Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire/Capitolo III
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CAPITOLO TERZO
CARATTERE DELL’ITALIANO
SUE VARIETÀ E SUE CONSEGUENZE
L’Italia può oggidì considerarsi come fatta e compiuta. Lo scopo di tanti sforzi, di tanti sacrifizi, l’oggetto di tante aspirazioni e speranze, può dirsi raggiunto. — L’Italia ha veduto l’ultimo di quei soldati stranieri che la tennero sì a lungo soggetta rivarcare le Alpi, lasciandola erede dell’inespugnabile quadrilatero; e l’Europa tutta proclama la santità de’ suoi diritti, e si dichiara stanca di vederli conculcati. Un certo sentimento di orgoglio può essere scusato in noi, quando pensiamo alle cangiate nostre sorti, alla simpatia acquistata, al nostro rapido innalzamento al grado di potenza di primo ordine; in noi che otto anni indietro eravamo considerati come una mandra di servi austriaci. Ma l’ebbrezza della gioia e dell’ambizione soddisfatta riesce pericolosa a chi troppo vi si abbandona. — Abbiamo altro da fare che congratularci vicendevolmente per le conquiste ultimate. — Dobbiamo costituirci fortemente, e vincere quelle abitudini e quelle tendenze del nostro carattere, che si oppongono al nostro sviluppo morale, intellettuale e nazionale.
L’Italia fu sempre riputata ricchissimo paese, e fu questo un equivoco. Il suolo italiano è certamente il più ferace di Europa, e l’agricoltura vi è giunta, parzialmente almeno, ad un certo grado di perfezione che mal si accorda col limitato sviluppo delle scienze e dell’industria — Il motivo di tale difetto di armonia è evidente. L’Italia non ha vissuto sin qui di sua vita propria, nè conformemente ai propri bisogni, ai propri interessi; ma fu diretta da’ suoi padroni, secondo ad essi conveniva, e secondo risultava più confacente all’insieme di quei corpi politici mostruosi e diformi, di cui le provincie italiane erano parte. La frazione d’Italia che dipendeva direttamente dall’Austria (e l’Italia presso che tutta ne dipendeva indirettamente) fu detta paese agricolo, e tale è difatto; ma i tempi in cui la ricchezza pubblica delle nazioni si misurava dalla fecondità del terreno, e dalla salubrità del clima, sono lungi da noi. La ricchezza degli Stati è oramai la conseguenza dello sviluppo dell’umana operosità nell’industria e nel commercio, non meno che dello sviluppo dell’agricoltura.
L’impero austriaco, che si componeva di tante provincie e di popolazioni fra loro eterogenee ed avverse, considerava le sue provincie italiane come il suo giardino e il suo granaio. E di fatti nè la Boemia, nè l’Ungheria, nè la Gallizia, nè la Stiria, nè alcuna di quelle nordiche contrade possono competere coll’Italia per la feracità del suolo e per la mitezza del clima. L’Italia fu dunque dall’Austria destinata, o per dir meglio condannata a fornire all’impero i prodotti agricoli, e a consumare i prodotti dell’industria delle altre provincie. L’industria fu interdetta all’Italia, perchè all’impero conveniva di averla inoperosa ed incapace di sovvenire ai propri bisogni. Nel lungo corso del dominio austriaco in Italia, più d’una prova fu tentata da capitalisti italiani, per introdurre nel paese qualche industria che valesse ad arrestarne il rapido impoverimento. — Il governo austriaco conosceva la iniquità del suo procedere, e sentiva la necessità di mascherarlo. Per ciò non si opponeva apertamente a tali esperimenti; ma ben sapeva renderli vani, ed ottenerne l’abbandono. I capitalisti autori di quelle prove si vedevano subitamente decaduti dal favore del governo; incontravano non preveduti ostacoli ad ogni loro mossa; il prezzo degli oggetti necessari al progredire della industria loro cresceva ad un tratto smisuratamente. Se ad essi occorrevano macchine che non si potessero avere che dall’Inghilterra o dalla Francia, l’importazione di tali macchine era sottoposta a tasse e a difficoltà siffatte, che la nascente industria non poteva sostenerle, e il tentativo andava fallito. Certo che un simile procedere non avrebbe ottenuto in Inghilterra il successo che ottenne in Italia; ma gli italiani sono per natura poco inclinati al lavoro, e la fredda e pacata resistenza ad una mascherata persecuzione li stanca. — Essi resistono a qualsiasi costo quando l’ira li sprona; e in tal caso sdegnano i consigli della prudenza, si slanciano ad aperto combattimento, e spesse volte sono vinti dall’avveduto nemico che si era da lungo tempo preparato alla lotta. — Ma la costante e misurata resistenza ad una coperta persecuzione, il combattere nascostamente, nelle tenebre, e lungi da ogni spettatore, lascia l’italiano freddo, e gli toglie coll’ardore della pugna in campo aperto la forza materiale e l’energia morale. — Gli italiani accettarono dunque la parte che il governo austriaco loro destinava nella commedia politica di un impero, e questa parte era quella del compratore di oggetti manufatturati nelle provincie germaniche e slave. — Gli italiani ricuperarono in compenso la facoltà di abbandonarsi all’ozio; compenso fatale, perchè troppo conforme all’indole nostra e dei popoli meridionali in generale, cosicchè abbandonandosi all’ozio per necessità, vi si adagiarono senza rimorso, nè vergogna, e ne contrassero rapidamente l’abito. — Che la parte imposta agli italiani nella costituzione economica dell’impero dovesse condurli in breve ad una inevitabile rovina, era cosa preveduta da chiunque rifletteva alle condizioni finanziarie dell’Italia, e a quelle che i moderni progressi delle scienze e dell’industria hanno creato in Europa. — Non è da supporsi neppure che gli uomini di Stato austriaci ignorassero ove conduceva la via imposta agli italiani; ma al governo austriaco, come a tutti i governi dispotici, poco importa de’ suoi amministrati, e se un sistema di governo o di amministrazione gli sembra conveniente, esso lo addotta, quand’anche lo sappia ingiusto, rovinoso e mortale per una parte qualunque de’ suoi sudditi.
L’Italia possedeva tesori in oggetti di belle arti e di antichità, come sarebbero intagli, avori, smalti, cesellature in metalli, ecc. Le sue principali città vantavano famiglie nobili di smisurata ricchezza. Le repubbliche di Genova e di Venezia avevano creato, mediante il commercio, delle ricchezze private come non se ne conoscevano altrove in quei tempi, cioè sul principiare del secolo decimonono. Ma tutte queste dovizie, erano tesori accumulati da lungo tempo, e nessuna nuova sorgente erasi aperta per riacquistare il denaro che si spendeva con prodigalità più pazza che altro. — I tesori italiani dovevano dunque esaurirsi in un dato tempo; ma varie circostanze concorsero ad abbreviare quel tempo e ad affrettare il compimento della inevitabile rovina. — La rendita che rimaneva agli italiani traevasi, come ho già detto, dall’agricoltura; ed era prodotta in gran parte dai bachi da seta e dalle viti. Ognuno conosce la dolorosa storia di questi due prodotti agricoli, durante gli ultimi dodici anni. — Un morbo speciale e misterioso in quanto alla sua origine piombava sui bachi e sulle viti, nè ha per anco ceduto ad alcuno dei rimedi tentati. E non si vede nè come nè quando nell’avvenire l’industria sericola riprenderà il suo corso, e ridonerà qualche valore al suolo, da cui si traeva. — Parecchi possidenti, che godevano di un’annua rendita di circa cento mila franchi, cavati dalla coltura dei bachi, si sono trovati subitamente ridotti ad una pressochè assoluta povertà. — I bachi prosperavano e sembravano promettere un abbondante raccolto, quando tutto ad un tratto, mentre stavano avviandosi al bosco, o disponendosi a formare la loro buccia, cadevano morti, quasi colpiti da morbo pestilenziale. Da dodici anni queste scene si ripetono ogni primavera, ad onta dei lunghi e pericolosi viaggi intrapresi da giovani avventurosi nelle più remote e barbare contrade dell’estremo oriente, per procurare agli allevatori di bachi da seta, una semente più sana, e non ancora tocca dal morbo europeo. — Nulla valgono questi generosi tentativi; chè dopo due o tre anni di mediocre raccolto, e di cure indefesse, la semente straniera risente l’azione della morbosa influenza, ed i bachi che ne nascono muoiono, come morivano dapprima gl’indigeni. — Si sono fatti studi variati ed estesi per conoscere la cagione del male, e per trovarvi un rimedio; ma dopo tanti anni, ancora non si giunse a stabilire con certezza se il germe infetto sia quello del baco, ovvero quello del gelso.
La crittogama della vite non è così misteriosa come la malattia dei bachi; ma è tenace non meno di quella, e la distruzione di quei due prodotti della nostra industria agricola sembra farsi di giorno in giorno più probabile. E quei due generi erano veramente e considerevolmente i due più ricchi prodotti della nostra agricoltura; quelli che le davano una certa importanza come sorgente della pubblica ricchezza, ed una certa superiorità sull’agricoltura delle altre contrade d’Europa. — A noi lombardi rimangono i terreni inaffiati o paludosi, le praterie a marcite, le risaie, ecc.; ma questi terreni sono necessariamente assai ristretti, e tutto il rimanente del suolo italiano è limitato attualmente alla produzione dei cereali, cioè alla produzione medesima delle altre parti d’Europa; alla produzione di cereali che possono bene bastare al nutrimento del contadino, ma che a nulla montano come oggetti commerciabili, destinati ad impedire che il tesoro pubblico si esaurisca intieramente.
Altre cagioni di rapido impoverimento si sono aggiunte a quelle già accennate. Il mostruoso incremento del lusso, e il disgraziato abito, contratto dalla gioventù d’ogni classe, di fuggire qualsiasi occupazione che non sia di puro divertimento. E siccome il vigore giovanile vuole uno sfogo, i giovani che hanno imparato a considerare le occupazioni dello studio o di un impiego, in una parola quelle occupazioni che compongono una professione, ossia una carriera amministrativa, militare, magistrale, scientifica o artistica, come un mezzo per guadagnar denaro, come una necessità per chi non ne ereditava dalla propria famiglia; i giovani, dico, disgraziatamente imbevuti di tali falsissimi concetti, non trovano altro pascolo alla loro operosità che nell’imitare servilmente i costumi dei giovani della aristocrazia inglese, francese e russa, i quali disponendo di beni di fortuna assai superiori ai nostri, ne porgono rovinosi esempi. I nostri giovani, i quali ereditarono dai padri loro una rendita che i padri non riescivano a spendere, la ricevettero già ridotta dalla parte che la legge garantisce ai fratelli e dalla dote delle sorelle, gravata inoltre d’imposte che non pesavano sui padri loro; e si credono tenuti di far onore alla nobiltà della stirpe coll’eseguire in Italia tutto ciò che i loro pari inglesi, francesi e russi, eseguiscono a Londra, a Parigi e a Pietroburgo. I nostri giovani rappresentanti le antiche famiglie della nostra storia, non sono contenti di possedere dei buoni e bei cavalli, delle carrozze comode ed eleganti, e tutto ciò che costituisce dei ricchi e convenienti equipaggi; ma vogliono essere ammirati come gli esatti fac simili dei giovani inglesi di alto grado; e siccome tanto le importazioni quanto le imitazioni inglesi non si ottengono in Italia se non si pagano a peso d’oro, così la soddisfazione degli innocenti e puerili desideri dei nostri giovani basta talora a mandarli in rovina. Non uno forse degli eredi delle nostre più cospicue e più doviziose famiglie ha saputo conservare intatti i suoi beni è la condizione elevata che essi gli procuravano. Con una rendita ridotta e frazionata, i nostri giovani, a nulla intenti se non all’esatta riproduzione dei costumi oltramontani, spendono assai più che non spendevano i loro padri. Nel secolo passato l’anglomania spuntava appena, e gli uomini di qualche valore morale, intellettuale o anche soltanto sociale, avrebbero arrossito di scendere dalla loro elevata condizione per cambiarla con quella d’imitatori delle straniere singolarità. — Quando gli animali o gli oggetti qualsifossero, che servivano ai loro comodi o ai loro divertimenti, riempivano di fatto la missione loro imposta, i nostri antenati non si tormentavano lo spirito a ricercare se i lord inglesi non avrebbero richiesto di più: possedevano dei magnifici palazzi, delle ville pressochè reali; ma non trasformavano queste loro sontuose dimore in una perenne occasione d’ingenti spese. L’addobbamento dei loro palazzi era in armonia coi palazzi medesimi, e si componeva in gran parte di oggetti d’arte, pitture, sculture, bronzi, porcellane e sete; ma nessuno pensava a rinnovarli prima che il tempo li avesse contaminati e distrutti, perchè in altri paesi le case dei ricchi si ammobigliano in diverso modo.
