’ in effetto,
se tu fossi con lei di me piú grande?
Né men di te per moglie averla aspetto,
se ben tu sei piú ricco in queste bande:
io non son meno al re, che tu sia, grato,
ma piú di te da la sua figlia amato. —

31
     — Oh (disse il duca a lui), grande è cotesto
errore a che t’ha il folle amor condutto!
Tu credi esser piú amato; io credo questo
medesmo: ma si può vedere al frutto.
Tu fammi ciò c’hai seco, manifesto,
et io il secreto mio t’aprirò tutto;
e quel di noi che manco aver si veggia,
ceda a chi vince, e d’altro si proveggia.

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32
     E sarò pronto, se tu vuoi ch’io giuri
di non dir cosa mai che mi riveli:
cosí voglio ch’ancor tu m’assicuri
che quel ch’io ti dirò, sempre mi celi. —
Venner dunque d’accordo alli scongiuri,
e posero le man sugli Evangeli:
e poi che di tacer fede si diero,
Arïodante incominciò primiero.

33
     E disse per lo giusto e per lo dritto
come tra sé e Ginevra era la cosa;
ch’ella gli avea giurato e a bocca e in scritto,
che mai non saria ad altri, ch’a-llui, sposa;
e se dal re le venía contraditto,
gli promettea di sempre esser ritrosa
da tutti gli altri maritaggi poi,
e viver sola in tutti i giorni suoi:

34
     e ch’esso era in speranza, pel valore
ch’avea mostrato in arme a piú d’un segno,
et era per mostrare a laude, a onore,
a beneficio del re e del suo regno,
di crescer tanto in grazia al suo signore,
che sarebbe da lui stimato degno
che la figliuola sua per moglie avesse,
poi che piacer a lei cosí intendesse.

35
     Poi disse: — A questo termine son io,
né credo giá ch’alcun mi venga appresso:
né cerco piú di questo, né desio
de l’amor d’essa aver segno piú espresso;
né piú vorrei, se non quanto da Dio
per connubio legitimo è concesso:
e saria invano il domandar piú inanzi;
che di bontá so come ogn’altra avanzi. —

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36
     Poi ch’ebbe il vero Arïodante esposto
de la mercé ch’aspetta a sua fatica,
Polinesso, che giá s’avea proposto
di far Ginevra al suo amator nemica,
cominciò: — Sei da me molto discosto,
e vo’ che di tua bocca anco tu ’l dica;
e del mio ben veduta la radice,
che confessi me solo esser felice.

37
     Finge ella teco, né t’ama né prezza;
che ti pasce di speme e di parole:
oltra questo, il tuo amor sempre a sciochezza,
quando meco ragiona, imputar suole.
Io ben d’esserle caro altra certezza
veduta n’ho, che di promesse e fole:
e tel dirò sotto la fé in secreto,
ben che farei piú il debito a star cheto.

33
     Non passa mese, che tre, quattro e sei
e talor diece notti, io non mi truovi
nudo abbracciato in quel piacer con lei,
ch’all’amoroso ardor par che sí giovi:
sí che tu puoi veder s’a’ piacer miei
son d’aguagliar le ciance che tu pruovi.
Cedimi dunque e d’altro ti provedi,
poi che sí inferior di me ti vedi. —

39
     — Non ti vo’ creder questo (gli rispose
Arïodante), e certo so che menti;
e composto fra te t’hai queste cose
acciò che da l’impresa io mi spaventi:
ma perché a lei son troppo ingiurïose,
questo c’hai detto sostener convienti;
che non bugiardo sol, ma voglio ancora
che tu sei traditor mostrarti or ora. —

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40
     Suggiunse il duca: — Non sarebbe onesto
che noi volessen la battaglia tôrre
di quel che t’offerisco manifesto,
quando ti piaccia, inanzi agli occhi porre. —
Resta smarrito Arïodante a questo,
e per l’ossa un tremor freddo gli scorre;
e se creduto ben gli avesse a pieno,
venía sua vita allora allora meno.

41
     Con cor trafitto e con pallida faccia,
e con voce tremante e bocca amara
rispose: — Quando sia che tu mi faccia
veder questa aventura tua sí rara,
prometto di costei lasciar la traccia,
a te sí liberale, a me sí avara:
ma ch’io tel voglia creder, non far stima,
s’io non lo veggio con questi occhi prima. —

42
     — Quando ne sará il tempo, avisarotti, —
suggiunse Polinesso, e dipartisse.
Non credo che passâr piú di due notti,
ch’ordine fu che ’l duca a me venisse.
Per scoccar dunque i lacci che condotti
avea sí cheti, andò al rivale, e disse
che s’ascondesse la notte seguente
tra quelle case ove non sta mai gente:

43
     e dimostrògli un luogo a dirimpetto
di quel verrone ove solea salire.
Arïodante avea preso sospetto
che lo cercasse far quivi venire,
come in un luogo dove avesse eletto
di por gli aguati, e farvelo morire,
sotto questa finzion, che vuol mostrargli
quel di Ginevra, ch’impossibil pargli.

