Rapisardi e Carducci - Polemica/IX

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Dal Corriere di Catania — 30 e 31 Maggio.

PEL PROF. CARDUCCI.

Noi rispettiamo troppo il Prof. Carducci, non ostante le colpe che gravano sulla sua coscienza di letterato, per non curare abbastanza la sua dignità. Ma quand’egli nell’orgasmo d’una collera ingiustificabile, commette la gran [p. 51 modifica]za di lasciarsi trascinare ad una, chiamiamola pure, polemica, punto dignitosa, a giudizio di tutti, per lui; quand’egli, per giustificare la sua bile, vorrebbe farsi puntello di certe accuse che messe avanti magari dal Prof. Carducci, fanno ridere addirittura; è bene che qualcuno, sgombro da passione, dilegui qualunque dubbio possa esser sorto in qualche anima candida, in seguito all’ultimo articolo del D. Chisciotte di Bologna.

E mentre il Prof. Rapisardi, fra’ silenzi della sua villetta, con quella olimpica serenità ch’èsuo pregio singolare, dichiarando ch’egli non ha tempo da perdere in simili guerricciuole, interroga divotamente la musa e ne registra i sacri responsi, io qui sottoscritto mi credo in dovere di far delle brevi osservazioni a quanto il Prof. Carducci asserisce.

Pare certo oramai, mettendo da parte la carità pelosa, la quale non fa per noi, che l’illustre Professore, tutto sommato, di questo non sa darsi requie: che il Rapisardi, dopo averlo satireggiato nel Lucifero, lo insultò mandandogli per dippiù il libro e pregandolo di non porgere orecchio ai suggestori invidiosi. [p. 52 modifica]

Ragioniamo — Chi accerta in primo luogo al Prof. Carducci che il Rapisardi con quelle due terzine messe in bocca a Dante intendesse parlare personalmente di lui, e non invece di un certo tipo di poeti in generale? Di supposizioni può farsene quanto si vuole; ma, e le prove? C’è forse fatto nome di sorta? No. E quando anche, come dice il Carducci, per giudizio di tutti, l’allusione fosse chiara, essa non può dirsi più che una illusione dal momento che Rapisardi, con atto di gentilezza incomparabile, smentisce per lettera le gratuite asserzioni dei suggestori maligni.

Della qual soddisfazione, Carducci, vera o no l’allusione, avrebbe dovuto tenersi pago. Dunque l’accusa, questa tremenda accusa che si vuol lanciare sulla riputazione del poeta Catanese, d’aver calunniato, cioè, Giosuè Carducci, è insussistente perchè priva affatto di fondamento.

Qui potremmo senz’altro deporre la penna, chè coi fatti non c’è da speculare e tanto meno da sofisticare. Ma trattandosi del Carducci, a cui, ripetiamo, un sentimento di ammirazione ci lega tuttavia, vogliamo anche concedergli que[p. 53 modifica]sta ipotesi assurda per altro, come s’è visto, e discutere subordinatamente tutte le conseguenze che da essa ei vorrebbe tirare, sempre per dar torto al Rapisardi.

Ammettiamo dunque che le due terzine del Lucifero, messe dall’autore in bocca a Dante, alludano al Carducci. Ma che cosa sono infine codeste due terzine formidabili, che han fatto spaventare talmente l’autore del Satana? Non altro che una semplice satira, come se n’è fatta di tutti i tempi: una satira più o meno acre, ma che, a differenza di molte altre, non esce neppur da’ limiti di un giudizio puramente letterario. E qui si noti inoltre una circostanza che, per quanto ad altri possa parere futile, non è poi di poco valore. Il poeta ha fatto parlar Dante quasi per dirci: badate, non son io che sentenzio a quel modo, perchè forse non n’avrei il diritto, sibbene la dignità nazionale, personificata in Dante, la quale, offesa dall’orgoglio eccessivo di un poeta, sia pur bravo, si ribella e ne lo rimprovera acerbamente. Ma impedisce forse questo che Mario Rapisardi possa d’altro canto riconoscere comechessia dei me[p. 54 modifica]riti letterarii in Giosuè Carducci, e voglia perciò mandargli il suo lavoro in testimonianza della stima che, a parte la superbia e i difetti, ei ne ha tuttavia? A me pare che no; e a chiunque d’animo spassionato non potrà parere diversamente.