Non mi tratterrei così lungamente sopra queste apparenti inezie, se non si traessero dietro gravi e tristissime conseguenze. Non credo, ripeterò, siavi nell’Italia del nord un solo dei rappresentanti delle nostre famiglie illustri, che non abbia più o meno sciupato l'ereditato patrimonio, e che non sia avviato verso una maggiore rovina; e ciò senza aver imparato cosa alcuna, senza avere acquistato nè oggetti preziosi, nè introdotto o tentato d’introdurre nel proprio paese altre novità, fuorchè le stranezze di oziosi stranieri, che non formano nei paesi loro che una derisa minoranza. Poichè nè in Inghilterra, nè in Francia, nè tampoco in Russia prevale quella assurda opinione, che lo studio o la scelta di una professione o di una pubblica carriera sieno cose riservate ai poveri, che hanno bisogno di lavorare per guadagnarsi il vitto. Fatale errore! Il lavoro non è soltanto il mezzo più onesto di guadagnar denaro, è il dovere di ogni cittadino, o, diciam meglio, di ogni essere dotato di ragione, che possiede un’anima intelligente, di cui dovrà un giorno render conto al creatore. Lo studio e il lavoro sono il mezzo che una benefica provvidenza ne largisce per sviluppare e perfezionare l’intelletto nostro; sono il mezzo col quale ciascuno può servire il proprio paese; sono la scala per cui la creatura umana sale dalla terra al cielo, dalla vita materiale, che ha comune coi bruti, alla vita spirituale a cui può sola aspirare.
L’avversione al lavoro, e il disprezzo per chi è costretto a dedicarvisi, sono una inesauribile sorgente di danni pel paese nostro — il popolo, e particolarmente gli abitanti della campagna, inclinano per la naturale loro pigrizia all’ozio, e non potendo abbandonarvisi interamente (chè ad essi lo vieta la necessità di procurarsi vitto, casa e vestimenta), si contentano del puro necessario; e, questo ottenuto, nessuno al mondo li saprebbe indurre a prolungare di un’ora l’opera loro. Perciò avviene che ogni nuova imposta, o tassa, per poco gravosa e per equa che siasi, pare al nostro contadino una misura vessatoria, iniqua ed intollerabile; solo perchè essa lo toglie momentaneamente a quell’ozio ch’egli considera come suo privilegio e suo diritto. Come potrebb’egli giudicare altrimenti, circondato qual è da altri contadini che la pensano come lui, da un clero che si studia di mantenerlo nell’ignoranza, e quindi nella soggezione e nella dipendenza de’ suoi voleri, ed alla presenza di un padrone, che lungi dall’inspirargli l’energia e l’amore al lavoro, come alla unica fonte di ogni prosperità, gli dà il deplorabile esempio di sprezzare il lavoro e di astenersene ogni qual volta lo può?
D’altra parte nè l’abilità al lavoro, nè l’attitudine all’applicazione, non s’acquistano in un giorno. — Un’intera generazione non basta a formare una nazione laboriosa ed energica, nè ad imprimerle quel carattere di creatrice, che distingue così eminentemente fra tutte le altre la inglese, e fa si che un’impresa industriale da essa tentata, è giustamente considerata dalle altre nazioni, come una impresa felicemente compita. — Io pure vorrei che gli italiani prendessero gli inglesi per modelli; ma non per imitare le puerili stravaganze di alcuni ricchissimi oziosi, bensì per emulare la maravigliosa operosità delle moltitudini. E si osservi altresì che quegli stessi ricchissimi oziosi cui la nostra gioventù tributa tanta ammirazione, non sono poi così oziosi come lo crediamo, e lo sono in tutt’altro modo di noi.
I loro passatempi, i viaggi, le caccie, le corse e gli esercizi equestri, nulla hanno per certo di effeminato; anzi allo sviluppo delle forze intellettuali unendosi così lo sviluppo delle forze fisiche, come a concepire essi riescono atti a compiere le più ardue imprese. I viaggi più pericolosi di questo secolo, le scoperte di nuove terre, e di nuovi passi per recarvisi, sono dovuti in gran parte ai rampolli della inglese aristocrazia; e quelli poi che non hanno acquistato fama di grandi viaggiatori, non si sono però addormentati nell’ozio e nell'effeminatezza; ma o proseguono nei maschi diporti della caccia e del cavalcare, o si dedicano all’agricoltura, all’industria, al commercio, o a qualche dotta professione, impiegando così nell’età matura quell’eccesso di energia che li aveva traviati nella primissima gioventù. In Inghilterra gli uomini che non si consacrano ad una occupazione, o ad uno studio, o ad uno scopo di pubblica beneficenza, insomma che non impieghino la esistenza loro al servizio del loro paese, formano una impercettibile minoranza; mentre da noi, i giovani forniti di beni di fortuna, che si dedicano ad un proposito patriottico, formano la volta loro rarissime eccezioni.
Abbiamo veduto che il numero dei rappresentanti delle nostre più illustri e più ricche famiglie i quali abbiano conservato intatto il patrimonio loro, non è superiore a quello dei giovani che si dedicano ad una virile occupazione; e di ciò siamo oltremodo dolenti, perchè il rapido deperimento di una classe di cittadini così importante come la nobiltà italiana, in cui erano concentrate le maggiori ricchezze del paese e tutta l’autorità e l’influenza che sono come i corollari delle ricchezze, non può decadere senza produrre un adequato e funesto squilibrio in ogni classe della società.
Parlerò meno diffusamente del carattere e dei costumi delle popolazioni dell’Italia centrale e meridionale, perchè non sono spettatrice costante dei fatti loro, come lo sono dei nostri. Pure quel poco che ne so non mi mostra gli italiani di quelle provincie più esperti e più intelligenti di noi in materia di libertà e di governo costituzionale. Il fatto, per citarne uno a tutti noto, che la città di Messina, la seconda città della Sicilia e in realtà eguale alla prima in estensione, in ricchezza, in coltura e in civiltà, deputò ripetutamente a rappresentarla al parlamento l’esule Mazzini, prova sufficientemente che i suoi elettori nulla intendono del sistema di governo detto costituzionale. Se la Sicilia avesse inteso di protestare contro il governo attuale, doveva mandare al parlamento insieme con Giuseppe Mazzini altri uomini di fama repubblicana; e soddisfatta di avere con ciò espresse le proprie aspirazioni, non ostinarsi in quella espressione dopo che il parlamento l’avea respinta come incostituzionale. — I messinesi si condussero altrimenti. Nominarono un solo repubblicano, Giuseppe Mazzini, insieme con altri molti che avevano protestato della loro divota adesione alla nostra monarchia; e quegli elettori medesimi che avevano votato con entusiasmo per Mazzini, facevano pochi giorni dopo una rumorosa dimostrazione in onore di Vittorio Emanuele, più non ricordo in quale particolare occasione, togliendo con ciò ogni possibile significato al singolare loro voto. Poi quando il parlamento, condannando la illegalità della elezione, la cassò, i messinesi la rinnovarono, mettendosi così in urto ed in ostilità non più col governo, ma colla rappresentanza nazionale, che è quanto dire colla nazione e con sè medesimi.
Lo stesso ha fatto più recentemente Palermo, nell’occasione della legge votata dal parlamento per l’abolizione degli ordini religiosi. Tutti conoscono le orribili scene che scaturirono dalla fanatica superstizione dei palermitani, ad istigazione evidente dei frati e delle monache, inferociti per l’abolizione dei loro privilegi. Nessuno vorrà dire che un popolo capace di simili eccessi sia maturo per godere di una regolare libertà; e i più indulgenti confessarono che un poco di educazione civile e politica, non sarebbe superflua pei siciliani. Ora, questa educazione chi pensa a darla, e come sarà data?
I napolitani hanno l’aspetto e le forme più civili dei siciliani. Oltre ciò hanno una intelligenza così aperta ed una fantasia così svegliata, che prontamente imparano, e si fan proprie le cose, o almeno l’apparenza delle cose che loro passano sotto gli occhi. Aggiungiamo pure che se non le idee, le parole di costituzione, di parlamento, ecc. non giungono ad essi nuove, mentre ebbero un principio di effettuazione nel 21, ed un altro ne avevano avuto sul finire dello scorso secolo. La presenza di cospicue famiglie straniere che a Napoli accorrevano, ivi attratte dalla bellezza del cielo e dalla mitezza del clima, vi avevano introdotto alcune abitudini civili, e sparso una certa gentilezza di modi sopra una popolazione naturalmente alla gentilezza inclinata, quando non sia trasportata da passioni violenti e sfrenate. Napoli diffatto ed il suo popolo hanno progredito verso la vita civile dal 60 in poi. Certe immondezze scomparvero dalle pubbliche vie: certe nudità permesse dal clima, ma vietate dalla civiltà, più non si incontrano per le strade, sulle piazze e nelle chiese; le scuole normali e popolari sono frequentate dai figli di padri e di madri analfabetici.
I napolitani non si mostrano avversi alle leggi della vita civile 1. Ma tutto ciò non significa ch’essi sieno in grado d’intendere e di apprezzare i benefizi di un governo costituzionale, nè di compierne i corrispondenti doveri: ed in varie occorrenze gli antichi sudditi dei Borboni mostrarono invece di avere inteso soltanto che la dinastia dei loro re era mutata. Si ricordino i miei lettori certe elezioni avvenute nel 65, e confesseranno meco che i napolitani anch’essi hanno bisogno di essere educati alla libertà. Le doti che la natura ha loro compartito serviranno a rendere la educazione loro più facile e più pronta; ma converrebbe invero supporre ch’essi possedessero la così detta scienza infusa, per ammettere che i diritti ed i doveri dei popoli liberi e civili potessero essere noti a chi non ha mai goduto gli uni, nè avuto chi gli insegnasse gli altri, ad un popolo che fu sempre retto da un despota e da un clero fomentatore della superstizione e della ignoranza, che non conosce insomma via di mezzo fra una cieca obbedienza ed una sfrenata libertà.