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44
     Di volervi venir prese partito,
ma in guisa che di lui non sia men forte;
perché accadendo che fosse assalito,
si truovi sí, che non tema di morte.
Un suo fratello avea saggio et ardito,
il piú famoso in arme de la corte,
detto Lurcanio; e avea piú cor con esso,
che se dieci altri avesse avuto appresso.

45
     Seco chiamollo, e volse che prendesse
l’arme; e la notte lo menò con lui:
non che ’l secreto suo giá gli dicesse;
né l’avria detto ad esso né ad altrui.
Da sé lontano un trar di pietra il messe;
— Se mi senti chiamar, vien (disse) a nui;
ma se non senti, prima ch’io ti chiami,
non ti partir di qui, frate, se m’ami. —

46
     — Va pur, non dubitar, — disse il fratello:
e cosí venne Arïodante cheto,
e si celò nel solitario ostello
ch’era d’incontro al mio verron secreto.
Vien d’altra parte il fraudolente e fello,
che d’infamar Ginevra era sí lieto;
e fa il segno, tra noi solito inante,
a me che de l’inganno era ignorante.

47
     Et io con veste candida, e fregiata
per mezzo a liste d’oro e d’ogn’intorno,
e con rete pur d’or, tutta adombrata
di bei fiocchi vermigli al capo intorno
(foggia che sol fu da Ginevra usata,
non d’alcun’altra), udito il segno, torno
sopra il verron, ch’in modo era locato,
che mi scopria dinanzi e d’ogni lato.

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48
     Lurcanio in questo mezzo dubitando
che ’l fratello a pericolo non vada,
o come è pur commun disio, cercando
di spïar sempre ciò che ad altri accada;
l’era pian pian venuto seguitando,
tenendo l’ombre e la piú oscura strada:
e a men di dieci passi a lui discosto,
nel medesimo ostel s’era riposto.

49
     Non sappiendo io di questo cosa alcuna,
venni al verron ne l’abito c’ho detto,
sí come giá venuta era piú d’una
e piú di due fïate a buono effetto.
Le veste si vedean chiare alla luna;
né dissimile essendo anch’io d’aspetto
né di persona da Ginevra molto,
fece parere un per un altro il volto:

50
     e tanto piú, ch’era gran spazio in mezzo
fra dove io venni e quelle inculte case,
ai dui fratelli, che stavano al rezzo,
il duca agevolmente persuase
quel ch’era falso. Or pensa in che ribrezzo
Arïodante, in che dolor rimase.
Vien Polinesso, e alla scala s’appoggia
che giú manda’gli, e monta in su la loggia.

51
     A prima giunta io gli getto le braccia
al collo, ch’io non penso esser veduta;
lo bacio in bocca e per tutta la faccia,
come far soglio ad ogni sua venuta.
Egli piú de l’usato si procaccia
d’accarezzarmi, e la sua fraude aiuta.
Quell’altro al rio spettacolo condutto,
misero sta lontano, e vede il tutto.

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52
     Cade in tanto dolor, che si dispone
allora allora di voler morire;
e il pome de la spada in terra pone,
che su la punta si volea ferire.
Lurcanio che con grande ammirazione
avea veduto il duca a me salire,
ma non giá conosciuto chi si fosse,
scorgendo l’atto del fratel, si mosse;

53
     e gli vietò che con la propria mano
non si passasse in quel furore il petto.
S’era piú tardo o poco piú lontano,
non giugnea a tempo, e non faceva effetto.
— Ah misero fratel, fratello insano
(gridò), perc’hai perduto l’intelletto,
ch’una femina a morte trar ti debbia?
ch’ir possan tutte come al vento nebbia!

54
     Cerca far morir lei, che morir merta,
e serva a piú tuo onor tu la tua morte.
Fu d’amar lei, quando non t’era aperta
la fraude sua: or è da odiar ben forte,
poi che con gli occhi tuoi tu vedi certa,
quanto sia meretrice, e di che sorte.
Serba quest’arme che volti in te stesso,
a far dinanzi al re tal fallo espresso. —

55
     Quando si vede Arïodante giunto
sopra il fratel, la dura impresa lascia;
ma la sua intenzïon da quel ch’assunto
avea giá di morir, poco s’accascia.
Quindi si leva, e porta non che punto,
ma trapassato il cor d’estrema ambascia;
pur finge col fratel, che quel furore
non abbia piú, che dianzi avea nel core.