O perchè il Carducci vuol pigliare ad ogni costo l’atto del Rapisardi come un più grave insulto alla propria persona? E quando, rassicurato per lettera, egli avrebbe dovuto tenersi senz’altro soddisfatto, perchè si chiude in un silenzio ipocrita, e frattanto dà addosso proditoriamente e senza tregua al Rapisardi? E di quest’ultimo, il quale non ne muove lagnanze, se non quando vede il proprio nome, per colpa di lui soltanto, indegnamente bruttato da certi vermi che un suo sputo basterebbe ad annientare, vorrebbe ora, senza ragione, vendicarsi, attaccando sempre la onorabilità d’una persona, ch’egli non sa nè può apprezzare, con maniere.... ridicole, per non dir altro, e indegne di Carducci.... buon’anima?

Ma vuol convincersi il Prof. Carducci del come l’opinione pubblica la pensa a suo riguar[p. 55 modifica]do? Richiamo un fatto troppo patente, in cui è quistione d’aritmetica, per usar la frase dell’on. Grimaldi. Di tutti i fogli letterarii che, volere, o non volere, rappresentano il movimento della coltura in Italia, ci son di quelli che han serbato un perfetto silenzio in codesta vertenza, il che mostra senza dubbio imparzialità, ugual deferenza, almeno, e per l’uno e per l’altro; ma quelli che per poco se ne sono occupati, l’han fatto tutti in favore del Rapisardi (ove se ne eccettui il noto Don Chisciotte di Bologna creato forse apposta, epperò costretto a fare il suo dovere). Che vuol dir ciò?

E torno indietro, e concedo sempre al Prof. Carducci più che non dovrei. Ammetto che quelle terzine del Lucifero satireggino proprio lui e l’offendano anzi.

O che forse, tanto felice il Prof. Carducci nel ritenere le cose altrui, dimentica egli così presto le proprie?

Non ricorda egli più le velenose morsicature e le botte da orbo da lui date a Guerzoni e al povero Zendrini?

E i sorrisetti maligni pel Capitan cortese, per [p. 56 modifica]Paulo Fambri, il grosso Volter delle lagune, per Manzoni etc?

O che forse crede in buona fede il Prof. Carducci d’avere egli solo il diritto di lanciare a suo libito scomuniche ed anatemi a dritta e a manca? Mi perdoni il Prof. Carducci, ma in questo caso, ci sarebbe da prestar fede a quelli che lo chiamano il pontefice massimo!

E mettendo da parte le cose sue, non è certo questa la prima volta che si fa della satira, pur acerba come si vuol far credere quella del Rapisardi. Il Prof. Carducci dovrebbe sapere meglio che altri come la si faceva dai Romani specialmente, per cui fu detta, non ricordo da chi, satiresca petulanza. Anche Omero, il ceco e divin vecchio, in mezzo alla sua olimpica tranquillità, avea pigliato gusto alla satira. Non parlo poi di Giovenale, quella fiera e sdegnosa anima che non risparmiava nessuno, neanche Omero,1 cui posponeva a Virgilio (vedi apprezzamen[p. 57 modifica]ti),2 neanche Quintiliano,3 il quale, come il Prof. Carducci, era vivo, ma invece di scendere a pettegolezzi, ebbe a vendicarsene poi nobilmente, di tutt’altri parlando che di lui.

E come potrà egli oramai il Prof. Carducci garantire la sua dignità, quando, atteggiato ad un silenzio orgoglioso sino alla pubblicazione del Lucifero, mentre tutta Italia facea plauso al giovine poeta della Palingenesi, si risolve poi tutto a un tratto e, invece di giudicare, ti scaraventa in faccia non altro che degli insulti, delle calunnie? E mi parla lui della condotta del Rapisardi?

Candidamente: a noi fa pena, lo ripetiamo, il vedere il fiero poeta del Satana così moralmente scapitato nella pubblica opinione; ma, poi che lui ad ogni costo ci ha voluto portare in ballo, balliamo pure.