Questa educazione civile e politica, chi pensa a darla ai napoletani? Si pubblicano giornali, o quotidiani o settimanali o mensili, accessibili per ogni conto al povero, e in cui si esponga il significato delle nuove istituzioni ad esso largite? Si sono aperti corsi pubblici e gratuiti in convenienti locali, ove il povero possa ricoverarsi, imparando a benedire la Provvidenza per la libertà acquistata ed intesa? Io non avrei scritte queste pagine, se avessi udito che una sola delle tante cose da farsi fosse stata fatta. Ma vedo gli anni succedersi rapidamente; vedo gli effetti della generale ignoranza rallentare e talvolta impedire il progresso del nostro nazionale sviluppo; e non vedo che si tenti rimediare a tale ignoranza dell’attuale generazione. Si insegna a leggere alla generazione futura, e si spera forse che questi nuovi letterati faranno buon uso della scienza acquisita per istruirsi in ciò che loro spetta di sapere. Ma parmi questa una vana speranza. I contadini lombardi hanno tutti, o pressochè tutti, frequentato, nell’infanzia loro, le scuole comunali; ma sino a che in codeste scuole non si acquista altro che uno strumento per imparare ciò che veramente è necessario sapersi, non si può sperare che il giovanetto, licenziato dalla scuola perchè ha raggiunto il duodecimo anno di sua vita, e rimandato alle fatiche ed alle sofferenze domestiche col solo vantaggio di poter leggere, scarabocchiare il proprio nome, ed eseguire le due prime operazioni dell’aritmetica; non si può sperare, dico, ch’esso impieghi utilmente il suo magro corredo di cognizioni per acquistarne altre indispensabili ad un popolo che vuol essere libero. Ciò che deve invece accadere, e che accade diffatto, si è che il giovinetto stesso che sapeva leggere a dodici anni più non lo sappia passati i venti.
Della Toscana, e delle provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani, non posso parlare in modo assai diverso da quello con cui ho parlato sin qui delle altre parti d’Italia. Il toscano ad altro non aspira che ad un dolce ed innocente riposo. Si accontenta di una mediocre agiatezza; si accontenta ben anco del puro necessario, purchè gli si conceda di goderne pacificamente e senza sforzi nè fatiche. Così ci figuriamo ad un dipresso la vita dei pastori arcadici; ma nulla v’ha al mondo di meno arcadico dell’attuale società. Già lo dissi più sopra: chi non lavora, chi non tende ad uno scopo che non può raggiungere senza sudori, chi si compiace nell’ozio, e soltanto nell’ozio, non trova spazio ove adagiarsi nel trambusto del perpetuo progresso, e viene schiacciato sotto il pesante carro di Zaggernaught delle scienze, dell’industria, del commercio, della civiltà e della ricchezza.
La Toscana è un piccolo e povero paese, abitato da un popolo gentile ed intelligente, ma pigro, inerte, che non mosse mai passo sulla via che percorrono oggidì le nazioni libere e civili. — Tutto rimanevagli a fare quando fu annessa all’Italia, che si veniva allora costituendo. Sono ora due anni, se non più, che una combinazione per essa fortunata trasportò sul suo territorio la sede del governo italiano. Firenze fu prescelta per succedere a Torino; e siccome Torino erasi amaramente risentita di ciò ch’essa considerava come una sciagura, era naturale che Firenze se ne rallegrasse come di un acquisto. Ma Firenze prese la cosa in tutt’altro modo. — Che la sua popolazione si raddoppiasse numericamente in pochi giorni, che molti nuovi edifizi s’innalzassero nelle sue mura, che il denaro circolasse in quantità e con rapidità assai maggiore che per lo passato, che nessun forastiere distinto e ricco che visitasse l’Italia potesse d’ora in poi trascurare di visitare anche Firenze; tutto ciò poco ad essa importava, anzi le cagionava rammarico ed inquietudine. E perchè? Perchè una cosa sola le apparve fra tutte le altre; e fu che tanta affluenza di nuovi abitanti farebbe crescere il prezzo degli affitti, ed il prezzo corrente altresì degli oggetti indispensabili alla vita di ognuno. Egli è pur vero che se le case di Firenze crescevano di valore, queste essendo proprietà dei fiorentini, il vantaggio era loro altresì; e lo stesso poteva dirsi degli oggetti necessari alla vita di tutti, come le farine, le carni, gli ortaggi, i latticinii, ecc., ecc. I fiorentini non sono punto gonzi, e intendono tutto ciò come lo intederebbe l’uomo più versato negli studi economici. Ma un’altra cosa intendevano pure; ed era, che il cresciuto consumo dei viveri, ed il cresciuto bisogno di abitazioni, sola cagione dell’aumento dei prezzi, renderebbe necessario un accrescimento di produzione, e per conseguenza di lavoro e di fatica. Nè valse far loro osservare, che insieme coi consumatori verrebbero dal di fuori, cioè dalle altre parti d’Italia e dallo stesso toscano contado, dei produttori, cioè degli operai, che si assumerebbero con lieto animo quell’eccesso di lavoro, che essi fiorentini non potrebbero o non vorrebbero eseguire. — In tal caso, rispondevano i fiorentini, nascerà la concorrenza: dovremo contendere coi nuovi arrivati per ottenere quel poco di lavoro che ne bastava sin qui; l’opera nostra non sarà più così gradita a chi la riceve; i nuovi arrivati faranno altrimenti, e si dirà che fanno meglio di noi; dovremo studiare, esercitarci, ecc. E piuttosto che esporsi ad un accrescimento di occupazione, che produrrebbe loro un sicuro aumento di guadagno, i fiorentini hanno in gran numero emigrato dalla capitale, per ritirarsi sui territorii di Pescia, di Prato, di Pistoia, di Lucca, ecc., come in oasi non ancora invase dalla moltitudine e dalla civiltà, e dove si può tuttora vegetare placidamente in un ozio decente e dolcissimo. Il sagrifizio costò loro assai, e non poche maledizioni salutarono l’arrivo di quelli irrequieti, cupidi ed ambiziosi che nulla rispettano, e che sconvolgono senza rimorsi il placido andamento degli affari in Toscana. Ma per amaro ch’ei fosse, il sagrifizio si compì, ed oggi un certo numero degli opifici più prosperosi della capitale sono nelle mani di piemontesi o di lombardi; chè a fronte dei fiorentini noi lombardi siamo prodigi di energia e di ambizione.
Io non mi maraviglio punto che ciò accada in Italia; e saremmo invero esseri di una tempra più che umana, se la perpetua servitù in cui vivemmo non avesse lasciato traccia alcuna nel nostro carattere. Nè suppongo un solo istante che tale nostra piaga sia incurabile. Anzi sono convinta ch’essa cederà tosto ad una cura conveniente, e che la seguente generazione sarà fors’anco perfettamente sana e robusta. Ciò che mi accora si è il non vedere che alcuno si accinga a medicare quella piaga; e neppure in Toscana, ove la capitale raduna in se le forze vive della nazione, ove tanta coltura fu sempre onorata, nessun farmaco fu ancora proposto e discusso.
Di ciò mi lagno, e non del bisogno che abbiamo del farmaco; il quale bisogno è la cosa più naturale del mondo.
Le provincie che componevano prima del 59 e del 60 gli stati romani, come le Legazioni, l’Umbria, ecc., ecc. non hanno dato sin qui segni manifesti di non intendere i diritti e i doveri di un popolo libero, o le leggi della moderna civile società. Quelle popolazioni, rette e tiranneggiate dal clero, non diedero sin qui un solo indizio di fanatismo o di superstizione: hanno accettato ed eseguito tutti i sacrifici richiesti, senza dare mai segno di malcontento, e vanno gradatamente migliorando le loro condizioni coll’apertura di nuove strade e ferrovie, colla applicazione di un discreto governo comunale, collo stabilimento di nuove scuole e di nuovi tribunali rispettabili, e coll’esercitarsi nelle cose della guerra. Quelle popolazioni dovrebbero in vero servire a tutte le altre di esempio e di modello; ma v’hanno alcuni passi che i popoli non possono dare, se l’iniziativa non è presa da qualche individuo o da qualche associazione più di loro esperti e più ricchi. Le popolazioni degli antichi stati romani sono ad un tempo maschie e prudenti. — Sanno soffrire, sanno tacere, sanno combattere; e credo che saprebbero anche studiare ed imparare. — Ma non furono mai ciò che volgarmente si chiama popolazioni industriali, ossia dedite alla industria ed al commercio. Debbono però diventar tali e diventarlo in breve tempo, poichè l’agricoltura non vi si può sviluppare in vaste proporzioni, per la natura del suolo. Sino al 59 e al 60 quelle popolazioni vivevano in gran parte della elemosina degli innumerevoli conventi d’ambo i sessi; ma ora quella è una fonte disseccata ed esausta. Se alcuno tentasse di fondare stabilimenti industriali, opifici, ecc., non vedo quali ostacoli incontrerebbe, e sono convinta che la popolazione andrebbe a gara per prestarvi l’opera sua. Nulla si ottiene senza lavoro e senza fatica. Ma la buona volontà e l’attitudine non bastano quando manca la direzione; e la direzione non appartiene alle moltitudini, bensì all’individuo.
L’Italia può dirsi materialmente fatta, in quanto che la intera o pressochè intiera penisola è raccolta sotto un unico reggimento, e più non vi sono padroni stranieri. L’Europa tutta ha riconosciuto il diritto che noi abbiamo di esistere come nazione indipendente. Nel corso dei sette anni, che compongono l’età nostra come nazione, abbiamo ottenuto dei mirabili risultati: la distruzione del brigantaggio; l’abolizione dei conventi; il nuovo assesto che sta per darsi all’asse ecclesiastico; il traslocamento del governo e della rappresentanza nazionale da Torino a Firenze; la riunione delle provincie venete al rimanente d’Italia; e la probabilità di trovarci fra poco in condizione di trattare direttamente col Santo Padre; la cessione del potere temporale, e i compensi che può meritare simile cessione. E l’avere ottenuto tutto ciò senza attraversare quelle tristissime e sanguinose crisi di rivoluzioni, di reazioni e di guerre civili, che lasciano indelebili tracce e dolorose memorie nelle popolazioni che vi soggiacquero, sono benefizi di cui non possiamo mai essere abbastanza grati alla Provvidenza ed agli uomini che la Provvidenza scelse per suoi strumenti. Ma appunto perchè siamo stati così evidentemente e gratuitamente protetti sin qui, dobbiamo mostrarci degni di tale protezione, porci arditamente e devotamente all’opera, e nulla lasciare intentato, nè stancarci, nè disgustarci od annoiarci di ciò che può contribuire a porre il nostro paese fra i più inciviliti e i più rispettati del mondo.
Quali sono gli ostacoli che si oppongono al nostro progresso? Due sono i principali.
1.° La depravazione lasciata nel carattere delle popolazioni da una tirannide di tanti secoli, astuta ed iniqua, che non contenta di ridurci colla violenza e coi mali trattamenti ad una cieca obbedienza, lavorava a renderci incapaci di usare, senza però abusarne, di una saggia libertà.