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56
     Il seguente matin, senza far motto
al suo fratello o ad altri, in via si messe
da la mortal disperazion condotto;
né di lui per piú dí fu chi sapesse.
Fuor che ’l duca e il fratello, ogn’altro indòtto
era chi mosso al dipartir l’avesse.
Ne la casa del re di lui diversi
ragionamenti e in tutta Scozia fêrsi.

57
     In capo d’otto o di piú giorni in corte
venne inanzi a Ginevra un vïandante,
e novelle arrecò di mala sorte:
che s’era in mar summerso Arïodante
di volontaria sua libera morte,
non per colpa di borea o di levante.
D’un sasso che sul mar sporgea molt’alto
avea col capo in giú preso un gran salto.

58
     Colui dicea: — Pria che venisse a questo,
a me che a caso riscontrò per via,
disse: — Vien meco, acciò che manifesto
per te a Ginevra il mio successo sia;
e dille poi, che la cagion del resto
che tu vedrai di me, ch’or ora fia,
è stato sol perc’ho troppo veduto:
felice, se senza occhi io fossi suto! —

59
     Eramo a caso sopra Capobasso,
che verso Irlanda alquanto sporge in mare.
Cosí dicendo, di cima d’un sasso
lo vidi a capo in giú sott’acqua andare.
Io lo lasciai nel mare, et a gran passo
ti son venuto la nuova a portare. —
Ginevra, sbigottita e in viso smorta,
rimase a quello annunzio mezza morta.

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60
     Oh Dio, che disse e fece, poi che sola
si ritrovò nel suo fidato letto!
percosse il seno, e si stracciò la stola,
e fece all’aureo crin danno e dispetto;
ripetendo sovente la parola
ch’Arïodante avea in estremo detto:
che la cagion del suo caso empio e tristo
tutta venía per aver troppo visto.

61
     Il rumor scorse di costui per tutto,
che per dolor s’avea dato la morte.
Di questo il re non tenne il viso asciutto,
né cavallier né donna de la corte.
Di tutti il suo fratel mostrò piú lutto;
e si sommerse nel dolor sí forte,
ch’ad essempio di lui, contra se stesso
voltò quasi la man per irgli appresso.

62
     E molte volte ripetendo seco,
che fu Ginevra che ’l fratel gli estinse,
e che non fu se non quell’atto bieco
che di lei vide, ch’a morir lo spinse;
di voler vendicarsene sí cieco
venne, e sí l’ira e sí il dolor lo vinse,
che di perder la grazia vilipese,
et aver l’odio del re e del paese.

63
     E inanzi al re, quando era piú di gente
la sala piena, se ne venne, e disse:
— Sappi, signor, che di levar la mente
al mio fratel, sí ch’a morir ne gisse,
stata è la figlia tua sola nocente;
ch’a lui tanto dolor l’alma traffisse
d’aver veduta lei poco pudica,
che piú che vita ebbe la morte amica.

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64
     Erane amante, e perché le sue voglie
disoneste non fur, nol vo’ coprire:
per virtú meritarla aver per moglie
da te sperava e per fedel servire;
ma mentre il lasso ad odorar le foglie
stava lontano, altrui vide salire,
salir su l’arbor riserbato, e tutto
essergli tolto il disïato frutto. —

65
     E seguitò, come egli avea veduto
venir Ginevra sul verrone, e come
mandò la scala, onde era a lei venuto
un drudo suo, di chi egli non sa il nome,
che s’avea, per non esser conosciuto,
cambiati i panni e nascose le chiome.
Suggiunse che con l’arme egli volea
provar tutto esser ver ciò che dicea.

66
     Tu puoi pensar se ’l padre addolorato
riman, quando accusar sente la figlia;
sí perché ode di lei quel che pensato
mai non avrebbe, e n’ha gran maraviglia;
sí perché sa che fia necessitato
(se la difesa alcun guerrier non piglia,
il qual Lurcanio possa far mentire)
di condannarla e di farla morire.

67
     Io non credo, signor, che ti sia nuova
la legge nostra che condanna a morte
ogni donna e donzella, che si pruova
di sé far copia altrui ch’al suo consorte.
Morta ne vien, s’in un mese non truova
in sua difesa un cavallier sí forte,
che contra il falso accusator sostegna
che sia innocente e di morire indegna.