E, in coscenza, varrebbe egli la pena di badar più che tanto agli strani appunti che si vorrebber fare alla prosodia e alla grammatica nei [p. 58 modifica]versi del Rapisardi, ove questi appunti non avessero la fortuna di provenire da Giosuè Carducci? Abissus abissum invocat: e il Prof. Carducci arriva perfino a trovar di dodici sillabe il verso: E incipriàto le chiome e torto il collo, come se ciprio fosse di tre sillabe (così anche raggio sarebbe di tre, e raggiato perciò di quattro),4 e sgrammaticato quell’altro: Tien che al mio lato il miglior posto occupi. Io, per quanto ci abbia perso su del tempo, non son riuscito a trovare dove stia l’errore. Certi amici miei, che han la fortuna di ricordare ancora i precetti della grammatica più di quanto un vecchio credente possa ricordar quelli del catechismo, m’han suggerito che forse il Prof. Carducci intendesse parlare di quel tien retto col soggiuntivo. Dio buono! ma allora, mettendo da parte la grammatica, a me par quistione più di logica e anche d’orecchio che d’altro! Io non ricordo d’avere incontrato mai [p. 59 modifica]il verbo ritenere con l’indicativo, sebbene la grammatica prescriva che, quando il secondo verbo esprime cosa di tempo presente, la quale, quantunque certa per colui che parla, si possa da altri mettere in dubbio (come è appunto nel caso nostro) è indifferente usare l’indicativo ovvero il congiuntivo. Tuttavia io non userei mai, per tutto l’oro del mondo, l’indicativo: ci andrebbero anche di mezzo le mie povere orecchie! E poi: ma che sul serio il Prof. Carducci vuol scendere a codesti pettegolezzi? Davvero lui vuol trovar da ridire nei versi del Rapisardi? Senza dubbio egli non avrà allora coscenza dei suoi peccati di prosodia, commessi prima di quel reato che sono le Odi Barbare. Dovrebbe risuonargli tuttora, come eco lontana, nell’orecchio quel suo noto verso del Canto dell’Italia in Campidoglio, Venda a un lord archeologo inglese che vorrebbe passar per endecasillabo! e gli altri: tutto lampeggia quel che ama e piace, ch’è di dieci, e lo stesso: tu solo — pensa — o ideal sei vero, che zoppica anch’esso, non ostante i due trattolini fra cui l’autore s’è sforzato di esiliare quel pensa, etc. [p. 60 modifica]

Quanto infine ai giudizii ch’egli vuol regalarci sui lavori del Rapisardi, ci scusi il Prof. Carducci, ma, sebbene noi non possiamo non riconoscere in lui uno dei più valenti cultori della critica letteraria propriamente detta, iniziata dal Foscolo, questa volta, con nostro grande rammarico, non possiamo accettarli. Giacchè, come ben gli faceva notare il Rapisardi stesso nell’ultima sua lettera, essi non provengono mica da animo calmo e spassionato, quale dev’esser quello del critico.

E al postutto, crede il Prof. Carducci che avremmo potuto a ogni modo questa volta preferire i suoi a quelli di quasi tutta la critica italiana e straniera sul Lucifero, e in particolare a quello del Trezza sul Lucrezio che, senza dubbio, è oggi il più dotto, il più arguto interprete del gran poeta latino?

Il Prof. Carducci con le parole: «faccia dei Giobbi, il signor Rapisardi, faccia dei Giobbi» par quasi voglia anche a priori satireggiare la nuova concezione del Rapisardi. Se dice davvero, gli risponderemo con le parole sacrosante scritte proprio in questa circostanza da un va[p. 61 modifica]lentissimo giovane messinese: o che fanno essi gli altri, in nome di dio? Se dice per.... celia, allora, quanto il Rapisardi sappia fare il Giobbe dovrebbe saperlo abbastanza lui, il Carducci, pel primo!

Ah, Dio mio, eleviamoci un po’ da questo ambiente basso e vergognoso, in cui, non si sa come, ci s’è voluti trascinare a ogni costo. L’abbiam detto tempo addietro a proposito della dimostrazione, e lo ripetiamo anche ora: checche ne sia, fa pena il vedere ingegni robusti, le più alte personalità poetiche che vanti oggi l’Italia, guardarsi in cagnesco senza una ragione al mondo, e dar luogo ad inconvenienti punto dignitosi per la nazione. Ma il Prof. Carducci ha dei torti imperdonabili in questa facenda. Egli avrebbe dovuto tener conto del rispetto col quale generalmente ebbe a trattarlo in questa congiuntura la gioventù siciliana; la quale, nella dimostrazione d’affetto fatta spontaneamente al suo illustre Professore, rispettava accortamente i nomi, ciò si dee soltanto all’alta stima in cui essa sapèa tenere l’illustre autore del Sàtana. [p. 62 modifica]

O che mai altro potrebbero se non farci ridere le paladinesche minacce degli odierni Don Chisciotte?

Gentile Gentili

Note

  1. Sat. XIII. Tu miser exclamas, ut Stentora vincere possis.
    Vel potius quantum Gradivus homericus.
  2. Sat. X.
  3. Sat. VI. e VII.
  4. Per lo stesso motivo invidia sarebbe di quattro, ed allora il Carducci non avrebbe ragione di darci per endecasillabo questo verso suo: Questo raggio d’amor no ’l m’invidiate.