2° La scarsezza del denaro, mentre avremmo così ingente bisogno di abbondanti ricchezze, per dotare il nostro paese di tutte quelle conquiste della scienza e della industria moderna, strade ferrate, canali navigabili, opifici, macchine, ponti, per mantenere un poderoso esercito, una forte marina: cose tutte che i nostri antichi padroni non si curarono di procurarci. Il primo di questi due ostacoli, è certamente il più grave e il più difficile a superarsi; potendo il secondo considerarsi come conseguenza del primo.
Ma per trovare la via di vincere questi ostacoli è primieramente necessario di studiarne attentamente la natura, il carattere, la potenza e l’azione sull’indole e sui costumi delle popolazioni italiane. Abbiamo veduto come la secolare oppressione, sotto cui visse l’Italia sino al 59, ne ha spogliati della energica operosità, che è forse la prima delle condizioni indispensabili alla vita di una nazione, ed è propriamente ciò che corrisponde alla forza vitale dell’individuo. Ma questo difetto di vitalità si strascina dietro di sè una deplorabile sequela d’infiniti danni. Il despotismo ha fra gli altri effetti quello di offuscare e di traviare il sano giudizio delle sue vittime. I fatti e gli avvenimenti non portano più con essi le naturali loro conseguenze, che sono altri fatti ed altri avvenimenti. L’uomo ignorante non aspetta di veder succedersi i futuri eventi, a seconda della tendenza degli eventi anteriori. Le nozioni di causa e di effetto si confondono nella mente di lui, poichè a sconvolgere il corso regolare delle cose, sempre interviene la capricciosa volontà del despota, che di nulla tien conto, fuorchè della soddisfazione delle private sue mire. Un uomo tenta una pazza speculazione, e la tenta senza possedere alcuni di quei mezzi che potrebbero renderla meno rovinosa; ed il pubblico argomenta accuratamente che una terribile catastrofe sta per piombare sul temerario speculatore. Ma questi gode la protezione di qualche oscuro membro della casa del padrone; il quale conosce le vie ingannevoli e tenebrose che conducono all’orecchio di quello, e se ne vale in favore del pericolante amico. — Ed ecco che all’ultima ora, quando il precipizio si apre sotto i piedi dell’imprudente, quando la sua caduta è certa, la mano onnipotente del despota lo afferra, lo solleva, e lo depone sovra un solido terreno; e di ciò non contento, impedisce talvolta a' suoi creditori di costringerlo al rimborso del danaro che loro è dovuto. Il principale insegnamento che i popoli traggono da tali fatti è questo: che il favore del principe è la sola ancora di salvezza su cui è ragionevole di affidarsi. La quotidiana esperienza nulla insegna oltre ciò. La imprudenza non è più una sorgente di disastri, la sapienza, l’avvedutezza, la moderazione, la precisione delle vedute, la fecondità degli spedienti, la puntualità nell’adempire gli assunti impegni, non sono più una garanzia di felice successo. Il favore del sovrano tien luogo di qualsiasi dote, e senza di quello nulla si ottiene. Quando viene repentinamente a cessare la onnipotenza di tal favore, o quando una costituzione vieta ad esso d’intervenire negli affari dei cittadini, a chi si rivolge per ottenere una direzione o un appoggio il popolo educato da più secoli a non fare assegnamento che sulla protezione del padrone?
Così avviene di noi. — Dal 59 in poi si sono tentate molte cose; ma si sono tentate come se il felice o l’infelice successo di esse fossero accidenti di nessun conto, indipendenti dal modo con cui si dirigono e si conducono gli affari. Si suol dire che gli speculatori italiani si affidano nella stella d’Italia; ma il fatto è questo, che la immensa maggioranza dei nostri speculatori non ha mai studiato le condizioni in cui deve esser posta una speculazione perchè se ne possa sperare un favorevole risultato. V’ha di peggio. Benchè nulla attendano dal sovrano favore, gli speculatori che soggiacciono a qualche sventura, ne incolpano nel segreto de’ loro cuori la poca benevolenza del governo, il ministro non ha mai veduto di buon occhio questa infelice impresa, dicono a chi li interroga sulla loro sventura; non so che cosa il segretario generale abbia contro di me, ma egli non mi ha mai dimostrato nè interessamento, nè simpatia; e se la mia impresa andò fallita, ciò accadde perchè il governo nulla fece per salvarmi, mentre egli poteva facilissimamente impedire la mia caduta. E mentre lo speculatore fallito parla con tale apparente moderazione, esso accusa sovente in suo cuore il governo di mala fede, di animo vendicativo, di venalità, di corruzione, ecc., ecc.; perpetuandosi in tal modo fra i cittadini e i membri del governo quella diffidenza e quel malumore, che sono di sì grande impedimento al regolare sviluppo della nostra prosperità.
Lo speculatore non si inganna però sempre, quando dice che il governo avrebbe potuto salvarlo se lo avesse voluto. Ma il governo avrebbe allora oltrepassato i limiti della sfera di azione a lui prescritta. Il governo di un paese libero non deve intervenire nelle faccende dei privati, se non per far eseguire le leggi che possono riferirsi ad essi. Un governo costituzionale non deve assumere il carattere paterno: il governo è il delegato della nazione, non ne è il tutore, e molto meno il padrone. Questo è quello che non sappiamo ancora intendere. Dai precedenti governi, tanto dall’austriaco pretto, quanto dagli altri più o meno indirettamente austriaci, non aspettavamo che persecuzioni, vessazioni, ingiustizie, violenze, ecc. e la nostra aspettativa era sovente superata dal fatto. Ora aspettiamo dal nostro governo tutto l’opposto di ciò che aspettavamo dall’Austria, e ci troviamo necessariamente delusi nelle nostre speranze; perchè non abbiamo imparato ancora che da un governo costituzionale si richiede principalmente che esso si astenga da qualsiasi intervento negli affari dei privati, almeno sino a tanto che le leggi non sono da questi violate. Quel costante bisogno di appoggio, di protezione, di favore e di direzione, è la più profonda piaga che ci abbiano lasciato le nostre infrante catene. È questo un sintomo troppo evidente della debolezza del nostro carattere, del nostro criterio e della nostra volontà; è una tentazione pel governo, il quale vedendosi implorato dai cittadini perchè intervenga negli affari loro, e sentendo che il suo rifiuto eccita mali umori e risentimento, è necessario che conosca perfettamente i propri impegni, e sia fornito di singolare onestà per non cedere, e per non trasformarsi insensibilmente in ciò che chiamasi governo paterno ossia dispotico.
L’ignoranza in cui vegetiamo e in cui ci mantennero scientemente i nostri padroni, combinata colla naturale indolenza, propria a tutti i popoli meridionali, ci rese sin qui incapaci di competere colle nazioni vicine nelle industrie e nel commercio, e ne lascia senza difesa contro la superstizione, l’assoluto, il tirannico e talvolta immorale dominio del clero, non meno ignorante, è vero, e non meno inerte dei laici, ma che riceve le sue istruzioni e la sua parola d’ordine da Roma. L’Italia meridionale è per così dire esclusivamente ligia al suo clero, e a quelle torme di frati e di monache che la divorano. L’Italia settentrionale non è così acciecata, o almeno gli abitanti delle sue città si sono sottratti alla tutela clericale; ma le popolazioni delle nostre campagne sono nelle mani del clero tanto quanto le popolazioni del mezzodì. Il clero delle provincie settentrionali d’Italia è meno sensuale e meno ignorante del clero napoletano e siciliano, e della moltitudine di frati che occupavano tutte quelle contrade; ma in compenso esso è forse meno sincero. Obbediente ad alcune sommità clericali, le quali sono in perenne ribellione contro il governo italiano, e sempre intento a macchinare congiure contro il medesimo, il clero delle nostre campagne dispone come gli piace de’ suoi popolani, e mentre finge tendenze liberali, mentre deplora di essere impotente a fare il bene, si oppone copertamente a tutto ciò che potrebbe sollevare il contadino dalla sua secolare ignoranza, e illuminarlo sui veri suoi interessi, e lo mantiene in uno stato di stolida ostilità contro i naturali suoi protettori.
I possidenti delle campagne dell’Italia settentrionale avrebbero cento mezzi per combattere l’influenza del clero e per sostituirvi la loro. Ma nulla si ottiene senza qualche sforzo e senza qualche fatica. Ora la fatica è la cosa che più ripugna all’attuale generazione italiana. Le terre più produttive, quelle che danno tuttora qualche valore alla possidenza fondiaria, sono situate in quella parte che chiamasi la bassa Lombardia, e che comprende il Lodigiano, il Pavese, il Cremasco, il Piacentino, il basso Novarese e la Lomellina: paese tutto di pianura, e spoglio di quelle attrattive di cui abbondano i paesi di montagna. Oltre a ciò l'aria di quei fertilissimi luoghi è sovente impregnata di miasmi palustri, e gli abitanti vi sono esposti a ricorrenti febbri intermittenti, che degenerano talvolta in perniciose, e forniscono ai possidenti di quelle terre un plausibile pretesto per non visitarli. Tali poderi, che formano ora tutta la ricchezza effettiva dei signori dell’Italia settentrionale, poderi assai più estesi di quelli situati sulle sponde dei nostri laghi, o sui colli della Brianza o del Varesotto, sono affittati ad una classe di cittadini che non esiste forse altrove che in Lombardia ed in alcuni stati dell’America.
Parte della classe degli affittaiuoli della bassa Lombardia trae la sua origine dalla classe dei contadini, ed ha tuttora comune con questi la profonda ignoranza e un eccessivo amore del lucro.
Alcuni affittaiuoli emergono dalla moltitudine degli uomini di contado, quando uno di essi, o più fortunato o più accorto o meno tenero di coscienza de’ suoi compagni, è riuscito a mettere insieme qualche migliaio di lire. — Esso prende un piccolo podere in affitto, e vi si stabilisce colla sua famiglia, incominciando una nuova esistenza. Ogni legame di consanguineità o di amicizia cogli antichi suoi pari è da lui spezzato. Da quel momento in poi il contadino diviene il renitente, l’infedel servo dell’affittaiuolo; e questi assume il carattere di tiranno volgare, brutale, e talvolta crudele.
Il contadino che riesce a salire in più elevata sfera e a prendere posto tra gli affittaiuoli, deve necessariamente possedere qualche dote naturale di cui sieno privi i compagni de’ suoi primi anni. Queste doti sono per lo più l’accortezza, la dissimulazione, l'avidità di lucro, ed un certo istinto che lo strascina verso alcune speculazioni piuttosto che verso certe altre. Convien pure ch’egli non sia nè trattenuto nè incomodato da delicatezze o da scrupoli di coscienza, nè da pietosi riguardi per le sofferenze de’ suoi dipendenti, o pel danno ch’ei cagiona altrui affine di giovare a sè medesimo.
Queste facoltà naturali non sono già quelle che formano e che distinguono l'onesto uomo ed il cristiano; e le ricchezze, che vanno cumulandosi nelle mani di siffatti uomini, sono e rimangono sterili pel paese. A quelle facoltà, che meglio sarebbero chiamate vizi, si aggiunge a poco a poco l'orgoglio e la vanità generale del successo; poi l’ambizione di ulteriori successi ed un odio acerbissimo contro tutto ciò che gli si oppone, o che giova ad altrui piuttosto che a sè stesso.