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68
     Ha fatto il re bandir, per liberarla
(che pur gli par ch’a torto sia accusata),
che vuol per moglie e con gran dote darla
a chi torrá l’infamia che l’è data.
Chi per lei comparisca non si parla
guerriero ancora, anzi l’un l’altro guata;
che quel Lurcanio in arme è cosí fiero,
che par che di lui tema ogni guerriero.

69
     Atteso ha l’empia sorte, che Zerbino,
fratel di lei, nel regno non si truove;
che va giá molti mesi peregrino,
mostrando di sé in arme inclite pruove:
che quando si trovasse piú vicino
quel cavallier gagliardo, o in luogo dove
potesse avere a tempo la novella,
non mancheria d’aiuto alla sorella.

70
     Il re, ch’intanto cerca di sapere
per altra pruova, che per arme, ancora,
se sono queste accuse o false o vere,
se dritto o torto è che sua figlia mora;
ha fatto prender certe cameriere
che lo dovrian saper, se vero fòra:
ond’io previdi, che se presa era io,
troppo periglio era del duca e mio.

71
     E la notte medesima mi trassi
fuor de la corte, e al duca mi condussi;
e gli feci veder quanto importassi
al capo d’amendua, se presa io fussi.
Lodommi, e disse ch’io non dubitassi:
a’ suoi conforti poi venir m’indussi
ad una sua fortezza ch’è qui presso,
in compagnia di dui che mi diede esso.

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77
     Hai sentito, signor, con quanti effetti
de l’amor mio fei Polinesso certo;
e s’era debitor per tai rispetti
d’avermi cara o no, tu ’l vedi aperto.
Or senti il guidardon che io ricevetti,
vedi la gran mercé del mio gran merto;
vedi se deve, per amare assai,
donna sperar d’essere amata mai:

73
     che questo ingrato, perfido e crudele,
de la mia fede ha preso dubbio al fine:
venuto è in sospizion ch’io non rivele
al lungo andar le fraudi sue volpine.
Ha finto, acciò che m’allontane e cele
fin che l’ira e il furor del re decline,
voler mandarmi ad un suo luogo forte;
e mi volea mandar dritto alla morte:

74
     che di secreto ha commesso alla guida,
che come m’abbia in queste selve tratta,
per degno premio di mia fé m’uccida.
Cosí l’intenzïon gli venía fatta,
se tu non eri appresso alle mie grida.
Ve’ come Amor ben chi lui segue, tratta! —
Cosí narrò Dalinda al paladino,
seguendo tuttavolta il lor camino.

75
     A cui fu sopra ogn’aventura, grata
questa, d’aver trovata la donzella,
che gli avea tutta l’istoria narrata
de l’innocenzia di Ginevra bella.
E se sperato avea, quando accusata
ancor fosse a ragion, d’aiutar quella,
via con maggior baldanza or viene in prova,
poi che evidente la calunnia truova.

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76
     E verso la cittá di Santo Andrea,
dove era il re con tutta la famiglia,
e la battaglia singular dovea
esser de la querela de la figlia,
andò Rinaldo quanto andar potea,
fin che vicino giunse a poche miglia;
alla cittá vicino giunse, dove
trovò un scudier ch’avea piú fresche nuove:

77
     ch’un cavalliere istrano era venuto,
ch’a difender Ginevra s’avea tolto,
con non usate insegne, e sconosciuto,
però che sempre ascoso andava molto;
e che dopo che v’era, ancor veduto
non gli avea alcuno al discoperto il volto;
e che ’l proprio scudier che gli servia
dicea giurando: — Io non so dir chi sia. —

78
     Non cavalcaro molto, ch’alle mura
si trovâr de la terra e in su la porta.
Dalinda andar piú inanzi avea paura;
pur va, poi che Rinaldo la conforta.
La porta è chiusa, et a chi n’avea cura
Rinaldo domandò: — Questo ch’importa? —
E fugli detto: perché ’l popul tutto
a veder la battaglia era ridutto,

79
     che tra Lurcanio e un cavallier istrano
si fa ne l’altro capo de la terra,
ove era un prato spazïoso e piano;
e che giá cominciata hanno la guerra.
Aperto fu al signor di Montealbano,
e tosto il portinar dietro gli serra.
Per la vòta cittá Rinaldo passa;
ma la donzella al primo albergo lassa:

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80
     e dice che sicura ivi si stia
fin che ritorni a-llei, che sará tosto;
e verso il campo poi ratto s’invia,
dove li dui guerrier dato e risposto
molto s’aveano e davan tuttavia.
Stava Lurcanio di mal cor disposto
contra Ginevra; e l’altro in sua difesa
ben sostenea la favorita impresa.