Avvezzo dalla più tenera infanzia alle privazioni dell’estrema povertà, il contadino arricchito tratta col massimo disprezzo i lamenti che gli fanno i contadini rimasti poveri; ma ritiene di avere acquistato il diritto di compensare a sè medesimo le sofferenze antiche colla più ampia soddisfazione di tutti gli istinti materiali. Siccome però le delicatezze, e le ricercatezze del lusso elegante, sono ad esso sconosciute, gli istinti ch’ei vuol soddisfatti sono limitati al mangiare, al bere, al fumare, all’annasare tabacco. I contadini che da essi dipendono non hanno agli occhi suoi diritto alcuno di voler migliorata la loro sorte. Perchè non seguono essi il suo esempio? Perchè non seppero arricchirsi? Il povero deve patire; tale è la moralità del contadino arricchito.
Un’esistenza così spoglia di aspirazioni elevate, di tenere affezioni e di onesti propositi, deve necessariamente corrompere e degradare la condizione morale di chi se ne accontenta; ed è cosa veramente deplorabile che la sola industria in cui l'italiano abbia progredito con qualche successo anche sotto il dominio straniero, la sola industria che produce qualche vantaggio al paese, sia in parte almeno affidata ad una classe d’uomini sì poco degna della sua missione. Nè v’ha speranza che quel senso di religiosa fede, che regna generalmente negli animi dei poveri abitanti delle campagne italiane e li mantiene entro certi limiti, possa produrre simili effetti anco sui contadini arricchiti. Questi ultimi si credono superiori alla semplice legge di Cristo, e si assicurano della tolleranza e della condiscendenza del loro curato con qualche dono o qualche invito alla loro mensa.
Ma se il contadino arricchito è il naturale nemico del contadino rimasto povero, cotale inimicizia non è la sola che turbi ed avveleni l’animo del primo; anzi è questa notevolmente superata dal timore e dall’odio che l’affittaiuolo nutre verso il possidente del fondo da lui coltivato, o come esso lo chiama, verso il padrone. Il povero contadino è considerato dall’affittaiuolo come uno strumento, di cui si vale per arricchirsi, ed al quale concederà qualche frazione delle ricchezze acquistate per mantenerlo in istato di servirlo con eguale efficacia ed alacrità. Ma il così detto padrone è il possessore delle ricchezze da lui ambite, e di cui esso pretende spogliarlo. Al cospetto del padrone il contadino arricchito si maschera e simula principii e sentimenti di cui ride nel cuor suo. Col povero contadino il ricco non si cura di sembrare diverso dal vero; e questa libertà di cui gode col povero, posta a confronto della dissimulazione che gli è forza usare verso il ricco, fa sì che esso abborre l’ultimo assai più del primo. Questo è d’altronde compiutamente in sua balìa, mentre il padrone può interrompere ad ogni momento il corso de’ suoi guadagni. Dunque il contadino arricchito teme il padrone, ed è temuto dal povero; per cui ella è cosa naturalissima che il padrone sia l’oggetto dell’odio più acerbo di cui è capace il cuore dell’affittaiuolo.
Non dovrebbe essere necessario di notare, che codesta pittura del carattere di alcuni fra i nostri ricchi agricoltori non va applicata ad ognuno di essi. Non solo v'hanno delle eccezioni, ma ve n’hanno molte; ed eccezioni sarebbero forse meglio dette quei primi. Gli agricoltori che prendono in affitto dei grossi tenimenti, non sono contadini arricchiti, e non pochi fra questi appartengono a famiglie benestanti e civili, poichè debbono necessariamente essere forniti di grossi capitali per procacciarsi le così dette scorie del fondo, ossia le mandre, e il bestiame da tiro e da soma, oltre il denaro occorrente per l'anticipazione di un anno d’affitto, e per far fronte alle eventualità di uno o di più falliti raccolti. Questi agricoltori ebbero naturalmente un’educazione non inferiore a quella dei cittadini che si dedicano alle professioni dell'ingegnere, dell'avvocato e del medico; e di tale educazione le leggi ed i principii morali di onestà e di onore formano parte integrante. Questi non ambiscono disonesti guadagni, e per ciò non considerano il padrone del fondo come il nemico loro. Tali eccezioni però non sono numerose abbastanza, perchè pochi sono gli uomini, che cresciuti fra la gente colta, e le agiatezze della vita civile, scelgano di rinunziare a queste e a quelle, per condurre una vita faticosa, scevra d’ogni dolcezza civile, fra gente rozza, ignorante, e più propensa al male che al bene. Alcuni, spinti da circostanze speciali o da inclinazioni possenti, abbracciano la professione dell’affittaiuolo. Avviene allora non di rado una trasformazione, che vale sempre più a provare come la classe sociale degli affittaiuoli non sia in armonia coi bisogni e coi progressi della nostra vita civile. Accade sovente che l’uomo colto, educato per esser membro di una società colta, trovandosi tutto ad un tratto fuori di essa, lasciato digiuno di ogni alimento intellettuale, costretto ad applicarsi esclusivamente della realizzazione del maggior lucro che ottenere ei possa, non va guari che si vede rapidamente cadere negli andamenti dei rozzi suoi compagni, cercarsi delle distrazioni nei piaceri più volgari, e dimenticare a poco a poco l’abito più elevato e spirituale de' suoi primi anni.
Altre eccezioni e più numerose s’incontrano in una categoria di ricchi agricoltori, degni dell’universale rispetto. Evvi delle famiglie di affittuavoli che rimasero tali per più e più generazioni, il padre morente affidando al primogenito l’incarico di proteggere e di reggere l’orbata famiglia, questi assumendo l’autorità paterna, e i minori fratelli sottomettendosi di buon animo alla sua autorità.
Codeste famiglie si sono serbate quasi intatte per più generazioni; ed ebbero l’origine al tempo stesso in cui la stretta osservanza della morale cristiana e cattolica, e il vivere al di fuori del turbine cittadino una vita operosa e tranquilla, bastava a preservarle da ogni corruzione di costumi e di principii.
Esse rimangono tuttora come monumenti di una età che lasciammo lungi dietro di noi; le rispettiamo perchè rispettabili; non temiamo da esse raggiri, nè perfidie, nè atti crudeli verso i poveri giornalieri; ma sappiamo che la esistenza loro è oramai vicina al suo termine. Tali esistenze patriarcali non ponno riprodursi nell’età nostra. Nessuna campagna, per remota che sia, può difendersi ormai dalla invasione della vita cittadina. Altre volte la società progrediva a lentissimi passi, e le generazioni si sviluppavano a seconda della educazione ricevuta nella infanzia, quando questa educazione fosse onesta e comprendesse gli acquisti già compiuti della civiltà. Il padre poteva servire di esempio e di modello al figlio. Oggi tutto è cangiato: l’educazione anche la più completa non basta alla vita naturale dell’uomo, se questi non la perpetua, ma commette l’errore di crederla sufficiente e di chiuderla.
I progressi delle scienze a cui si appoggia la civiltà sono ora così rapidi, incessanti ed infiniti, che la vita di un uomo basta appena a seguirli e a registrarli. L’età del riposo era aspettata dai nostri padri, e giungeva per essi colla vecchiaia; oggi chi vuol riposare deve isolarsi assolutamente dalla società, chiudere gli occhi, turarsi le orecchie, ed ignorare le sorti de’ suoi simili, perchè in tutto il consorzio umano non v’ha più un angolo dedicato al riposo. Siamo entrati nella sfera del progresso continuo, del moto perpetuo e sempre più rapido. — Colui che dopo un decenne riposo rientrasse nella società umana, troverebbe ogni cosa così cangiata, che gli sembrerebbe di stare fra gente che non ha comune con lui neppure la origine.
L’era delle famiglie e dei costumi patriarcali è chiusa. Me ne duole perchè erano monumenti di moralità, di doveroso affetto, e di pietà sincera. Ma la società, che tende a’ suoi fini, ha bisogno di altri strumenti. Non mi estenderò più lungamente a parlare di questa categoria di ricchi agricoltori italiani, sebbene sia oggidì non poco numerosa, perchè la credo destinata a scomparire in breve dal nostro suolo. Non vedo per essa nè posto, nè missione nella moderna società industriale.
Un problema che tutti i nostri ricchi agricoltori sono chiamati a risolvere, e che dà loro molto da pensare, si è quello della educazione dei figli.
Alcuni fra i padri di famiglia vogliono arricchire i figli del bene di una educazione cittadina, e si preparano dei successori dottori in legge o in medicina, che hanno imparato molte cose, ma nessuna di quelle a cui sono destinati ad attendere. Altri padri al contrario si sdegnano al solo pensiero che i figli loro abbiano da sapere ciò ch’essi ignorano, e trasmettono loro esattamente la somma di cognizioni che ricèvettero dai padri loro. Codeste educazioni hanno i peggiori risultati. L’ignoranza ch’era pressochè innocua nei padri, perchè posti in un’atmosfera in armonia con quella, diviene deplorabile e direi quasi mostruosa nel figlio, quando esso trovasi in contatto con cose e con individui di troppo a lui superiori. Ogni passo ch’esso muove, ogni via ch’esso tenta, lo rende l'oggetto del pubblico scherno. Esso non sa difendere sè medesimo, nè i propri interessi, se non coll’astuzia, colla bugia; e non potendo misurare la propria inferiorità, nè giudicare accuratamente il valore delle sue risorse, le adopera tutte, persuaso che danneggiando altrui, giova a sè stesso.
Mi sono trattenuta così a lungo sulla classe dei nostri ricchi agricoltori, perchè essa forma realmente uno degli strumenti principali della nazionale prosperità; l’industria agricola essendo la sola che possa sostenere il confronto colle industrie straniere, e trovandosi essa assolutamente abbandonata alla classe dei ricchi agricoltori. Non è superfluo che il paese, e la classe dei possidenti in particolare, sappia su chi riposa la ricchezza della nazione.
Quando la nuova legge comunale italiana fu promulgata ed attivata nelle nostre campagne, alcuni dei nostri affittaiuoli si accinsero ad una ambiziosa intrapresa. Un certo numero di essi concepì il pensiero di impadronirsi delle autorità che lo Statuto concedeva alle classi popolari rurali. In molte località i voti dei contadini furono o comperati o strappati con minaccie, ed andarono a favorire affittaiuolo più ardito, più ambizioso del luogo. Volevano gli affittaiuoli occupare tutti i sindacati, riempire i consigli comunali di creature ad essi ligie e divote, imporre a loro capriccio i comuni, impedire le riforme e i progressi della pubblica istruzione, la costruzione di nuove strade che favoriscono le relazioni fra le varie provincie italiane, farsi eleggere deputati, nutrire ed invigorire il goffo malcontento dei contadini, mantenendoli oppressi sotto il triplice flagello della miseria, della ignoranza e della superstizione, e preparare il ritorno della dominazione straniera, ch’essi desiderano, non per altro se non perchè considerano gli austriaci come i nemici della classe dei possidenti.
Queste avare, ambiziose, e poco oneste mire non ebbero sin qui effetto per varie ragioni. In qualche località furono tacitamente combattute da alcuni uomini dabbene, che svelarono al popolo le trame ordite, e li protessero contro le minacciate conseguenze della loro ribellione. Ma nel maggior numero dei casi le congiure andarono a vuoto, perchè concepite senza prudenza nè abilità di sorta. Il più vivo desiderio degli agricoltori ambiziosi era il farsi eleggere deputati. Ciò credevano di conseguire trascinando al collegio elettorale la maggioranza dei voti del loro comune, maggioranza che si trasformava in una impercettibile minoranza quando trovavasi a fronte dei votanti dell’intero collegio.
Il perno dell’ambizione del nostro contadino arricchito essendo appunto la deputazione, lo scacco toccatogli nelle elezioni gli tarpò le ali. Ma questo sgomento non si perpetuerà; ed il ricco agricoltore, risoluto di rappresentare al parlamento gli interessi agricoli, tesserà nuove trame per rendersi gradito agli elettori. Se un certo numero di codesti ambiziosi si fa strada nel parlamento, gli interessi agricoli della nazione (interessi interamente estranei ai possidenti fondiari) verranno presentati sotto falsi colori al pubblico e all’assemblea; i pretesi rappresentanti di questi interessi acquisteranno una notevole influenza sui loro colleghi, perchè saranno da essi considerali a priori come i soli che bene li conoscano, e che abbiano ragione di volerli protetti.
Nessuno sognerà che l’agricoltore voglia arricchirsi rovinando l’agricoltura e il paese; e ciò non accadrebbe diffatto, se la ignoranza e la malignità del contadino arricchito non fossero del pari grandissime, e se la noncuranza dei possidenti non le uguagliasse.
Importa assai che mentre le cose sono ancora in questo stato, i possidenti prendano cognizione della condizione delle loro terre e dell’agricoltura, dei trattamenti a cui soggiacciono i loro contadini, delle conquiste operate nelle scienze naturali dalle vicine nazioni e dei loro effetti sull’agricoltura, delle leggi economiche e finanziarie, alle quali deve uniformarsi una nazione che voglia prosperare e non sentirsi inferiore alle altre. In una parola il possidente deve assumere per conto proprio quella parte della società agricola che l’agricoltore tenta di usurpare per fini suoi privati e dannosi. Perchè permettere che fra il contadino ed il signore, fra il popolo e la classe dei cittadini colti, direi volontieri tra il padre e il figlio, sorga un intruso, il cui intento è di seminar zizzania fra questo e quello, di presentare l’uno all’altro sotto falsi e calunniosi colori, per rovinare il ricco e per dominare il povero, e ciò perchè vittime anch’essi della più profonda ignoranza e delle perverse passioni generate da questa, credono (ed a torto il credono), di potersi innalzare sulle universali rovine?
Facciamo tutti ed ognuno di noi il nostro dovere. Ricordiamoci che in un paese libero, governato dalla nazione stessa per mezzo de’ suoi rappresentanti, ogni uomo, per grande o per infima che sia la condizione sua propria, è un servitore del pubblico, e non v’ha colpa o sciagura nazionale di cui non debba sentire anch’esso rimorso e danno. L’oppressione, sotto cui abbiamo troppo a lungo trascinata la vita, ne ha insegnato a considerare il riposo come il degno oggetto delle nostre legittime aspirazioni.
Fatale errore è quello che trova nella nostra costituzione fisica, come popoli meridionali, un deplorabile ausiliario. Nessuno ha il diritto di riposare, mentre la nazione sta componendosi ed ha bisogno di aiuto. Gli infingardi sogliono giustificare la infingardaggine loro dicendo, che v’hanno braccia sufficienti per compiere le opere incominciate, e per portare il peso delle pubbliche faccende. Tale asserzione è falsa. Il cittadino che non deve alla patria una parte delle sue facoltà, non può essere che un uomo privo affatto di facoltà; ma colui che è capace di operare qualche bene, non può rifiutare alla sua patria una parte de’ suoi talenti, della sua operosità, delle sue forze. Nè la nazione, nè il governo non sono esseri distinti e divisi dal singolo cittadino, chè il cittadino forma parte integrante dell’una e dell’altro. I governi despotici hanno un’esistenza indipendente da quella della nazione governata, e per conseguenza da quella degli individui di cui questa si compone. Vi è quasi sempre un latente antagonismo fra il governo despotico e la nazione governata dispoticamente; ma tale antagonismo non si manifesta se non per accessi intermittenti; e negli intervalli di calma l’osservatore superficiale può figurarsi che il governo e la nazione altra relazione non abbiano oltre quella del padrone col servo. — Ma in un paese libero, che si governa da sè medesimo, mediante i suoi rappresentanti, non vi è atto governativo, non vi è vicenda nazionale a cui un cittadino possa rimanere estraneo ed indifferente. Ognuno porta la parte sua della responsabilità delle risoluzioni governative, siccome ognuno divide e risente le conseguenze delle sciagure nazionali e dei nazionali vantaggi.
Questo è quello che molti fra gli italiani ignorano, o fingono d’ignorare, per non essere costretti dalla loro stessa coscienza ad abbandonare le dolcezze dell’ozio ed arruolarsi fra gli operosi. Pur troppo v’hanno fra noi molti giovani nati da illustri e cospicue famiglie, educati a tutte le eleganti delicatezze della vita civile, che menano vanto della loro inerzia e della loro indifferenza per le pubbliche cose, che si dichiarano spettatori neutri dello svolgimento nazionale, e credono di dar prova della superiore natura dell’ingegno loro, criticando e deridendo tutto ciò che nel paese e dal paese si opera. Non sanno essi forse che deridendo l’Italia e chi la rappresenta, deridono sè stessi? E come possono essere rispettati dallo straniero, se gli insegnano a sprezzare l’Italia? Se ad essi sembra che i rappresentanti del paese nostro non lo rappresentano degnamente, lo dichiarino schiettamente, ed espongano ad un tempo come dovrebbe essere rappresentato, si dispongano a rappresentarlo, e facciano ogni sforzo per mostrarsi più saggi e più benefici di chi li precedeva. Ma starsene colle mani alla cintola, pavoneggiandosi della propria inerzia, e contenti di versare biasimo, sospetto e ridicolo sopra coloro che alla patria e al dovere hanno consacrato la vita e le facoltà, è questo un contegno così odioso, che la innata generosità della giovinezza dovrebbe bastare a preservarne la crescente generazione.
Quella tendenza al biasimare e al volgere in ridicolo qualsiasi cosa o persona che a noi si presenti con aspetto grave, è una delle piaghe d’Italia.
L’uomo educato e colto non sa frenare la vena sarcastica, e crede far prova d’ingegno fino ed accorto, lasciandole libero il corso. Il popolano che vede il nobile, il ricco, il potente trattare ogni cosa con ischerno e leggerezza, impara a tenere in poco o nessun conto le cose così derise. Quando venne pubblicato il nuovo codice italiano, non vi fu legge o capitolo di esso che potesse sottrarsi alla sferza, non dirò dei giureconsulti, ma di tutti coloro che sanno o che non sanno che cosa sia un codice. I giornali criticavano ogni espressione del nuovo libro, e la critica loro non era già la critica grave e ragionata che si conveniva al soggetto; era la critica esagerata e contorta del Pasquino e Marforio, ed era ripetuta da gran parte dei lettori, non perchè giusta, vera e coraggiosa, ma perchè atta a promuovere le risa. Che cosa ne risultò? Ne risultò questa deplorabile conseguenza, che una gran parte del popolo non ha per la legge del suo paese quel rispetto, nè quella cieca obbedienza, senza la quale il buon ordine e la moralità pubblica sono impossibili. Mi si dirà forse, che se il popolo non rispetta la legge, ciò avviene perchè gli esecutori della stessa non sanno farla rispettare, o perchè la legge medesima non è rispettabile. — Vane asserzioni. Il popolo non è in grado di giudicare del merito della legge, e non dovrebbe creder lecito il tentarlo. Quanto alla taccia che si appone agli esecutori di essa, l’accusa è facilmente rintuzzata; poichè se gli esecutori della legge non la impongono con sufficiente autorità e fermezza, ciò proviene dal disprezzo con cui la vedono accolta da coloro che dovrebbero ciecamente seguirla. Se gli esecutori della nostra legge meritano la taccia di debolezza, nessuno sapeva che essi la meriterebbero, quando appunto fu pubblicato il codice, e la derisione della legge non aspettò per manifestarsi che tale debolezza fosse conosciuta. Se il popolo non si cura della legge, si è perchè vide i suoi maggiori deriderla e farne soggetto dei loro motteggi. Se il buon senso nazionale non pone rimedio a questa malaugurata condizione di cose, verrà un giorno che il disprezzo popolare della legge produrrà delitti e disordini infiniti; e la colpa di questi peserà sul cuore e sulla coscienza dei beffeggiatori spensierati e frivoli, che non sanno por freno alla sbrigliata loro lingua. — Lo stesso accadde per le nuove imposte. Ella era cosa generalmente intesa e conosciuta che il peso delle imposte, cadendo tutto intero ed esclusivamente sulla possidenza fondiaria, era un’enorme ingiustizia, e rendeva impossibile il progresso dell’agricoltura. La tassa sulla ricchezza mobile, cioè sui capitali e sulle professioni, era desiderata e acclamata da tutti coloro che possedevano le prime nozioni della pubblica economia, e considerata come un futuro sollievo per la possidenza fondiaria, che è quanto dire per l’agricoltura. Eppure non appena fu promulgata la legge che imponeva la ricchezza mobile, ecco levarsi da ogni banda un coro di lamenti e d’invettive, come se la nuova tassa fosse destinata a rovinare l’intero paese, e giungesse improvvisa ed a tutti inaspettata. Egli è vero che la legge era male concepita in alcune sue parti, e che il regolamento per l’applicazione di essa, aggiungeva altri errori a quelli contenuti nella legge stessa. Egli è vero, a cagion d’esempio, che il minimun della rendita tassabile, fu stabilito troppo basso, poichè colui che guadagna col lavoro delle sue mani 400 franchi all’anno, ed ha una famiglia da mantenère, non può sottrarre una parte anche minima dal suo meschino guadagno per soddisfare l’esattore, senza risentirne un grave danno. Egli è vero altresì che i poveri non sono mai stati esonerati dal pagamento delle imposte; che ogni capo di famiglia, per povero ch’ei fosse, pagava altre volte il così detto testatico, ossia tassa personale, dalla quale erano esclusi i soli mendicanti, e che il testatico ammontava ad una somma pressochè tripla della tassa sul minimum della rendita, tassa che non giunge a due franchi annui. — Ma chi riflette a queste cose? La tassa sulla ricchezza mobile era nuovamente imposta; e d’altra parte nessuno ama di spendere il suo denaro altrimenti che per l’uso suo proprio. Dunque la nuova tassa spiacque a tutti quelli che vi soggiacquero; e perchè spiaceva loro, non si volle riconoscerne nè la giustizia nè la necessità, e si gridò contro il governo come tiranno e spogliatore. La tassa era stata stanziata dai rappresentanti della nazione; che importa? al solo governo fu imputata, e chi avesse giudicato secondo quanto si vociferava nelle conversazioni, sulle piazze e nei caffè, avrebbe concluso che il governo aveva ordinata arbitrariamente questa nuova imposta per arricchire sè stesso; e non per mettere il paese in condizioni tali che si potesse mantenere libero ed indipendente. — La nazione italiana attraversa ora una difficile prova, per acquistare e consolidare la sua libertà. Questa libertà, essa la possiede, e ne gode così pienamente, che non potrebbe oltrepassarla, senza cadere nel disordine e nell’anarchia. Ma l’acquisto di tanta libertà le costò caro, ed ora essa ne sta pagando il prezzo. — Nulla v’ha di più naturale, di più inevitabile. In sei anni abbiamo dovuto raggiungere sulla via della civiltà tutte le nazioni che vi camminavano da secoli, mentre noi eravamo rimasti immobili nelle tenebre dell’ignoranza e della servitù, in cui ci tenne il dispotismo straniero. Se gli italiani riflettessero freddamente, intenderebbero senza fatica che le conquiste operate debbono costare sagrifizi ingenti, ed avendo risoluto di operare tali conquiste, ne pagherebbero il costo senza lagnarsi e senza accusare alcuno. Ma gli italiani, per quanto appare, non sanno riflettere freddamente, e si consolano delle loro angustie, imputandole ora a questo ed ora a quello.