81
     Sei cavallier con lor ne lo steccato
erano a piedi, armati di corazza,
col duca d’Albania, ch’era montato
s’un possente corsier di buona razza.
Come a gran contestabile, a lui dato
la guardia fu del campo e de la piazza:
e di veder Ginevra in gran periglio
avea il cor lieto, et orgoglioso il ciglio.

82
     Rinaldo se ne va tra gente e gente;
fassi far largo il buon destrier Baiardo:
chi la tempesta del suo venir sente,
a dargli via non par zoppo né tardo.
Rinaldo vi compar sopra eminente,
e ben rassembra il fior d’ogni gagliardo;
poi si ferma all’incontro ove il re siede:
ognun s’accosta per udir che chiede.

83
     Rinaldo disse al re: — Magno signore,
non lasciar la battaglia piú seguire;
perché di questi dua qualunche more,
sappi ch’a torto tu ’l lasci morire.
L’un crede aver ragione, et è in errore,
e dice il falso, e non sa di mentire;
ma quel medesmo error che ’l suo germano
a morir trasse, a lui pon l’arme in mano.

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84
     L’altro non sa se s’abbia dritto o torto;
ma sol per gentilezza e per bontade
in pericol si è posto d’esser morto,
per non lasciar morir tanta beltade.
Io la salute all’innocenzia porto;
porto il contrario a chi usa falsitade.
Ma, per Dio, questa pugna prima parti,
poi mi dá audienza a quel ch’io vo’ narrarti. —

85
     Fu da l’autoritá d’un uom sí degno,
come Rinaldo gli parea al sembiante,
sí mosso il re, che disse e fece segno
che non andasse piú la pugna inante;
al quale insieme et ai baron del regno
e ai cavallieri e all’altre turbe tante
Rinaldo fe’ l’inganno tutto espresso,
ch’avea ordito a Ginevra Polinesso.

86
     Indi s’offerse di voler provare
coll’arme, ch’era ver quel ch’avea detto.
Chiamasi Polinesso; et ei compare,
ma tutto conturbato ne l’aspetto:
pur con audacia cominciò a negare.
Disse Rinaldo: — Or noi vedrem l’effetto. —
L’uno e l’altro era armato, il campo fatto,
sí che senza indugiar vengono al fatto.

87
     Oh quanto ha il re, quanto ha il suo popul caro
che Ginevra a provar s’abbi innocente!
tutti han speranza che Dio mostri chiaro
ch’impudica era detta ingiustamente.
Crudel, superbo e riputato avaro
fu Polinesso, iniquo e fraudolente;
sí che ad alcun miracolo non fia,
che l’inganno da lui tramato sia.

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84
     Sta Polinesso con la faccia mesta,
col cor tremante e con pallida guancia;
e al terzo suon mette la lancia in resta.
Cosí Rinaldo inverso lui si lancia,
che disïoso di finir la festa,
mira a passargli il petto con la lancia:
né discorde al disir seguí l’effetto;
che mezza l’asta gli cacciò nel petto.

89
     Fisso nel tronco lo transporta in terra,
lontan dal suo destrier piú di sei braccia.
Rinaldo smonta subito, e gli afferra
l’elmo, pria che si levi, e gli lo slaccia:
ma quel, che non può far piú troppa guerra,
gli domanda mercé con umil faccia,
e gli confessa, udendo il re e la corte,
la fraude sua che l’ha condutto a morte.

90
     Non finí il tutto, e in mezzo la parola
e la voce e la vita l’abandona.
Il re, che liberata la figliuola
vede da morte e da fama non buona,
piú s’allegra, gioisce e raconsola,
che, s’avendo perduta la corona,
ripor se la vedesse allora allora;
sí che Rinaldo unicamente onora.

91
     E poi ch’al trar de l’elmo conosciuto
l’ebbe, perch’altre volte l’avea visto,
levò le mani a Dio, che d’un aiuto
come era quel, gli avea sí ben provisto.
Quell’altro cavallier che, sconosciuto,
soccorso avea Ginevra al caso tristo,
et armato per lei s’era condutto,
stato da parte era a vedere il tutto.

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92
     Dal re pregato fu di dire il nome,
o di lasciarsi almen veder scoperto,
acciò da lui fosse premiato, come
di sua buona intenzion chiedeva il merto.
Quel, dopo lunghi preghi, da le chiome
si levò l’elmo, e fe’ palese e certo
quel che ne l’altro canto ho da seguire,
se grata vi sará l’istoria udire.