Somigliano in ciò i bambini, che urtando in qualche mobile, si adirano contro lo stesso, e lo battono fieramente, o per castigarlo o per dare sfogo all’ira loro e al loro dispetto. Si direbbe che nessuno o quasi nessuno in Italia avesse preveduto di dover comperare e pagare la sospirata libertà e l’indipendenza, altrimenti che con pochi giorni di combattimento e di entusiasmo. Occorrono invece lunghi e numerosi sacrifizi; e chi non sa incontrarli con animo sereno e tranquillo, non è degno di quei sommi beni, che sono la libertà e l’indipendenza. Ed è appunto la perpetua ribellione contro la necessità di tali sacrifizi che li rende più gravi e meno fecondi. La tassa sulla ricchezza mobile non era soltanto un atto di giustizia e di convenienza; era altresì e principalmente un atto di necessità, poichè senza un aumento determinato della rendita pubblica, il paese era esposto ad un disonorevole fallimento. La commissione pel riparto dell’imposta doveva raccogliere la somma voluta; ma essa non poteva regolarne la distribuzione se non fondandosi sulle dichiarazioni dei possessori di ricchezze mobili. Se questi avessero tutti operato onestamente, dichiarando senza menzogna i capitali da essi posseduti, o la rendita prodotta tanto dai capitali quanto dall’industria loro, la tassa sarebbe caduta su quelli ch’erano atti a portarla, e che appena ne avrebbero sentito il peso. Ma, cosa dolorosa e vergognosa a dirsi, pochi furono quelli che non ricorsero alla menzogna. Persone che spendono una grossa rendita, ne dichiarano la terza o la quarta parte.
Molti possessori di carte pubbliche si astennero dal dichiararle, e menarono vanto di questa loro simulazione. Eppure la somma totale prefissa doveva trovarsi, perchè necessaria alla conservazione del credito pubblico; e molti di coloro ch’erano in grado e in obbligo di pagarla, essendosi disonestamente sottratti all’adempimento del loro dovere, i poveri si trovarono naturalmente assai più gravati che non dovevano esserlo. Quindi lagnanze, malcontento ed accuse contro il governo spogliatore, che levava il pane di bocca ai miseri. Chi diceva loro che il governo non avea parte nella distribuzione della tassa, che le menzogne dei ricchi e non la crudeltà del governo, erano la cagione dei loro patimenti, non era ascoltato, e taluni cadevano in sospetto di intendersela col governo, per ingannarli e spogliarli impunemente.
Nelle campagne abbandonate all’influenza dei contadini arricchiti, vi fu di peggio. Gli affittaiuoli riescirono facilmente a farsi nominare membri delle commissioni di riparto, dai consigli comunali che loro obbediscono ciecamente; ed una volta in possesso della tassa, essi trattarono sè medesimi e gli amici loro con tale indulgenza e predilezione, che non pochi fra i poveri artigiani o mercantucci di contado, infelici che non arriverebbero a mantenere le loro famiglie, se la carità del padrone non venisse loro in aiuto, si videro tassati di maggior somma che gli stessi ricchi agricoltori membri della commissione. La nequizia di tale distribuzione era evidente, e doveva essere imputata agli autori di essa, cioè ai membri delle commissioni; ma questi insinuarono ai contadini che le vessazioni di cui erano le vittime emanavano dal governo; e siccome il contadino sa di poter maledire il governo impunemente, e teme di porsi in ostilità colla classe degli affittaiuoli, perciò credette o finse di credere alle menzogne dei commissari, e proruppe contro il governo in improperi e in minacce, sapendo altresi che così facendo otteneva il favore del suo clero. Il governo italiano rispetta la libertà del cittadino, direi quasi con troppo scrupoloso rigore, e non si prende la libertà d’intervenire nelle faccende che la costituzione ha riservate al cittadino, e che al cittadino spetterebbero giustamente, quando esso fosse onesto, sensato ed illuminato. Ma simili cittadini sono in picciol numero fra di noi. Il cittadino, a cui viene affidata tanta parte del governo nazionale, commette errori o colpe, o è vittima di accorti raggiratori; e quando ha rovinato, sè stesso e le cose a lui affidate, accusa il governo dell’universale rovina, e biasimando amaramente quello, si dispensa dal biasimare e dal correggere sè stesso.
Così accadde pure in proposito della emissione dei biglietti di banca a corso forzoso. Simili misure, che pur troppo sono talvolta necessarie, traggono sempre dietro di sè molti guai e molti disastri. Spetta ad ogni cittadino di scemare la gravità di quelle tristi conseguenze, accettando la propria parte nel danno comune, ed evitando di far pesare sugli altri più di quanto deve agli altri toccare. Se tutti sentissero la necessità di tal dovere, il danno prodotto dall’emissione della carta moneta non sarebbe intollerabile per nessuno. Ciò che costituisce la ricchezza dei facoltosi, non è il valore intrinseco del denaro ch’essi posseggono; bensì il valore convenzionale che al denaro viene attribuito. Sì fatto valore può essere trasportato ed applicato ad altri oggetti, senza cagionare direttamente un gran turbamento nella condizione finanziaria degli individui. Ciò che rende codeste misure pericolose, si è il discredito che nasce dalle medesime, mentre tutti sanno che nessun governo si appiglia ad esse se non per mancanza di altre risorse. E questo gli nuoce ne’ suoi negozi colle banche straniere, e conseguentemente può arenare il commercio e l’industria. Ma quanto agli effetti immediati della carta moneta sul ben essere dell’individuo cittadino, questi sarebbero appena sensibili, se tutti vi si rassegnassero onestamente. Ma così non accade. Non solo v’hanno molti che non vogliono soggiacere nè a danni nè ad incomodi, ma v’hanno pure di quelli che non esitano a trar profitto della sventura altrui, e che speculano su di essa. Quanti comperarono immediatamente tutto il denaro coniato già in circolazione, e negarono di cangiarlo coi biglietti di banca se non ricavavano una somma assai maggiore dalla somma che davano, attribuendo così alla carta un valore arbitrario assai al di sotto di quello che le dava la legge! Allora incominciarono gli imbarazzi, i danni reali, la confusione dei valori e dei loro surrogati. Il corso forzoso della carta non valse a mantenerne il valore, poichè i mercanti quasi tutti ricusavano di rimborsare, sia in denaro sia in carta, il di più del valore degli oggetti che si pagavano colla carta. Voglio dire che se uno voleva comperare un oggetto stimato cinquanta franchi, dando un biglietto di cento franchi, e ricevendone indietro cinquanta, questi incontrava un’invincibile resistenza nel mercante, e si vedeva costretto o a pagare cento ciò che valeva cinquanta, o a comperare un supplemento di mercanzia che lo addebitasse di cento franchi, o a costituirsi debitore per l’oggetto di cinquanta, o a rinunziare all’acquisto di esso.
Sulle prime s’imputavano questi inconvenienti all’inavvertenza del governo, che aveva emessi soltanto dei biglietti di cento franchi, invece di emetterne di venti, di dieci, di cinque, e persino di un franco. il governo si decise dunque di aderire al pubblico voto e di emettere biglietti di minor valore. Ma appena questi comparvero, che di bel nuovo sparirono: gli speculatori se n’erano impadroniti, e l’illecito mercato, che li aveva arricchiti col cambio della carta contro il denaro, ricominciò sul cambio dei grossi biglietti contro i piccoli. Ed il pubblico, poco intelligente delle vere cagioni de’ suoi danni, si adirava contro il governo, che sebbene avesse promesso di emettere gl’indicati biglietti, li emetteva in così piccola quantità che diventava quasi impossibile di ottenerne. Certo che il governo avrebbe potuto farne una nuova emissione; ma a che pro? Gli speculatori che avevano fatto monopolio dei primi, lo avrebbero fatto anche dei secondi, e la condizione del popolo non sarebbe punto migliorata.
Poscia fu promulgato il prestito forzoso. La somma chiesta dal governo fu assai minore di quella generalmente aspettata. Le condizioni fatte ai fornitori del denaro erano così favorevoli, che un capitalista avrebbe trovato difficilmente un migliore impiego de’ suoi capitali. I capitalisti non hanno durato fatica ad intendere il loro interesse; ma non soddisfatti del lecito profitto ad essi riservato dalla legge, alcuni di essi, sotto il manto di una lodevole sollecitudine pel pubblico bene, hanno come preso ad appalto il debito di certe località, anticipando i capitali a chi ne difettava (e questi disgraziatamente sono molti), vendendo il loro denaro a caro prezzo, ed usurpando con ciò il profitto che la legge aveva destinato a tutti. Quando i ricchi, e generalmente parlando le persone poste in condizione eminente, danno l’esempio della cupidità e della rilasciatezza nei principii di moralità, tale esempio è seguito con ardore da ogni classe di persone. Ella è cosa dolorosa e vergognosa ad un tempo il vedere i pubblici impiegati, sia delle ferrovie, sia d’altre pubbliche aziende, rifiutare la carta che vien loro presentata, e rispondere ai meritati rimproveri che loro si fanno con un ghigno malizioso ed insolente, che tali sono gli ordini del governo, che al governo debbono rivolgersi per ottenere giustizia, risarcimento, ecc. ecc. E le vittime della disonestà cittadina maledicono il governo, che altra parte non ebbe nei loro danni, se non col forse soverchio rispetto dell’individuale libertà, e coll’astenersi d’intervenire nelle private convenzioni quando non ne era richiesto da alcuna delle parti. Il nostro governo, il ripeto, rispetta la cittadina libertà, come va rispettata da un governo costituzionale, in un paese libero, le cui popolazioni apprezzano il benefizio della libertà, e se ne mantengono degne, seguendo i dettami di una rigorosa moralità. Disgraziatamente il paese nostro non corrisponde al rispetto che a lui mostra il governo. Questo tratta il paese come degno e capace di una libertà pressochè illimitata; ma il paese non è per anco nè degno nè capace di esercitare senza tutela i privilegi di tanta libertà. In certe classi cittadine l’amore del lucro domina ogni altro sentimento, e la libertà è impiegata ad ottenerne gli intenti con qualsiasi mezzo. In altre l’amore dell’ozio si è impadronito dei cittadini, riducendoli alla indecorosa condizione di spettatori dei pubblici eventi, mentre dovrebbero prendere in essi la loro parte. Tutte le istituzioni che assicurano la patria libertà, cadono in disuso e sono neglette per la pigrizia di chi dovrebbe difenderle.
Vedete la guardia nazionale, che arma il paese contro qualsiasi usurpazione, sia del governo, sia delle fazioni; che mette l’ordine e la sicurezza pubblica sotto la salvaguardia dei cittadini, e li avvezza al maneggio delle armi, sicchè possano, quando ne nasca il bisogno, trasformarsi prontamente in soldati. Gli amatori dell’ozio, fanno le beffe di così bella istituzione, per iscusarsi di non assumerne i pesi; e le file della milizia nazionale vanno di giorno in giorno diradandosi. — Vedete l’istituzione dei giurati. Le liste dei cittadini, destinati a sentenziare sulla colpabilità degli accusati, si compongono in gran parte di persone ignoranti, o svogliate, che considerano questo privilegio e questo diritto cittadino come un attentato contro i loro comodi e quell’altro loro diritto di starsene colle mani alla cintola. — Vedete il più importante, il più prezioso di tutti i diritti cittadini; quello cioè che concede alle popolazioni di mandare al parlamento i loro deputati, ch’è quanto dire di esercitare mediante i loro rappresentanti la sovrana autorità. Tale istituzione anch’essa fu prima beffeggiata e poi negletta; per modo che ai collegi elettorali non interviene ormai che una piccola frazione degli elettori iscritti, e la deputazione forse nulla più rappresenta, che i maneggi di alcuni ambiziosi e la colpevole indifferenza dei più. Ed anche di ciò si scusano i pigri, trattando con disprezzo quell’istituzione, prima colonna della nazionale libertà. Udite con che scherno parlano gli oziosi della rappresentanza nazionale! I deputati altro non fanno che ciarlare ed attendere ai privati loro interessi. Se si risponde loro che, ciò supposto vero, tanto più corre ad essi l’obbligo di scegliere con maggior accuratezza i nuovi deputati, alzano le spalle, affermando che tutti gli aspiranti alla deputazione sono della medesima tempra, che l’occuparsi di elezioni altro non è che un perditempo, ecc. ecc.
Sembra a vederli e ad udirli che in questi sei anni essi abbiano penetrato nelle profondità del governo costituzionale, e ne abbiano riconosciuta tutta la inanità. Le istituzioni che l’Inghilterra difende e mantiene con gelosa cura da tanti secoli; le istituzioni che la Francia ha comperato con tante rivoluzioni e tanto sangue, che non seppe conservare, e dietro le quali sospira con rammarico e dolore; le istituzioni che l’Europa intera si sforza di ottenere, e che ottenute soddisfano le aspirazioni liberali dei popoli più civili; le istituzioni che nel corso di due secoli crearono l’America, e la resero l’oggetto dell’universale meraviglia; queste benefiche, queste nobili istituzioni, noi, nati ieri, le abbiamo giudicate nello spazio di sette anni, e le abbiamo condannate come cose puerili, vane ed indegne del nostro rispetto. Mi perdonino i miei compatrioti, se dico loro che un tale giudizio è indegno di una nazione che rispetta sè medesima, e che vuol essere libera ed indipendente.
La guerra del 66 ha messo in chiaro una verità importantissima, ed è che la scienza, l’intelletto e la coltura intellettuale valgono più del numero, della forza e del coraggio anche sui campi di battaglia. A qual cagione si attribuiscono i mirabili trionfi della Prussia? Alla scienza de’ suoi generali, e al fatto che nessun cittadino è ammesso nelle file dei difensori del paese, se non ha seduto pel corso di sei anni sulle panche delle pubbliche scuole. Questa verità, questa superiorità del sapere sovra la forza materiale fu confessata da tutti; e si confessava altresi che il poco successo delle nostre armi deve essere imputato alla nostra ignoranza. Ne gioverà essa questa lezione? L’avvenire risponderà; ma quanto al passato fa d’uopo avvertire che in questi ultimi sei anni l’ignoranza nostra andò sempre crescendo. Gli studenti disertano le università, i professori, stanchi di professare nelle aule vuote, disertano le cattedre; e l’ultimo ostacolo posto alla prepotenza dell’ignoranza, il rigore dei pubblici esami, è rovesciato dagli studenti, che tratto tratto si ribellano, si rifiutano agli esami, ed esigono che il governo abbandoni il sistema che li costringe ad aprire qualche libro. E il governo cede a tali deplorabili esigenze, per evitare il disordine, gli scandali e la taccia di pedantesca tirannide. Il governo dovrebbe resistere, punire i rivoltosi, e mantenere la regola stabilita; ma egli è pur troppo vero che l’intolleranza degli oziosi è giunta a tale estremo, che la resistenza e la fermezza del governo darebbe luogo sulle prime ad ogni sorta di calunniose imputazioni e forse anco a scene scandalose. Il governo in questa occasione, come in tante altre, si comporta come dovrebbe comportarsi verso una nazione civile e degna della libertà: lascia che la nazione si governi da sè, seguendo i proprii lumi, le proprie facoltà. Ma si è egli assicurato che noi siamo in grado di governarci da noi? Se il governo volesse sciogliere questo problema, scoprirebbe tosto la nostra insufficienza; ma esso non si crede in diritto di varcare i confini stabiliti dallo statuto. Lo statuto costituzionale suppone una nazione civile, intelligente ed onesta; perciò ha fissato al governo certi limiti, oltre i quali esso non si è mai spinto. Esso si mantiene scrupolosamente fedele al giuramento prestato, e nessuno può di ciò biasimarlo: la nostra disgrazia consiste nell’avere uno statuto forse troppo largamente liberale; ma quando questo fu promulgato doveva reggere una sola provincia italiana, una delle più incivilite ed illuminate, se non la più civile e colta. La libertà di cui questa non avrebbe abusato, diventa eccessiva quando concessa all’intera nazione.
Noi non pretendiamo che i componenti il nostro governo non abbiano commesso errori, ed errori gravi. Ne abbiamo notati parecchi, e li abbiamo amaramente deplorati. — Ma ciò che vorremmo chiarire agli occhi della nazione si è il fatto, che codesti errori non furono commessi da un ente morale da essa distinto e ad essa estraneo. Il governo italiano altro non essendo se non una rappresentanza della nazione italiana, da questa stessa emanata, i difetti che si osservano nel nostro governo, sono i difetti nostri; i suoi errori, gli errori nostri, ai quali esso partecipa come partecipa alle nostre virtù.
La più cospicua di queste ultime, quella però da cui sorgono per noi e pel governo nostro molti danni, si è l’immaculato rispetto delle nazionali libertà, e dello statuto che a noi le assicura e le garantisce. — Vi è chi parla ancora del governo repubblicano come del solo sotto cui sieno sicure codeste libertà; ma nessuno che non sia traviato ed illuso dal vano rimbombo di sonore parole, nessuno che non abbia interamente perduto il senso comune, non vede che le libertà nostre sono piuttosto eccessive che imperfette. — La prova ne sta appunto nell’abuso che di esse facciamo, e nella costanza con cui il governo si astiene dall’approfittare dei nostri falli per abolirle. Chi può dire che vi sia maggior libertà nei cantoni elvetici (la sola repubblica esistente in Europa), o che si godessero maggiori libertà in Francia, quando questa reggevasi a repubblica, e i suoi cittadini espiavano col sangue la terribile colpa di chiamare i loro figli coi nomi dei padri loro, o di pregare Iddio nel modo che ad essi era stato insegnato dalle loro madri? La stampa non è forse piuttosto licenziosa che libera? Il diritto di riunione non fu esso sempre rispettato, sino a che non divenne sinonimo di disordine?
Ed oggi ancora, dopo tanti sfortunati esperimenti, un tal diritto non è forse mantenuto, e ristretto soltanto in particolari circostanze, in casi affatto eccezionali? Le elezioni dei deputati al parlamento non sono esse così libere, che vediamo poi la camera stessa, formata da quelle, cassarne un gran numero? Non parlerò della stranezza delle opinioni così rappresentate nel parlamento: ricorderò solo che vi fu una elezione cassata dalla camera, perchè l’eletto aveva subito condanne infamanti, non già per delitti politici, ma per delitti ordinari, e che il governo italiano non era intervenuto ad impedirla, fidando pazientemente nella revisione parlamentare. Credo che così facendo il governo seguisse religiosamente la via che gli tracciava lo statuto e la legge elettorale; ma, io ripeto per la centesima volta, vi sono dei paesi e dei tempi in cui la stretta legalità può essere fonte di gravi danni.
Una gran parte degli uomini che ne governano, e la real famiglia intorno alla quale va stringendosi l’Italia, governarono sino al 59 un picciol paese, una picciola, ma forte e saggia popolazione: quindi si trovarono quasi magicamente trasportati alla testa di una nazione di oltre venti milioni di anime, sparse lungo la penisola italica, colla missione di formare uno stato compatto di tanti stati divisi, e spesso stati nemici fra di loro; di comporli a nazione; di correggere, o, diciamo meglio, di distruggere i letali effetti di tanti secoli di servitù e di pessimo reggimento; di dotare le provincie annesse dei benefizi di una civiltà, da cui i loro governi assoluti e tirannici le avevano tenute deliberatamente lontane, e al tempo stesso di difendersi dai nemici che tuttora rimanevano sul nostro territorio, e di metterci in grado di scacciarnelo al più presto. Tutto ciò richiedeva ingenti somme di danaro; attività straordinaria; acutezza d’intelletto, prudenza instancabile, impero assoluto sulle proprie passioni, che mai non debbono dominare l’uomo di stato; coraggio a tutta prova, sì morale che fisico, sagacità, perspicacia, prontezza e sicurezza di concetto, fermezza e precisione nell’esecuzione dei ponderati disegni, disinteresse personale, probità riconosciuta, onoratezza, lealtà, veracità, ossia avversione invincibile alla menzogna. Tali sono, (e ne ho tralasciate altre molte) le doti, in parte naturali ed in parte acquisite, che debbono distinguere i ministri di uno stato retto costituzionalmente. Uomini siffatti sono poco numerosi in qualsiasi contrada: rarissimi tra noi, così di recente nati alla vita sociale e politica. — Uno ne avevamo, che sarebbe stato il primo fra i sommi delle nazioni più incivilite e colte, come la Francia e la stessa Inghilterra. Si sarebbe detto in vero che la Provvidenza ne aveva fatto dono di uno di questi, per sottrarci a quella secolare servitù, che ci disonorava, e minacciava di perpetuarsi a nostro danno. Ma se la Provvidenza ce lo aveva dato, convien dire ch’essa ce lo ha ritolto; e lo ritolse prima ch’egli provasse nella sua piena amarezza l’ingratitudine di una nazione che da lui teneva l’esistenza, ossia l’indipendenza e la libertà. Forse che la Provvidenza volle farne conoscere, e toccare con mano, quanto era per noi malagevole il guidarci nei torbidi mari della politica, della diplomazia, e dello spirito di parte. — Fra tanti ministri che si sono succeduti al nostro governo dopo la morte del conte Cavour, non credo che si possa senza ingiustizia condannarne un solo come assolutamente inetto, o come disleale e traditore. E difatto nessuno fra i più accaniti oppositori che alcuni collegi elettorali mandarono al parlamento colla espressa missione di rovesciare almeno un gabinetto, nessuno fra quegli stessi deputati che ricevono da Giuseppe Mazzini le loro inspirazioni, si provò d’intentare una formale accusa contro un ministro. Se i nostri ministri commisero errori, chi non ne avrebbe commessi al loro posto? Gli errori di coloro che reggono uno stato, vanno annoverati fra le piaghe inerenti alla natura degli uomini e delle cose, che nessuna umana prudenza e previdenza potrà mai cicatrizzare o evitare. Al governo italiano spettava il dovere di fare un’Italia, dotandola di libertà e d’indipendenza. L’Italia è fatta, libera ed indipendente. Si dovrebbe condurre il nostro governo al Campidoglio, piuttosto che alla Rupe Tarpea.